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sabato 22 gennaio 2011

PURIFICARE LA DOTTRINA PSICOANALITICA: APPUNTI SUL RAPPORTO PSICOANALISI - ANTROPOLOGIA CRISTIANA

Sigmund Freud

Riassumendo sinteticamente le posizioni degli autori cristiani su Freud, nell'ambito della psicologia, mi sembra che si possano delineare due sostanziali correnti: la prima, che sommariamente fa capo a Rudolf Allers ed al suo pensiero anti-freudiano (Jugnet lo definiva "l'anti-Freud"), secondo cui "la separazione proposta da alcuni autori, come Roland Dalbiez e Jacques Maritain, tra il metodo psicoanalitico e la filosofia di Freud, in modo che la prima, scientificamente corretta, sia accettabile, mentre la seconda la si possa rifiutare, senza intaccare per nulla il nucleo delle tecniche psicoanalitiche, è fortemente rifiutata da Allers" (M. Echavarria, Rudolf Allers, psicologo catolico, Ecclesia, 15, 2001, pag. 539-562), e la seconda, che nasce negli anni trenta dal teologo Maritain secondo cui bisogna distinguere i presupposti filosofici di Freud dalle sue idee derivate dall'osservazione psicologica e dalla clinica. Entrambe queste posizioni sono state assunte da importanti personaggi della psicologia: le posizioni "anti-Freud" sono proprie della corrente di psicologia "tomista" argentina del prof. Andereggen, Zelmira Seligmann e del prof. Echavvarria, nonché di Jean-Claude Larchet, di Ermanno Pavesi ed altri; le posizioni più conciliariste hanno trovato ampio consenso soprattutto qui in Italia dove, da sempre, la psicoanalisi ha svolto un ruolo primario tra le psicoterapie (ricordiamo a titolo esemplificativo il contributo di Giuseppe Mazzoccato, della scuola di Rulla, della scuola milanese Studium Cartellum di Contri, ed altri).
Questo contributo di Francesco Bertoldi si situa all'interno della seconda corrente, e può riassumersi nel progetto di "purificare la dottrina psicoanalitica" scindendo ciò che in essa vi è di falso da ciò che vi è di vero. Importante storico e professore presso un liceo della provincia di Milano, il professor Bertoldi ha all'attivo due pubblicazioni: De Lubac, cristianesimo e modernità, per le Edizioni Studio Domenicano (1994), e Medioevo Filosofico, edizioni Itaca 2 (1995). 

Appunti sul rapporto psicoanalisi - antropologia cristiana
di Francesco Bertoldi

(originariamente pubblicato in Communio, n.110, pagg. 49/62)

1. contesto
Tra le molte possibili (e peraltro mai disinteressate) definizioni di postmodernità, vorremmo qui recepirne ed approfondirne una, incentrata sul rapporto Cristianesimo/civiltà. Se a questo proposito l'epoca moderna era stata caratterizzata da un atteggiamento aggressivo ed espansivo della cultura laica, che aveva messo alle corde un cristianesimo riduttivo e rattrappito, a buon gioco dipinto come soffocante moralismo, da cui occorreva affrancarsi per poter giungere a una libertà degna dell'uomo, si può dire che nella situazione attuale, postmodema, ì termini del rapporto sono rovesciati. Nessuno infatti come la Chiesa si erge oggi a difesa della ragione, della libertà, della giustizia e della dignità dell'uomo, mentre le ideologie totalizzanti hanno dimostrato di saper costruire solo infernali sistemi che stritolano l'umano, e mentre la presunta aideologicità del neocapitalismo tecnocratico rivela sempre più la sua pretesa totalizzante e disumana. Dunque il Cristianesimo può presentarsi, quale esso è, fattore di liberazione, e non oppressiva catena .

Jacques Maritain
A questo riguardo un posto di rilievo nell'ambito dei tentativi contemporanei di liberazione dell'uomo spetta alla psicoanalisi: è dunque opportuno promuovere un confronto, come già da tempo e da più parti si è fatto, in campo cattolico, con tale importazione. Da tempo in effetti, il freudismo ha trovato un certo spazio di accettabilità all'interno della cultura cattolica, e Freud non è più demonizzato come esponente di una concezione totalmente e inappellabilmente anticristiana. Già Maritain verso la fine degli anni Trenta, aveva sapientemente distinto nella dottrina freudiana, i presupposti teorici, inaccettabili, dalle tesi più propriamente scientifiche e terapeutiche, in buona parte condivisibili .

