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sabato 5 marzo 2011

WORK AND PLAY - INTRODUZIONE

Come precedentemente segnalato, pubblichiamo la seconda introduzione all'ultimo libro di Rudolf Allers (una raccolta di quattordici articoli), edizione curata da Alexander Batthyany, Jorge Olaechea Catter, and Andrew Tallon (Work and Play. Collected papers on the Philosophy of Psychology (1938-1963), Marquette University Press, 2008). A differenza della prima introduzione, che voleva introdurre il lettore alla vita di Allers, questa seconda si focalizza su ogni singolo articolo, recensendolo, spiegandone la genesi e la collocazione all'interno della produzione dell'autore, motivandone l'importanza. Ognuno di essi rappresenta un passo in avanti considerevole nella costruzione di una psicologia cattolica.
Ringrazio Jorge Olaechea Catter per la disponibilità nel concederci la sua pubblicazione. La traduzione è mia.

Introduzione

Alexander Batthyany & Jorge Olaechea Catter

In questo volume, vengono presentati in ordine cronologico quattordici articoli scritti da Rudolf Allers. La lista delle pubblicazioni di Allers include più di 600 presentazioni ed articoli scientifici e filosofici; ovviamente, questa collezione di articoli consiste semplicemente di istantanee che vengono esposte per reintrodurre Allers ed il suo lavoro ad un pubblico più ampio. Gli articoli presentati qui sono stati scritti tra il 1938 e il 1963, anni durante i quali Allers ha sviluppato importanti idee nuove; anche se c’è un filo conduttore comune che percorre tutto il suo lavoro. Lo stesso accade per questo libro. Infatti, se si potesse sostenere che questo volume possiede un’unica tesi o un unico argomento, essa consisterebbe nell’idea che il dialogo tra psichiatria, filosofia e teologia non è un dialogo al di là dei confini reciproci, ma un dialogo tra e sugli esseri umani. Dal momento che si dedica alla persona umana da discipline così differenti come la neurologia, la psichiatria, la psicologia, la filosofia e la teologia, Allers inizia e finisce ognuna delle sue discussioni e riflessioni con l’implicita – e spesso esplicita – ammissione che c’è qualcosa di enigmatico sull’essere una persona umana; un enigma che possiamo tentare di comprendere, ma che non possiamo risolvere facilmente. In altre parole, comprendere la personalità umana non è qualcosa che una singola disciplina possa sostenere di essere in grado di conseguire: ma ogni disciplina può aggiungere qualche conoscenza su determinati aspetti della persona umana. E’ possibile agire così solo se si comprende di essere parte di un progetto più ampio, cioè un progetto di ricerca veramente interdisciplinare – e che si astiene dal confondere la spiegazione con la riduzione. Il lavoro di Allers è esemplare a questo proposito, e discutibilmente è rimasto isolato per lungo tempo. Forse sta qui una delle ragioni del perché fu così facilmente dimenticato. Per gli psichiatri, i suoi scritti potevano esser stati troppo filosofici, per i filosofi, troppo medici, e per i teologi, troppo scientifici.
     Così, dall’inizio del suo lavoro come dottore e ricercatore, Allers non solo ha usato una gran varietà di metodi di applicazione; ma li ha chiaramente sponsorizzati. Il suo modello vede il corpo, la mente e lo spirito come aspetti di una unità nell’essere umano, le cui essenze devono essere distinte qualitativamente, per poterlo descrivere o trattare appropriatamente con un metodo unico. E Allers ha anche anticipato qualcosa che decenni dopo sarebbe entrato per la prima volta nel panorama scientifico: la tendenza a metodologie differenti si riflette oggi nella sempre maggiore interdipendenza interdisciplinare delle scienze empiriche del comportamento. In questi giorni abbiamo sentito dei richiami, e i richiami per questa questione provenivano da molte voci all’interno del campo della psicologia scientifica, per la convergenza sistematica delle attività di ricerca di differenti discipline. Rimane da verificare se questi richiami saranno ascoltati e a quale forma concreta la loro realizzazione porterà. In ogni caso, possiamo sostenere che il riconoscimento dell’esistenza non solo di una, ma di numerose scienze dell’umanità, fu un credo fondamentale della concezione di Allers dell’essere umano.
     Noi editori crediamo che l’andamento corrente nella scienza cognitiva e comportamentale fornisca una buona base per reintrodurre il lavoro di Allers ad un pubblico più ampio di lettori. Non solo ci fornisce la storia di una disciplina che è attualmente in opera – la ricerca della consapevolezza; ma anche serve da esempio di come il progetto di una filosofia della personalità non-riduzionista, ma scientificamente fondata, possa e debba esistere.

