A conclusione del percorso sull'antropologia filosofica sviluppato nella "trilogia" di Rudolf Allers sulla vis cogitativa, pubblichiamo un bell'articolo del prof. Martin F. Echavarria, direttore del dipartimento di psicologia dell'università Abat Oliba di Barcellona. Seguace del pensiero allersiano e psicologo tomista, Echavarria approfondisce un concetto estremamente importante: l'esperienza. Che cos'è l'esperienza? Quando si "fa" esperienza? "Il concetto di esperienza è provare giudicando", dice Luigi Giussani (in Savorana A., Vita di don Giussani, Rizzoli, Milano 2013, pag. 762). Ma come si formula questo giudizio? Come si giunge a valutare la prova? La contemporaneità riduce l'esperienza al "sentire", al "provare". Molti genitori consigliano ai figli di "provare...provare...provare". Ma agire non implica il capire, cioè il cogliere l'utilità o la convenienza di un'azione per la propria vita.
Non basta provare tante volte per essere esperti, per avere "esperienza": "per acquisire esperienza non basta sentire passivamente, e neanche agire. Uno psicologo esperto non è solo colui che ha visto molte persone in delle situazioni cliniche particolari, né colui che è stato con molti pazienti o clienti. Esperto è colui che ha l’abitudine di valutare correttamente la situazione, evidentemente, tra l’altro, per averlo fatto in molte occasioni" (Echavarria, nel testo seguente). Come si può avere l'abitudine a valutare correttamente? Ancora una volta entra in gioco la vis cogitativa, quella facoltà tipicamente umana che forse, più di altre, rappresenta il raccordo tra l'antropologia tomista ed il concetto moderno di mente. La vis cogitativa svolge una "attività comparativa o valutativa" ossia paragona le "prove" tra di loro e, in accordo con l'intelletto, con il fine ultimo dell'uomo, che nel linguaggio tomista è detto beatitudine, e che oggi chiamiamo felicità. Solamente giudicando la prova possiamo capire se quell'esperienza è utile alla vita oppure nociva, o solo un divertissemant, o una distrazione, ecc. Tale dinamica - tipicamente umana, come approfondisce Echavarria - comporta delle inevitabili conseguenze sul piano personale e sul piano educativo, anche all'interno di una relazione psicoterapeutica.
Non basta provare tante volte per essere esperti, per avere "esperienza": "per acquisire esperienza non basta sentire passivamente, e neanche agire. Uno psicologo esperto non è solo colui che ha visto molte persone in delle situazioni cliniche particolari, né colui che è stato con molti pazienti o clienti. Esperto è colui che ha l’abitudine di valutare correttamente la situazione, evidentemente, tra l’altro, per averlo fatto in molte occasioni" (Echavarria, nel testo seguente). Come si può avere l'abitudine a valutare correttamente? Ancora una volta entra in gioco la vis cogitativa, quella facoltà tipicamente umana che forse, più di altre, rappresenta il raccordo tra l'antropologia tomista ed il concetto moderno di mente. La vis cogitativa svolge una "attività comparativa o valutativa" ossia paragona le "prove" tra di loro e, in accordo con l'intelletto, con il fine ultimo dell'uomo, che nel linguaggio tomista è detto beatitudine, e che oggi chiamiamo felicità. Solamente giudicando la prova possiamo capire se quell'esperienza è utile alla vita oppure nociva, o solo un divertissemant, o una distrazione, ecc. Tale dinamica - tipicamente umana, come approfondisce Echavarria - comporta delle inevitabili conseguenze sul piano personale e sul piano educativo, anche all'interno di una relazione psicoterapeutica.
La conoscenza vera,
nella vita personale, nella psicología e nella psicoterapia
Universitat Abat Oliba CEU
(Barcellona, Spagna)
Abstract
Mentre
gli animali sono per natura chiusi nel limite del mondo che li circonda, vale a
dire di significati legati alle loro necessità biologiche, l’uomo, per la sua
anima spirituale, è aperto al mondo, cioè alla realtà medesima delle cose. La
complessa struttura psicologica dell’uomo e i suoi numerosi squilibri
emozionali, che provengono in ultima istanza, dallo status naturae lapsae,
espongono l’uomo a molteplici devianze cognitive e addirittura alla possibilità
di rinchiuderlo nel circolo delle sue necessità animali. Questi due estremi, la
capacità dell’uomo di trascendere il carattere utile o piacevole di ciò che
appare nella sua esperienza per raggiungerne la natura, come la possibilità e
la realtà del disordine che impedisce la conoscenza vera, hanno conseguenze
pratiche importanti in vari ambiti (la conoscenza di sé, le relazioni interpersonali,
la relazione psicoterapeutica, l’educazione) che verranno presi in esame in
questa relazione.
Introduzione
Normalmente
si ritiene che la differenza fondamentale tra l’uomo e gli altri animali sia la
capacità del primo di raggiungere una conoscenza vera della realtà, mentre i
secondi si fermano all’apparenza. È certo, tuttavia, che in molti uomini ciò
non si verifica, ma che al contrario hanno una visione illusoria ed egocentrica
della realtà. Lo scopo di questa relazione è approfondire le cause di questo
fenomeno e mettere in rilievo la centralità della conoscenza vera tanto nella
vita personale, quanto nell’esercizio della psicoterapia. Nelle nostre analisi
seguiremo i principi filosofici di San Tommaso d’Aquino, i cui insegnamenti in
ambito psicologico godono di grande attualità[1],
mentre le possibilità pratiche nel settore della psicologia e della
psicoterapia devono tuttavia essere sviluppate.
1. L’esperienza
Consideriamo
come punto di partenza l’analisi dell’esperienza. La parola “esperienza” si
utilizza in due accezioni diverse. In primo luogo si considera “esperienza” la
percezione significativa che impegna una sorta di giudizio di valore sulla
realtà. Una cosa è sentire e immaginare, un’altra è cogliere il valore concreto
di una cosa. In secondo luogo si può intendere l’esperienza nel senso che
Aristotele attribuisce a questo termine (empeiría)[2].
In questo senso chiamiamo esperienza l’insieme dei ricordi (cioè di
esperienze secondo la prima accezione al termine) di cui conserviamo memoria. Per
distinguere a quale dei due sensi del termine ci stiamo riferendo, chiameremo
il primo “vissuto”[3] e il
secondo “esperienza”. Nel vissuto, oltre all’oggetto percepito si fa
riferimento vitale al soggetto che percepisce. In ogni vissuto la realtà è
percepita in connessione fondamentale con con il soggetto che percepisce. Se il
vissuto fa parte dell’esperienza, e se in ogni esperienza è implicata la
relazione con un soggetto che esperimenta, in ogni esperienza esiste un
riferimento al soggetto dell’esperienza. Esistono inoltre esperienze nelle
quali valutiamo le nostre stesse qualità, azioni, passioni (configurando ciò
che normalmente viene chiamato “l’autoconcetto”).
Ciò che qui chiamiamo esperienza non
è il semplice accumulo di sensazioni e idee. La psicologia degli ultimi
trent’anni (a partire dalla cosiddetta “svolta cognitiva”), ha riscoperto che
il vissuto, umano ma anche animale, è un processo nel quale il soggetto vivente
svolge un ruolo attivo (anche se la psicologia, influenzata da un’epistemologia
post-kantiana non ha dato una spiegazione adeguata di questo carattere attivo,
compromettendo la possibilità di conoscenza della verità). Un cacciatore
esperto, un giudice esperto, uno psicologo esperto, eccetera, è un cacciatore,
un giudice, uno psicologo che per molto tempo ha svolto tale attività, e che
per questo è adatto a giudicare o valutare correttamente ciò che si riferisce
all’ambito nel cui è esperto (la caccia, la giustizia, il comportamento umano).
Tuttavia per acquisire esperienza non basta sentire passivamente, e neanche
agire. Uno psicologo esperto non è solo colui che ha visto molte persone in
delle situazioni cliniche particolari, né colui che è stato con molti pazienti
o clienti. Esperto è colui che ha l’abitudine di valutare correttamente la
situazione, evidentemente, tra l’altro, per averlo fatto in molte occasioni.
Sulla formazione di questa abitudine torneremo più tardi perché è fondamentale
tanto per la conoscenza vera quanto per la falsa.
