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domenica 28 novembre 2010

RUDOLF ALLERS - PSICOLOGIA E CATTOLICESIMO

La copertina del libro
Il volume che Roberto Marchesini pubblica presso la D’Ettoris edizioni è uno dei libri più importanti di sempre, poiché contiene il testo - mai comparso in italiano - “Le nuove psicologie” di Rudolf Allers. Allievo di Freud all’università, successivamente psicoterapeuta “individuale” della scuola adleriana, Rudolf Allers comprende che la psicologia del XX secolo, che si basa sullo scientismo per quanto concerne la parte sperimentale, e sul materialismo freudiano per quanto riguarda la psicoanalisi, getta le fondamenta in una concezione erronea di uomo, eccessivamente influenzata dall’illuminismo e dal neo-positivismo. Decide, allora, di abbandonare la sequela di Adler – e più in generale la psicoanalisi – per dedicarsi completamente alla costruzione di una psicologia fondata su di una “sana antropologia”. Grazie ai suoi viaggi, che lo porteranno prima a Milano presso la scuola neo-tomista dell’Università Cattolica di Padre Agostino Gemelli, e poi in America, dove si trasferirà nel secondo dopoguerra, Allers individua nell’antropologia di San Tommaso D’Aquino la chiave di volta per comprendere gli errori di una psicologia troppo influenzata da Freud e dal suo modello di uomo (e di mondo) e per la costruzione – che, però, non porterà mai a compimento – di una nuova psicologia che tenga presente l’unitarietà dell’essere umano, corpo e anima, ed al contempo non ne riduca la profonda domanda di senso, di vero, di bello e di giusto, di Dio, a semplice componente culturale, patologica, accessoria.


Nella presentazione, Ermanno Pavesi sottolinea come “uno dei problemi fondamentali della psicologia è quello del rapporto anima-corpo […] la questione del rapporto anima-corpo sottende una serie di altri problemi, come la natura dell’anima, la sua origine e quindi anche l’origine del mondo, l’esistenza di un Essere supremo e i suoi attributi” (pag. 9). “Partendo dal principio che ogni psicologia e ogni psicoterapia si fondano su una visione particolare dell’uomo, che ogni antropologia è inserita a sua volta in una visione del mondo ben precisa e che ogni filosofia non può prescindere dalla teologia, Allers ritiene necessario inquadrare la psicologia in una visione dell’uomo che sia anche filosofia e teologica. […] La lezione di Allers mette in discussione l’impostazione cartesiana: gli ambiti naturale, razionale e spirituale sono distinti ma non completamente separati e la psicologia ne deve tener conto” (pag. 14).

Nella corposa introduzione, Roberto Marchesini mette a tema il delicato rapporto tra le scienze psicologiche ed il cattolicesimo. Parafrasando una frase di don Giussani si chiede: “Se Cristo è tutto, che cosa c’entra con la psicologia?” (pag. 20). La domanda dà spazio all’ulteriore quesito di che cosa sia una psicologia cattolica, se ne esista una e soprattutto che cosa distingua lo psicologo cattolico dal non cattolico: “Il cristianesimo in psicologia, si riduce ad una «psicotica», ad un modo di relazionarsi con il paziente che presuppone dei valori, una morale ed una visione del mondo cristiana?” (pag. 20). Dal momento che “il Magistero non dà indicazioni per quanto riguarda una eventuale “psicologia cattolica” (pag. 20) Marchesini ripercorre i documenti ufficiali nei quali compaiono accenni generici al riguardo: dai discorsi di Pio XII – in cui il Pontefice “mise in luce le differenze tra l’antropologia cristiana e quella sottesa dalla psicoanalisi” (pag. 23) – al Monitum del Sant’Uffizio – voluto da Giovanni XXIII “per condannare l’opinione secondo la quale la psicoanalisi sarebbe necessaria per ricevere gli ordini sacri, o per lo meno come esame attitudinale per i candidati al sacerdozio; questo documento, inoltre, esprimeva il divieto a chierici e religiosi di praticare la psicoanalisi, e ai seminaristi di ricorrervi” (pag. 25) – alla difficile espressione del Concilio Vaticano II di “sana psicologia” – “cosa significa l’aggettivo “sana”? Il Magistero non lo specifica” (pag. 21) – fino alle più recenti dichiarazioni di Papa Paolo VI – che “criticò la psicoanalisi diverse volte; in particolare rimproverava a questa dottrina di essere una “psicologia dal basso” (pag. 26) – e di Giovanni Paolo II, il quale “si riferisce a Freud come ad un “maestro del sospetto”, che accusa implacabilmente il cuore dell’uomo di “concupiscenza della carne” (pag. 27).

I tentativi di coniugare direttamente psicologia e cattolicesimo sono stati poco numerosi e spesso “sconfortanti” (pag. 28). Tra di essi spiccano le opere di Victor Frankl, allievo proprio di Allers, il cui merito “consiste nel tenere in considerazione la dimensione spirituale dell’uomo e la sua sete di senso e di trascendenza” (pag. 29) anche se l’Analisi Esistenziale di Frankl “non è ancora una psicologia propriamente cattolica” (pag. 29). “Chi, dunque, cerca una psicologia che sia fondata sull’antropologia cattolica deve rassegnarsi, accontentarsi di mezze misure, ripiegare su l’esercizio di una “psicoetica” senza troppo curarsi delle implicazioni filosofiche ed antropologiche del suo approccio? Oppure, se pervicacemente crede che sia possibile una “psicologia cattolica” può solo rimboccarsi le maniche e tentare di fondarne una dal nulla? Fortunatamente, qualcuno si è già cimentato con l’impresa e, se non ha concluso l’opera titanica, ha per lo meno lasciato un metodo e solide basi dalle quali partire. Questo qualcuno si chiama Rudolf Allers” (pag. 31).


Rudolf Allers
Le prime pagine del testo di Allers sono dedicate ad introdurre il tema di tutto il volume. Allers precisa che le “nuove psicologie” – che si distanziano dalla “vecchia” poiché non più centrate sull’esperimento – nascono da un ritrovato interesse per l’interrogarsi sull’uomo: “La rinascita della metafisica nel nostro tempo mostra una configurazione caratteristica: il primo e più intenso interesse si concentra sul problema dell’uomo; la ricerca più intensa è quella di un’antropologia. […] Oggi gli uomini devono rispondere a questa sola domanda, posta forse in modo più onesto oggi quanto mai in precedenza: cosa è l’uomo?” (pag. 50). Ed aggiunge: “C’è una risposta che non è mai essenzialmente cambiata nel corso di quasi duemila anni – la risposta della Chiesa” (pag. 50).


Il primo capitolo, dedicato alla psicoanalisi, è introdotto dalla riflessione sulla antinomia presente in medicina: “tra la prospettiva della medicina come scienza, che lavora con metodi e concetti scientifici, e la medicina come una pratica, che ha a che fare con individui” (pag. 55). E continua: “Ci sono, per la verità, sofferenze che non toccano il nucleo profondo della personalità, e altre che sembrano riguardare l’intero essere. Una lesione traumatica come una gamba rotta non tocca il vero sé, ma ogni infermità funzionale lo intaccherà. I disturbi della digestione possono, come tutti sanno, influenzare in misura maggiore o minore il comportamento emotivo del paziente e certi disturbi cronici possono causare cambiamenti del carattere molto pronunciati. Nel primo caso il paziente dirà: “Ho rotto lamia gamba”; nel secondo: “Mi sento male”. Nel primo caso il sé sperimenta un disturbo che interviene all’interno del suo campo, ma nessun cambiamento in se stesso; nel secondo il sé sperimenta un cambiamento fondamentale. Tuttavia se il disturbo proviene dal profondo del sé, se il cambiamento che interviene non è prodotto da un potere sentito come estraneo al sé (come un attacco di indisposizione) ma ha le sue radici nella più profonda intimità della personalità, il paziente vorrà più che un’accurata diagnosi e un’indicazione di trattamento da seguire: vorrà essere “compreso” (pag. 56). Mentre la “vecchia” psicologia ha sviluppato i suoi metodi, concetti e categorie conformemente ai modelli ereditati dalle scienze naturali, le attuali esigenze della medicina pratica hanno reso urgente comprendere il paziente come una singola personalità individuale. “Comprendere significa cercare di afferrare la struttura della globalità della personalità e per questo è all’estremo opposto dell’analisi” (pag. 56).

La psicoanalisi si è inserita all’interno di questo incontro-scontro tra il vecchio ed il nuovo, unendo “due tipi di pensiero scientifico diversi ed incompatibili” (pag. 57). “A prima vista la teoria psicoanalitica dà l’impressione di essere saldamente consistente e sistematica. Questa impressione, tuttavia, può durare fino a quando la teoria non è analizzata nei suoi assunti fondamentali. […] Ci sono, per quanto io possa vedere, cinque proposizioni fondamentali da smascherare nella psicoanalisi, principalmente nel lavoro di Freud” (pag. 58). La prima è “l’”ipotesi psicoenergetica”. Freud ipotizza che nella vita mentale ci sia uno scambio di energia come quello supposto in fisica; quantità di energia sarebbero attaccate a questo o a quello stato mentale, oggetto, o fenomeno: l‘energia – chiamata in psicoanalisi libido – è tolta da un oggetto e trasferita ad un altro” (pag. 59). “Questa idea dell’energia psichica con le sue precise quantità, congiunta a singoli fenomeni mentali, implica una seconda fondamentale proposizione. Una definita quantità di energia può essere concepita come unita ad un determinato stato mentale solo quando questo stato è assolutamente distinto da qualsiasi altro” (pag. 59). Il terzo assunto è quello di “impulso”. “Un impulso, come viene inteso dalla psicoanalisi, non è la stessa cosa di un istinto. L’istinto produce alcune complesse reazioni nell’organismo quando quest’ultimo viene messo in certe situazioni, e la coscienza non è coinvolta in nessun modo. Gli impulsi, per la verità, come reazioni istintive dell’organismo, sono schemi che hanno la loro origine nel profondo della struttura vivente; ma essi diventano in qualche modo contenuti dell’esperienza cosciente. […] E’ la soddisfazione dell’impulso che causa il piacere. La psicoanalisi non conosce altra forma di piacere che non sia una soddisfazione, della quale l’esempio supremo è la soddisfazione sessuale, e il fatto che ne esistano anche altre forme è ignorato da Freud” (pag. 60). “L’ipotesi dell’impulso ha una doppia funzione all’interno del sistema della psicoanalisi. L’introduzione degli impulsi, nel significato specifico attribuito loro dalla psicoanalisi, sembra legittimare il concetto psicoenergetico di uomo. Gli impulsi sono considerati come l’unico e originale materiale dal quale tutti i fenomeni mentali (siano consci o inconsci) sono direttamente o indirettamente derivati; essi sono funzioni dell’organismo, di natura dinamica: accumulano una certa tensione, che termina dopo il suo sfogo attraverso un’azione adeguata e piacevole; e la soddisfazione è l’esperienza connessa con lo sfogo di questa tensione. Se questa idea è un’esatta riproduzione della realtà, allora veramente l’energia qualcosa di simile potrebbe sembrare un concetto legittimo in psicologia. Il secondo compito dell’ipotesi dell’impulso è di creare un collegamento tra la vita organica e quella mentale. Persino il materialismo più estremo non potrebbe ignorare la differenza essenziale tra i fenomeni corporei e quelli mentali; la spiegazione di questa differenza è sempre stata la croce della filosofia materialista” (pag. 61). Quarto assioma: la causalità. La psicoanalisi “sostenne di essere una scienza naturale, che lavorava all’interno delle opportune categorie. La connessione tra i diversi elementi che contribuivano a formare una personalità appariva dunque come dominata esclusivamente dalla causalità, la quale aveva lo stesso significato che aveva in medicina. Questo […] implica che in ogni determinato momento la condizione di un individuo è assolutamente determinata dal suo passato. L’originale costituzione dell’individuo e il particolare lavoro degli impulsi che ne deriva, sono le cause (nel senso più stretto della parola) di tutta la sua esperienza e di tutti i suoi atteggiamenti presenti. La psicoanalisi, dunque, non lascia alcuno spazio alla libertà” (pag. 63). “Il quinto fondamentale assioma dice che la connessione causale è identica alla catena delle libere associazioni. […] Poiché la psicoanalisi crede che nel corso di questa catena di libere associazioni, partita da un qualunque elemento – un’idea appena passata per la mente, un sogno e così via -, apparirà l’elemento determinante, al paziente fiene detto di lasciare che i suoi pensieri seguano in modo assolutamente libero il loro corso e di riferirli altrettanto liberamente all’analista. Ma non c’è nessuna prova convincente che seguendo la catena delle libere associazioni questo elemento determinante debba essere scoperto” (pag. 63).