Gli articoli

1. La relazione Cause in Psychology può essere considerata l’auto-introduzione di Allers alla cultura Cattolica Americana. Arrivato negli USA da Vienna alla fine del 1937, fu invitato a partecipare al Meeting Annuale della America Catholic Philosophical Association che aveva luogo a Cincinnati (Ohio) nel Dicembre del 1938, sotto la presidenza di Padre Ignatius Smith, OP, che era anche il responsabile dell’arrivo di Allers alla Catholic University of America.
     Il documento richiama l’attenzione sull’importanza della nozione di causalità, non solo in psicologia ma anche in filosofia generale. In un tempo in cui questa nozione era stata lungamente criticata e rifiutata soprattutto nel campo della fisica, ma sempre più anche in altre scienze ed in filosofia, Allers tentò di motivare la sua necessità per una disciplina empirica come la psicologia.
     Per fare ciò, lo psichiatra austriaco descrive la specificità della ricerca psicologica, che tratta di “fatti mentali”: “L’argomentazione del fisico – dice Allers nella sua conferenza – è abbastanza incapace di “dissolvere” la nozione di causalità poiché c’è almeno un campo di realtà, cioè il campo dei fatti mentali, le cui condizioni essenziali non permettono l’introduzione dell’idea di leggi statistiche. La psicologia così fornisce una forte, anzi io credo incontestabile, argomentazione contro l’idea che la nozione di causalità si basi su di un’idea erronea di realtà”.
     Più avanti, la relazione richiama i molti fatti e problemi affrontati dagli psicologi le cui spiegazioni richiedono non solo una nozione generale di causalità (di solito identificata con la classica “causa efficiente”), ma anche una precisa definizione delle quattro cause “classiche”: materiale, efficiente, finale e formale. Alla fine, Allers sottolinea l’importanza dell’idea di analogia entis per comprendere questa questione: “Prima si diventa consapevoli del significato semplicemente analogico di causa in psicologia, prima molte difficoltà scompaiono e molti problemi si rivelano come artificiali e dovuti ad una errata filosofia”.

2. In Irresistibile Impulses: A Question of Moral Psychology, scritto per il centesimo volume di The Ecclesiastical Review (1939), Allers discute la presunta “irresistibilità” di alcuni impulsi nelle persone normali e la responsabilità (o la mancanza di essa) nel portare a termine determinate azioni.
     Questo articolo rappresenta un’applicazione interessante di alcune premesse generali sviluppate in diversi lavori di Allers degli anni ’20. L’autore sottolinea, ad esempio, che per formarsi un’opinione sull’irresistibilità degli impulsi, “noi dobbiamo considerare non questi impulsi come tali ma la totalità delle condizioni esistenti al momento dell’azione, interne ed esterne” poiché “un’azione umana può essere realmente compresa solo se viene vista nella sua totalità”. Un’altra premessa è la distinzione tra “l’oggettiva irresistibilità di un impulso e la convinzione soggettiva che sia così”.
     Allers torna alle origini dell’idea diffusissima dell’irresistibilità e trova la credenza diffusa che ci siano forze che guidano le persone a comportamenti immorali o antisociali, forze che devono essere aliene all’intelletto umano ed alla volontà: “Per salvaguardare la nobiltà e l’assoluta supremazia della natura umana queste forze devono essere soggette all’irresistibilità. […] Il meccanismo materialistico ed il determinismo morale non potrebbero mai mettersi in contatto con la mente moderna, se la nozione di peccato originale – e, di conseguenza, la natura umana - non dovesse essere prima distrutta”.
     Giungere ad un giudizio sull’irresistibilità non è così semplice come si potrebbe credere. L’analisi deve prendere in considerazione diverse distinzioni che Allers descrive brevemente: la forza della situazione può sorgere dalla forza dell’impulso, o dalla consapevolezza che il non darle sfogo potrebbe portare a qualche fenomeno intollerabile; l’irresistibilità può essere attribuita all’impulso stesso (come in certe azioni causate dalla passione), o dal desiderio di piacere (come in molti atti sessuali); l’impulso può sorgere così improvvisamente e con una tale forza da non permettere la consapevolezza, o può raggiungere il punto di irresistibilità solo dopo che ci si è arresi.
     Lo psicologo austriaco conclude che, così come non ci sono criteri oggettivi di irresistibilità, non c’è impulso che può essere considerato irresistibile in se. Tutte le generalizzazioni devono essere rigorosamente evitate in questo modo: “La cosa più importante è che ogni caso sia considerato completamente come un nuovo problema […]. Noi non possiamo sapere nulla della vera natura del presunto impulso irresistibile se non conosciamo tutto ciò che possiamo scoprire di tutta la personalità”.

