Iniziamo oggi un percorso sul rapporto tra la psicologia - la psicoterapia in particolare - ed il Sacramento della Confessione. Riteniamo che ci sia la necessità d'esplorare tale ambito per fare chiarezza su diversi punti nebulosi, se non proprio oscuri. Ci troviamo in un momento storico in cui di sovente lo psicologo è visto come un confessore, ma accade anche che taluni confessori s'industrino per rendere il confessionale un luogo di terapia. Le cose si complicano quando notiamo, in diversi casi particolari, che il sacerdote è uno psicologo ben più abile dei professionisti imbevuti di dottrine postmoderne, ma capita talvolta (molto più raramente) che qualche psicologo particolarmente radicato nella fede riesca ad essere ben più d'aiuto di un sacerdote progressista. C'è però una differenza sostanziale e non accidentale tra le due pratiche, ed è bene che il professionista cristiano, se vuole davvero far bene il proprio mestiere, ne conosca i confini e le zone di sovrapposizione.
Porto ancora con me nel ricordo l'incontro con due celebri terapeuti familiari americani, i quali avevano descritto il caso di una donna da loro presa in carico che si sentiva profondamente in colpa e rattristata per il tradimento del compagno (o del marito). La terapeuta, senza indagare minimamente i fatti né il vissuto della paziente, raccontò di aver aperto prontamente il cassetto della sua scrivania, dove conservava diversi profumi spry, di aver preso quello con la scritta "senso di colpa" e "psss, psss, psss..." di averne spruzzato un po' nell'aria, dicendo alla paziente: "Ecco, via via! Mandiamo via questo senso di colpa!". Il senso di una colpa era un fetore di cui liberarsi. Poco importa se esso avesse (magari) avuto qualcosa da dire d'importante. Dava fastidio, creava "disadattamento" (o sofferenza) e dunque andava eliminato, anzi, evacuato. Ma siamo sicuri che quella terapeuta, tanto blasonata, avesse davvero fatto del bene alla sua paziente?
Approfondiamo dunque tali aspetti iniziando con alcuni articoli di Rudolf Allers. Autour d'une psychologie de la Confession è apparso su Études Carmélitaines del 1949 (Desclée de Brouwer, Paris, pp. 65-92). Ringrazio Piergiorgio Parenti per la traduzione.
Rudolf Allers |
Intorno ad una psicologia della Confessione[1]
Rudolf Allers
Se si vuole approcciare i problemi della
Confessione da un punto di vista psicologico, occorre che si sappia fin
dall'inizio qual è la maniera più generica, psicologica s'intende, attraverso
la quale può essere compreso l'atto e la situazione interiore del penitente. Lo
psicologo, per poter studiare questi problemi deve collocarli in un quadro più
generale di fatti conosciuti.
La
confessione può essere descritta, a nostro parere, come un resoconto critico
che il penitente fa di se stesso del modo in cui egli fu durante un tempo
limitato. O per dire la stessa cosa in modo diverso: il racconto del
penitente è una rappresentazione di autobiografia critica.
Questa
autobiografia è di una natura speciale, poiché non contempla la vita personale
nella sua totalità, ma soltanto nel suo aspetto morale. Questa limitazione è
imposta per natura stessa della circostanza del confessionale; ma come
restrizione, essa limita la visione che l'uomo ha di se stesso. Orbene, ci sono
delle azioni o delle attitudini che non possono essere comprese se non sono
considerate dentro il contesto delle relazioni che le ricollegano al resto
della vita. Così questa restrizione può diventare la causa di taluni errori.
Indagare
sulla natura di questo genere autobiografico come sulle sue limitazioni
essenziali è ben il merito della psicologia.
Se si vuole trattare di tutta questa materia,
occorrerebbe dividerla in capitoli: la psicologia dell'autobiografia,
dell'autovalutazione o della critica, che l'uomo fa di se stesso, del
resoconto, cioè della confessione verbale fatta nel confessionale. Non possiamo
intraprendere qui una rappresentazione completa di tutte queste questioni,
anche se ce ne sentissimo capaci e se la psicologia conoscesse abbastanza bene
tutti i punti di interesse. Ci forzeremo nel restringere le osservazioni ed
alcuni dettagli.
Il
racconto autobiografico è il prodotto della riflessione e della memoria che
l'uomo ha del suo passato prossimo o lontano. Il termine “riflessione”,
pertanto, deve essere compreso in senso diverso da quello di cui si serve la
psicologia o la filosofia. Non si tratta di sorprendere, per così dire, lo
stato vivente ed attuale dell'io, ma di scoprire la natura delle azioni che
vengono portate a termine e delle intenzioni che via via le hanno causate, cioè
“i fini preconcetti” verso i quali è stata diretta l'azione. La ricerca
autobiografica è, nel corso della confessione, ciò che si chiama l'esame di
coscienza.