“Avendo definito le cinque proposizioni fondamentali della psicoanalisi, possiamo ora chiederci: quale è l’atteggiamento mentale generale che dà origine a un sistema basato su tali principi? E’ facile rispondere alla domanda. C’è una sola posizione filosofica o metafisica che possa rendere un simile sistema di assiomi sulla natura umana non solo possibile ma anche necessario – il naturalismo ovvero il materialismo. La psicoanalisi è il frutto di una interpretazione della vita puramente materialista” (pag. 64). “Strettamente connesso con questo materialismo è il determinismo della psicoanalisi, già menzionato. Un’altra conseguenza dello stesso fondamentale punto di vista è la posizione edonistica di Freud e della sua scuola. Come abbiamo illustrato, la psicoanalisi non conosce altro piacere che la soddisfazione, e nessun altro scopo eccetto il piacere. Di conseguenza ci sono due principi che regolano la vita umana, chiamati da Freud principio di piacere e principio di realtà; l’ultimo rimpiazza il primo nel corso dello sviluppo di una persona. Il bambino piccolo (e, stando a Freud, anche l’uomo primitivo) si attiverà dapprima esclusivamente per una soddisfazione immediata dei desideri nati dai suoi impulsi. L’esperienza, però, gli insegna che una soddisfazione così immediata potrebbe essere seguita da un dispiacere ancora più grande dell’immediato piacere della soddisfazione. Egli impara quindi ad adattarsi alla realtà, a prendere in considerazione l’alto prezzo che spesso deve pagare per una soddisfazione momentanea, e in questo modo si vieta di cedere al suo impulso originario. Tuttavia il motivo per il suo adattamento alla realtà è ancora una volta lo sforzo per la maggior quantità possibile di piacere. Il così detto principio di realtà è, infatti, nient’altro che una modificazione del principio di piacere. Lo scopo di ogni comportamento umano rimane dunque, secondo la psicoanalisi, lo stesso; non c’è altro scopo che il piacere” (pag. 64). Dunque la psicoanalisi “è basata su una simile filosofia – materialismo, determinismo, edonismo – […]” (pag. 67).

Sin qui l’analisi di Allers potrebbe sembrare un attacco frontale senza scrupoli alla teoria freudiana. Essa, invece, è una descrizione semplice e minuziosa di quei presupposti sottesi al pensare ed all’agire psicoanalitico. E come tutte le analisi che mirano in profondità non soffermandosi alla superficie essa non esclude gli aspetti positivi che la psicoanalisi ha portato. “E’ stata anche il primo sistema che abbia tentato di arrivare ad una comprensione della personalità umana come una totalità; infatti un grande merito della psicoanalisi è quello di aver preso atto dei principi irrazionali che lavorano all’interno della personalità umana” (pag. 67). “Sebbene la teoria sia mal concepita, ha dato prova di efficacia nel trattamento della nevrosi” (pag. 67) anche se su questo aspetto Allers precisa istantaneamente: “Come può un trattamento basato su falsi assunti avere la possibilità di curare i pazienti? La mia impressione è che gli analisti curino i loro pazienti – se davvero li curano – non perché utilizzino il trattamento psicoanalitico, ma nonostante il suo utilizzo. La “situazione analitica” produce dei cambiamenti nella personalità del paziente, e in questo senso alcuni problemi potrebbero ben scomparire” (pag. 68). “

In conclusione possiamo ora ricapitolare i fattori principali della psicoanalisi in poche brevi proposizioni. La psicoanalisi si basa sul presupposto che nella natura umana non agiscano altre forze che quelle puramente biologiche. Il sistema è fondamentalmente materialista. La sua posizione etica è quella di un estremo edonismo. Esso ignora l’oggettività dei valori, anzi, qualunque oggettività; persino gli oggetti che trascendono il sé sono considerati solamente come occasioni di soddisfazione di desideri. Il suo materialismo intrinseco conduce ad una concezione materialistica della vita della mente, che rende impossibile concepire l’esistenza di un io al di fuori del contenuto mentale, o a maggior ragione di un’anima sostanziale” (pag. 70).


Il secondo capitolo è dedicato alla psicologia individuale. Le prime parole che Allers spende per descrivere la teoria del suo maestro Alfred Adler hanno il preciso obiettivo di distinguere la psicologia individuale dalla psicoanalisi freudiana: “[…] la psicologia individuale è nei fatti una cosa completamente diversa” (pag. 75). “[…] Adler per primo vide che i metodi della biologia da soli non avrebbero funzionato. Egli concepiva l’uomo non solo come un organismo, ma anche e soprattutto come un essere sociale. […] Il concetto fondamentale della psicologia individuale è quindi molti simile a quello proposto da Aristotele, di uomo concepito come un zoon politikon” (pag. 75). Questo principio centrale sviluppa ulteriori concezioni da esso derivate, come l’idea di salute: “Freud da qualche parte definisce la salute come l’abilità di lavorare e di godersi la vita; ma la riuscita di qualsiasi lavoro deve necessariamente, secondo l’interpretazione psicoanalitica, indicare il raggiungimento di una soddisfazione degli impulsi, per quanto modificata. La psicologia individuale, al contrario, sostiene che la salute o la normalità sia l’effetto della conformità alla realtà, essendo questa non solo più forte, ma anche antecedente gli sforzi della persona. Ora, l’aspetto della realtà che ha la maggiore e più decisiva influenza sulla vita umana è la società” (pag. 75).

“La psicologia individuale suppone che l’istinto fondamentale dell’auto-conservazione sia presente nell’uomo come nell’animale, ma in maniera differente nell’uno e nell’altro. […] La reazione corrispondente al pericolo, nel caso del genere umano, prenderà la forma di una lotta per la superiorità. Le varie forme con le quali la tendenza alla supremazia diventa visibile potrebbero essere appropriatamente raggruppate sotto un termine originariamente inventato da Nietzsche, “volontà di potenza”. […] La “volontà di potenza” è la vera centrale elettrica delle azioni umane, siano buone o cattive. In certe condizioni questa cosiddetta “volontà di potenza” può svilupparsi come egoismo ed iper-accentuazione dell’io, con la conseguente indifferenza alle domande poste dalla realtà. Ma finché la realtà è più forte dell’io ogni fuga da essa o ogni tentativo di sottometterla ai propri desideri causerà innumerevoli conflitti che appariranno, in molti casi, sotto forma di nevrosi” (pag. 77).

“La realtà, secondo la psicoanalisi, nega all’individuo l’immediata gratificazione dei suoi desideri; ma, secondo la psicologia individuale, l’individuo è parte della realtà. Secondo la prima teoria l’individuo può esistere soltanto opponendosi alla realtà; secondo l’altra può esistere soltanto in conformità alle leggi della realtà, perché quelle leggi sono allo stesso tempo le leggi dell’individuo. Secondo il punto di vista della psicologia individuale il conformarsi alle leggi della realtà non significa una limitazione più o meno dolora dello sviluppo dell’individuo; al contrario, significa vivere secondo la propria natura immanente. Di converso, il non adattamento alla realtà è, per la psicologia individuale, la stessa cosa che non essere pienamente se stessi” (pag. 78).

“La terapia quindi, dal punto di vista della psicologia individuale, deve perseguire un duplice obiettivo. Essa deve innanzitutto dare in modo che il paziente si accorga di essere stato intrappolato in un errore e di come questo errore sia sorto; in secondo luogo deve sostituire gli obiettivi distorti fondati su una base erronea, e di conseguenza inadatti alla realtà, con altri obiettivi in armonia con le leggi della realtà” (pag. 81).

“L’uso della parola “errore” mostra il fondamentale intellettualismo della psicologia individuale. La conoscenza della realtà e della personalità è, infatti, un elemento essenziale per un normale e soddisfacente sviluppo del carattere. […] L’intellettualismo della filosofia individuale non deve essere confuso con il razionalismo. La tesi è che la percezione intellettuale sia l’unico fattore in grado di produrre un cambiamento nel comportamento di una personalità sviluppata in modo anomalo, non che la cosa appresa tramite questa percezione sia di carattere razionale. Ma questa tesi, che potremmo chiamare il socratismo della psicologia individuale, va troppo oltre. In un certo senso è vero che la virtù può essere insegnata, e che una conoscenza delle esigenze della realtà è la prima condizione per soddisfarle, ma noi tutti sappiamo che conoscere queste leggi e persino l’approvare i loro obiettivi non equivale a prestargli obbedienza. Una conoscenza acquisita per via intellettuale, dunque, è una condizione indispensabile per ogni azione morale ma di per sé non è sufficiente perché non è, come sembra pretendere la psicologia individuale, l’unica conoscenza. Infatti, il termine “conoscenza” è equivoco. Dobbiamo distinguere tra la conoscenza puramente intellettuale, che, è vero, è la prima che abbiamo, e quella di altro tipo, per cui non è ancora stata trovata una espressione adeguata. […] L’assenso intellettuale rimane qualcosa di superficiale; è un processo che coinvolge solamente la periferia del sé complessivo, lasciando inesplorato il profondo, mentre il vero assenso scaturisce dalle profondità più intime” (pag. 82).