3. “Un accurato studio dei dati empirici raccolti dai ricercatori sperimentali e un’analisi del vero significato della concezione Scolastica” sono i due propositi assunti da Allers nel terzo articolo, The “Vis Cogitativa” and Evaluation, che si occupa della relazione tra la ratio particularis (o vis cogitativa) e la consapevolezza dei valori. Il saggio ha due parti.
     La prima presenta alcuni aspetti dell’approccio Scolastico a questa facoltà umana: il suo oggetto proprio e le funzioni, le sue relazioni con la volontà razionale e l’intelletto, e la cooperazione tra le facoltà sensitive ed intellettive. Il riferimento va soprattutto al lavoro dell’Aquinate, riconoscendo però “che lo stesso San Tommaso non considerava il suo sistema come completo e chiuso”. Allers discute, inoltre, alcune affermazioni di Giovanni di San Tommaso nel suo Cursus Philosophicus circa i dati che permettono alla vis cogitativa di diventare consapevole di relazioni assiologiche. Seguendo il ragionamento del commentatore – conclude l’autore – “si arriva, con una certa inevitabilità, ad una concezione oggettiva dei valori”.
     Nella seconda parte, Allers propone di studiare se la nozione Scolastica della vis cogitativa sia in accordo con le scoperte della psicologia sperimentale, e soprattutto con la ricerca sull’apprensione-valore. Allers utilizza ampiamente il lavoro sperimentale di W. Gruehn nel suo Das Werterlebnis, enfatizzando le sue scoperte su ciò che chiama “l’atto di appropriazione” del valore.
     Il paragrafo conclusivo del saggio rappresenta l’emblematico punto di vista di Allers sulla filosofia, psicologia e la loro interrelazione, ed è anche rilevante ai fini del presente libro: “La situazione nella filosofia contemporanea e nella psicologia contemporanea porta alla stessa direzione. A quanto pare il divario tra questi due tentativi dell’uomo di comprendere la realtà e se stesso potrebbe diventare meno ampio. […] Ma può anche verificarsi assenza di cooperazione fin tanto che il filosofo ignora ciò che fa lo psicologo, e questo ultimo pensa che sia poco importante cosa dice il primo”.

4. Nell’articolo successivo – pubblicato nel 1942 dalla rivista Domenicana The Tomist – Allers continua la presentazione della sua ricerca sulla potenza cogitativa, riguardante, in questo caso, The cognitive aspect of emotions. Allers parte da ciò che nella psicologia tradizionale – antica e medievale – è considerato uno stato emozionale, e la sua relazione con la “situazione totale del comportamento” fino alle teorie moderne: la teoria di James-Lange-Sergi; l’idea di Max Scheler e Alexius von Meinong sugli stati emotivi e la consapevolezza dei valori; il lavoro di Soren Kierkegaard sul terrore e la disperazione; e quelli di Martin Heidegger che enfatizzano la differenza tra la paura e il terrore, la nozione ontologica del Nulla e la coscienza della finitezza e contingenza umana.
     Alla fine di questa rassegna Allers ricorda che “se è vero che gli stati emozionali, qualsiasi ruolo ulteriore essi possano avere, hanno la funzione di rivelare all’uomo, in un modo particolare, qualcosa della sua posizione nell’ordine delle cose, il suo ‘stato ontico’, e, di conseguenza, della sua natura, sarebbe estremamente improbabile che solo le emozioni negative, come il terrore o la disperazione, fossero dotate di tale potere”. Poi sviluppa un’interessante analisi fenomenologica di alcune emozioni “positive” come l’amore, lo stupore, la compassione, e l’ammirazione, giungendo ad una prima conclusione sul loro “aspetto cognitivo”: il semplice provare emozioni non offre alla mente alcun tipo di conoscenza definita se non la consapevolezza, che esse stesse forniscono, di essere unite alla riflessione.
     La parte successiva del saggio si occupa di alcune caratteristiche delle emozioni così come sono interpretate da differenti psicologi: la loro passività come semplici risposte; la loro mancanza di una peculiarità basata su altri fenomeni mentali, cioè, di presentare alla mente riflessiva vari aspetti o varie particolarità (le emozioni sono, in questo senso, “assolute”); il loro essere modificazioni di esperienza che l’ego ha di se stesso.
     A questo punto viene sollevata una domanda fondamentale: c’è qualche relazione tra l’interpretazione delle emozioni generalmente accettata e le concezioni presentate nell’articolo? “La risposta”, sottolinea l’autore, “dipende dall’idea che si ha delle situazioni in cui l’organismo, o meglio la persona […] risponde tramite un’emozione. In accordo con la tesi difesa qui, queste situazioni devono essere di una tale natura da provocare una realizzazione dello ‘stato ontico’ dell’uomo in generale e della singola persona in particolare”.
     Allers quindi risponde ad alcune obiezioni a questa posizione, concludendo che le emozioni sono solo il mezzo (l’id quo) per la consapevolezza dei valori. Esse non colgono l’aspetto del valore dell’essere di per se stesse. Questa operazione è svolta dalla potenza cogitativa; esistendo, tuttavia, “una influenza reciproca tra le emozioni (che va avanti ed indietro, per così dire) e, da una parte, i movimenti correlati degli appetiti sensitivi, e, dall’altra, la performance della vis cogitativa”.