Ciò che forse abbiamo spiegato con
un linguaggio un po’ confuso, lo diceva già più semplicemente san Tommaso
d’Aquino, approfondendo il concetto di empeiría aristotélica, nel
trattare la formazione dell’experimentum partendo dall’attività
valutativa della ratio particularis o cogitativa e conservato
nella memoria. L’experimentum è un insieme di intentiones che è
ciò che qui abbiamo chiamato vissuto. Le intentiones riunendosi
in complessi costituiscono l’ esperienza[4].
Diceva l’Aquinate:
Ma per quanto riguarda la memoria degli
uomini, ciò che segue é l’esperienza (experimentum), di cui alcuni
animali partecipano solo in parte. L’esperienza si forma infatti attraverso
il confronto di singoli elementi recepiti dalla memoria. Questo tipo di
confronto è proprio dell’uomo e appartiene alla forza cogitativa, che
viene chiamata ragione particolare; essa compara le singole intenzioni come la
ragione universale le intenzioni universali. E, siccome a partire da molte
sensazioni e ricordi gli animali si comportano in modo tale da cercare o
evitare qualcosa, sembra perciò che partecipino in qualche modo
dell’esperienza, anche se poco[5].
Secondo
questo testo, la memoria non solo conserva le distinte percezioni valutate, ma
conserva anche l’esperienza o experimentum, che si realizza attraverso
il paragone dei singoli ricordi e conoscenze, con l’aiuto della ragione
particolare[6]. Vale
a dire che la connessione stessa tra i ricordi, conservati nella memoria, é
soggetta all’attività comparativa e valutativa della ragione particolare. L’experimentum
é il prodotto più elevato delle facoltà sensoriali e, guidato dalla ragione
universale, svolge un ruolo fondamentale nella vita pratica. Questa è la realtà
a cui si riferiscono gli psicologi del profondo, all’interno di un’altra
tradizione attualista, che proviene dall’empirismo e da Herbart, quando
utilizzano il termine complesso. In ogni complesso é implicato un
soggetto che valuta e inoltre esiste un complesso che contiene le immagini e le
valutazioni di me stesso[7].
Ma non posso chiamare veramente “io” questo complesso di valutazioni su me
stesso. “Io” è un termine riservato per riferirsi alla persona nella sua
totalità e non alle rappresentazioni della medesima.
Forse l’experimentum é
approssimabile, anche se dentro un quadro teorico differente, che sarebbe
difficilmente paragonabile al tomismo, a ciò che la psicologia cognitiva,
seguendo Piaget, chiama schemi, ma non conviene forzare troppo il
paragone perché si corre il rischio di una confusione teorica[8],
visto che tutte queste posture teoriche suppongono: una concezione evoluzionista
dell’intelligenza, che non si distinguerebbe essenzialmente dai sensi; l’attualismo,
che nega le facoltà dell’anima (e l’anima stessa); una concezione funzionalista
della conoscenza, totalmente subordinata alle necessità biologiche[9].
In tale maniera, non sono in grado di distinguere l’intelligenza umana dalla
cosiddetta “intelligenza animale”, che è qualitativamente diversa; e
soprattutto diventa impossibile concepire l’uomo come capace di una conoscenza
vera, non orientata né modellata dalle necessità biologiche.
2. Esperienza animale ed
esperienza umana
Sperimentare
é un modo particolare di essere nel mondo[10].
Generalmente si differenzia l’uomo dall’animale dicendo che l’animale
irrazionale è incapace di andare oltre il mondo che lo circonda (Umwelt),
oltre ciò che gli rendono evidente le sue necessità biologiche, invece l’uomo è
aperto al mondo aldilà del mondo circostante (diremmo quodammodo omnia...).
Come dice Gehlen:
Uexküll paragona la sicurezza con cui
l’animale si muove nel suo mondo circondante a quella dell’uomo nella sua casa.
In questa casa l’animale trova cose che conosce già da molto tempo; vale a dire
elementi “portatori di un significato” per la sua specie (il suo cibo, i suoi
sentieri, la suo compagno, i suoi nemici). Molti animali all’interno di tutta
la ricchezza possibile del mondo, percepiscono solo poche figure (Gestalt),
colori, odori, suoni: percepiscono solo quelli che partono dai suoi specifici
portatori di significato[11].
L’animale
non solo percepisce, addirittura valuta (grazie alla sua vis aestimativa).
Ciò significa che ha una forma più o meno sviluppata di esperienza, a seconda
della specie animale di cui si parli. Tuttavia, in questa valutazione l’animale
è spinto dalle sue necessità biologiche, sia a livello istintivo che, in quelle
specie superiori che possono avere una forma più elaborata di esperienza, per
apprendimento[12].
Alcuni da questi sembrano raggiungere una certa forma di razionalità[13].
Si tratta però di una razionalità o di una intelligenza non univoca rispetto a
ciò che dicevamo riferendoci all’uomo, in quanto non è aperta né
all’universalità, né alla conoscenza dell’essenza delle cose, al di là
dell’utilità che possono avere o del piacere che possono procurare (è una forma
di sviluppo della estimativa che diventa quasi cogitativa).
Secondo Gehlen:
Ciò significa che il concetto ben definito e
esattamente biologico di mondo circondante, non é applicabile all’uomo, visto
che proprio nel luogo dove si trova il mondo circondante per gli animali, nel
caso dell’uomo si trova la “seconda natura” o la sfera della cultura, con i
suoi problemi specifici e la formazione di concetti che non possono essere
compresi nel concetto di ambiente ma al contrario da questo non ostacolati[14].
In
realtà se l’uomo non rimane chiuso nell’ambito ristretto delle sue necessità
biologico-organiche é perché é dotato di una “ragione universale” o
intelligenza nel senso stretto della parola. Senza riconoscere la peculiarità
della comprensione umana, non si può spiegare adeguatamente la differenza tra
l’esperienza dell’uomo e il resto degli animali. Da questa incapacità deriva il
malinteso funzionalista e biologitsta dell’intelligenza che abbiamo citato in
precedenza.
Esiste nell’uomo una facoltà di
pensiero concreto, la “ragione particolare” o “cogitativa”, e una
facoltà di pensiero universale, la “ragione universale”[15].
Il vissuto e l’esperienza propria e specifica dell’uomo implicano una
collaborazione di entrambe le capacità, una collaborazione che sia presieduta
gerarchicamente dalla ragione universale, o intelletto, nel senso proprio del
termine. Per questo, in un certo senso è possibile chiamare l’intelletto “Io”,
non perché io mi riduca al mio intelletto, neanche perché io mi identifichi con
esso, bensì perché esso è il centro direttivo del mio comportamento umano in
quanto tale[16]. Ma
noi esseri umani, per poter pensare le cose materiali individuali, abbiamo
bisogno di coniugare il pensiero universale e il pensiero concreto. I nostri
concetti universali possono riferirsi a cose particolari (materiali) solo
attraverso la mediazione della ragione particolare[17].
La stessa vita emozionale e sensitiva è mossa in modo prossimo e omogeneo
dall’immaginazione e dalla cogitativa, mentre la ragione universale
interviene solo in modo mediato[18].
Ad ogni modo, occorre riconoscere
una certa autonomia del pensiero concreto nell’uomo, che possiede tanto la
ragione universale quanto la particolare. Senza comprendere questa certa
autonomia, nell’uomo, dei processi di valutazione ed esperienza “animali”, non
possiamo capire in modo adeguato la formazione della personalità umana, il suo
funzionamento e tanto meno il suo squilibrio.
3. L’apertura della
mente all’essere, alla verità e al bene e alla vita personale
La
peculiarità dell’esperienza umana apre il nostro sguardo alla dignità della sua
modalità personale di essere. Se l’uomo è aperto al “mondo”, oltre al mondo
circostante che gli manifestano le sue necessità organiche, è grazie alla sua
ragione o intelletto, ciò che i classici chiamavano mens o nous.
La mente rende capace l’uomo di superare l’immediatezza e il limite dei dati
che gli presentano i sensi, e del carattere egocentrico e biocentrico del
giudizio dell’estimativa, e di avere un’apertura in qualche modo infinita per
avere come orizzonte l’essere[19].
È una caratteristica propria delle
menti il ricevere l’essere in un modo o in una forma non limitata dalla materia
(anche se lo è per un’essenza finita). Questo possesso immateriale dell’essere
è il fondamento della sua capacità di riflessione, che rende quelle vite
intime, interiori, e per questo, il massimo grado di vita. La stessa attualità
immateriale è il fondamento, nell’anima umana, della sua luce connaturale, che
la rende capace prima di tutto, di concepire l’ente e i principi primi, a
partire dall’esperienza sensibile e attraverso questi rendere intelligibile in
atto il suo “mondo”[20].