Allers, che apprezza in modo evidente la concezione adleriana, non si esime dal metterne a nudo anche le falle: “La psicologia individuale insegna che l’uomo deve tendere all’“utile”, al bene comune, e tutti i valori sono ridotti all’“utile” con una semplificazione non meno ingenua di quella che vorrebbe spiegare le differenze individuali con le variazione nello sviluppo della volontà di potenza” (pag. 80). “Adler concepisce la realtà come composta dalla natura e dalla società e la sua idea dell’esistenza di un solo valore, l’utile, è sicuramente connessa a questa visione limitata. Entrambe le idee sono la conseguenza di una certa incapacità di un chiaro pensiero filosofico. […] Un’ulteriore tesi della psicologia individuale, connessa con questa visione ristretta e con la mancanza di basi filosofiche, sembra essere egualmente errata. Adler e i suoi seguaci ortodossi affermano che tutti gli uomini sono uguali nelle loro potenzialità innate, abilità, talenti e così via, e che ogni variazione individuale è dovuta esclusivamente alle influenze ambientali” (pag. 83).

Allers conclude le riflessioni sulla psicologia individuale formalizzando un giudizio: “La psicologia individuale, fondata più di dieci anni dopo, è stata in grado di evitare alcuni degli errori iniziali della psicoanalisi. […] La psicologia individuale è, quindi, in un determinato senso, più “moderna” della psicoanalisi. […] La psicoanalisi vede nella realtà solamente il regno della realtà organica ed è cieca a ogni cosa al di fuori di ciò. La psicologia individuale vede più lontano, fino a percepire l’esistenza di un “altro io” e della società e persino, sebbene debolmente, dell’oggettività dei valori. E’ convinta dell’importanza di questi valori per la vita umana fino a professare apertamente una visione finalistica. Questa visione della vita umana è governata più dal futuro che dal passato, e il fatto che si debba trovare un significato reale negli obiettivi per i quali si vive può essere considerato un passo verso una “antropologia” veramente filosofica. Tuttavia, considerando la “società” come il vertice della realtà e non indagando le sue basi ontologiche, la psicologia individuale rivela la sua debolezza. Corretta nei punti menzionati qui sopra, la psicologia individuale può, senza perdere il suo carattere specifico, essere incorporata in un’antropologia più ampia che tiene conto di tutti i livelli di realtà” (pag. 85).


Nel terzo capitolo, Allers prende spunto dai progressi delle “nuove” psicologie - in particolare dalla psicologia analitica di cui ha grande stima - al fine di comparare il sapere psicologico con il pensiero cattolico. “Quest’idea della totalità potrebbe essere definita come una caratteristica comune di tutte le recenti scuole di psicologia. […] In primo luogo potremmo chiederci cosa significhi l’affermazione che il carattere o la personalità dell’uomo è un “intero” e che dovrebbe essere incluso nella categoria della totalità” (pag. 89). “Se vogliamo capire la reazione di un soggetto ad una esperienza dobbiamo tener conto di tutta la sua storia precedente fino al momento della sua esperienza. Dobbiamo conoscere la “totalità storica” del soggetto; di più, dobbiamo considerare il soggetto nella totalità del suo essere attuale e nella totalità di tutte le sue connessioni con la realtà (il che significa non solo il mondo delle cose e delle persone, ma quello di tutti gli oggetti e del “non-io”, nel senso più profondo del termine). E questo modo di guardare al soggetto deve necessariamente essere adottato per ogni momento della sua vita. […] Nessun sintomo – neppure in una persona anormale o in un nevrotico o altro -, nessun singolo aspetto del comportamento possiede un significato fissato una volta per tutte. […] Lo “stesso” tratto potrebbe avere diversi significati nella stessa persona in differenti momenti della sua vita. La reale conoscenza di una persona può essere ottenuta soltanto attraverso lo studio della totalità del suo comportamento insieme con la sua storia precedente” (pag. 90). “Lo studio dell’ipnosi e dei sintomi della nevrosi (o disordine psicogenico) mostrò che non c’è nessuna funzione o organo del corpo che non subisca l’influenza della mente o dell’anima. Sembrava che queste scoperte fornissero la prova empirica alle tesi dei filosofi medievali: anima tota in corpore et tota in qualibet parte. Non possiamo mostrare qui in dettaglio come la psicologia, al suo stato attuale, sia costretta a riconoscere l’unità psicofisica dell’uomo come affermata da san Tommaso, accettata dal quarto Concilio Laterano e ratificata dal Concilio Vaticano: anima forma substantialis corporis” (pag. 92).

Da questa ed altre riflessioni, Allers conclude: “La psicologia, per la natura immanente che le è propria, è dunque costretta a non spingersi oltre alla linea di confine che separa la scienza empirica dalla metafisica e dalla speculazione ontologica” (pag. 93); e più oltre aggiungerà: “La pretesa da parte della psicologia clinica di essere considerata non soltanto come una branca della medicina ma come un capitolo importante dell’antropologia sembra dunque giustificata, ma è legittima solamente se le affermazioni della psicologia clinica si sono dimostrate corrette tramite altri metodi, e ottengono una maggiore probabilità quanto più esse forniscono giudizi provenienti da altri metodi e da altri punti di partenza” (pag. 98).

Senza l’aiuto di uno sguardo più ampio, la sola psicologia non è in grado di cogliere gli aspetti più specifici dell’uomo e della malattia: “La psicologia individuale, per come viene generalmente rappresentata nei suoi testi base e persino nei libri dello stesso Adler, non è in grado di rispondere alla domanda che ognuno necessariamente pone quando si trova faccia a faccia con lo studio della nevrosi. Perché i sintomi nevrotici sono così frequentemente simili ad atti peccaminosi? Perché così spesso i peccatori descrivono il loro stato interiore in termini quasi identici alle espressioni usate dai nevrotici? Perché l’ansia e il senso di colpa sono così frequenti fra i nevrotici?” (pag. 97). Allers vuole così proporre una teoria della malattia mentale tale per cui la persona nevrotica non è qualitativamente diversa da una persona sana: “[…] quando consideriamo dei caratteri nevrotici dobbiamo essere consapevoli che non c’è una differenza essenziale tra le strutture e le tendenze fondamentali di una personalità nevrotica e quelle comuni a tutti noi” (pag. 97). “La psicologia clinica ha ragione nel pretendere che la nevrosi non dovrebbe essere definita una malattia nel senso in cui intendiamo questa parola quando viene applicata, per esempio, alla tubercolosi, alla dispepsia o al morbillo. Come le malattie del corpo, la nevrosi comporta una sofferenza soggettiva […]. […] Sebbene le parole e il comportamento di un nevrotico possano talvolta sembrare all’inesperto identici a quelli di una persona che soffre per un disturbo organico, esiste una considerevole differenza nei loro rispettivi modi di comportarsi. Il nevrotico fa esperienza della nevrosi come di un disturbo; la sua efficienza fisica soffre – per esempio, potrebbe essere spinto verso una incapacità assoluta di lavorare. Tuttavia non c’è una reale malattia nel nevrotico; per quanto egli possa soffrire di disturbi digestivi, lo stomaco è in buone condizioni; sebbene egli senta il cuore palpitare o battere con un ritmo assolutamente anomalo, i muscoli e i nervi del cuore sono intatti; nonostante egli sia tormentato dal dolore e turbato da sensazioni molto curiose, i suoi organi stanno funzionando normalmente, e così via” (pag. 99). “Il pensiero che una persona umana possa puntare ad uno scopo non conosciuto in modo esplicito o a essa sconosciuto non è quindi del tutto alieno alla filosofia dei Padri e dei loro successori; e l’idea di una personalità nevrotica che insegue obiettivi che non riconosce come tali è decisamente compatibile con le idee fondamentali sulla natura della mente umana che si trovano nei lavori dei grandi pensatori cristiani” (pag. 100). “Il problema, quindi, non consiste semplicemente nel fatto che il nevrotico – e l’individuo normale, a questo proposito – ignora parecchi dei suoi scopi e motivazioni; piuttosto riguarda il sistema con il quale il vero sé del soggetto è nascosto alla sua coscienza. Perché, ad esempio, il mezzo prescelto dovrebbe essere una falsa malattia?” (pag. 101). Allers conclude che: “Il disgusto nei confronti della propria natura umana e finita è un rifiuto di quella natura sulla quale ogni ambizione si deve fondare e la nevrosi è la forma che questo atteggiamento paradossale assume. […] Solo il santo è libero dalla nevrosi e al di là di essa, perché soltanto lui ha accettato, tramite un’azione di “assenso reale”, la sua condizione di essere finito, di un semplice nulla di fronte all’Infinito” (pag. 102). “Un’analisi completa della mentalità nevrotica scoprirà che in tutti i casi di nevrosi, senza eccezioni, il problema reale è metafisico. Il conflitto alla radice della nevrosi non è tra gli impulsi e le condizioni dello sviluppo che negano la soddisfazione, e nemmeno tra l’individuo e le richieste della società, ma tra la superbia originale dell’individuo caduto (che, causata dal peccato e riconducente ad esso, lo costringe a sforzarsi per raggiungere l’infinitezza) e il riconoscimento della sua essenziale finitezza” (pag. 101).

martedì 16 novembre 2010

San Tommaso, psicologo

Prof. Ignacio Andereggen
Abbiamo l'onore di poter ospitare un testo particolarmente significativo, per la prima volta tradotto in italiano: Santo Tomàs, Psicologo del prof. Ignacio Andereggen, docente presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma e la Pontificia Università Cattolica Argentina. Le sue riflessioni hanno dato avvio ad una serie di ulteriori lavori, ad opera di studiosi spagnoli ed argentini, che riportano al centro della riflessione psicologica un personaggio tanto importante quanto trascurato, soprattutto nel suo aspetto "clinico": Tommaso d'Aquino. L'autore, resosi disponibile per una revisione del testo tradotto, ha tutta la mia più sentita riconoscenza e gratitudine.



San Tommaso, psicologo

Tratto da I. ANDEREGGEN, Antropología profunda, el hombre ante Dios según Santo Tomás y el pensamiento moderno, Buenos Aires 2008, pp.353-365

Ignacio Andereggen
Pontificia Università Gregoriana
Pontificia Università Cattolica Argentina


L’attività corrispondente a quello che ai nostri giorni si chiama Psicologia fu sviluppata eminentemente, anche se in modo differente per contesto, modalità, risultati ed obiettivi, da San Tommaso di Aquino nella sua dimensione di “umanista”. La frase che abbiamo appena enunciato contiene una tesi di massima importanza. In effetti, racchiude una grande quantità di dati speculativi e valutativi riguardo il suo pensiero e la nostra situazione attuale, proprio come, in parte, un progetto di azione culturale.

Il quasi istintivo rifiuto che produce in alcuni l’asserzione appena sostenuta, d’altra parte, non è indipendente da quei fattori che determinano lo sviluppo della profonda crisi nella quale si trova la cultura cristiana e cattolica. In effetti, molti vedono qui, con ragione, uno spartiacque nella relazione del cristianesimo con la cultura moderna. Molti, inoltre, non vogliono trarre le conseguenze che derivano - in termini di scontro culturale - dall’ammettere che San Tommaso si riferisce alla medesima cosa a cui si riferiscono anche Freud, Jung, Adler, Frankl.