Da allora molte cose hanno cominciato a muoversi, nel tentativo di far sempre meglio interagire la tematica psicoanalitica con le linee portanti dell'antropologia filosofica di matrice cristiana. E' in questo contesto che proponiamo qualche riflessione su tale tema.

Precisiamo subito il quadro teorico globale entro cui riteniamo ci si debba muovere in una prospettiva filosofico-teologica cristiana. Da un punto di vista teoretico, anzitutto, sappiamo che il sapere (come il reale, a cui esso si riferisce) non è né qualcosa di monoliticamente compatto, né qualcosa di irreversibilmente frammentario: tanto la confusione quanto la separazione sono due mali di cui può soffrire lo spirito umano, nel suo desiderio di verità totale. Occorre invece tenere fissi i due cardini della distinzione che non confonde, e dell'unità che non separa. Distinzione e unità sia tra ordine razionale e teologia, sia all'interno del sapere razionale, tra filosofia e scienze, e tra le diverse scienze.

Non si deve dunque misconoscere alla scienza psicoanalitica la sua autonomia epistemologica; ma neppure si deve trasformare tale autonomia in separazione: il suo oggetto materiale è quello stesso uomo, di cui parlano filosofia e teologia. Sul piano pratico l'applicazione di questi principi comporta delle conseguenze evidentemente equilibranti: non si può, ad esempio condurre produttivamente un'azienda facendo pregare per tutto l'orario di lavoro gli operai, né si può curare una malattia soltanto recitando msari. Il livello naturale ha una sua consistenza autonoma e delle sue leggi, che non è possibile misconoscere senza danno. E quello che vale per l'ambito economico o per quello medico, non si vede perché non dovrebbe valere in qualche modo anche per la sfera psichica. D'altro lato tanto un'azienda, quanto un malato otterranno senza dubbio dei risultati completi, solidi e proficui sotto ogni aspetto solo in una integrazione alla totalità concreta, che ha il suo centro e il suo senso nel Soprannaturale.

Da un punto di vista storico, poi, la psicoanalisi può essere considerata come uno dei tanti prodotti della modernità (almeno per molti suoi aspetti) e della sua attenzione al dato corporeo o all'immanenza in quanto tali. E, come negli altri casi, è giusto operare un vaglio tra gli elementi falsi e inaccettabili, e gli elementi di autentico arricchimento del sapere; evitando tanto una acritica accettazione quanto un diffidente rifiuto in blocco . Era infatti giusto, nella fattispecie, che il livello naturale umano, tanto corporeo (con i progressi della medicina), quanto psichico (ad opera appunto delle scienze psicologiche), fosse fatto oggetto di approfondita indagine specifica. Ciò però è avvenuto con una commissione di presupposti filosofici erronei, analogamente a quanto era accaduto tre secoli prima con le scienze della natura, viziate da una interpretazione meccanicistica, del tutto disgiungibile dalla costruzione scientifica propriamente detta.

2. Premessa metodologica
Riteniamo che non si debba particolarmente insistere sul cbe cosa, nella concezione psicoanalitica sia falso e inaccettabile in una prospettiva filosofico-teologica cristiana: si tratta evidentemente della "negazione violenta della spiritualità e della libertà" . Non è infatti pensabile in un orizzonte ortodosso, secondo cui l'uomo è chiamato a rispondere coscientemente e liberamente alla proposta di Dio, che lo chiama ad un destino eterno, una umanità ridotta a pura corporeità (e dunque mortale) e dall'agire necessitato.

Piuttosto occorre accennare a come, anzitutto metodologicamente, sia possibile separare quel presupposto materialistico e deterministico dagli apporti positivi di Freud. E' lo stesso Maritain a suggerire, anche nel campo di questa scienza umana, la distinzione tra filosofia e scienza, necessaria per impostare correttamente un discorso epistemologico .