Rendere intelligibile significa fare presente la natura delle cose. Negare
l’esistenza di nature o essenze è correlativo alla negazione dell’autentica
capacità intellettiva. Senza la conoscenza delle essenze, l’intelligenza si
riduce ad uno strumento di adattamento, alla capacità di risoluzione dei
problemi, però cessa di essere la facoltà di conoscere ciò che sono le cose. Da
un punto di vista pratico, dalla negazione delle nature deriva l’illusione
secondo la quale l’uomo si costruisce da solo, radicalmente, in modo autonomo,
senza alcuna regola esterna al suo proprio desiderio (come sarebbe la sua
essenza o la legge naturale che si appoggia su di essa).
Per lo stesso fatto che deriva dalla
autopossessione della mente, notitia habitualis sui, che costituisce la
verità ontologica delle creature spirituali; per questo stesso fatto la luce
connaturale dell’intelletto è la “luce della verità partecipata in noi, e che
ci fa conoscere la verità, a partire dalla verità dei principi primi , e da
questi, ci fa conoscere le altre verità alle quali, essendo creature finite,
abbiamo un accesso limitato naturalmente[21].
Ciò vale tanto per la conoscenza vera di tipo speculativo, cominciando dai
principi che appartengono al habitus dell’intelligentia, quanto per quelli che
appartengono alla sfera della synderesis, il cui primo enunciato ci
spinge a cercare il bene e ad evitare il male. È proprio da questo autopossesso
attraverso il quale uno ha notitia sui, che per natura si possiede anche
un amor sui, un pondus o ordo, che inclina il nostro
appetito alla felicità, che consiste precisamente nel godimento della verità (Gaudium
de veritate). Non esiste realizzazione umana né gioia vera se non nel
riposo nella verità ultima per la quale la nostra anima sospira.
Proprio in questa tripla dimensione
dello spirito, mens, notitia e amor, che corrispondono al
possesso ontologico, da parte della creatura spirituale, della verità e del
bene (da cui a sua volta deriva la capacità di riconoscere la verità e la coaptatio
al bene), e nella sua attualizzazione (memoria, intelligenza, volontà) consiste
il carattere dell’immagine di Dio[22].
Per il suo carattere finito, il possesso immateriale di un essere limitato, la
manifestazione di una verità parziale e l’amore di un bene imperfetto, incitano
la nostra mente (se il suo impeto non viene coartato), al ricordo, la
conoscenza e l’amore di Dio come sorgente e culmine di ogni essere, verità e
bene, egli stesso, Essere, Verità e Bene primo e fonte. Ciò si conquista
perfettamente solo attraverso la grazia (in questa vita) e la gloria (nella
vita futura).
Questo possesso ultimo dell’essere,
della verità e del bene, è ciò che ci costituisce in quanto persone, che “è
quanto di più perfetto esista in tutta la natura”[23].
Il possesso di queste dignità proprie dell’essere persona, si traducono
nell’ordine della disposizione operativa, in ciò che si suole chiamare
personalità, che non è altro che la manifestazione e il perfezionamento del
nostro essere persona attraverso l’habitus (nel suo senso classico di
“modo di essere”), che predispongono alla perfezione attuale e finale[24].
Possiamo quindi definire la personalità come quell’organizzazione operativa
stabile di un uomo in quanto rivelativa e perfezionativa del suo essere
personale[25].
Anche se il nostro essere individui dipende da una materia signata
quantitate, e anche se questa individualità è parte di un’unica persona, il
fatto di essere persona deriva soprattutto dal nostro modo di essere. La stessa
cosa avviene ad un livello operativo. Pur avendo disposizioni cognitive ed
emozionali innate che dipendono dalla nostra costituzione fisica, la nostra
personalità si completa solo nell’intimità della nostra mente.
4. Difficoltà per la
conoscenza vera nella vita personale umana
Tuttavia,
nonostante l’uomo, come tutti gli esseri spirituali, è luminoso, è anche la
minore tra le creature spirituali, e il suo intelletto, rispetto
all’intelligibile, si trova all’inizio solo in potenza, in quanto lo deve
ricavare dalle immagini (phantasmata)
che gli vengono presentate dalle facoltà cognitive inferiori[26].
Ciò spiega perché la conoscenza della verità da parte dell’uomo sia un compito
arduo che si svolge nel tempo, comprendendo anche molte generazioni (da ciò
deriva l’importanza della tradizione). Lo stesso sviluppo della scienza
(perfino della principale delle scienze, la teologia) testimonia quanto detto.
Questa conoscenza risulta ancora più difficile quando si tratta di conoscere
realtà particolari, tra cui troviamo gli uomini, che non cessano di essere
realtà materiali per il fatto di essere spirituali grazie alla loro anima. Per
questa materialità si presenta la prima difficoltà nel conoscere ciò che riguarda
la vita umana, perché ciò che è materiale, per la mancanza di attualità, è
intelligibile in potenza e si può conoscere solo astraendo dalle sue
circostanze materiali. Ciò comporta che il particolare materiale sia di per se
stesso inintelligibile in quanto singolo particolare, del quale si può fare
esperienza, sul quale si può avere un’opinione ma non scienza[27].
D’altra parte, la vita personale
dipende dall’esercizio della ragione e dalla volontà, le quali, pur essendo
determinate rispetto al loro oggetto naturale (i principi primi o il fine
ultimo, nel caso si tratti rispettivamente dell’intelletto o della volontà),
non lo sono rispetto a ciò che non sia fine ultimo o principi primi. L’uomo
grazie alla sua ragione e volontà, ha libertà di giudizio, e perciò le sue
azioni o passioni, che possono seguire la ragione e la volontà, non saranno
necessariamente determinate. La libertà fa sì che non sia possibile predire con
totale certezza la vita personale e individuale.
La stessa esperienza umana è
complessa, come abbiamo appena spiegato, perché è il risultato dell’azione
comparativa e associativa della ragione particolare. Come abbiamo già detto, la
ragione particolare o cogitativa è ciò che muove immediatamente l’appetito
sensitivo e pertanto è ciò che attiva le emozioni. Ciò può avvenire seguendo la
guida dell’intelligenza (ragione universale). Ma esiste anche l’influsso
opposto; infatti il giudizio particolare della cogitativa dipende a sua volta
dalle inclinazioni emozionali e, dalla deformazione del giudizio particolare
segue la deformazione del giudizio della ragione universale e il conseguente
atto della volontà, per cui l’uomo si allontana dalla conoscenza vera e del
bene, come dice anche san Tommaso:
É evidente che la apprensione
dell’immaginazione e il giudizio dell’estimativa seguono la passione
dell’appetito sensitivo; nello stesso modo in cui il giudizio del gusto segue
la disposizione della lingua. Per questo vediamo che gli uomini dominati da una
passione, non si allontanano facilmente dall’immagine a cui stanno attaccati.
Da ciò segue che il giudizio della ragione segua molte volte la passione
dell’appetito sensitivo, e lo stesso fa la mossa della volontà che segue
naturalmente il giudizio della ragione[28].
Se
il giudizio particolare della cogitativa può essere fuorviato dalle
disposizioni emozionali, nello stesso modo può essere deformato il complesso
dei nostri ricordi perché, come abbiamo detto, l’experimentum si forma per l’azione collativa che svolge la ragione particolare. In altre parole, non
solo possiamo sbagliarci nel giudizio concreto per un’interferenza affettiva,
ma ciò può risultare a sua volta da una deformazione abituale dei nostri
schemi, vale a dire, può provenire da complessi viziosi o patologici. Chi ha un
vizio, per esempio la lussuria, o uno squilibrio patologico come una tendenza
parafilica, non è in grado di giudicare adeguatamente in concreto[29]
ciò che si riferisce alla continenza sessuale.
Ciò perché il suo modo di essere “intemperante” non solo fuorvia il suo
giudizio particolare (questo sarebbe più tipico dell’incontinente che del
lussurioso[30]) ma
anche lo schema di valutazione che
utilizza abitualmente.