L’ammissione di questa verità, per molti, equivale alla rinuncia a navigare nel fiume che trascina la cultura contemporanea; e a questo non sono disposti. Freud, senza dubbio, per riferirci al più influente tra gli psicologi, sapeva molto bene che tentava di dare un’altra spiegazione allo stesso contenuto che tutta la più genuina tradizione cristiana aveva già definito tramite la fede. La rinuncia ad ammetterlo da parte di teologi, filosofi, e psicologi che si considerano cattolici, oltre alla superficiale conoscenza della dottrina di Freud e degli altri psicologi classici, rende manifesta la loro mancanza di chiarezza epistemologica ed eventualmente la loro debolezza profonda nel sondare a fondo le conseguenze della loro fede. In effetti, come ci insegna il Concilio Vaticano II, nella realtà il mistero dell’uomo incontra vera luce solamente nel mistero del Verbo incarnato [1]. E non si tratta semplicemente di ciò di cui si occupa l’antropologia filosofica, ma specialmente della condizione concreta dell’uomo che Cristo è venuto a salvare.

Di questa condizione concreta, agli ultimi livelli di profondità, tratta Freud, e anche San Tommaso. Naturalmente, uno dal suo ateismo nietzscheano, e l’altro alla luce della Scrittura divina e della ragione naturale.

Alcuni tomisti, nel trattare l’ambito psicologico, si appellano al principio secondo cui “la grazia suppone la natura e la eleva”, al fine di dare fondamento alla necessità di una terapeutica psicologica che prepari al cammino della grazia, come condizione per la sua efficacia. Sottilmente, cadono in una concezione profondamente contraria a quella di San Tommaso, per il quale, fondandosi su Sant’Agostino, non si potrebbe mai avere una disposizione naturale e umana per il sovrannaturale della grazia. E’ sempre dalla grazia, al contrario, che la natura può restaurarsi o ricomporsi, dalla quale l’uomo, radicalmente, può curarsi, se rimaniamo al livello propriamente umano e non meramente psichiatrico o medico.

Lungi dal rimaner relegate ad alcuni punti particolari, come per esempio il trattato delle passioni, le dottrine tomiste sulle quali può fondarsi una vera psicologia che non cada nelle trappole che accompagnano la condizione moderna – e che, a differenza della filosofia, non può non essere “cristiana”, dato che si riferisce all’uomo storicamente considerato – abbracciano la maggior parte del pensiero dell’Aquinate.

Ne diamo una rapida idea a partire dalla struttura e dai temi della Summa di Teologia. La prima parte di questa opera tratta di Dio e della sua creazione. E qui degli angeli e degli uomini.

Qualsiasi psicologia degna di questo nome deve fondarsi su di una adeguata conoscenza della natura umana nei confronti del soggetto concreto che vuole aiutare e conoscere. Deplorevolmente, la quasi totalità delle correnti psicologiche contemporanee soffre di gravissimi difetti in questo campo, che limitano nella pratica la loro efficacia positiva, e, per l’opposto, le convertono tante volte in strumenti di profonda deformazione umana. La trappola consiste nell’accettazione acritica – deplorevolmente a volte da parte di molti cristiani – del principio freudiano secondo cui la psicologia, proprio come Freud stesso stabilì come psicoanalisi, consiste in una vera scienza con un proprio oggetto, distinta perfettamente dall’antropologia filosofica e dall’antropologia teologica. La mancanza di precisione speculativa gioca qui un ruolo centrale, sommata, ovviamente, alla carenza di connaturalità profonda con la pienezza di una vita umana e cristiana.

In questo senso, i chiari principi dell’antropologia filosofica tomista devono svolgere un ruolo capitale per la ricostruzione di una autentica psicologia in ambito cristiano. Non si può conoscere nulla dell’uomo concreto senza capire l’intelligenza, la volontà, l’anima umana, le sue potenze sensitive, in sintesi, il vero essere ed il funzionamento “profondo” – la vera psicologia profonda – della persona umana. Solo un pensiero superficiale potrebbe tentare una sintesi speculativa tra la dottrina filosofica classica sull’uomo, come appare formulata in San Tommaso d’Aquino, per esempio, e la psicologia di Freud, Jung, Frankl, Piaget, Kohut e molti altri. Soltanto per rimanere nella dimensione che determina essenzialmente e radicalmente tutta la condizione umana, la concezione dell’intelligenza di questi autori non è solo profondamente insufficiente, ma anche profondamente distorta. In questo campo delicatissimo, dal quale dipendono tutti gli altri che si riferiscono all’uomo, le illusioni concordiste potrebbero soltanto condurre ad errori fatali dalle conseguenze estremamente negative, specialmente nell’ambito della vita cristiana.

Il trattato sugli angeli, nel quale San Tommaso sviluppa tutta la sua maestria, solo apparentemente, e, naturalmente, per coloro che non hanno una profonda fede ed una profonda esperienza di vita, può rimanere fuori dall’ambito della vera psicologia. Sant’Ignazio di Loyola mostrò in modo insuperabile, nella pratica, ciò che significa l’influenza costante della parte principale della realtà naturale, il mondo degli angeli, sulla vita degli uomini, in senso positivo e in senso negativo. L’esperienza della direzione spirituale, dimostra, d’altra parte, che le situazioni umane più confuse non possono risolversi senza l’azione degli angeli buoni o cattivi sulla vita degli uomini.

Inoltre, il peccato originale, del quale San Tommaso tratta largamente nella Prima Secundae della Summa, è capitale per comprendere la situazione ed il funzionamento concreto della vita degli uomini [2]. Tutto ciò che l’uomo fa e patisce, dal sentimento più elementare alla piena accettazione della Redenzione di Cristo, è influenzato dal riferimento a questo dramma all’origine dell’umanità. Freud stesso, a suo modo, fornisce una testimonianza del fatto che per lui non si può capire la vita umana a prescindere dalla colpa, e specialmente dalla colpa originale, della quale secondo lui l’uomo non può non essere orgoglioso, perché prendendo coscienza di essa egli arriva veramente ad essere quello che è, uomo razionale. La determinante presenza nel mondo della colpa originale lo sottomette, secondo tutta la linea costante dall’antropologia teologica ortodossa, fino all’ultimo Catechismo della Chiesa Cattolica, al potere del demonio e dei demoni, che lo tengono schiavo, operando specialmente sull’immaginazione e sull’affettività sensoriale, che sono le facoltà nelle quali si concentra fondamentalmente la vita psichica della maggior parte degli uomini [3]. Non si tratta, dunque, di un dato meramente teorico se non solo per coloro che non conoscono profondamente il funzionamento dell’esistenza concreta degli uomini, individualmente e socialmente considerati. San Tommaso, assieme ad altri grandi maestri di autentica saggezza cristiana, può essere una guida luminosa in questo campo.

Tutta la Seconda Parte della Summa, dedicata allo studio dell’uomo come immagine di Dio, è un grande trattato di psicologia fondamentale, non solo teorica ma anche pratica. Da qui potrebbe cominciare una vera opera di ricostruzione della psicologia cristiana. Questa dovrebbe discernere, tramite la fede e ciò che la retta ragione scopre circa l’uomo concreto alla luce della rivelazione, tutto quello che lo sviluppo della cultura posteriore a San Tommaso apporta, come positivo e come negativo, per la comprensione della natura umana dinamicamente considerata, e per l’aiuto pratico teso a rimediare le carenze dell’uomo concreto. Il principio che guida l’Aquinate è quello dell’uomo come creato a immagine di Dio, e destinato ed elevato all’ordine soprannaturale. E’ assolutamente impossibile comprendere la situazione della persona concreta – che implica la totalità che ciascuno è – al di fuori di questo ordine.

La considerazione sulla finalità dell’uomo con la quale comincia la Prima Secundae è assolutamente fondamentale in psicologia [4]. Ed è qui dove si situa, coerentemente con una concezione fallace dell’intelligenza, uno dei più fatali difetti delle correnti di psicologia contemporanea, con la notabile e parziale eccezione – in questo punto preciso -, di quella di Alfred Adler, che considera importante la funzione di finalità nella vita umana. Se il fine è la realtà più importante nella condotta, e se l’unico fine ultimo di tutti gli uomini che abbiano o meno la grazia è la Beatitudine [5], è chiaro che senza la conoscenza della posizione dell’uomo concreto rispetto ad essa sarà inintelligibile il vero significato del complesso delle realtà e dei fenomeni che la determinano, e sarà impossibile anche ogni tipo d’aiuto veramente efficace e non dannoso –come per esempio, nella psicoanalisi freudiana, secondo la sua idea fondamentale, rendendo cosciente l’inconsapevole ribellione contro l’autorità paterna di Dio, che determina in genere la concretezza della vita umana in quanto disconnessa dalla grazia-.

Se la psicologia deve svilupparsi ad un livello veramente scientifico ed efficace, in contrasto con l’impressionante confusione che regna nello studio della psicologia contemporanea - quando a volte riesce a superare il livello meramente estrinseco nella concezione dell’uomo, comune alle scienze biologiche e fisiche, per affacciarsi al livello della vita umana -, non potrà prescindere dalla comprensione precisa e tecnica degli atti umani in quanto tali, distinti dagli atti meramente dell’uomo, come sono gli atti incoscienti di ogni tipo. E’ ciò che San Tommaso tratta a seguito della Beatitudine nella Prima Secundae [6]. E’ particolarmente importante in questo punto l’adeguata comprensione del funzionamento della volontà spirituale, la potenza umana più lasciata ai margini nella psicologia dei nostri giorni, e, dall’altra parte, la più deteriorata nella condizione dell’uomo concreto [7].

Arriviamo così al trattato delle passioni [8]. Queste non possono essere comprese indipendentemente dalla loro profonda radice nell’anima umana spirituale, e dalla loro funzione rispetto agli atti delle potenze superiori. Il significato concreto degli atti delle passioni si può solo captare nella loro propria situazione a differenza degli atti spirituali. Questa idea è presente unilateralmente ed in modo deformato nello stesso Freud, per il quale tutta la vita psichica è un cammino per la piena realizzazione di ciò che lui intende essere la ragione. San Tommaso ci fornisce una considerazione completa e dettagliata della vita psichica al livello degli atti inferiori la ragione e la volontà, dandoci, inoltre, gli strumenti per considerarli nel loro vero significato concreto, per comprenderli rispetto al vero funzionamento della ragione e della volontà umana, e rispetto al fine ultimo. Abbondano in questo punto le osservazioni veramente “psicologiche” di San Tommaso, secondo l’impreciso ed ideologico significato contemporaneo del termine “psicologia”.

Il trattato sugli abiti (habitus), le virtù, i doni dello Spirito Santo, le beatitudini e i frutti dello Spirito Santo costituisce il nucleo di una psicologia positiva, diretta allo sviluppo naturale e soprannaturale dell’uomo, contro la tendenza unilaterale contemporanea a considerare l’uomo dal punto di vista della patologia [9]. In effetti, le psicologie contemporanee considerano la natura umana corrotta con l’aiuto di dottrine filosofiche profondamente pessimiste, come sono quelle di Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger e i postmoderni, senza avere la connaturalità necessaria per comprendere uno sviluppo vero e sano della natura umana – in realtà impossibile senza la grazia divina, dalla quale fuggono come dalla morte, e nonostante che il fine della vita per loro, come Freud indica, sia la morte - [10]. Una vera considerazione del funzionamento positivo della natura umana restaurata ad opera della grazia renderebbe impossibile la tragica confusione di tanti psicologi concordisti cattolici, che con la loro ingenuità spesso non del tutto innocente hanno introdotto il principio della morte dentro la dottrina della vita, corrompendola dal di dentro nella vita concreta dei loro “pazienti”, nel significato letterale della parola pazienti.