Freud, come già Galileo e più di Galileo, non era un semplice scienziato: nella sua concezione complessiva si trovano, mescolate alle tesi scientifiche, delle idee filosofiche. Si tratta quindi di operare un discernimento di quanto vi è in esse di falso (il che si riconduce, in sintesi alle due citate tesi), per purificarne la dottrina psicoanalitica. Una cosa sarà quindi "la psicoanalisi come metodo di investigazione psicologica di trattamento psichiatrico", cioè la scienza psicoanalitica, altra cosa il "freudismo come filosofia". Analogamente a quanto si deve dire con la fisica, e cioè che prescindere da qualcosa (là il non-matematizzabile), non significa negarne l'esistenza, si dovrà qui dire che quella libertà e quella spiritualità, che la scienza in quanto tale non può raggiungere, non potranno per ciò stesso essere negate. Anzi, se già nel caso della scienza della natura esistono non delle prove, ma una buona armonia e una tendenziale convergenza verso una cosmologia filosofica ben attagliantesi alla fede, qui a maggior ragione, trattandosi dell'uomo, che è, oltre che corporeità, spirito e desiderio di una pienezza infinita, si dovrà poter constatare ancor più nitidamente un accordo con la concezione antropologica cristiana. In questo senso, se correttamente intesi, gli stessi concetti empiriologici della scienza psicoanalitica si dovrebbero meglio conformare ad una visione cristiana dell'uomo che alla filosofia freudiana. Prendiamo ad esempio il concetto di pulsione; Freud lo colloca in un contesto di negazione di una natura umana orientata ad una realizzazione di sé intelligibile. Ma questo contesto è precisamente un presupposto filosofico, non ricavabile da alcuna esperienza clinica. L'idea di pulsione sembra piuttosto attagliarsi ad un dinamismo finalizzato, superando così una antropologia materialistico-meccanicistica, che vede nell'agire umano un'ultima casualità, per l'assenza di un fine ultimo iscritto in un natura teleologicamente indirizzata. La pulsione non è infatti indifferente ai suoi oggetti; diversamente non avrebbe senso parlare di una sua perversione, di un suo spostamento patologico, di una sua sublimazione.

3. Considerazioni filosofiche
Vediamo ora di svolgere qualche riflessione sul come, contenutisticamente, sia possibile situare la dottrina psicoanalitica nel contesto di una antropologia cristiana. Anzitutto in una prospettiva di antropologia filosofica. Anche se non tutti gli intellettuali cattolici contemporanei sono d'accordo, ritengo che si possa dare come scontata la concezione secondo cui l'uomo non consta della sola dimensione corporea, ma è costituito anche da una dimensione interiore, invisibile, lo spirito.

Il primo cardine che occorre stabilire è che tale duplice dimensione non comporta una netta dicotomia, come sarebbe in una antropologia cartesiana: corporeità e spiritualità si intrecciano, si influenzano e si condizionano reciprocamente. La psiche è precisamente la regione e il prodotto di tale intersecarsi. Il soggetto individuale infatti, che è nel suo intimo costitutivo spiritualità, non entra in rapporto con gli altri soggetti umani se non attraverso la corporeità, una corporeità attraversata dalla spiritualità, pneumatofanica: non può né manifestare se stesso agli altri, né cogliere l'altrui manifestarsi che attraverso la dimensione corporea del volto, dell'atteggiamento, della voce, del comportamento attivo (inerente al soggetto attualmente agente o traslato sulle cose da lui modificate e plasmate). E' ancora importante rilevare che l'autocoscienza umana, come attesta anche la psicologia scientifica, non può costituirsi senza un riconoscimento da parte di altre soggettività: non c'è "io", senza un "tu". Ora, nello stato di fatto, la corporeità non è interamente occasione di trasparenza e di automanifestazione verace del centro spirituale, ma in misura maggiore o minore, è anche mascheramento e mistificazione. Teologicamente ciò si spiega con il peccato originale, che ha introdotto una complicazione rispetto alla primordiale semplicità, ed una pesante opacità rispetto alla originaria diafanicità dell'esterno all'intemo. Il che, come ben si capisce non può mancare di avere conseguenze súlla stessa autocoscienza.