È risaputo che la nostra affettività
può manipolare la nostra vita conoscitiva e, da una conoscenza deformata,
risultare uno squilibrio emozionale maggiore. Ciò è stato in un certo modo
riscoperto dalle psicoterapie cognitive (anche se con una certa sfumatura
socratica e un certo atteggiamento stoico nei confronti delle emozioni) ma
ancor prima da Alfred Adler che lo spiega con queste parole (in cui si ritrova
l’influenza terminologica di Vaihinger, ma risultano vere per quanto riguarda
il disordine cognitivo che deriva dal disordine emozionale):
la memoria appercettiva che esercita
un’influenza preponderante sull’immagine che abbiamo del mondo, opera
successivamente, non con uno schema propriamente detto ma con uno schema
fittizio, che determina la selezione, l’elaborazione delle nostre impressioni,
percezioni, rappresentazioni, delle nostre esperienze e ricordi, e che alla
fine dirige l’esercizio delle nostre tendenze ed attitudini trasformandole in
destrezze e dispositivi psichici e tecnici opportuni per raggiungere
l’obiettivo fittizio[31].
Questi
meccanismi sono all’origine di molti autoinganni e conducono non solo ad una
concezione capricciosa della realtà, ma anche, a misura in cui l’uomo sembra
autoaffermarsi nel suo desiderio, al sentimento della propria carenza di
consistenza personale, perché l’uomo che agisce mosso principalmente dalle sue
passioni o emozioni fa l’esperienza di essere mosso dall’impersonale, dall' “Es” come dice Freud (che non riconosce
l’uomo pieno): “a mio giudizio, deve essere molto vantaggioso per noi, seguire
l’invito di [...] G. Groddeck che sempre afferma che ciò che noi chiamiamo il
nostro io, si comporta passivamente
nella vita e che, invece di vivere, siamo ‘vissuti’ da forze ignote e invincibili”[32].
San Tommaso prende in considerazione la medesima realtà ma dal punto di vista
di chi conosce la verità sull’uomo: “per il fatto che l’uomo è venduto al
peccato, come servo del peccato, è evidente che non è lui che agisce ma è
‘agito’ dal peccato. Però colui che è libero, questi agisce per se stesso e non
è mosso da un altro”[33].
Allontanandosi dalla conoscenza vera, l’uomo si separa anche dal suo carattere
personale, dal momento che ciò che caratterizza una persona è “avere il dominio
dei propri atti” e non solo essere mosso da un altro, ma agire: “nelle sostanze
razionali emerge in modo più speciale e perfetto l’essere particolare,
l’individuo. Queste hanno il dominio dei suoi atti e non sono solo mosse, come
le altre cose, ma agiscono”[34].
In questo punto si vede come la verità e la vita personale si intrecciano.
A causa di tale manipolazione che la
nostra affettività può realizzare (e che di fatto tende a realizzare a causa
della la nostra natura umana decaduta), passiamo da un modo di vita proprio
dell’uomo a comportamenti quasi animali, degradando dalla nostra capacità di
avvicinarci alle cose per quello che sono, a muoverci come se fossimo racchiusi
nel mondo delle nostre necessità biologiche. E dico “quasi-animali” perchè in
realtà la capacità razionale non si perde però viene subordinata agli appetiti
disordinati (attraverso il consenso o il permesso della volontà). In questo
modo il nostro mondo risulta ridotto ad un insieme di segni che sono
significativi per i nostri desideri, ma perdiamo di vista ciò che non è utile o
piacevole, e soprattutto, ci rendiamo ciechi rispetto alle persone e alle
verità ultime[35].
5. La conoscenza vera di
sé e dell’altro
Siccome
il nostro spirito risulta immediatamente presente a se stesso, e facciamo
esperienza intima dei nostri atti interiori, la cosa più semplice sembrerebbe
conoscere veramente se stessi. Ma l’esperienza dimostra che la cosa più comune
è ingannarsi su di sé. Addirittura sembrerebbe più semplice capire veramente le
altre persone piuttosto che se stessi. Perché succede questo?
Certamente conosciamo l’intimo degli
altri, pur non essendo immediatamente accessibile, a partire dalla conoscenza
che abbiamo di noi stessi. Mano a mano che approfondiamo la conoscenza di noi
stessi, possiamo conoscere di più e meglio i nostri simili. Al contrario, molto
spesso proiettiamo negli altri i nostri difetti che però rifiutiamo di
riconoscere. La simpatia o empatia nei confronti degli altri,
prodotto dell’amore e della misericordia che ci identificano affettivamente con
essi, sono senza dubbio gli strumenti che ci permettono di conoscere meglio gli
altri[36].
Al contrario, sembra altrettanto certo
che, sebbene i nostri atti interni ci siano immediatamente evidenti, impariamo
a valutarli (positivamente o negativamente) a partire da ciò che su di essi ci
dicono le persone per noi più significative.
Tuttavia, la fonte principale di
errore ed ignoranza su noi stessi sono le nostre stesse inclinazioni emozionali
non equilibrate che, come già abbiamo detto, si impossessano delle nostre
capacità cognitive e le manipolano utilizzandole secondo una finalità egocentrica
che conduce alla non-conoscenza di noi stessi. Da ciò consegue la necessità che
ognuno di noi abbia una guida esterna che ci presenti la nostra vita interiore
in maniera obiettiva, ai fini del nostro bene (come per esempio i genitori, gli
educatori, i direttori spirituali e se necessario gli psicoterapeuti).
A volte questa mancata conoscenza di
noi stessi non è totale, ma risulta parziale e unilaterale; conosciamo solo
alcuni aspetti di noi stessi che generalmente ci esaltano o ci sviliscono
smisuratamente nella nostra autostima. Possiamo avere una conoscenza completa adeguata
di noi stessi solo se ci poniamo alla luce della verità. Questa luce brilla in
modo connaturale nel nostro spirito, come già abbiamo detto, ed è completata e
perfezionata dalla luce della fede. Come diceva con profonda intuizione
sant’Agostino: “Noli foras ire, in teipsum redi; in
interiori homine habitat veritas”
(non uscire fuori di te, ritorna in te stesso: la verità abita nell'uomo
interiore)[37].
Solo rivolgendoci al nostro intimo e ponendo i nostri pensieri, i nostri
affetti e i nostri comportamenti alla luce della verità, possiamo, trascendendo
gli aspetti accessori e negativi della nostra personalità, riconoscerci nel
nostro essere più vero: l’essere personale per il quale siamo fatti ad immagine
di Dio. Ciò accade se si tratta del nostro intimo vero e non di un ripiego
egocentrico sui nostri desideri sregolati.
Come dicevamo precedentemente, la
conoscenza del prossimo dipende dalla conoscenza che abbiamo di noi stessi e
dalla coincidenza affettiva che ci permette di intravedere il suo intimo. Conosciamo
veramente gli altri nella misura in cui conosciamo noi stessi; e inoltre amiamo
le persone che amiamo nella misura in cui amiamo noi stessi. Per tale ragione
se non ci conosciamo secondo ciò che ci è proprio, la nostra natura razionale e
il nostro essere personale, e se non ci amiamo secondo la nostra vera natura ed
essere, non conosceremo né ameremo gli altri, perfino quelli che pensiamo di conoscere
e amare e che, anche senza volerlo, conosceremo ed ameremo in maniera distorta.
Aristotele affermava che chi si ama secondo ciò che non è, anche se sembra
amarsi rispetto all’affetto, si odia invece in quanto all’effetto, perché fa
del male a se stesso[38].
In modo simile, amando coloro che amiamo per ciò che non sono, anche pensando
di fargli del bene, in realtà gli procuriamo danno. E ciò accade anche supposto
che abbiamo l’intenzione di amarli, ma, come già abbiamo detto, in molti casi
l’altro è utilizzato in modo palese o occulto come strumento per ottenere
piacere o una qualche vantaggio.
6. Conoscenza vera ed
educazione
Ciò si vede chiaramente nelle
relazioni di coppia del mondo di oggi, un mondo convinto che la conoscenza
della verità sia impossibile e che la conoscenza si riduca ad un calcolo
utilitarista di possibilità ai fini del benessere individuale. L’ignoranza o il
rifiuto della nozione di matrimonio e di famiglia come una comunità orientata
ad un bene specifico e non alla mera somma occasionale di interessi puramente
individuali, è chiaramente la base della precarietà, non solo dei matrimoni ma
anche della vita psicologica di sempre più giovani. Questa ignoranza e rifiuto
ha radici ideologiche di cui la maggior parte delle persone non si rende conto.