Se si cerca di mettere in relazione la “nevrosi” di cui tratta la psicologia o le psicologie contemporanee con la nozione di “peccato” dell’antropologia teologica cristiana, normalmente si produce una violenta reazione avversa. Tale reazione sarebbe notevolmente attenuata, o anche scomparirebbe del tutto se si studiasse con serietà il trattato sul peccato che San Tommaso fa seguire a quello delle virtù nella Prima Secundae. Si catturerebbe così l’ampiezza del suo significato e la sua drammatica incidenza reale a molteplici livelli, soprattutto strutturali, nella vita concreta dell’uomo [11]. Però è soprattutto il tema del peccato originale, che l’Aquinate tratta nelle questioni 82 e 83, che è al centro dell’attenzione di Freud, e inconsciamente, lo si voglia ammettere o no, al centro di tutta l’attività psicologica contemporanea che è configurata secondo l’atteggiamento freudiano. In effetti, la psicoanalisi di Freud, come metodo e tecnica, è intrinsecamente solidale al suo intento fondamentale di rendere cosciente nel modo più completo la ribellione dell’uomo contro Dio Padre, radicata nella struttura incosciente dei suoi vizi e passioni non restaurate per l’influsso della grazia. Per Freud, come per Nietzsche, che è la sua fonte segreta d’ispirazione, l’uomo si compie veramente in ciò che è, nella sua posizione cosciente contro Dio e nella pretesa di occuparne il posto [12]. D’altra parte, molte distorsioni teologiche contemporanee, che hanno come punto di forza una inadeguata concezione del peccato originale per l’influsso e l’assimilazione, a volte cosciente, delle filosofie idealiste, entrano in una simbiosi del tutto naturale con il pensiero freudiano e psicologico in generale – che benché si opponga parzialmente ai dogmi di Freud, è plasmato molte volte sulle sue esigenze e pretese, e produce risultati simili, al di là delle intenzioni degli psicoterapeuti ─.

La Prima Secundae si chiude con la considerazione di due temi capitali in psicologia: la legge [13] e la grazia [14]. L’uomo non può realizzarsi autonomamente senza l’aiuto di Dio, che è l’autore di entrambe. Nessuno psicologo potrebbe con la sua terapia sostituire la legge e neppure aiutare il soggetto a crearsi una pseudo-legge soggettiva secondo le proprie inclinazioni personali e le circostanze di vita – come al contrario pretendono subdolamente molte teologie morali contemporanee -. Tanto meno potrebbe rimpiazzare l’azione della grazia, l’unica che ordina l’uomo al suo vero fine e che evita le profonde distorsioni della personalità. Il vero psicologo, anche a livello meramente umano, aiuterebbe il suo paziente a scoprire le implicazioni della legge naturale nelle sue proprie circostanze di vita, e soprattutto, aiuterebbe a togliere gli impedimenti per il compimento della legge evangelica, la cui realtà principale è la grazia dello Spirito Santo, e che è l’unica norma che porta con certezza alla pienezza della vita umana avviandola verso il suo unico e vero fine [15].

L’affermazione che San Tommaso pone nel prologo della Secunda Secundae riguardo il fatto che le considerazioni generiche in campo morale sono poco utili, perché le azioni umane sono particolari, ci fa intravedere il nesso essenziale che esiste non soltanto tra la psicologia e l’etica, ma soprattutto tra la psicologia e la Teologia, per il fatto che questa scienza è allo stesso tempo dell’universale e del particolare, come riflesso della infinita scienza di Dio che abbraccia entrambe.

E’ chiaro che per captare questo nesso è necessaria la fede, la prima virtù teologale delle quali tratta in questa sezione. Insieme alla speranza ed alla carità, forma il centro dell’esistenza cristiana [16]. La configurazione psichica, soprattutto se è considerata dinamicamente, si manifesta in modo molto diverso nella persona che possiede tali virtù, o in colei che possiede i vizi contrari. Questo è specialmente valido per il fatto che si riferisce all’amore teologale o all’odio, magistralmente trattati da San Tommaso in questa sezione [17]. Lo stesso accade, in una maniera meno profonda ma più visibile, dinanzi alla presenza o l’assenza delle quattro virtù cardinali [18]. E’ qui che ci imbattiamo nel centro di ciò che è psicologicamente osservabile della modalità umana. Se non giunge fino al livello specifico della virtù umana in quanto tale, la psicologia nelle sue molteplici varianti non potrà superare nel concreto il livello del comportamentismo, per quanto sofisticata ed astrattamente elaborata possa essere.

Uno psicologo che conoscesse in modo concreto e vitale il modo di operare delle persone a partire dalla ricca descrizione delle virtù e dei vizi che realizza l’Aquinate in questa parte della Secunda Secundae, avrebbe uno strumento per l’aiuto psicologico molto più elaborato ed efficace degli altri metodi diagnostici e terapeutici contemporanei. E, a loro volta, questi metodi – anche eventualmente conservando la loro apparenza esteriore che li ricollega a test, tecniche, relazione professionale psicologo-paziente, ecc., un fattore accidentale, però che normalmente preoccupa molto gli psicologi e gli studenti di psicologia cristiani – si potranno rigenerare in un modo degno dell’uomo e del cristiano, e che soprattutto non introduca coscientemente o incoscientemente profonde distorsioni al di sotto della loro apparenza neutra, e specialmente a causa di essa.

Dal punto di vista negativo, è specialmente importante per la psicologia – seguendo lo sviluppo della Secunda Secundae, la considerazione della superbia come primo peccato e fonte degli altri, e specialmente la sua gravità in quanto implica una ribellione contro Dio. Non potremo non menzionare a questo punto le giuste intuizioni di Alfred Adler, il quale colloca in ciò che la tradizione della saggezza cristiana chiama superbia la causa più profonda della nevrosi [19].

La Seconda Parte della Summa Teologica si chiude con alcune questioni che si riferiscono agli stati di vita del cristiano, e specialmente alla differenza tra la vita attiva e la vita contemplativa, e la superiorità di quest’ultima [20], le quali sono imprescindibili nelle attuali circostanze di confusione nella vita cristiana e nella vita consacrata. Non dimentichiamo che di fatto molte persone consacrate, a volte anche dedite alla vita contemplativa, sono soggette a trattamenti psicoterapeutici indiscriminati senza che incontrino coloro che comprendano la vera causa dei loro patimenti, né chi dovrebbe guidarli spiritualmente, né gli psicologi.

La Terza Parte della Summa Teologica si riferisce a Cristo, nel quale si incontra il compimento o perfezione di tutta l’attività teologica. La frase del Concilio Vaticano II precedentemente citata diceva che solo in Lui si rischiara il mistero dell’uomo. Per chi lo saprà guardare, incontrerà in questa parte l’ideale verso cui dovrà mirare tutto l’aiuto psicologico. Però in questo punto dobbiamo affrontare un compito supplementare che non abbiamo incontrato nelle tematiche precedenti.

In effetti, nella nostra situazione contemporanea non si tratta solamente di ottenere che l’attenzione all’uomo perfetto, comunicando la sua chiarezza, illumini definitivamente le zone più oscure dello psichismo umano. Si tratta invece, e ancor prima, di riuscire a liberare la teologia contemporanea dalla crescente proiezione di una psicologia modellata esclusivamente sulla patologia e sui limiti umani, della Persona di Cristo. Si tratta di non dimenticare che ci troviamo a che fare con la psiche umana di una persona che non è umana ma divina. Non è possibile immaginare né pensare l’unità della mente e neppure della coscienza di Cristo. E’ per eccellenza oggetto della fede. Lo sapeva molto bene l’Aquinate, il quale spiega in modo ammirabile e preciso ciò che si riferisce alla scienza e le altre perfezioni dell’umanità di Cristo, così come i difetti che volontariamente assunse per la nostra salvezza [21]. Le questioni che seguono, circa la vita, la passione, la morte, la resurrezione e la vita gloriosa, ci mostrano nella sua pienezza il mistero pasquale, che implicitamente ed esplicitamente deve essere al centro della vera “psicologia profonda” del cristiano.

A partire dalla questione 60 della terza parte San Tommaso tratta dei sacramenti. Chi non comprenderà che presi sul serio, con tutta la loro importanza vitale trasformatrice della vita, ognuno di essi è pieno di implicazioni psichiche? La trasformazione della mente umana nel suo pensare, operare e sentire concreto è la loro vera finalità. Il battesimo, l’ordine sacro, il matrimonio e soprattutto l’Eucarestia implicano una totale trasformazione della mente umana e di tutto lo psichismo. La vita umana fondata seriamente sui sacramenti, anche fenomenologicamente, è totalmente distinta dalla vita umana vissuta a prescindere da essi.

Resta chiaro che per il solo fatto di ricevere l’assoluzione sacramentale la persona non sperimenta sempre cambiamenti negli affetti, immaginazioni, tendenze negative nell’ordine della sensibilità. Però si prendono sul serio le disposizioni necessarie per ricevere il sacramento come parte del sacramento stesso? Non sarà che si pensa alla confessione come ad un atto quasi meccanico nel quale il pentimento gioca un ruolo marginale e quasi insignificante? Si prende sul serio l’importanza dei peccati oggettivi, al di là delle intenzioni della persona, e del suo potenziale distruttivo dell’armonia dello psichismo umano?

Se per Freud, come lui stesso dice esplicitamente, la psicoanalisi rimpiazza la confessione e lo psicoanalista il sacerdote, una volta constatate le conseguenze devastanti dell’influsso delle idee freudiane nella cultura e nella vita concreta degli uomini dei giorni nostri, dovremmo avere il coraggio cristiano di invertire l’inversione e di dare conseguentemente ai sacramenti della riconciliazione e dell’ordine sacro l’importanza che gli appartiene come mezzi imprescindibili per la realizzazione di un’autentica vita cristiana, e, quindi, pienamente umana.

Concludiamo formulando alcune osservazioni più pratiche. Nella situazione attuale, se vogliamo mantener viva la filosofia e la Teologia di San Tommaso, non possiamo prescindere dal confronto con la psicologia contemporanea, che influisce molto più direttamente della filosofia nella situazione concreta della vita degli uomini dei nostri giorni.

In vista di ciò, è importante affrontare di petto l’obiezione comune che si alza ogni volta che si fa risaltare il valore psicologico del pensiero di san Tommaso, così come di altri autori classici. Il fatto che non si trovano nella sua filosofia e nella sua Teologia gli strumenti “tecnici” per diagnosticare le “nevrosi” e per poter così “curarle”, trattandole come vere malattie. Per questo è necessario situare le cose al livello in cui veramente si sviluppa il pensiero sull’uomo in quanto uomo. Questo è il principio, e talvolta è molto difficile da realizzare. Senza una visione che riesca ad alzarsi al di sopra degli schemi immaginativi ed affettivi che tengono intrappolata la mente di tanti psicologi e di altri che li seguono acriticamente è impossibile un dialogo serio sul tema.