Per questo la psiche non è una regione, diciamo così, tranquilla e di semplice reciproca trasmissione tra corporeità e spiritualità: tanto l'autocomunicazione quanto la percezione della comunicazione altrui sono sempre qualcosa di (più o meno) problematico. Il che non avviene (pensiamo) né per gli angeli, né per gli animali: nel primo caso non c'è una corporeità che veli, nel secondo la corporeità non ha niente da velare. Anche nello stato sopralapsario non vi sarebbe stata "complicazione. (la nudità adamitica esprime del resto questa immediata e irriflessa pneumatofanicità del somatico), anche se sarebbe comunque esistito un inconscio. Solo che esso avrebbe esplicato una funzione di supporto economizzatone delle energie psichiche, spontaneamente ed interamente integrato al dinamismo della consapevolezza, senza alcuna lacerazione o conflitto. Nello stato di natura decaduta invece lo psichismo è malato, e l'inconscio deve sobbarcarsi di nuovi (e ingrati) compiti, di una pesante mole di lavoro cui lo costringono i difficili rapporti tra un centro spirituale, che si pretende divino ed una corporeità, che invece lo vincola ad una condizione di dipendenza e di miseria. il che significa, sul piano psicologico, che l'inconscio si trova costretto ad alterare quello che sarebbe il suo comportamento in uno stato di "natura pura”, esercitandosi in contorsioni ed equilibrismi spesso non lievi. La corporeità, infatti, come abbiamo detto, diviene spesso e per molti aspetti maschera, vuoi in funzione di un nascondimento, vuoi in vista di un progetto di inganno o di dominio, così che fin dalla sua infanzia il soggetto umano non ha a che fare con dei semplici esseri umani. E ciò lo costringe ad una deforinazione dei normali processi psichici, che tende poi a cristallizzarsi nella struttura della personalità che si evolve e giunge a maturità. A questo riguardo, notiamolo en passant, l'antropologia filosofica può aiutare la scienza a discernere quanto è naturale e quanto invece è patologico e contingente nella costituzione della personalità.

L'esistenza dell'inconscio trova dunque legittimo spazio all'interno di una antropologia che riconosce una stretta connessione tra anima e corpo. Perché il discorso psicoanalitico sia fondato però occorre stabilire un altro cardine: la sostanziale identità tra la pulsione infantile e quella adulta. Solo questo infatti può rendere adeguatamente ragione della profonda influenza sull'età adulta dei traumi e delle rimozioni dell'età infantile. Sarebbe tutta da sviluppare una riflessione su questo problema, ma qui possiamo almeno affermare che tale identità è assai meglio fondata in una antropologia cristiana, che in una di tipo materialistico. Se l'uomo infatti fosse solo un aggregato quantitativo di materia, nulla ne garantirebbe la sostanziale continuità; anzi non avrebbe neppur senso parlare dell'uomo come di una realtà sostanziale, di un soggetto permanente e unitario. Invece la tradizione filosofica di matrice cristiana può concepire come l'identica forma sostanziale spirituale strutturi e determini la materia corporea nella sua evoluzione dal concepimento alla morte. Da qui, tra l'altro, deriva la sacralità della persona umana fin dal suo primo istante di vita.

In secondo luogo bisognerebbe considerare che la potenzialità ontologica non è, per la filosofia cristiana, indifferenza a qualsivoglia realizzazione: solo Dio può trarre figli di Abramo dalle pietre. La materia prima è sì potenzialità pura, ma le sostanze concretamente esistenti sono determinate, e la loro potenzialità è già orientata ad un ventaglio di attualizzazione che è tanto più ristretto quanto più elevata è la loro collocazione nella gerarchia di perfezione degli enti. La potenzialità dell'uomo, in particolare, che è al vertice del creato corporeo e che, in quanto spirito è in certo modo al di sopra del tempo, assumerà un carattere più accentuatamente orientato. Nella fattispecie l'energia affettiva, anche nel suo stato di non piena attuazione, non sarà in alcun momento della vita assente. La filosofia cristiana è, riteniamo, in grado così di fondare la compresenza di quella potenzialità (nel senso ora precisato) e di sostanziale identità (con lo stato di piena attuazione), che la filosofia materialistica è costretta a ritenere inconciliabili.