In esse si trova già una struttura della
personalità
modellata da un’educazione edonista e individualista, fatta a modello dell’uomo
autonomo e autosufficiente, senza radici né tradizioni, disinteressato della
verità e del bene, non interessato “alla” verità e al bene, ma solo alla “sua”
verità e al “suo” bene.
Il tema dell’educazione è pertanto
centrale per sviluppare nell’uomo, in base a ciò che richiede la sua stessa
natura ed essere, l’amore alla verità. E prima di tutto nella famiglia, per
natura prima educatrice, dal momento che il dovere e il diritto dei genitori ad
educare deriva dalla finalità stessa del matrimonio in quanto orientato a
generare umanamente (e ciò implica non solo la generazione a livello biologico,
ma anche la guida dei figli alla pienezza umana[39]).
Per i motivi menzionati precedentemente, i genitori che non si mettano nella
luce della verità, da cui deriva il bene, non potranno, pur amando i propri
figli, educarli convenientemente come esseri umani.
Negli ultimi decenni ciò è stato reso
ancora più difficile e addirittura impedito da parte dell’ideologia dominante
in tema di educazione (non solo tra esperti di pedagogia e istituti educativi,
ma anche nelle leggi che riguardano l’educazione). Un’ideologia costruttivista
per la quale non è possibile raggiungere la verità e pertanto, secondo la
quale, ciascuno dovrebbe costruirsi il suo proprio mondo in maniera tale da
evitare le frustrazioni e la sofferenza e tollerando pertanto le costruzioni
degli altri (qualunque esse siano) a partire dalla costruzione congiunta di un
sistema di convivenza artificiale. Un’ideologia pragmatista, nella quale
l’utilità occupa il posto della verità. Un’ideologia biologista, per la quale
il fine ultimo della vita è il mero adattamento al suo ambiente. In questo modo
si ostacola la conoscenza più profonda tanto della realtà quanto di se stesso.
Stiamo già assistendo agli effetti di
tutto ciò nella formazione della personalità dei giovani e nel tempo li vedremo
con maggiore chiarezza. Basta ricordare che il suicidio oggi è una delle
principali cause di morte tra i giovani, o pensare alla sempre maggiore
incidenza di disordini psichici di ogni tipo, come i disturbi legati
all’alimentazione, l’ansia, la depressione o disturbi della personalità cosi
distruttivi dell’umano e della propria identità come i disturbi borderline, per dimostrare come ci siano
i motivi per una notevole preoccupazione.
7. La conoscenza vera e
la relazione psicoterapeutica
Per questo è sempre più importante lo
sviluppo di una psicologia e di una psicoterapia che siano coerenti con la
natura dell’uomo e con il suo carattere di persona fatta ad immagine di Dio e
chiamata ad un fine trascendente e divino attraverso la Grazia, come diceva già
più di cinquant’anni fa Pio XII[40].
Non tutte le correnti psicologiche o
di psicoterapia presentano questo requisito; succede piuttosto il contrario: la
maggior parte della psicologia e della psicoterapia attuali, se considerate
nella loro interezza (perché in molte di esse esistono certamente alcuni
aspetti positivi) risultano contrarie ad una corretta visione dell’uomo, sia da
un punto di vista filosofico che di fede e teologico. Giovanni Paolo II in un
discorso ai membri della Rota Romana diceva quanto segue:
[...] la visione antropologica, da cui
muovono numerose correnti nel campo delle scienze psicologiche del tempo
moderno, è decisamente, nel suo insieme, inconciliabile con gli elementi
essenziali dell’antropologia cristiana, perché chiusa ai valori e significati
che trascendono il dato immanente e che permettono all’uomo di orientarsi verso
l’amore di Dio e del prossimo come sua ultima vocazione. Tale chiusura è
inconciliabile con quella visione cristiana che considera l’uomo un essere “creato
ad immagine di Dio, capace di conoscere e di amare il proprio Creatore”
[Gaudium et spes, 12] e nello stesso tempo diviso in se stesso [Cf. ibid., 10]. Le ricordate correnti psicologiche
invece partono o dall’idea pessimistica, secondo cui l’uomo non potrebbe
compiere altra aspirazione che quella imposta dai suoi impulsi o dai
condizionamenti sociali o, per l’opposto, dall’idea esageratamente ottimistica
secondo la quale l’uomo avrebbe in sé, e potrebbe raggiungere da solo, la sua
realizzazione[41].
Mettiamo in evidenza in questo testo
due grandi visioni negative: quella determinista (come per esempio quella della
psicoanalisi e del comportamentismo), e quella dell’umanesimo rousseauiano, che
ritiene che l’uomo sia buono cosi com’è e che sia artefice della sua propria
autocostruzione (tali sono la psicologia esistenzialista e umanista, come
quelle di C. G. Rogers o F. Perls, per citare un esempio). Ci limitiamo ad
analizzare in questa sede solo due esempi, uno per ciascuno dei due estremi: la
psicoanalisi di Freud e la teoria di Rogers.
Già Pio XII aveva criticato la
psicoanalisi freudiana perché comportava che l’abbandonarsi del paziente senza
obiezioni nella sua immaginazione sessuale[42].
Il problema tuttavia, non riguarda solo l’immaginazione sessuale ma
l’immaginazione in quanto tale. Al di là del fatto della maggiore o minore
adeguatezza di questa critica al pensiero di Freud, risulta evidente che per
tale autore la terapia suppone che emergano senza censura delle
rappresentazioni represse. In qualche modo la psicoanalisi è una terapia nella
quale il soggetto analizzato si deve riconciliare con i suoi oggetti immaginari
interni. Per tale ragione, l’analista non svolge un ruolo educativo, ma serve
come schermo per il transfert. Al
contrario di quanto si suole pensare, il transfert,
cosi come lo concepì Freud, non è la relazione personale tra l’analista e il
paziente. Questa relazione è impossibile perché il soggetto non può superare le
proprie immagini interiori. La nostra relazione con gli altri risulta sempre
essere fatalmente la ripetizione della nostra relazione con le immagini che
abbiamo dei nostri genitori[43].
Evidentemente, in base a questa teoria, l’uomo risulta chiuso nei limiti di un
“mondo circondante” animale e ormai non è aperto alla luce della verità.
D’altra parte è chiaro che, è
possibile rifiutare coscientemente i contenuti ripresi emersi, ciò accade solo:
a) dopo che la persona si sia sottomessa senza controllo razionale alla sua
influenza, b) dopo averlo rivissuto coscientemente, visto che nella teoria
psicoanalitica non solo occorre riconoscere intellettualmente il complesso di
Edipo come “complesso
nucleare” ma occorre anche riviverlo nel transfert.
La critica del Papa diretta principalmente ai desideri e rappresentazioni
sessuali, può anche essere diretta ad immagini e tendenze aggressive, benché
esse siano meno pericolose per il fatto che l’appetito irascibile è per sua
propria natura, più vicino alla ragione.
In questa maniera si vede come la
psicoanalisi, almeno per come la concepì Freud, allontana l’uomo dalla
conoscenza vera di se stesso e dell’essenziale, anche se gli può fornire molti
dati su aspetti che, per quanto Freud li consideri profondi, in realtà
appartengono alla superficie e alla parte esterna della vita psichica (ciò che
santa Teresa chiamerebbe la parte esteriore del castello dell’anima). Parte che
non può conoscere la verità in quanto tale e che è comune a noi e agli animali.
Per quanto riguarda la psicología
umanista sullo stile della psicoterapia centrata nel cliente (o “non
direttiva”) di Rogers, cercano la liberazione del cliente (espressione che
l’autore preferisce a quella di paziente) attraverso la valutazione positiva e
incondizionata del cliente da parte del terapeuta. Certamente il terapeuta,
come anche l’educatore, deve amare la persona di cui è responsabile, al di là
di quanto ha compiuto o dei difetti del suo carattere. Tuttavia sembra che ciò
sia interpretato da Rogers come permissivismo e relativismo morale. Questa
accettazione invece di portare ad una maggiore conoscenza di sé, nel bene e nel
male, e quindi ad una trasformazione interiore, una metanoia, porta
all’individualismo,
all’edonismo, a vivere l’attimo, al rifiuto di qualsiasi norma morale oggettiva
in quanto opposta al “processo di valutazione organismica”, etc. La triste e
conosciuta applicazione di tale psicologia a congregazioni religiose che
comportò l’abbandono, da parte di molti dei loro membri, della vita di fede
dimostra meglio di molti ragionamenti quanto queste teorie siano lontane da una
conoscenza vera di sé. L’uomo viene confuso con le fluttuanti necessità del suo
organismo (che secondo Rogers è “autoregolativo”[44]).