5. The Limitations of Medical Psychology è il titolo del quinto saggio presentato in questo libro. Fu pubblicato durante la Seconda Guerra Mondiale (1942) su Thought, trimestrale della Fordham University. Benché breve, questo articolo è un buon riassunto di alcune idee che Allers aveva già presentato in diversi lavori sulla “psicologia medica”. Con questo nome lo psichiatra austriaco intende le posizioni psicologiche moderne che sorgono dalla medicina (specialmente dalla psichiatria o neuropatologia), come, ad esempio, la psicoanalisi freudiana, la psicologia individuale di Adler, la modifica di Jung alla psicoanalisi.
     Questo articolo denuncia “l’imperialismo” della psicologia medica, così lungo da “tentare di imporre le sue categorie ed idee ad altre discipline dove queste ultime non hanno applicabilità”. E questa imposizione è attuata, da una parte, su alcune discipline particolari (come l’arte o la poesia, le scienze sociali o l’educazione) i cui parametri e nozioni stanno diventando distorti, nell’analisi degli oggetti a loro propri, a causa di alcune pseudo-spiegazioni psicologiche; ma anche, d’altra parte, è attuata sostituendo l’etica o l’antropologia filosofica nel determinare cosa sia bene o male, giusto o sbagliato, o definendo gli obiettivi di altre discipline umane tramite la “spiegazione” della natura umana.
     Il soggettivismo estremo e la svalutazione della ragione, la confusione dei “fatti” con certe scoperte presentate nel linguaggio di idee preconcette, la tendenza a ridurre il più possibile il range della responsabilità, questi sono alcuni tratti che caratterizzano la moderna psicologia medica, che è colpevole di quello che Edmund Husserl ha chiamato l’errore dello “psicologismo”.
     “La nostra epoca”, dice Allers, e sembra che le cose non siano cambiate a questo proposito, “è ossessionata dalla psicologia”, e la ragione di questo fenomeno è che “i tempi recenti hanno perso una vera e completa concezione della natura umana”. Da qui l’importanza data dall’autore ad una ri-costruzione e ri-presentazione di una antropologia filosofica completa, sulla quale ha lavorato ed insegnato per tutta la vita.

6. Intuition and Abstraction nacque come risposta ai commenti di Sebastian Day, OFM, nel suo lavoro Intuitive Cognition: A Key to the Significance of the Later Scholastics (1947), in cui questo studioso Francescano cita criticamente alcuni articoli di Allers. “Tuttavia”, sostiene lo psichiatra austriaco, “non penso che una risposta puramente polemica sia di aiuto; l’idea di confutare, se fossi in grado di farlo, punto su punto le affermazioni dell’autore, non mi attrae. […] Mi sembra che possa essere cosa migliore sollevare alcuni problemi, riferire alcuni fatti, e tirare le conclusioni indipendentemente dai ragionamenti così abilmente messi a punto dal Dr. Day”.
     Su quale punto ruota tutta questa controversia? Il problema che viene dibattuto è la cognizione intellettuale dei particolari, e più precisamente l’esistenza o meno di una capacità intellettuale per l’intuizione dei particolari. In questo articolo, il rimando è soprattutto all’esperienza psicologica e ai fatti psicologici più che alla filosofia Scolastica.
     Dopo alcune brevi parole spese su alcuni problemi generali riguardo l’approccio di Day alle questioni storiche della filosofia, Allers mette a fuoco la distinzione tra “sapere” e “sapere qualcosa”, e presenta la tesi principale di questo saggio: “Devo tentare di dimostrare che ai fini di una spiegazione delle performance intellettuali non è necessario sostenere che l’intelletto conosce i particolari e li conosce più o meno allo stesso modo dei sensi”.
     Egli analizza la cognizione sensoriale, fornendo diversi argomenti a favore di una teoria che sostenga una qualche forma di mediazione anche in questo tipo di conoscenza. I cambiamenti corporali sono il medium attraverso cui un particolare oggetto materiale viene conosciuto dai nostri sensi; essi “mediano in qualche modo tra la res extra e la nostra conoscenza a riguardo”.
     Allers ha presentato i dati empirici e ha trovato che le difficoltà che la teoria della “intuizione intellettuale” incontra. Da qui trae alcune conclusioni: “l’evidenza empirica a favore di una conoscenza intuitiva dei particolari di una parte dell’intelletto è insufficiente”, “le presunte ragioni per la necessità di una conoscenza intuitiva intellettuale non sono cogenti”, e “i problemi sollevati possono essere risolti anche sulla base di una teoria che dia credito all’intelletto con la sola conoscenza astratta”.