La vera “psicologia”, anche accettandola, come è ragionevole nei nostri tempi e nelle nostre circostanze, come attività – non dico “scienza” – autonoma rispetto allo studio ed alla applicazione diretta della Teologia -, la vera psicologia – dico – è tutta da costruire nella sua forma concreta e determinata, nella sua traduzione sperimentale e terapeutica. Speriamo di poterlo fare sulla base di una filosofia e di una teologia tanto profonde come quelle di San Tommaso. Nonostante, vista l’epoca che stiamo attraversando, già non sarebbe poco se la si potesse fondare sul più elementare senso umano e cristiano. E se già molti di coloro che sono stati formati secondo i principi della psicologia classica del secolo ventesimo sono impossibilitati per fare ciò, da non mediare un intervento speciale e quasi straordinario della Grazia divina, speriamo, con speranza soprannaturale, che la visione grande ed illuminata di coloro che dirigono le istanze determinanti la cultura cattolica pongano, o permettano di porre, i primi semi per questa fondazione.

Spendiamo comunque alcune parole sul metodo, che abbiamo tenuto per la conclusione al fine di far comprendere l’importanza della prospettiva di totalità che deve essere impiegata in ogni riflessione di tipo “psicologico”. In questo senso è inconveniente, come si è fatto in alcuni intenti non molto recenti che tentavano artificialmente una concordia della “scienza” con la scolastica, ridurre il valore psicologico del pensiero di San Tommaso al trattato delle passioni. Al contrario, questo valore rimane massimamente in evidenza quando si considera l’uomo secondo la totalità delle prospettive che incontriamo nella filosofia e soprattutto nella Teologia dell’Aquinate. Il fondamento di questo fatto ce lo fornisce lo stesso Dottore Angelico: la persona è il tutto [22]. E’ per questa ragione che, da un punto di vista completamente diverso, è attraente il discorso delle psicologie contemporanee, che si presenta come totalizzante.

Noi tomisti abbiamo il dovere di non cadere intrappolati nella magia irrazionale che ai nostri giorni possiede ciò che ha a che fare con lo “psicologico”, e, in cambio, di procedere scientificamente secondo i più certi principi filosofici e teologici. Solo così potremo orientarci, con l’aiuto di San Tommaso, in questo campo, come in tanti altri nei quali si presentano le sfide della cultura contemporanea.

1. Gaudium et Spes 22.
2. S. Th. I-II q.82-83.
3. S. Th. I q.106-114.
4. S. Th. I-II q.5 a.8.
5. S. Th. I-II q.5 a.8.
6. S. Th. I-II q.6-21.
7. S. Th. I-II q.8-17.
8. S. Th. I-II q.22-48.
9. S. Th. I-II q.49-70.
10. Cfr. Sigmund Freud: Al di là del principio del piacere, in Obras completas, Biblioteca Nueva, Madrid 1967, vol. I, pag. 1112 (in italiano edito da Mondadori Bruno, 2003, Milano): “Se pertanto tutti gli istinti organici sono conservatori e storicamente acquisiti, e tendono ad una regressione o ad una ricostruzione del passato, dovremo attribuire tutti gli esiti dell’evoluzione organica ad influenze esterne, perturbatrici e devianti. L’essere animato elementare non avrebbe voluto trasformarsi fin dal suo origine e avrebbe ripetuto sempre, sotto identiche condizioni, un solo e medesimo cammino vitale. Però alla fine ci sarebbe sempre la storia evolutiva della nostra Terra e della sua relazione col Sole, che ci ha lasciato la sua orma nell’evoluzione degli organismi. Gli istinti organici conservatori hanno ricevuto ognuna di queste trasformazioni forzate del corso vitale, conservandole per la ripetizione, e danno l’impressione erronea di forze che tendono verso la trasformazione e il progresso, essendo così che non si propongono più di raggiungere un fine antico per strade tanto antiche quanto nuove. Questo fine ultimo di tutta la tendenza organica potrebbe essere indicato. Il fatto che il fine della vita fosse uno stadio non raggiunto mai prima d’ora sarebbe in contraddizione con la Natura, conservatrice degli istinti. Detto fine deve essere uno stadio vecchio, uno stadio di partenza, che l’inanimato ha abbandonato una volta, e verso il quale tende attraverso tutti i giri dell’evoluzione. Se come esperienza, senza eccezione alcuna, dobbiamo accettare che ogni vivente muore per cause interne, tornando all’inorganico, possiamo dire: la meta di ogni vita è la morte. E con lo stesso fondamento: l’inanimato era prima dell’animato”.
11. S.Th. I-II q.71-89.
12. SIGMUND FREUD, Totem e tabù, trad. it. Roma 1990, pp. 207-208: “Nel mito cristiano, il peccato originale deriva incontestabilmente da un'offesa commessa nei confronti di Dio Padre. Bene, se il Cristo ha liberato gli uomini dal peso del peccato originale col sacrificio della propria vita, noi dobbiamo concludere che questo peccato consistesse in una uccisione. Secondo la legge del taglione, profondamente radicata nello spirito umano, un'uccisione puo essere espiata solo col sacrificio di un'altra vita; il sacrificio in se stesso significa l'espiazione per un atto suicida. E quando questo sacrificio della propria vita deve portare alla riconciliazione col Dio Padre, il crimine da espiare non può essere che l'uccisione del padre. Cosi nella dottrina cristiana l'umanità confessa francamente l'azione delittuosa primeva, poiché solo nel sacrificio di questo unico figlio ha trovato piena espiazione. La riconciliazione col padre è tanto più completa in quanto, contemporaneamente al sacrificio si proclama la rinuncia alla donna, che è stata la causa della ribellione contro il padre. Ma a questo punto si manifesta ancora una volta, la fatalità psicologica dell'ambivalenza. Nello stesso tempo e con lo stesso atto il figlio, che offre al padre l'espiazione più piena, realizza i suoi desideri contro il padre. Diviene egli stesso dio accanto al padre, o meglio al posto del padre. La reIigione del figIio si sostituisce alla reIigione del padre. E per segnare questa sostituzione, viene rimesso in vita I'antico banchetto totemico in forma di Comunione, in cui i frateIIi riuniti si cibano deIla carne e del sangue deI figlio, e non deI padre, per santificarsi e identificarsi con lui. Cosi, seguendo attraverso le varie epoche successive I'identità deI banchetto totemico con iI sacrificio animale, con il sacrificio umano teantropico e con l'Eucarestia cristiana, in tutte queste soIennità si ritrovano le conseguenze del crimine che in modo tanto opprimente pesava sugli uomini, che pure avrebbero dovuto esserne fieri. Ma Ia Comunione cristiana è, in fondo, una nuova soppressione del padre, una ripetizione dell'atto che richiede espiazione. E noi comprendiamo quanto il Frazer abbia ragione, quando dice che « la Comunione cristiana ha assorbito in sé un sacramento molto più antico del cristianesimo».”
13. S.Th. I-II q.91-108.
14. S.Th. I-II q.109-114.
15. S.Th. I-II q.106-108.
16. S.Th. II-II q.1-46.
17. S.Th. II-II q.23-46.
18. S.Th. II-II q.47-170.
19. Cfr. M. Echavarria, La Soberbia y la Lujuria como patologias centrales de la psique segùn Alfred Adler y Santo Tomàs de Aquino, in: I. Andereggen – Z. Seligmann, La psicologìa ante la gracia, Buenos Aires 1997.
20. S.Th. II-II, q.179-189.
21. S.Th. III q.7-15.
22. S.Th. III q.2 a.2.

domenica 26 settembre 2010

LA LIBERAZIONE DEL GIGANTE - SAN TOMMASO, PASSIONI, HABITUS E PSICOLOGIA CONTEMPORANEA



Con questo titolo Luis de Wohl, uno dei più importanti esponenti del romanzo storico, dava inizio alla narrazione della vita di Tommaso d’Aquino, monaco domenicano, filosofo e Santo, la cui missione, nell’appassionante contesto del milletrecento, fu di introdurre nel pensiero cristiano le intuizioni filosofiche del “gigante” dell’epoca classica, Aristotele, “liberandolo” così dalle interpretazioni degli arabi (Averroè in primis). Lo stesso titolo potrebbe esser dato al libro di Antonino Stagnitta, “La fondazione medievale della psicologia”, che specularmente introduce il pensiero del grande Santo all’interno della psicologia moderna, liberandolo dalla prigione in cui il pensiero moderno incatena e ripudia i pensatori medioevali ed il medioevo stesso. Per compiere tale viaggio l’autore mette sin da subito in dubbio la ricostruzione moderna del medioevo come epoca oscura – in questo ci ricorda altri contemporanei, come Rodney Stark, Franco Nembrini, Luigi Negri, ecc. - in verità momento storico culturalmente floridissimo: “Arabi, Ebrei e Bizantini avevano fatto del Mediterraneo un ambito del sapere che non ha similitudini nella storia dell’umanità. Là sono nate le ragioni della matematica moderna, i segni della medicina, le opere dell’arte e della letteratura mondiale, le premesse culturali e semantiche della fisica post-aristotelica e quindi della cosmologia e della scienza moderna in generale” (pag. 12). “Il mio proposito – dice l’autore - è di indicare come un grande e complesso sistema filosofico e teologico, quale quello di Tommaso D’Aquino, pur essendosi sviluppato nel secolo XIII e in contesti culturali e scientifici molto lontani dai nostri, possa aver prodotto ed elaborato teorie e dottrine così aperte da trovare risconto anche in raffinate opere scientifiche contemporanee” (pag. 15). Una posizione che contrasta l’idea secondo cui la scienza - e con essa tutta la modernità - sia nata unicamente sulle spalle dei giganti del seicento: “il moderno non è sorto dal nulla” (pag. 12) e “del resto il Gilson nell’ormai classico Index scolastico-cartèsien ha fatto vedere chiaramente il «ruolo che il pensiero medioevale ha avuto nella formazione del sistema cartesiano» e quindi di tutta la filosofia moderna e contemporanea che in esso, si afferma, hanno avuto la matrice” (pag. 19). Stagnitta non si limita ad un discorso specifico sulla psicologia medievale, ma abbraccia un confronto a tutto campo con il pensiero contemporaneo: ricorrenti, infatti, saranno le citazioni da alcuni classici della psicologia, come il Bugenthal per la corrente umanistica, il Dollard per la psicoanalisi, il Delay-Pichot per la psicologia generale ed il Lewin per quella sociale, così come ricorrenti saranno le critiche a Popper, agli psicologi comportamentisti ed ai teorici marxisti della teologia della liberazione. “Cosa vuol dire ciò? Vuol dire una cosa molto importante che bisogna tener sempre presente nella rilettura dei medioevali. Ogni sistema di pensiero ha un suo itinerario obbligato e un suo proprio sviluppo: portato avanti con coerenza e tenacia scientifica non potrà non produrre copiosi frutti di sapere. Se il sistema della psicologia tomista fosse stato portato avanti col coraggio e il rigore della ricerca scientifica e metodologica che San Tommaso ha prodotto, allora forse oggi avremmo avuto una conoscenza più autentica della realtà umana. Oggi le psicologie accademiche di orientamento meccanomorfico e comportamentista tentano, con invenzioni di risibili leggende e miti di tipo pseudo-platonico, di integrare le tesi evoluzionistiche con quelle materialistico-dialettiche relative alla storicità della cultura: i risultati sono a tutti noti. Non salvano i drogati, non aiutano i disperati, non formano uomini forti, non comprendono il senso dell’autodistruzione e della morte, non capiscono per nulla questo mondo che va sempre più per cammini disumani. La psicologia è ferma alla conoscenza del mondo animale. Si attende l’apporto cristiano. San Tommaso potrà diventare il precettore preferito, ma ha bisogno di discepoli di buona volontà «et in studio assidui»” (pag. 47).