Ma, che umanesimo è quello che non riconosce nell’uomo la capacità di conoscere
la verità e di compromettersi liberamente con dei valori conosciuti
oggettivamente?
In alternativa alla psicoanalisi, ma
anche in risposta a questa psicologia umanista, Pio XII proponeva una
psicoterapia basata su corretti principi antropologici, e nel complesso del suo
discorso si vede come prenda a modello la psicologia di San Tommaso d’Aquino.
Una psicoterapia fatta “dall’alto” che indirizza la vita sensitiva ed
emozionale partendo da ciò che è più umano e personale, dallo spirito; una
terapia direttiva e pedagogica, nella quale il terapeuta, proprio perché ama il
suo paziente, tiene presente la sua caratteristica più importante e assume la
responsabilità di orientarlo, rispettando sempre la sua libertà:
Nell’ambito della vita istintiva, sarebbe
meglio concedere più attenzione ai metodi indiretti e all’azione dello
psichismo cosciente sull’insieme dell’attività imaginativa e affettiva. Questa
tecnica evita le devianze segnalate. È orientata a chiarire, curare e dirigere;
influenza anche la dinamica della sessualità, sulla quale si insiste tanto e
che si troverebbe o davvero si trova nell’inconscio o nel subconscio[45].
Una
psicologia e una psicoterapia che siano fedeli espressioni della dignità umana
e della sua destinazione finale, e che pertanto siano davvero una conoscenza
vera dell’uomo, sono ancora da sviluppare, a partire dai fondamenti di una
salda antropologia. Speriamo con questo intervento di aver contribuito in
qualche modo a questo fine.
[1] Cfr. M. ECHAVARRÍA, La praxis de la psicología y sus niveles epistemológicos según santo
Tomás de Aquino, Documenta Universitaria, Girona 2005.
[2] Cfr.
ARISTOTELE, Metafisica, l. I (A), c.
1 (980b).
[3] Il
termine in tedesco sarebbe Erlebnis
ed in spagnolo nella traduzione di Ortega y Gasset si traduce normalmente con
“vivencia”.
[4] Su questo argomento, cfr. M. ECHAVARRÍA,
“Memoria e identidad según santo Tomás”, Sapientia, LVII (2002) 91-112; ID., La praxis de la psicología..., 311-318.
[5] In
I Metaphysicorum, l. I, n. 15 (il
corsivo è nostro); cfr. ARISTOTELE, Metafisica,
L. I (A), c. 1 (980b 25 - 981a 1).
[6] Cfr.
ARISTOTELE, Metafisica, L. I (A), c.
1 (980b25 - 981a 1): "Mentre gli altri animali vivono con immagini
sensibili e con ricordi, e poco partecipano dell’esperienza, il genere umano
vive, invece, anche d’arte e di ragionamenti. Negli uomini, l’esperienza deriva
dalla memoria: infatti, Mopti ricordi dello stesso oggetto giungono a
costituire un’esperienza unica” (seguo la traduzione di Giovanni Reale, Luigi
Loffredo Editore, Napoli 1978, 103).
[7] Forma
parte di questa immagine di se stesso ciò che a partire da Paul Schilder si
suole chiamare “schema corporale”; cfr. E. KRAPF, Psiquiatría, vol. I, Paidós, Buenos Aires 1959, 44: "Non si
può agire se non esiste uno schema spaziale che fissa la posizione attuale e
potenziale del proprio corpo di fronte al mondo con i suoi oggetti
(Schilder).Tale schema si basa inizialmente in percezioni tattili (parietali:
spazio prensile), e assume, evolvendosi, caratteri progressivamente più ottici
(occipitale: spazio visuale). Tuttavia comprende in ogni momento, elementi
provenienti da entrambe le sfere sensoriali ed avendo senza dubbio relazioni
specifiche ed intime tra l’immagine del
proprio corpo e il lobulo parietale,
e l’immagine del mondo con i suoi
oggetti e il lobulo occipitale”.
(traduzione libera)
[8] Concordo
con queste affermazioni di A. Caturelli che critica l’eccessivo ottimismo di
Cornelio Fabro sulla possibilità si assimilare il pensiero piagetiano dal
tomismo: “Ciò è andare al di là di ciò Piaget permette perché suppone, nel
pensiero di Fabro, l’identità del soggetto attraverso i cambiamenti e,
soprattutto, la realtà metafisica dell’anima che, secondo Piaget, non esiste o,
al massimo, ricadrebbe nell’ambito del non- verificabile. La struttura
piagetiana è una struttura senza il strutturato,
mentre la struttura di cui parla Fabro dipende, in base ad una dipendenza
metafisica, dal principio strutturante,
se cosi si può dire. D’altra parte, in Piaget, l’intelligenza ammette che solo
gli elementi funzionali siano invariabili; da ciò consegue, come sostiene
Flavell, che ‘queste funzioni costanti non implichino, in alcun modo, delle
strutture costanti’. [...] Pertanto, senza disdegnare gli apporti offerti dalle
descrizioni e dalle esperienze di Piaget, in virtù degli stessi fondamenti
metafisici della cogitativa e della sua funzione, esposta in modo magistrale da
Fabro, non credo che possa coincidere con la dottrina tomista; al contrario è
l’opposto, li è radicalmente opposta. Adoperarsi in un’assimilazione
impossibile mi sembra un lavoro inutile e destinato al fallimento.” (A.
CATURELLI, “Examen crítico de la psicología evolutiva de Jean Piaget y su
influencia en la educación”, en Filosofía
cristiana de la educación, Córdoba 1981, 197-198).
[9] Cf.
E. CLAPARÈDE, L’éducation fonctionnelle,
Éditions Fabert, Paris 2003, 131: “Quel est le rôle, la fonction de
l'intelligence dans la vie de l'individue? Il n'y a, à cette question, qu'une
seule réponse possible: l'intelligence est un instrument d'adaptation quie
entre en jeu lorsque font défaut les autres instruments d'adaptation, qui sont
l'instinct et l'habitude. L'intelligence intervient, en effet, lorsque
l'individue se trouve en face d'une situation qui ne fait appel ni à son
instinct, ni à ses automatismes acquis. Il n'est pas besoin d'intelligence pour
fermier les paupières lorsque la lumière est trop vive, ni pour retrouver son
logis habituel. / L'intelligence, on le voit, répond a un besoin. Elle est
donc, au point de vue biologique, sur le même pied que toutes les autres
activités, qui toutes sontstimulées par le besoin. Le besoin particulier qui
déclenche l'intelligence, c'est le besoin
d'adaptation qui surgitn lorsqu'un individue se trouve inadapté à l'égard
des circonstances ambiantes.”; cfr. anche J. PIAGET, La psychologie de l’intelligence, Librairie Armand Colin, Paris
1967, 10.
[10] Gli
autori della scuola tedesca dicono normalmente che vivere è “essere nel mondo”;
cfr. K. JASPERS, 2 Psicopatología general,
Fondo de Cultura Económica, México 1996 , 19: “Esistono categorie che si
manifestano in base all’interpretazione di ciascuno e nel rapporto con l’anima
si trasformano nelle graduazioni più sublimi del loro senso, comportandosi però
anche in maniera analogica. E ciò appartiene la vita come esistenza nel suo mondo. La vita si realizza come
codeterminazione di un mondo interiore e di un mondo circostante (Von Uexküll).
Un fenomeno originale della vita è: vivere
nel suo mondo. Per questo occorre analizzare l’esistenza somatica e il
corpo anatomico con le sue funzioni fisiologiche non in uno spazio qualsiasi,
ma come una vita nel suo ambiente, nel quale di costruisce e si realizza, in
una adattabilità al mondo che si percepisce e al mondo dell’azione” (Traduzione
libera).
[11] A. GEHLEN, El
hombre, Sígueme, Salamanca 1987 , 88.
[12] Cfr.
ARISTOTELE, Metafisica, 980a 30 – 980
b 25.
[13] Cf.
A. MACINTYRE, Animali razionali
dipendenti: perchè gli uomini hanno bisogno delle virtù, Vita e pensiero,
Milano 2001.