7. Nel settembre del 1947, Rudolf Allers partecipò all’ottavo simposio della Conference on Science, Philosophy and Religion in their Relation to the Democratic Way of Life, un simposio che si occupava di “Learning and World Peace”. La conferenza di Allers – Philosophia-Philanthropia – ebbe il compito di indagare “nella fondazione razionale dell’amore romantico, e quindi di ‘filantropia’”.
     Prima di tutto, Allers risponde ad un pregiudizio diffuso contro la filosofia, cioè, che le idee teoretiche non abbiano influenza sui problemi pratici o nella formazione dell’uomo. Allers nota, piuttosto, che “anche se le forze reali che formano la vita dell’uomo fossero altre rispetto a quella della ragione, queste forze diventano effettive principalmente quando sono formulate in modo intelligibile”.
     In questo articolo Allers enfatizza due caratteristiche dello sviluppo dei “tempi recenti”. Il primo è la “depersonalizzazione” (o “deumanizzazione”), cioè, la presenza crescente di situazioni o forze che deprivano l’uomo della sua dignità; il totalitarismo rappresenta la forza più evidente dal momento che considera la persona “come uno strumento al servizio dello Stato, del Partito, o della Razza”. La seconda è il “riduzionismo”, figlio del pensiero del diciannovesimo secolo, un atteggiamento che “distrugge la molteplice natura della realtà”, degradando tutto ciò che nei tempi antichi era considerato “superiore”, specialmente alcune dimensioni della natura umana. Il riduzionismo è particolarmente forte tra le proposte etiche come, ad esempio, nell’utilitarismo moderno.
     Cosa bisognerebbe fare? Quale base teoretica è probabile che renda “umane” le nostre condizioni di vita e metta in evidenza l’amore romantico?
     Allers indica, come condizione primaria per questa “re-umanizzazione”, il riconoscimento dell’unicità umana. Ciò significa, da una parte, l’unicità della natura umana – la distinzione tra l’essere umano e qualsiasi altra natura – e, dall’altra, l’unicità di ogni persona umana, il fatto che senza alcun dubbio una persona non è intercambiabile con un’altra: “possedendo la dignità, un tipo particolare di valore, e solo in virtù di questa, egli diviene l’obiettivo di uno specifico atteggiamento personale di amore”.

8. Ethics and Anthropology è il titolo dell’articolo letto da Allers al meeting della District of Columbia / Maryland Conference della America Catholic Philosophical Association, nel dicembre del 1949.
     Per comprendere la proposta di questo ottavo saggio, è di aiuto iniziare da una delle sue frasi conclusive, che può offrire una sintesi del punto di vista di Allers sulla correlazione tra queste due discipline: “Una completa, vera antropologia filosofica che volesse rendere conto di questi fatti – salvare apparentia – è ancora un desideratum. Senza una tale base, la scienza dell’etica non può far fronte alla situazione contemporanea né rispondere con successo alle sue critiche. L’uomo ha ancora bisogno di comprendere se stesso”.
     Allers descrive l’etica enfatizzando la sua “medietà”, cioè il suo collocarsi “tra” la filosofia speculativa da una parte e l’antropologia empirica dall’altra. Poiché è una disciplina pratica, l’etica deve applicare i principi che spiega, considerando “le situazioni in cui l’uomo esiste e i fattori che determinano o modificano questa applicazione”. Inoltre, come disciplina normativa, l’etica “necessita di sapere quale sia la natura umana e le sue abilità generiche e come queste ultime siano modificate dalle condizioni personali o ambientali”.
     Oltre a queste ragioni a sostegno della cooperazione tra l’etica e l’antropologia, Allers sottolinea l’importanza di questo legame con l’obiettivo di contrastare il relativismo diffuso del nostro tempo. Fa notare le radici filosofiche – nominalismo, idealismo, positivismo, pragmatismo – dell’atteggiamento relativistico contemporaneo, ricordando, tuttavia, che a queste filosofie “si aggiunge l’incapacità della mente moderna di dare forma ad una adeguata nozione della natura umana”.
     Ne consegue il bisogno di una forte cooperazione ed interesse reciproco. Allers considera due aspetti di questo bisogno: un aspetto positivo, cioè, la dimostrazione che un certo tipo di etica è commensurata con la natura umana; ma anche un aspetto negativo, che può essere chiamato “apologetico”, cioè, la giustificazione dell’etica prima dell’antropologia. L’aspetto principale, tuttavia, rimane l’aspetto positivo: descrivere fatti e mostrare cosa gli esseri umani rivelano di se stessi.