4. Considerazioni teologiche
Venendo ora a considerare la questione da un punto di vista teologico, dobbiamo ammettere che essa non si presenta a prima vista facilmente impostabile. Per la fede infatti la vita è chiamata e responsabilità, e l'uomo deve essere cosciente e libero per poter rispondere a Dio. Diversamente diverrebbero assurdi tutti gli inviti alla conversione, di cui la Scrittura è intessuta, e ingiuste le sanzioni eterne (di beatitudine o di tormento), come hanno sempre fatto osservare tutti i fautori della libertà di scelta contro eventuali obiettori credenti. L'uomo non sarà giudicato sulla sua salute, ma sulla sua santità; non sul come sarà riuscito a liberarsi dai condizionamenti psichici, ma su come avrà liberamente rinunciato al male morale.

Tutto ciò è vero, ma non esclude in nulla l'integrabilità di una vasta area di tesi psicoanalitiche. Si potrebbe cominciare col dire che, come nel caso del livello sociale o politico, l'evangelizzazione non si riduce alla promozione umana, ma certamente la implica e la incrementa quanto più è possibile. Come è giusto e doveroso promuovere forme di convivenza sociale sempre più liberanti, così lo è favorire la liberazione della psiche dai suoi condizionamenti patologici. L'una e l'altra liberazione saranno certamente subordinate alla liberazione, in Cristo, dal peccato ma non potranno risolversi in essa, se è vero che grazia e natura non sono la stessa cosa.

Scendendo più nel contenuto del problema si potrebbe altresì aggiungere che un'antropologia filosofica cristiana è in grado di spiegare che la libertà umana è sì condizionata dai processi patologici della psiche, senza perciò essere annullata. Il che collima perfettamente con l'asserto teologico per cui il libero arbitrio, in seguito al peccato originale, è al tempo stesso rimasto capace di scelta, ma inadatto ad operare efficacemente il bene. Fin qui però saremmo rimasti al livello del come. Ci pare che si attingerebbe il punto nodale della questione solo allorché ci si chiedesse perché Dio permette che una mole spesso ingente di conoscenza e di impulsi resti sconosciuta all'io consapevole, e gli renda gravoso il cammino come una pesante palla di piombo al piede. Non è questo un comportamento crudele e ingannatore, più confacentesi ad un "genio maligno” di cartesiana memoria che ad un Padre buono e amorevole?

La risposta, nella misura in cui è legittimo fornirne una, ci pare da cercare nell'ambito della possibile funzione pedagogica dell'inconscio. Una umanità perfettamente autocosciente sarebbe, oltre che antologicamente contraddittoria, moralmente presuntuosa. Diciamo meglio, per converso, che il legame con la corporeità obbliga lo spirito umano ad una condizione di dipendenza, di bisogno che induce, in sé, alla umiltà, che è appunto la riconosciuta percezione di tale bisogno. E ciò che è vero per la corporeità in genere, lo è per l'inconscio in particolare, che trova il suo fondamento proprio nell'interconnessione tra corporeità e spiritualità.

"Con l'uomo buono Tu sei buono, con l'uomo integro Tu sei integro, con il perverso Tu sei astuto" (Sal. 17), "poiché egli si inganna con se stesso nel ricercare la sua colpa e detestarla". Vi è nell'umana conoscenza tanta luce quanta basta per aderire al Bene; ma vi è anche tanta oscurità, da far cadere quanti erigono se stessi al centro ultimo di tutto, ribellandosi così a Dio, in errori che portano non già all'autodivinizzazione, bensì all'autodistruzione: -poiché - dice ancora un Salmo, il 74 - nella mano del Signore è un calice, ricolmo di vino drogato". L'uomo, che si ribella a Dio si autoinganna, la sua consapevolezza tenta di forzare gli argini della realtà, ma egli non può liberarsi davvero da quell'inconscio che come una camicia di Nesso gli strazia le carni quanto più cerca di strapparsela.

Si impone qui una precisazione, che non è altro che una applicazione a questo particolare problema della concezione cattolica del nesso tra colpa e pena. Secondo la quale tale nesso esiste, ed è ("catafaticamente") in qualche modo intelligibile anche a livello particolare: uno smodato consumo di alcolici porta facilmente alla cirrosi epatica, o un comportamento adultero può portare al naufragio di un matrimonio. Tuttavia non è meno vero che per molti aspetti tale nesso resta per noi ("apofaticamente") misterioso: non possiamo spiegarci fino in fondo perché una persona soffra più di un'altra, non possiamo attribuirlo semplicisticamente, come gli amici di Giobbe, ad un castigo per delle colpe personali. Così sarebbe teologicamente errato voler considerare ogni psicopatologia come una punizione per un disordine morale individuale.