[14] Ibidem, 91.
[15] Si
deve però dire che l’intelletto umano ha come oggetto l’universale perché
l’astrae dalle immagini. La individualità non è ostacolo all’intelligibilità,
ma la potenzialità delle cose materiali. Per questo, l’anima umana, che è
spirituale, è intelligibile (in habitus)
perchè possiamo “capire che capiamo”.
[16] San
Tommaso afferma chiaramente che io non mi identifico con la mia anima: “Siccome
l’anima è parte del corpo dell’uomo, non è tutto l’uomo, e la mia anima non
sono io”. Ciò non osta a che egli dica: “Io dunque, ecc. si deve
intendere in modo tale che per io si intenda la ragione dell’uomo, che è la
parte principale dell’uomo; per cui sembra che ogni uomo sia la sua ragione o
intelletto, come la città sembra di essere colui che la governa, perché quello
che fa lui sembra che lo faccia tutta la città” (Super ad Romanos,
c.VII, l. 3, n. 14).
[17] Cfr.
Summa Theologiae, I, q. 84, a. 7.
[18] Cfr.
Summa Theologiae, I, q. 8, a. 3, co: “L’appetito sensibile, negli altri
animali è per natura mosso dalla virtù estimativa; per cui la pecora
considerando che il lupo è suo nemico, lo teme. Però nell’uomo, come detto in
precedenza, al posto dell’estimativa, si ha la cogitativa, che alcuni chiamano ragione particolare visto che paragona
le intenzioni individuali. Da ciò che nell’uomo l’appetito sensibile sia per
natura mosso da questa. Ma la stessa ragione particolare è fatta per essere
mossa e guidata secondo la ragione universale: come in un sillogismo, a partire
da proposizioni universali si giunge a proposizioni particolari. E da ciò
risulta evidente che la ragione universale governa l’appetito sensibile che si
distingue in concupiscibile e irascibile, e tale appetito le ubbidisce. E per
il fatto che la deduzione di conclusioni particolari da principi universali non
è opera semplicemente dell’intelletto, ma della ragione, si dice che
l’irascibile e il concupiscbile obbediscono di più alla ragione che
all’intelletto. Ciò può essere sperimentato da chiunque: di fronte ad alcune
considerazione universali si placano l’ira o il timore, oppure aumentano”
(Traduzione libera). Risulta qui sintetizzato il fondamento delle tecniche
cognitive della psicoterapia.
[19] L’essere
in quanto tale è infinito, perché non si può concepire nulla che vada oltre il
suo orizzonte; anche quando l’essere o l’ente, per come viene concepito dal
nostro intelletto, sia contratto e limitato, in quanto partecipato nella nostra
capacità finita di essere.
[20] Cf.
F. CANALS VIDAL, Sobre la esencia del conocimiento, PPU, Barcelona 1987,
667-668: “L' 'abito dei principi primi' non è posto in modo innato, nel senso
che non fosse necessario all'uomo ricevere il dato sensibile per attuarsi alla
concezione dell'ente. Però bisogna dire che questo abito, la virtù
intellettuale del nous o intellectus principiorum 'viene a chi
già la possiede per natura'. Per questo si afferma la 'preesistenza della luce
dell'intelletto agente rispetto all'intelligenza dei principi, come causa
propria di questa'.
Già Aristotele, da parte sua, parlava di quello che nell'anima conoscente è 'atto', come di qualcosa che è 'come un certo abito e come una luce'. In alcun modo, in effetti, la presenza della dimensione dell'attualità intelligibile nell'anima intellettiva umana, radice che rende possibile la sua potenzialità intellettiva per la recezione delle forme dell'altro, dispone così radicalmente e originariamente il soggetto intellettivo umano a quelle concezioni che hanno un carattere 'trascendentale' rispetto alla possibilità stessa dell'intellezione delle essenze oggettive, e sono così il fondamento di ogni possibilità di 'dimostrazione' e di acquisizione di 'scienza'.
La 'luce intelligibile connaturale all'uomo assume come strumento i principi primi, immediatamente conosciuti per i concetti primi, all'astrarre dalle immagini sensibili le 'specie intelligibili' delle essenze delle cose naturali. Tuttavia, non è univoco il significato che dobbiamo dare al termine 'astrazione' quando lo applichiamo alla formazione nella conoscenza umana potenziale dei principi per cui si attua per la concezione degli oggetti 'trascendentali', o per gli oggetti contenuti nell'orizzonte dell'essenza delle cose naturali sensibili”.
Già Aristotele, da parte sua, parlava di quello che nell'anima conoscente è 'atto', come di qualcosa che è 'come un certo abito e come una luce'. In alcun modo, in effetti, la presenza della dimensione dell'attualità intelligibile nell'anima intellettiva umana, radice che rende possibile la sua potenzialità intellettiva per la recezione delle forme dell'altro, dispone così radicalmente e originariamente il soggetto intellettivo umano a quelle concezioni che hanno un carattere 'trascendentale' rispetto alla possibilità stessa dell'intellezione delle essenze oggettive, e sono così il fondamento di ogni possibilità di 'dimostrazione' e di acquisizione di 'scienza'.
La 'luce intelligibile connaturale all'uomo assume come strumento i principi primi, immediatamente conosciuti per i concetti primi, all'astrarre dalle immagini sensibili le 'specie intelligibili' delle essenze delle cose naturali. Tuttavia, non è univoco il significato che dobbiamo dare al termine 'astrazione' quando lo applichiamo alla formazione nella conoscenza umana potenziale dei principi per cui si attua per la concezione degli oggetti 'trascendentali', o per gli oggetti contenuti nell'orizzonte dell'essenza delle cose naturali sensibili”.
[21] Sul
carattere riflessivo della conoscenza della verità, cfr. CH. BOYER, "Le
sens d'un texte de Saint Thomas: De veritate, 1, 9", Gregorianum 5 (1924), 216-237.
[22] Cfr.
Summa Theologiae, I, q. 153; S. AGOSTINO, De Trinitate, l. IX et X.
[23] Cfr.
Summa Theologiae, I, q. 29, a. 3.
[24] La
parola greca ethos, che normalmente
si traduce con carattere, potremmo dire che è l’insieme organizzato degli habitus operativi pratici, seguendo così
San Tommaso che definisce l’organismo delle virtù come “ordinata virtutum
congregatio” (Summa Theologiae II-II q. 161 a. 5 ad 2 -traduzione
libera-).
[25] Anche
se le potenze, le abitudini e gli atti siano, da un punto di vista
predicamentale, accidenti, ciò non significa che non abbiano importanza. La
creatura, nella sua finitezza, è più prossima alla perfezione infinita di Dio
quando si realizza, si compie attraverso questi “accidenti”, e nel cui
compimento consegue il suo proprio bene. In qualche modo tali accidenti, in
particolar modo le azioni e abitudini spirituali, ampliano il nostro esse
naturae. E lo dico soprattutto per quei abitudini e azioni spirituali che
hanno una certa infinitezza come principalmente la conoscenza della verità. Non
esiste un esse accidentale che aggiunga qualcosa all’essere sostanziale,
ma lo stesso essere sostanziale si de-contrae per la gloria della verità che
nell’ente finito è accidentale.
[26] Cfr.
Summa Theologiae, I, q. 84, a. 6.
[27] L’epistemologia
costruttivista, che normalmente è scientista oltre che pragmatista, riduce ogni
possibile conoscenza all’ambito dell’opinabile, negando quindi che la
conoscenza si orienti alla verità. Per una critica di questo
orientamento: cfr. M. Echavarría, “¿Objetivismo o constructivismo? La teoría
aristotélico-tomista del conocimiento como alternativa a la falsa opción
cognitivista entre racionalismo realista ingenuo y constructivismo”, en Sapientia, LX (2005), 415-430.
[29] Anche
se forse a livello universale si possiede la scienza morale.
[31] A. ADLER, El carácter neurótico,
Planeta – De Agostini, Barcelona 1991, 66 [tr. it. Il temperamento nervoso, Astrolabio, Roma, 1978].
[32] S. FREUD, “El yo y el
ello”, en Obras, vol 3, Biblioteca Nueva, Madrid 1973, 2707. (La traduzione
italiana dell’opera di Freud è “L’Io e l’Es”).
[33] Super ad
Romanos, c. VII, l. 3, n. 17.