Il primo, lungo, capitolo è dedicato alle passioni dell’uomo. Premessa a tale indagine è l’assunto di Tommaso d’Aquino secondo cui “la persona umana è sentesi anima-corpo in unicità consustanziale” (pag. 27), concetto riassunto dall’aquinate con i concetti aristotelici di potenza ed atto, forma e materia: “l’anima forma del corpo” (pag. 27). Il pensiero dualista che Tommaso affrontò nel trecento nelle avvincenti dispute teologiche parigine è ripreso e riproposto dall’autore in chiave moderna, contro il pensiero di Popper in primis, e sul terreno delle passioni: “[…] per Tommaso d’Aquino la passione è atto tipicamente umano, l’espressione più interessante dell’interazione mente-corpo” (pag. 26). “Allora, cosa è la passione? San Tommaso accetta in tutto la teoria aristotelica secondo il significato della parola «pathos-patire»: essa è un’alterazione, e in quanto tale può essere anche patologica, subita dall’anima e coinvolgente tutto l’essere dell’uomo in quanto è il composto che patisce acquisendo o perdendo qualcosa come forma psicologica precedente” (pag. 46). Riprendiamo questa definizione. “Il termine «passione», come si sa, è la traslitterazione latina del greco «pathos» (perturbazione dell’anima). Esso assume però un preciso significato in filosofia allorquando Aristotele, che riepiloga tutto ciò che si era detto prima di lui, nella Metafisica esamina i modi contrapposti di «potenza» e «atto». Originariamente viene designata col termine «passione» la categoria logico-metafisica dell’essere correlativa ad «azione», per cui la sua preistoria ci riporta alla metafisica. […] Il significato psicologico del termine «passione» scaturisce secondariamente, per associazione a detto concetto metafisico. Esso indica semplicemente potenzialità, che se attiva, significa attitudine e possibilità di agire; se passiva designa proprio la recettività dell’essere sotto l’influsso di una causa agente” (pag. 30). “[…] Nel caso della passione in senso psicologico è il corpo umano che subisce (patisce) l’alterazione (trasmutatio corporalis). Ma il corpo umano è tale perché l’anima ne è la forma, l’atto dell’essere tale, cioè umano, ed è ad essa indissolubilmente ed essenzialmente unito. Perciò ogni alterazione del corpo ridonda nell’anima e viceversa. Allora è improprio dire «le passioni dell’anima», ma «le passioni dell’uomo»: composto di materia e forma, corpo e anima” (pag. 31). “Si tratta evidentemente di un discorso in cui San Tommaso ci tiene a sottolineare che l’alterazione «può essere detta anche dell’anima in quanto essa patisce e subisce qualcosa, e la sua operazione viene impedita»; «è attratta altrove verso il suo agente che la fa recedere da ciò che le è conveniente»”(pag. 46). “Dal punto di vista psicologico, dunque, il termine passione designa un traboccamento di stimoli corporali (trasmutatio corporalis) sull’attività psichica dell’anima che viene tirata fuori da se stessa e consociata più strettamente al corpo. E ciò accade per una causa estrinseca che produce proprio alterazioni e patologie fisiologiche” (pag. 31). Detto in altri termini: “le passioni insorgono nell’uomo per cause estrinseche che stimolano e producono alterazioni fisiologiche e organiche con ridondanze sull’anima. In questo campo la biologia è preminente” (pag. 32). A prima vista sembrerebbe, dunque, che la parte più umana dell’uomo, ossia l’intelletto, la ragione, la sua capacità conoscitiva, non sia implicata nel fenomeno passionale, e che esse sottomettano l’uomo ad una dinamica istintiva, di animalità: “[…] nell’insorgere delle passioni non c’entra né la conoscenza né la volontà, perché l’una le percepisce solo quando sono già sorte, e l’altra non sempre riesce a dominarle nel loro sorgere e nelle loro manifestazioni” (pag. 33). In realtà “San Tommaso, confortato da Aristotele, Agostino, Damasceno e dallo pseudo-Gregorio, collocando il trattato delle passioni nel più ampio panorama delle azioni finalizzate […] dichiara apertamente che anche l’atto delle passioni, pur essendo comune agli animali, in quanto diventa finalizzato, è volontario” (pag. 37). Le passioni vengono governate, amministrate dalla ragione che le orienta verso il fine da lei scelto. In questo modo si esce dal terreno della solo biologia e si entra in quello dell’etica, cioè dell’umanità. “Di fatto la gran parte dell’etica comportamentale, tendente al bene, sta proprio nel dominare e convogliare queste enormi energie psichiche verso il bene e la fruizione della felicità. E ciò avviene quando, con l’imperativo politico della ragione, si riesce a stabilizzarle (habitus-virtù) e convogliarle, appunto verso il bene” (pag. 38). “Questo convogliare il proprio comportamento verso il fine della felicità ultima è costituito dagli atti liberi e volontari che perciò si dicono umani” (pag. 38). La ragione e la volontà “dirigono le medesime passioni non proprio con imperativi dispotici a cui non possono resistere, ma con un potere «politico» (principatu politico) che lascia ad esse una certa libertà di movimento, come avviene «nel governo dei figli che posseggono, per alcune cose, la propria volontà»” (pag. 58). “Secondo San Tommaso le passioni dell’uomo sono undici, e si dividono in due grandi gruppi coordinati. Le passioni del concupiscibile o del desiderio che sono la matrice di tutte le passioni attraverso l’amor iniziale tendente alla gioia e al gaudio. E le passioni dell’irascibile che scaturiscono dalle prime e in esse si placano. […] Tutte le passioni del desiderio (concupiscibilis) del bene in assoluto sono tendenze o pulsioni verso di esso: l’amore, il desiderio, il gaudio o piacere e gioia (della fruizione); e, al contrario, le passioni riguardanti il male: l’odio, la fuga o abominio, la tristezza o frustrazione del bene non conseguito. Similmente avviene per le passioni dell’irascibile «il cui oggetto non è il bene o il male in assoluto ma sotto l’aspetto della difficoltà o arditezza nel conseguirlo». Così abbiamo le passioni della speranza, dell’audacia e dell’ira, che non ha il contrario, mentre la disperazione e il timore scaturiscono dall’impossibilità di raggiungere il bene desiderato” (pag. 39). Se dunque “[…] le potenze irascibili e concupiscibili obbediscono alla ragione […] ne deriva che il loro atto tipico è la scelta (electio) che è atto della volontà, che, se stabilizzata nel bene, è virtù, nel male è vizio. Essa è preceduta dalla deliberazione dinanzi alla concretezza della situazione. Tutto ciò presuppone la libertà e, quindi, come soggetto operatore radicale, la ragione. «Il principale atto della virtù etica è la scelta che è atto dell’appetito razionale o volontà»” (pag. 53). C’è però una precisazione: “le passioni non sono soggetto di virtù per la loro subordinazione totale ed estrinseca alla ragione […] ma per la compenetrazione ontologica (forma) dello spirito nella sensibilità” (pag. 61). “«[…] Così se l’appetito sensibile subordinato (inferior) non è nella perfetta disponibilità di compartecipazione entitativa al dinamismo della ragione, la dinamica della sua propria azione sarà imperfetta; si attuerà infatti con qualche ripugnanza dell’appetito sensibile che perciò soffrirebbe tristezza e frustrazione per la violenza a cui è sottoposto. Ciò accade, per esempio, in chi esperimenta forti passioni di concupiscenza che non può pienamente realizzare per il dettame della ragione»” (pag. 61).