Questo
esame, pertanto, perviene ad una valutazione non solo dell'atto individuale e
della sua intenzione buona o cattiva, diventa inevitabilmente critico sulla
persona stessa. Il pater, peccavi implica un sum peccator ed il Domine,
non sum dignus è l'espressione di una coscienza che si riconosce viziata,
per modo di dire, quando si riconosce nello stesso tempo giustificata. Così
l'esame di coscienza diventa, mentre ci si riconosce, riflessione sull'essere
stesso della persona. Ma è, nientemeno, una prima linea di esame delle azioni.
Per
questo, bisogna dapprima che l'atto sia rappresentato, che sia considerato,
esaminato, e che, dopo la comprensione della sua natura, sia valutato a seguito
di un confronto tra l’intenzione e la legge morale, riconosciuta come il
soggetto che deve governare la scelta dell'intenzione. La prima condizione è, dunque, che l'uomo sia
capace di ricordarsi con evidenza gli atti di natura morale e le intenzioni da
cui erano animate.
Questo
perfezionamento della memoria non è così semplice come potrebbe apparire
inizialmente. Ricordare qualcosa sembra un procedimento molto semplice; lo
facciamo continuamente. La nostra memoria ci fornisce, generalmente, il
materiale di cui abbiamo bisogno al momento. Noi parliamo, da storici, del
sedicesimo secolo, e subito la memoria mette a nostra disposizione, senza
sforzo apparente, i nomi di Francesco I, o di Leonardo, o della battaglia di
Pavia. Oppure parliamo di pittura e ci ricordiamo piacevolmente i nomi per
esempio di Monet, di Renoir, di Toulouse-Loutrec, e la nostra immaginazione ci
rappresenta le opere che conosciamo. La memoria ci appare non soltanto come un
serbatoio dove sono presentate tutte le impressioni, tutte le conoscenze, tutte
le idee di una volta, ma come un servitore fedele che, al momento che noi lo
desideriamo, ci offre le cose di cui abbiamo bisogno. È un fatto ed è molto
semplice, ma a guardarlo da vicino, si scopre che questo lavoro della memoria è
una cosa piuttosto misteriosa.
Come
fa la memoria a fornirci, ordinariamente, giustamente quei fatti che
desideriamo e che sono appropriati alla materia di cui ci occupiamo in quel
momento? Si parla della legge dell'associazione o della formazione di complessi
o di altre cose che, per dire la verità, sono solo nomi piuttosto che punti di
spiegazione. Il procedimento che collega la memoria alla coscienza di una certa
materia è oscuro. Dobbiamo ricordare i limiti della psicologia per non
costruire su una base che non merita molta fiducia.
Diverse
volte non è necessario fare appello alla memoria; sappiamo immediatamente, con
evidenza assoluta, il male che noi abbiamo fatto. È sufficiente provocare
l'attitudine generale per l'esaminazione affinché questi fatti emergano alla
nostra coscienza. Malgrado il fatto che non ci si pensi sempre, che il ricordo
del peccato commesso sia relegato in qualche angolo della nostra anima, noi non
ne abbiamo perso la coscienza. È come se questo ricordo facesse presto a
rientrare nella coscienza non appena l'intenzione generale si rivolge all'esame
di coscienza. Ma ci sono altri casi.
Anche
l'uomo che si confessa regolarmente non può, a meno che non utilizzi delle
misure speciali, restare cosciente di tutte le sue azioni. E ce ne sono alcune
che, al tempo dell'azione stessa, non furono riconosciute come peccati. Il
dubbio potrebbe sorgere quando queste azioni sono passate in rassegna. Ma come
ricordarsi tutto ciò che abbiamo fatto? Naturalmente, è soltanto in alcune
ambiti che si cercherà per sapere se si fa del male o no; nella maggioranza dei
casi le nostre azioni sono, ordinariamente, relativamente indifferenti.
Ma
capita che un uomo si dice, un momento dopo aver agito: non è bene; potrebbe
essere, o anche certamente è, un peccato. Ne dovrò parlare quando andrò a confessarmi. E malgrado questo pensiero
e questa intenzione, l'uomo può dimenticare ciò che avrebbe voluto dire. La sua
intenzione era sincera e seria, ma tante cose occupano l'anima, c'è tanto da
fare, da pensare, da arrangiare; il numero delle impressioni più o meno nuove
che inondano giorno per giorno l'anima è talmente grande, che l'azione e
l'intenzione scompaiono. Ciò che resta è, alle volte, un vago sentimento di una
cosa da ricordare, ma sovente né lo sforzo, né il lavoro della memoria bastano
a farci ricordare. L'uomo si dice: mi sembra che ci fosse qualcosa, ma non so
che cosa, e contemporaneamente non sono del tutto sicuro che fosse realmente
così.
Un tale difetto della memoria può
essere innocente. L' uomo non ha fatto niente per dimenticare; la dimenticanza
è il risultato naturale degli avvenimenti e dei limiti della capacità mentale.