[34] Summa Theologiae, I, q. 29, a. 1, co.
[35] Un esempio a questo proposito sono le
personalità che rimangono chiuse in ciò che Allers chiama “mondo monofótico” o
“fotocentrico”; cfr. R. ALLERS, Existencialismo
y psiquiatría, Troquel, Buenos Aires 1963, 94: “Photos significa desiderio, appetenza; e
giustamente questo mondo si caratterizza per essere centrato intorno al
desiderio dominante, la cui soddisfazione è la condizione indispensabile – dal
punto di vista del soggetto – per esistere.”; 95 “É evidente che a questo mondo
fotocentrico corrisponde un’esistenza profondamente inautentica. [...] Nel
mondo del fotocentrico, tuttavia la personalità non risulta in primo piano.
L’esistenza, di conseguenza, consiste nella ricerca della soddisfazione
dell’unico desiderio. Il mondo è visto, esclusivamente, come un insieme di
situazioni che possono concedere o negare tale soddisfazione“ (traduzione
libera).
[36] Cfr. G. THIBON, La ciencia del carácter, Desclée de Brouwer, Buenos Aires 1946,
23-24: “La conoscenza intuitiva del
prossimo precede la riflessione su di sé. Essa però presuppone – e si tratta di
una cosa molto distinta – la partecipazione soggettiva nei sentimenti altrui.
La materia della conoscenza
dell’altro non ce la diamo da noi stessi: vedendo anche un solo gesto capisco
che il mio amico è irritato, perché tale gesto risveglia in me una tendenza
latente all’irritazione. Nessuno percepisce negli altri dei sentimenti che non
sia capace di sperimentare egli stesso. Tale conoscenza, in questo ambito,
diminuisce in funzione della connaturalità: un certo comportamento animale,
colmo di significato per un altro animale della medesima specie, rimane
enigmatico per l’uomo” (traduzione libera).
[38] Etica
Nicomachea, l. IX, c. 4.
[39] In IV
Sententiarum, d. 39, q., co 1, a. 2: “Il matrimonio fu istituito
principalmente peri l bene Della prole, e non solo per generarla, poiché ciò
potrebbe ottenersi anche senza il matrimonio, ma peri l suo completo sviluppo:
poiché qualsiasi essere tende per natura a condurre a compimento il proprio
effetto”; Ib., d. 26, q. 1, a.1, co :
“Infatti la natura non tende solo alla sua generazione [della prole], ma anche
al suo sostentamento e alla educazione fino alla maturità perfetta dell’uomo in
quanto uomo, cioè alla formazione della virtù”.
[40] Cfr. PIO XII, Allocuzione ai partecipanti al V Congresso Internazionale di
Psicoterapia e di Psicologia Clinica, AAS ̧ XXXXV (1953) 278-286 y Allocuzione ai partecipanti al XIII
Congresso Internazionale di Psicologia applicata, AAS L (1958) 268-282.
[41] GIOVANNI PAOLO II, L’incapacità psichica e le dichiarazione di nullità del matrimonio.
Discorso al Tribunale della Rota Romana, AAS, LXXIX (1987) 1453-1459; 1455.
A questo proposito non si comprende correttamente la Carta degli operatori
sanitari del Pontifico Consiglio della Pastorale per gli operatori sanitari
(Città del Vaticano, 1994) -che, occorre specificare, non è parte del Magistero
Pontificio- quando dice al punto 107: “Sotto il profilo morale le psicoterapia
privilegiate sono la logoterapia e il counselling.
Ma tutte sono accettabili, purché gestite da psicoterapeuta che si lasciano
guidare da un alto senso etico.” ). I seguenti testi di Pio XII rappresentano
un espresso rifiuto di queste affermazioni.
[42] PIO XII, Allocuzione
ai partecipanti al I Congresso Internazionale di Istopatologia del Sistema
Nervoso, AAS, XXXXIV (1952), 783: “Per liberarsi delle repressioni,
inibizioni e complessi psichici, l’uomo non è libero di risvegliare da solo in
se stesso e con fini terapeutici, tutti questi appetiti della sfera sessuale,
che si agitano o si sono agitati nel suo essere [...]. Non può renderli oggetto
delle sue rappresentazioni e desideri pienamente coscienti, con le rotture e
ripercussioni che questa maniera di procedere implica. Per l’uomo e per il
cristiano esiste una legge dell’integrità e purezza di sé, che le proibisce di
andare così a fondo delle sue rappresentazioni e tendenze sessuali.
“L’interesse medico e terapeutico del paziente” incontra qui un limite morale.
Non è stato provato, anzi, è inesatto, considerare che il metodo pansessuale di
una certa scuola psicoanalitica sia parte integrante indispensabile di ogni
psicoterapia seria e degna di essere chiamata con questo nome; come è inesatto
sostenere che il fatto di aver negato in passato questo metodo abbia causato
gravi danni psichici, errori nella dottrina e nelle applicazioni
all’educazione, in psicoterapia e ancor meno nella pastorale; che sia urgente
colmare questa lacuna e iniziare tutti coloro che si occupano di questioni
psichiche, nelle idee direttrici, o addirittura, se necessario, nell’uso
pratico di questa tecnica della sessualità”. La stessa idea si ripete nella “Allocuzione ai partecipanti al V Congresso
Internazionale di Psicoterapia e di psicologia clinica, AAS, XXXXV (1953) ,
282: “ Quanto appena detto sull’iniziazione indiscriminata, con fini
terapeutici, vale anche per alcune forma di psicoanalisi. Il ripetuto principio
per cui i problemi psichici, come tutte le inibizioni di simile origine, non
possono essere soppressi se non attraverso la loro evocazione nella coscienza,
non è valido se viene generalizzato senza discernimento. Il trattamento
indiretto ha una sua efficacia e normalmente è ampiamente sufficiente. Per
quanto riguarda l’uso del metodo psicoanalitico nella sfera sessuale, la Nostra
allocuzione del 13 settembre citata precedentemente ha già indio i suoi limiti
morali. Effettivamente non si può semplicemente considerare lecita l’evocazione
alla coscienza di ogni rappresentazione, emozione, esperienza sessuale che
sonnecchiava nella memoria e nell’inconscio e che si attualizza in questa
maniera nello psichismo. Se si ascoltano i richiami della dignità umana e
cristiana, chi oserebbe affermare che questo procedimento non comporta alcun
pericolo morale, immediato o futuro, quando a conti fatti, nonostante si
affermi la necessità terapeutica di un’esplorazione senza limiti, ciò è stato provato?”
(traduzione libera).
[43] Cfr. J. LAPLANCHE – J. B. PONTALIS, Diccionario de psicoanálisis, Labor,
Barcelona 1981, 439: “[Transfert] definisce, in psicoanalisi, il processo in
virtù il quale i desideri incoscienti si attualizzano su certi oggetti, in base
ad un certo tipo di relazione stabilita con questi e, in un maniera speciale,
in base ad una relazione analitica. / Si tratta della ripetizione di prototipo
infantili, vissuta con un forte sentimento di attualità. Quasi sempre ciò che
gli psicoanalisti definiscono transfert, senza altra specificazione, è il
transfert nella cura. Il transfert si riconosce classicamente come il terreno
in cui si sviluppa la problemática di una cura psicoanalitica, e che si
caratterizza per l’instaurarsi di modalità, interpretazione e definizione del
transfert” (traduzione libera).
[44] Cfr. C. G. ROGERS, El proceso de convertirse en persona, Paidós, Barcelona 1972, 174:
“in una persona che vive il processo di una vita piena, l’insieme delle
barriere difensive diminuisce e ciò le permette di partecipare ai propositi del
suo organismo. L’unico tipo di controllo sugli impulsi che sembrerebbe esistere
– o che sarebbe necessario -è un equilibrio naturale e interiore tra le varie
necessità e l’adozione di comportamenti che seguano il vettore più vicino alla
soddisfazione di tutte queste” (traduzione libera).
[45] PIO XII, Allocuzione
ai partecipanti al I Congresso Internazionale di Istopatologia del Sistema
Nervoso, AAS, XXXXIV (1952) , 783-784.
Trovo questo contributo molto interessante. Essendo uno psicologo mi chiedo come sia possibile approfondire in modo organico queste teorie e studiarne l'applicazione psicoterapica. Esistono corsi o seminari in Italia? Esistono gruppi di studio cui si può partecipare?
RispondiEliminasergio de vita