È vero piuttosto che tutte le forme di patologia, psichica (come fisica) di cui in diverso grado tutti gli esseri umani sono affetti, siano una conseguenza del peccato originale. Resta comunque che, qualunque sia l'origine di un determinato fardello psicopatologico, esso ha, sia per la persona interessata, sia per quanti la attorniamo, il senso di una educazione alla dipendenza da Altro, per l'impossibilità di dominare e di possedere la propria vita (e l'altrui) dentro un progetto.

5. Applicazioni parlicolari
Vogliamo infine, dopo le riflessioni di carattere più teorico e generale svolte fin qui, svolgere qualche considerazione più specifica, toccando alcuni punti salienti di quella convergenza, di cui abbiamo parlato, tra scienza psicoanalitica e antropologia cristiana.

Un primo importante elemento, che avvicina l'impostazione psicoanalitica alla Weltanschaung cattolica, ben più di quanto non possa il behaviorismo, è il primato della conoscenza sulla volontà, ovvero, potremmo anche dire, della contemplazione (in senso lato) sull'azione. La sanità psicologica infatti non è attinta per un colpo di reni volontaristico, non basta modificare, comportamentisticamente, l'azione esteriore in vista di una maggior gratificazione dell'ambiente esterno. Occorre invece prendere coscienza di ciò che ha prodotto un comportamento patologico. Senza questa coscienza che è raggiunta non inventando qualcosa, ma lasciando emergere i fatti reali, e acquisendo consapevolezza sempre più profonda del proprio dinamismo psichico, non vi può essere azione psicologicamente sana. A differenza di altri indirizzi della psicologia contemporanea la psicoanalisi non si presenta come una tecnica, in qualche modo artificiosa, volta a dominare attivisticamente gli aspetti superficiali dell'umano comportamento, ma implica un profondo rispetto per la verità, per il reale in quanto tale, anche nei suoi lati sgradevoli e dolorosi. Ed è in ciò in ottimo accordo con la visione cristiana, che è permeata da un irriducibile amore per la verità e la realtà.

Un corollario di questo primo punto è l'importanza data alla memoria (seppur inconscia). L'uomo per la psicoanalisi non è, come in molta cultura contemporanea, schiacciato e risolto nella effimera evanescenza dell'istante presente, né autocreativamente proteso verso un futuro tutto da inventare: senza esserne interamente determinato, l'uomo vi appare come condizionato, o meglio, costituito dal proprio passato. Anche in questo vediamo una importante convergenza con la antropologia cristiana.

Un altro elemento, cui abbiamo già accennato, è la consapevolezza (nello stato di bisogno in cui si trova l'uomo,che solo illusoriamente si può credere padrone dei suoi atti. Ciò, come già osservava Maritain infrange la orgogliosa presunzione dell'antropocentrismo moderno, mentre ben si attaglia alla Weltanschaung cristiana, che implica la strutturale incompiutezza dell'uomo, ponendo l'umiltà come fondamento di tutto l'edificio morale. Strettamente legato a ciò sta la tesi, che Ricoeur chiama del "sospetto": al di sotto della facciata esteriore delle dichiarate nobili intenzioni, si celano spesso meschine finalità. -Un baratro è l'uomo e il suo cuore un abisso", diceva già la saggezza ispirata dei Salmi: e il realismo cristiano ben conosce l'abisso della bestialità possibile in una umanità, che è stata capace di crocefiggere il Figlio di Dio. Non si trova perciò spiazzato, né scandalizzato nel veder sgretolarsi certi miti e certe ipocrisie, che sono piuttosto proprie di un perbenismo borghese, intimamente ribelle alla Verità, e perciò timoroso della verità. Un ulteriore punto di contatto lo potremmo trovare nella concezione della non-neutralità, della significatività quindi, di tutti gli atti propriamente umani, e nel conseguente atteggiamento, che cristianamente prende il nome di vigilanza e di silenzio. Si potrà discutere il fatto che tutte le motivazioni si riassumano nell'unica componente sessuale; ma il bandire la casualità e l'insignificanza dell'orizzonte dell'agire umano ci pare quanto di meglio si potrebbe attagliare (in ambito psicoloTelegico) ad una concezione teologica e religiosa dell'esigenza. Così pure la capacità di silenzio e la consapevolezza sempre più profonda e piena della parola sono elementi comuni al Cristianesimo e alla psicoanalisi. Entrambi sanno, certo a diversi livelli e secondo diverse prospettive epistemiche, che spesso le parole non hanno il giusto valore di comunicazione della realtà, che invece dovrebbero e potrebbero avere. E tanto un turbinio interiore di pensieri, quanto la dissipazione del discorso pronunciato sono funzionari ad una distrazione dalla verità della propria vita. Il silenzio dunque, meglio la capacità di silenzio non come compressione di qualcosa di autentico, ma come capacità di smascheramento dell'illusorio, e di più nitida lettura dell'esistente. Come dei gradini, che si salgono per poi vedere meglio il panorama o come un respiro profondo, che permette poi di sentirsi meglio.