9. In questo articolo “The Dialectics of Freedom”, una lezione tenuta alla Conference on Science, Philosophy and Religion in their Relation to the Deomocratic Way of Life del 1951 presso la Columbia University, Allers analizza il concetto di libertà dal punto di vista dei suoi limiti sociali. Affrontare la libertà attraverso la lente dei suoi limiti può sembrare a prima vista un modo di guardare la libertà piuttosto inopportuno, ma è spesso ritenuta implicitamente valida l’idea che libertà ed autorità siano mutualmente esclusive, un’idea che Allers critica. Allers sostiene che più che in opposizione, libertà ed autorità dipendono l’una dall’altra: senza autorità naturale, limiti e linee guida, non potrebbe esistere la libertà. Neppure potrebbe esistere il concetto di autorità senza la premessa di base che l’uomo può agire in modo diverso, ad esempio, ha la libertà di scegliere il suo comportamento. Se così non fosse, il vero concetto di autorità sarebbe senza senso: l’autorità esercitata sulle persone che non sono libere non sarebbe autorità del tutto, ma semplicemente una affermazione o una disapprovazione di cosa accadrebbe ugualmente. Dal punto di vista della persona su cui viene esercitata una autorità, tuttavia, la domanda importante è: per quali scopi, e in quali modi utilizzo la mia libertà; e come mi relaziono all’autorità? L’ultima domanda dà ad Allers l’opportunità di far notare che entrambi i termini non sono solo collegati (in una relazione dialettica), ma possono essere coerentemente tenuti assieme da una premessa di valori oggettivi. Altrimenti, libertà e autorità cesserebbero di essere collegate, per entrambe vorrebbe significare nient’altro che la semplice arbitrarietà che, come Allers sottolinea, pregiudica sia la libertà che l’autorità. Insomma, l’autorità cessa di opporsi alla nostra libertà e ci offre l’opportunità di essere all’altezza dei valori oggettivi solo se viene riconosciuto un ordine oggettivo, poiché solo così siamo in grado di giudicare l’autorità e solo così siamo capaci di comprendere l’autorità dei valori che ci guida attraverso la nostra libertà. Allers chiude questo articolo con un caloroso appello ad applicare queste idee e concetti alla vita quotidiana, e soprattutto alla vita politica:
Due parole dovrebbero essere scritte così che ognuno possa possederle prima dei suoi occhi. Dovrebbero ornare i muri delle nostre scuole, e dovrebbero risuonare nelle menti di ogni cittadino:
La democrazia obbliga.

10. La filosofia di un autore dipende dal tipo di persona che lui o lei è? Questa è la domanda che Allers prende in esame nell’articolo “Psychiatry and the Role of Personal Belief” (1955). Mentre Allers è d’accordo che i nostri tratti e le nostre disposizioni di personalità influenzino il nostro modo di vedere il mondo, non è assolutamente d’accordo con il punto di vista riduzionista che è alla base dell’idea secondo cui la filosofia di vita di un autore necessiti di non essere giudicata, ad esempio, sulla sua validità e coerenza. In altre parole, Allers sostiene che non si possa scavalcare il sistema di credenze razionali o cognitive di una persona guardando semplicemente i processi mentali inconsci. Così, quando ci si pone la domanda iniziale c’è almeno da chiedersi, secondo Allers, se il tipo di persona che uno è non dipenda anche dalla filosofia di vita che adotta. Quando si giunge alla psicopatologia, queste domande diventano sicuramente importanti: dal momento che una filosofia di vita descrive la realtà di una persona, offre le linee guida attraverso cui iniziare ad accettare e far fronte a quella realtà. Certamente, quindi, attitudini, convinzioni, e concezioni generali della realtà possono predisporre una persona ad alcuni disordini psicologici, o possono influire sulla gravità e forma di alcuni disordini soggiacenti. Di conseguenza, c’è una relazione complessa tra la visione del mondo e la psicologia – una relazione troppo complessa per essere risolta, o dissolta, da una piccola serie di premesse che attraverso la semplificazione dovrebbero ridurre uno o più dei molti fattori in gioco. Allers fa un’importante distinzione tra “causa e persona”, una distinzione così netta che aggiunge la parola “contro” tra le due precedenti. Qualsiasi resoconto meccanicistico della psicologia delle visioni del mondo tralascerebbe il fatto che la filosofia di vita di un autore è un’espressione individuale del suo impegno nel comprendere se stesso ed il mondo. Nessun resoconto semplicemente causale coglierà mai come una persona navighi nel mondo, ed una volta che questo fatto viene riconosciuto, i modi di vedere e i processi psicologici iniziano a diventare elementi irriducibili di una totalità indivisibile: Allers critica, ad esempio, la psicoanalisi ed altre scuole di psicologia meccanicistiche per il fatto di dimenticare questo punto cruciale, per il fatto che anche se ci fosse una teoria completamente causale (ad esempio, psicologicamente deterministica) del perché una persona aderisce ad una specifica visione del mondo, la visione del mondo come tale non sarebbe riconosciuta, tanto meno compresa come modo individuale di una persona di vedere se stessa ed il suo posto nel mondo. Alla fine, Allers passa in rassegna da vicino quello che chiama le “due strade percorribili per l’uomo”:
Quando l’uomo realizza, non solo teoricamente ma con tutto il suo essere, quale sia la sua natura – quella di un essere finito con infinite possibilità – sembrano esserci due strade percorribili per lui. Una strada è quella dell’auto esaltazione, il tentativo insensato di innalzare se stesso al livello dell’assoluto. Egli quindi cade nella disperazione […].
     L’altra strada è quella di fede. Questa è la strada di Gabriel Marcel. Ma una fede che è capace di trasformare l’essere umano deve essere molto più che l’accettazione di certi principi e la realizzazione di certi doveri. Essa deve divenire una cosa sola con l’essere della persona.
     Così come per il ruolo delle credenze personali, Allers sostiene che le visioni del mondo svolgono un ruolo veramente importante nello sviluppo e nel mantenimento dei disturbi mentali, ed allo stesso tempo sottolinea che non è compito della psicoterapia convertire i suoi pazienti né indottrinarli. Ma: “E’ compito – e gloria – della psicoterapia aiutare un uomo preso nella rete della nevrosi, e così deprivato della libertà di decidere della sua vita, mostrandogli il modo di arrivare ad un’immagine vera di se stesso e del suo posto nell’ordine delle cose, del suo compito e della sua speranza”.