Il secondo – altrettanto lungo – capitolo è dedicato al dinamismo delle passioni, in particolare alla tristezza, che è la prima passione, dopo quella del piacere, affrontata dall’aquinate: “l’appetito inferiore, quando non è nella perfetta disponibilità a seguire l’imperativo della «ragione» e, quindi, è in conflitto con essa, entra ed esperimenta una «certa tristezza» quaedam tristizia, che significa proprio frustrazione. […] «Come accade in colui che reprime per motivi etico-razionali (anche per motivi clinici, dietetici, ecc.) (ratione prohibente) forti desideri di piacere (fortes concupiscientias) e da ciò ne deriva uno stato frustrante per la violenza appunto della repressione»” (pag. 70). Stagnitta propone una analogia tra il termine tristizia usato da Tommaso e “frustrazione” così come inteso dal Dollard: “con esso si vuole designare uno stato psico-fisiologico di insoddisfazione o delusione, irritazione e perplessità prodotto da un avvenimento interno o esterno alla persona. Esso impedisce, ostacola o interrompe il proseguimento di un atto tendente a soddisfare un bisogno” (pag. 65). Anche se più avanti precisa: “non che il termine tomasiano «tristezza» (tristizia) designi solo e sempre «frustrazione»” (pag. 67); “Cosa è infatti, per Tommaso, la tristezza? E’ una certa particolare forma di dolore causato da una percezione interiore” (pag. 73). “Un esempio moderno di passione (tristezza o frustrazione) con manifestazioni di eventi somatici (corporali trasmutatio) è il fenomeno patologico dell’anoressia o disgusto del cibo causato sovente da una esagerata repressione dietetica (ratione prohibente)” (pag. 70). L’autore ripercorre il concetto moderno di frustrazione primaria e secondaria, entrambe riscontrabili anche nell’opera di Tommaso: “è importante per noi solo constatare l’esistenza del concetto di «frustrazione primaria» causata dalla sofferenza per un male presente-bene assente” (pag. 72); “[…] il concetto di tristezza causata dal desiderio non soddisfatto è [invece] indicato in termini moderni come «frustrazione secondaria» (passiva e attiva, interna ed esterna). «Il desiderio stesso, considerato nella sua natura può essere talora causa del dolore. Infatti tutto ciò che impedisce a un moto di raggiungere il suo termine è contrario al moto medesimo. Ora tutto ciò che è contrario al moto dell’appetito, rattrista. E’ così che il desiderio diviene causa di tristezza, in quanto ci rattristiamo del differimento o della privazione di un bene desiderato». […] Un desiderio, quindi, che non è soddisfatto produce tristezza e frustrazione. Ci chiediamo: quando avviene che un desiderio non è soddisfatto? Avviene quando un ostacolo impedisce al «dinamismo dell’appetito sensitivo», alla passione, nel caso nostro al desiderio o concupiscenza come pulsione istintuale verso il bene, di pervenire al suo fine, cioè allo scopo del comportamento motivato. […] Dunque un desiderio non realizzato a causa di un evento che ritarda o che addirittura sopprime il bene-oggetto concupito e desiderato è causa di tristezza o frustrazione” (pag. 85). La frustrazione, quando giunge, ha degli effetti diretti sull’uomo nella sua totalità che, come più volte nel corso del libro l’autore ribadisce, è un composto di corpo e spirito: “[…] ciò che avviene nella sfera psichica si ripercuote in quella biologica e viceversa, come avviene nel piacere o dolore che quando attraggono attirando a sé le facoltà dello spirito impediscono la possibilità di ragionamento; per esempio, secondo Aristotele, le manifestazioni sessuali impediscono la riflessione della ragione. […] Perciò avviene che da conoscenze intellettive «shoccanti» si tramuta il corpo in caldo e freddo; a volte sino a guarire o a cadere ammalato e anche sino a morire: accade infatti che qualcuno muoia per la gioia o per il dolore, ma anche per amore. Da ciò deriva ugualmente che l’alterazione somatica si ripercuota nell’anima” (pag. 87). Un altro effetto della frustrazione è l’aggressività: “l’aggressività è sempre conseguenza di una frustrazione. Più precisamente, l’affermazione può essere espressa così: un comportamento aggressivo presuppone sempre uno stato di frustrazione e, inversamente, l’esistenza di una frustrazione conduce sempre a qualche forma di aggressività. Nella vita di ogni giorno sembra giustificato attribuire sempre il comportamento aggressivo, almeno nelle sue forme più comuni, a una qualche frustrazione. Non è però altrettanto evidente che a ogni frustrazione segua inevitabilmente un’aggressività di una qualche intensità. In molti adulti, e persino nei bambini, può avvenire che alla frustrazione segua tanto prontamente una apparente accettazione della situazione e un adattamento ad essa, che si cercherebbero invano quegli aspetti di una certa evidenza che sono ritenuti generalmente caratteristici di una reazione aggressiva” (pag. 91). San Tommaso individua anche tre “terapie” alla frustrazione: «[…] così quando gli uomini che sono in stato di tristezza o frustrazione scaricano all’esterno questa tensione con pianti e gemiti o con parole (verbo) essa diminuisce» […] «la contemplazione della verità sopisce la tristezza e il dolore (consolazione della filosofia) tanto più quanto uno ama la sapienza (…). E bisogna anche dire che (terza risposta) la gioia della contemplazione, cosa squisitamente intellettiva, riesce a mitigare anche il dolore sensibile»” (pag. 88). L’autore poi passa all’analisi di quattro forme particolari di tristezza: la misericordia, l’accidia, l’ansietà e angoscia, l’invidia. In realtà più che forme particolari queste quattro passioni possono intendersi come reazioni alla stessa frustrazione-tristezza: “dunque la misericordia non solo «è un profondo sentimento di pietà che spinge a soccorrere o perdonare le miserie altrui», ma può diventare anche uno status di valore dell’anima, cioè una virtù morale, qualora tale habitus sia sistematicamente controllato dalla ragione. Ma può anche degenerare «nell’angoscia esistenziale» quando non si vede alcuna possibilità di liberazione o scampo dinanzi al problema della vita e della morte»” (pag. 101). L’accidia è, invece, “una patologia della volontà: abulia, apatia, pigrizia, inerzia” (pag. 101) ma che colpisce anche la facoltà della ragione: “«l’accidia è come un torpore dell’intelligenza che negligè di fare il bene»” (pag. 102) dal momento che sopraggiunge come errore di interpretazione dei segni della realtà: “«[…] tale tristezza accidiosa è causata da un male apparente ma di fatto vero bene»” (pag. 102). L’ansietà è “una paura che sale dal subconscio per un male futuro che sorpassa le possibilità umane e a cui non si può resistere né può essere eluso”; mentre l’angoscia esistenziale, “che Tommaso chiamava semplicemente «angustia et agonia», era conosciuta solo come una degenerazione della passione della misericordia, quando, dinanzi al problema della vita e della morte, non si intravedeva alcun scampo” (pag. 104). Infine, per quanto riguarda l’invidia “San Tommaso, sulla scia del Damasceno, dice che «l’invidia è una specie di tristezza concernente i beni altrui» ed è «molto diffusa tra i bambini nei quali non è (perfetto) l’uso della ragione»” (pag. 105). “«[…] Avviene di scambiare a volte come proprio male il bene altrui. Ed è appunto in questo senso che si può avere tristezza invidiosa di ciò che è bene per gli altri»” (pag. 105). Un discorso a parte è dedicato al timore (o paura) e all’audacia. E’ l’occasione per ribadire che “[…] la passione propriamente detta non sorge da una conoscenza intellettiva dell’oggetto, ma da una non precisata e vaga «percezione appetitiva» di un oggetto pericoloso che provoca un disturbo somatico o una qualsiasi altra affezione biologica descrivibile in tutti i singoli casi passionali. Ora, questa vaga percezione appetitivi con la quale emerge la passione è molto simile al concetto di «subconscio»: essa non arriva a livello cosciente se non in modo indiretto e secondariamente, in quanto è il composto che subisce, e quindi va ricercata nel meccanismo dell’interazione” (pag. 110). “Il timore, allora, sarebbe un avvenimento passionale o comportamento pauroso che cerca di sfuggire a un male futuro grave e insuperabile per mezzo di una inconscia affezione corporea. Essa si manifesta anche come un disturbo periferico evidenziandosi come reazione ed evasione e fuga dal male” (pag. 110). “Sono sei le manifestazioni fisiologiche e psichiche di reazione al timore”: immobilità, pallore e rossore, vergogna, meraviglia, stupore che impedisce la riflessione, angoscia per la mancanza di alternative. L’audacia “è una passione dell’appetito irascibile, contraria al timore o paura […] è un prodotto della speranza, perché è audace chi spera di poter superare «un pericolo grave e immanente»” (pag. 115). Sia timore che audacia sono passioni che divengono virtù se sottoposte al controllo della ragione, vice versa divengono vizi: “«[…] per quanto riguarda l’anima, se la passione del timore è moderata e non «acceca» la ragione, essa può essere utile a un buon comportamento morale, perché produce una certa diligente premura e fa l’uomo più vigile a valutare attentamente la propria operatività e comportamento. Se invece la passione del timore è tanto irruente da “accecare” la ragione, allora impedisce anche l’attività dello spirito” (pag. 114). Interessante a questo punto la riflessione sulla psicoterapia: “la psicoterapia è, in fondo, l’intervento della ragione sulla ragione perché essa possa corroborarsi e trasformarsi in moderatrice eliminando la patologia” (pag. 117).

Il terzo ed ultimo capitolo è dedicato agli habitus. Per comprendere appieno ciò che intende Tommaso, Stagnitta antepone alcuni concetti di antropologia che permettono al lettore di comprendere un modo di vedere l’uomo – ahimé – perso nel tempo. Vi è un duplice dinamismo nell’interazione tra l’uomo, ed il suo “interno”, e la realtà “esterna”: “è la persona che è presa dalla realtà verso cui tende e dalla volontà che è «tendenza verso», perché è prima ancora del razionale. Il soggetto poi, appunto perché razionale, conosce il bene da cui è conquistato e attratto, e ricerca la felicità che è il «bene più prezioso» e dono divino»” (pag. 128). Cioè l’uomo è spinto antropologicamente alla ricerca della felicità, del bene, del bello. Quando lo incontra né è attratto. Ma è anche vero che è la ragione che riconosce le proprietà degli oggetti, e quindi influenza questo dinamismo di spinta ed attrazione. Il meccanismo al centro di questo movimento è la volontà: “[…] le passioni dell’uomo sono influenzate dalla volontà che le regola, «non con un imperativo categorico ma politico. Tuttavia le passioni dell’irascibile e del concupiscibile possono a loro volta resistere a tale imperativo perché il desiderio sensibile possiede la proprietà specifica per poterlo fare». Ma mentre la volontà muove l’appetito sensitivo nell’esercizio dell’azione, le passioni o appetito sensitivo (irascibile e concupiscibile) muovono la volontà in via di speicificazione, vale a dire presentando ad essa un bene particolare come oggetto appetibile” (pag. 130). “Conseguentemente la volontà nell’atto del volere è attratta (e offuscata) da quel bene che le viene presentato da una conoscenza particolare non considerando quello che le viene invece presentato dalla ragione universale. Ed è proprio questo il modo in cui le passioni influiscono sulla volontà” (pag. 131). Ricapitoliamo. La passione è una risposta del corpo ad un evento percepito dai sensi, che poi influenza anche la ragione e di conseguenza la volontà. A sua volta la volontà influenza le passioni, scegliendo ciò che indicano loro come bene appetibile – tramite i sensi – ed il giudizio della ragione. “L’interazione tra mondo esterno e mondo interiore, mediato dalle passioni istintuali e dall’influsso della razionalità, produce una «certa qualità» nelle potenze recettive della psiche che si chiama appunto abitudine. Tale qualità acquisita, o abitudine, difficilmente poi può essere rimossa per il fatto che diventa, in un certo senso, co-essenziale al soggetto agente. Diventa cioè qualità permanente psicofisica, quasi una seconda natura; e ciò che è connaturale, e quindi consolidato, non è facilmente amissibile” (pag. 141). “Secondo Tommaso d’Aquino, che in ciò segue Aristotele, [gli habitus] sono una disposizione o qualità permanente e stabile dell’anima. Tale stabilizzata proprietà psichica è prodotta dalla subordinazione durevole degli atti delle passioni all’influsso motorio della volontà e delle forze cognitive e intellettive (la ragione) che presentano l’oggetto o ragionano circa le conclusioni” (pag. 121). “Le potenze appetitive vengono determinate da quelle percettive, sensibili e razionali che presentano, come fine, l’oggetto appetibile. Si tratta però di un meccanismo psicofisiologico bifronte e dinamicamente complesso: il soggetto agente possiede un principio attivo e uno recettivo come è evidente nelle azioni umane. Chi agisce è mosso da qualcosa (oggetto-fine) e, sotto questo aspetto, manifesta una recettività. E’ proprio in questa «passività recettiva» del soggetto agente che si realizza e si radica «la qualità permanente» chiamata a ricevere l’influsso della ragione, del mondo dei fini e degli oggetti da essa mediati e ad acconsentire ad esso (influsso) in modo permanente e abituale, se presa nella sua dinamicità” (pag. 143). “[…] il principio attivo è concepito come causalità di un agente che si muove perché mosso (da qualcosa), mentre il passivo è la recettività dinamica del medesimo, cioè la risposta razionale e comportamentale di un individuo a uno stimolo che lo fa reagire dopo essere stato stimolato” (pag. 148). Infine le ultime pagine sono dedicate allo studio delle virtù cardinali come habitus etici, al cui centro c’è la prudenza: “[…] per umanizzare le passioni del concupiscibile, dominarle e renderle stabili nella medierà, interviene la ragione-volontà che, scegliendo i mezzi opportuni, regola rettamente il comportamento umano verso il fine e realizza anzitutto la virtù della prudenza. Questa consiste nella corretta e saggia oculatezza e retto discernimento delle cose da fare in vista del conseguimento del fine-bene: da essa infatti dipendono tutte le virtù morali che sono connesse tra di loro” (pag. 166).