E veniamo infine a due riflessioni, miranti a indicare la direzione di superabilità di alcune rilevanti obiezioni alla psicoanalisi. Una delle accuse più forti a Freud, mossa anche da altri psicologi, è quella, com'è noto, di pansessualismo, accusa che qui noi non possiamo e non vogliamo discutere, nemmeno come calibratura della sua portata. Osserviamo solo che la psicoanalisi, correttamente intesa, non può, in primo luogo, pretendere di esaurire la conoscenza dell'uomo, ma solo di un suo livello, quella psiche che è intermedia tra corporeità e spiritualità. Circoscritto il discorso a questo piano, la tesi che tutte le componenti affettive si riannodino attorno a quella sessuale (tesi peraltro parzialmente abbandonata dalla stesso ultimo Freud) apparirebbe meno esagerata. In secondo luogo il desiderio sessuale, dilatato oltre i confini comunemente attribuitigli, verrebbe perciò stesso a perdere molto della specificità altrettanto comunemente assegnatagli, per la legge che vede l'estensione come inversamente proporzionale all'intensione. L'antropologia cristiana sa, del resto che tutta l'affettività, ultimamente e al livello del nucleo centrale spirituale, si incentra e si riconduce al desiderio primario e onniavvolgente di pienezza di felicità, il "desiderium videndi Deum" della Scolastica; questo però non vieta, anzi agevola, di concepire che la vasta molteplicità dei bisogni affettivo-appetitivi legati immediatamente alla corporeità conosca un livello intermedio di tendenziale e analogica unificazione appunto nella regione della psiche attorno al desiderio sessuale (in senso lato, come abbiamo detto). Tocchiamo da ultimo il discorso sul padre. Esso rischia di gettare una ombra di discredito non solo sulla paternità umana, cronicamente incapace di incrementare davvero la personalità dei figli, con cui è in insanabile conflitto di rivalità, ma di riflesso anche sulla paternità di Dio. Ci pare da una lato che difficilmente si possa negare l'esistenza del complesso di Edipo: troppo ampia e troppo chiara è la convergenza di testimonianze di ogni genere. D'altro lato si tratta di una situazione che non esprime la natura umana, ma il suo stato decaduto in seguito, ancora, al peccato originale. Senza cui non vi sarebbe stata conflittualità, ma rapporto sereno e positivo. Quest'ultimo è però reso possibile, anzi è esaltato in virtù della Redenzione. In Cristo è possibile partecipare alla sua figliolanza da quel Padre, da cui ogni paternità prende nome". Un Padre, che non può entrare in conflitto con i figli, poiché, essendo la Totalità infinita, non ha da temere che essi gli possano sottrarre qualcosa: né Egli può voler togliere, può solo dare, avendo dato anzitutto la vita. Non può provare alcuna invidia (quello phtonos theon proprio di un dio limitato), ma solo, se così possiamo dire, gaudio per il nostro bene e la nostra crescita. Questo quindi è il punto: considerare la conflittualità tra padre e figli come una contingenza storica (seppur universale) e non come un dato strutturale-naturale, e perciò insuperabile.

Ovviamente non pretendiamo di aver esaurito l'argomento, sul quale non si può che auspicare un continuo lavoro di approfondimento da parte dell'intelligenza cristiana in vista di un progetto sempre più completo di liberazione dell'umano.

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