11. Nel 1960, Allers ricevette la Thomas Aquinas Medal per i suoi contributi eccezionali alla filosofia ed alla psicologia; dedicò il suo discorso all’argomento della cooperazione e comunicazione. Allers iniziò il suo discorso sottolineando che l’onore di uno studioso non risiede molto in chi egli sia e nella sua biografia, ma per ciò che ha realizzato come studioso e professore. E’ questa precisazione che prepara il terreno per la discussione sui termini comunicazione e cooperazione. Entrambi i termini, secondo Allers, sono gli elementi base dai quali la filosofia – in verità tutte le scienze – può evolvere e svilupparsi. Ovviamente, nella vita quotidiana, sia la comunicazione che la cooperazione sono importanti, ma quando giunge il nostro tentativo di comprendere l’uomo ed il suo posto nel mondo, seguiamo i passi dei grandi pensatori del passato, che ci comunicano (attraverso i lavori e le idee che ci hanno lasciato) come noi cooperiamo con loro (comprendendo ed espandendo i loro lavori e le loro idee); lo stesso rimane vero nella relazione con le generazioni future: comunichiamo non solo con i nostri contemporanei, ma anche con le generazioni future grazie a quello che noi stessi lasciamo indietro, e cooperiamo con loro assicurando che i lavori dei nostri predecessori rimangano disponibili. Così, mentre le vite individuali sono transitorie, il tentativo dell’uomo di comprendere la vita e le sue leggi, sia filosofiche che fisiche, è una successione costante di cui i singoli elementi sono tenuti assieme dalla cooperazione e dalla comunicazione.

12. Nell’articolo successivo, “Ontoanalysis: A New Trend in Psychiatry”, pubblicato nel 1961 negli Atti della American Catholic Philosophical Association, Allers cattura l’attenzione dell’auditorio riflettendo sulla corrente continentale del movimento psichiatrico esistenzialista che iniziò in Europa attorno al 1930. L’articolo rispecchia molto la storia delle idee nella psichiatria americana, dove la psichiatria esistenzialista arrivò con un ritardo di più di 30 anni; oltre all’inquadramento storico, questo articolo contiene un’analisi interessante e particolarmente approfondita delle promesse e delle trappole insite nel portare un punto di vista filosofico decisivo ed esplicito nella pratica psicoterapeutica e psichiatrica. Notando che il termine “psichiatria esistenzialista” (o, come preferisce chiamarla: ontoanalisi) rappresenta un ampio numero di scuole di pensiero differenti, Allers sostiene che il comune denominatore di queste diverse accezioni sia il riconoscimento dell’unicità della persona. Non importa quanto suoni promettente questo programma, Allers fa comunque notare che una volta che la filosofia e la psichiatria si focalizzano sull’individuo piuttosto che sul disturbo, esse si scontrano con un grave problema metodologico ed epistemologico - cercano di rivolgersi all’essere umano ed alla sua personale situazione di vita, la sua condotta, la sua biografia, i suoi impegni e i suoi desideri, ed anche, allo stesso tempo, tentano di presentare delle linee guida generali per comprendere quello stesso individuo, perciò, sacrificando l’idea di “individualità”, in quel istante cercano di esprimere verità generali sugli individui piuttosto che su di uno solo.
     Il problema aperto in questo contesto è più metodologico che epistemologico e, nell’attuale filosofia della mente, è meglio conosciuto come l’asimmetria epistemica tra la prospettiva della prima e della terza persona, eccetto che, in questo caso, il problema della relazione tra descrizione oggettiva e soggettiva consista anche in una questione di disordine e salute mentale.
     Infatti, le scuole esistenziali di psichiatria affrontano un dilemma che molti psichiatri incontrano la prima volta che tentano di conoscere il mondo soggettivo del paziente, o anche semplicemente la diagnosi. In questo tentativo di colmare il gap tra individualità e generalità, la psichiatria esistenzialista dibatte per una espansione della nostra comprensione del paziente e del suo mondo soggettivo. Mentre Allers giudica questo programma filosofico come un’aggiunta benaccetta e necessaria alla psichiatria ed alla psicoterapia, critica un malinteso comune della psichiatria esistenziale, cioè, l’idea che la sola alternativa al positivismo ed allo scientismo di una psichiatria che deriva dalla semplice prospettiva della terza persona sia il dissolvimento della distanza tra oggettività e soggettività, e con essa la rinuncia ad ogni speranza per un confronto oggettivo sui processi mentali e sul mondo soggettivo. Ma, come Allers sottolinea, “non dovrebbe essere dimenticato che uno può fare affermazioni oggettivamente valide su dati soggettivi”. Un’alternativa razionale – Allers accenna solamente questo programma in questo piccolo articolo – potrebbe essere il seguire esattamente ciò che implica la metafora della prospettiva: comprendere che uno che sta conoscendo è costretto a rimanere limitato se si riduce la persona umana ed il suo mondo esclusivamente ad una sola prospettiva (o nega qualsiasi altra prospettiva) invece di accettare la portata e i limiti di ogni strada alla realtà del paziente, del mondo e del terapista.

13. Secondo un proverbio ben noto, c’è un tempo per giocare e c’è un tempo per lavorare. Ma quando si arriva a formulare una chiara definizione di cosa separi il lavoro dal gioco, siamo spesso in difficoltà. Uno potrebbe sostenere, ad esempio, che il lavoro è una cosa seria mentre il gioco non lo è, ma come giustamente Allers sottolinea nell’articolo seguente, “Work and Play” (1962), i bambini sono spesso molto seri quando giocano, e così anche molti adulti, ad esempio, quando giocano a tennis o a scacchi. Preso atto che non è facile distinguere chiaramente ed inequivocabilmente le due attività, un certo numero di educatori suggerisce che la distinzione sia più una questione di semantica che una differenza reale. E’ esattamente su questo punto che Allers esprime il suo completo disaccordo. Critica specialmente una tendenza della psicologia dell’educazione che suggerisce che l’inserimento al lavoro di un ragazzo dovrebbe essere spensierato, una moda che tenta di cancellare la differenza tra lavoro e gioco. Certamente, una tale critica necessita di essere sollevata prima di tutto contro una definizione fattibile di lavoro e di gioco, cosa che costituisce il perché Allers dedichi la gran parte di questo articolo nel definire i criteri di lavoro e gioco: il lavoro, secondo Allers, è un’attività che è diretta ad un obiettivo al di là dell’attività di lavoro come tale (e così è intenzionale), mentre il gioco ha solo un unico obiettivo, cioè il piacere. Mentre il lavoro è teso al cambiamento o al progresso di qualcosa, il gioco è una finalità in se stessa. Cosa importante, questa differenza inoltre influisce sulla risposta emozionale al lavoro: la gratificazione del lavoro e la gratificazione del gioco sono entrambe dirette alla meta e dirette ad uno stato: il lavoro è un’esperienza gratificante se accompagnata dal successo e dalla realizzazione, mentre il gioco è un’esperienza gratificante come tale – dà piacere. Contro questo background, Allers sostiene che entrambe le attività sono parti importanti della vita di una persona, a condizione che la distinzione tra le due sia mantenuta e compresa. Il gioco permette ai ragazzi di scoprire le proprie abilità ed i propri limiti, ma con la maturità diviene responsabilità per gli scopi verso cui le persone mettono in campo le proprie abilità. L’offuscamento della distinzione tra gioco e lavoro è perciò altamente problematica dal momento che non permette di riconoscere cosa distingue il primo dall’ultimo: l’orientamento ai valori, la responsabilità, e la sincerità che le persone mature devono portare al loro lavoro, non importa quanto spensierati essi possano essere.

14. L’ultimo saggio ed il più corto (“The Freud Legend”, pubblicato postumo nel 1964) si distingue dagli altri articoli di carattere più filosofico, raccolti in questo volume, per essere soprattutto uno studio psicologico che contribuisce alla storia delle idee tanto quanto la biografia di Sigmund Freud. Allers, che una volta era un seguace di Sigmund Freud ed un testimone oculare della storia dello sviluppo della psicoanalisi in Austria (fino al 1937), condivide la sua prospettiva sul giovane movimento freudiano e scova un certo numero di false rappresentazioni consce o inconsce sia nei ricordi personali di Sigmund Freud sia nei lavori biografici dei suoi seguaci, e tenta di fornire un punto di vista correttivo della storia dei primi psicoanalisti; il suo studio è un’importante testimonianza storica.

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