Noi non pensiamo che tutto sia l'effetto di un processo di “rimozione” e di un
dinamismo particolare che si sviluppa tra i diversi “strati” dell'anima.
Infine, ci si dimentica anche che presso gli animali, essi, che non hanno il “super-ego”,
non sono preda dei conflitti degli istinti. L'uomo può dimenticare
volontariamente, la rimozione della psicologia Freudiana si suppone che operi
senza che l'uomo ne sia cosciente. È vero che l'uomo sovente non riesce a
dimenticare ciò che non vuole più sapere; se egli potesse, con un semplice
trucco, disfarsi dei ricordi sgradevoli, gli uomini probabilmente ne farebbero
un uso molto esteso. Pertanto di fatto se ne può dubitare. Nietzsche lo sapeva
quando diceva, molto tempo prima della nascita delle prime tracce della
psicanalisi: “Tu hai fatto questo, gli dice la memoria. Tu non potevi agire che
in quel modo, risponde l'orgoglio, e la memoria cede”. Può capitare dunque che
noi dimentichiamo le cose che non amiamo riconoscere. Il ricordo scompare nella
nostra coscienza e tutto ciò che ci resta è un certo malessere, troppo vago per
chiamarlo “rimorso”. L'uomo sa che c'è qualcosa, ma non è capace di
ricordarsene o di scoprire la ragione del suo stato d'animo. Qualche volta
finisce per ritrovare la cosa perduta, se continua a cercare, a scavare la sua
memoria, altre volte, la cosa che lo turba gli scappa, malgrado tutti gli
sforzi.
Qual è il grado di responsabilità
in quei casi di oblio volontario? Questione difficile, fortunatamente non è
compito della psicologia dare una risposta. Ma essa deve far rimarcare che
questo malessere della coscienza senza una ragione apparente, non sempre è
indice di un tale oblìo, che sia volontario o no. Non bisogna pensare sempre
agli effetti della “rimozione”. Questo vago malessere, questa ansietà
indefinita, che non è una vera ansietà ma piuttosto anticipazione di un tale
stato, tutta questa inquietudine, non sono sempre gli effetti di un peccato
commesso o soltanto contemplato e poi dimenticato, perché la vanità non lo
tollera; questi fenomeni alle volte sono la sorda manifestazione di una vita
mancata, che non ha solide fondamenta e che ruota in un mondo più illusorio che
reale. Questo dipanare la vita, questa perdita di contatto con la realtà
può svilupparsi senza che il comportamento esteriore ne soffra. Ma qualche
volta, sotto uno choc improvviso a seguito di un qualsiasi avvenimento (che non
prende andatura di catastrofe tranne che in condizioni particolari) questa vita
sprofonda. Questa inquietudine vaga non deve essere trascurata, poiché può
essere un segnale di pericolo. In questo caso se né la persona stessa né il suo
confessore sono capaci di scoprirne la ragione – peccati commessi, attitudini
colpevoli – noi siamo dell'avviso che una tale persona dovrà consultare uno
psicologo o uno psichiatra.
Bisogna spingere più a fondo
l'analisi fenomenologica dell'oblio. Noi non abbiamo l'intenzione di studiare
né di criticare qui i concetti della psicologia Freudiana. Ma c'è in questa
teoria un aspetto che ci pare degno di attenzione. L'intenzione e l'interesse
della psicanalisi sono quasi esclusivamente diretti verso l'interpretazione
genetica. I discepoli di Freud non hanno mai mostrato interesse per la
descrizione dei fatti psichici; ciò che interessa loro è l'origine,
l'interpretazione causale di questi fatti[2]. Davanti al problema dell’oblio, essi si
accontentano della ricerca dei fattori che hanno causato la scomparsa di tale o
tale altro ricordo della coscienza; ma essi trascurano la descrizione dello
stato d'animo che è l’effetto della dimenticanza.
Ammettiamo che la dimenticanza di
un fatto doloroso o disonorevole accada per i meccanismi di cui ci parla la
psicanalisi; un fatto dimenticato non è soltanto relegato nell'inconscio e
tenuto là dalla forza della “censura”; egli è anche per dimenticanza, separato
da altri fatti che sono accessibili alla coscienza. L'impossibilità di
ricordarsi un fatto, un nome, un ricordo qualunque, è dovuto alla rottura dei
legami associativi. Un fatto dimenticato è un fatto isolato. Condizioni simili
rendono così difficile la ritenzione di cose a noi assolutamente sconosciute. I
fatti sconosciuti, estranei, e quelli che in noi non riscontrano altri fatti a
cui potrebbero essere legati. La rottura dei legami è un fatto che merita di
essere studiato, e che non ha ricevuto un'attenzione sufficiente da parte dei
psicologi. Essi si sono ingegnati a trovare le leggi per cui si stabiliscono le
associazioni, ma non conoscono che poche cose sul comportamento grazie al quale
sono stati rotti questi legami. Ci sembra che questa rottura sia un fenomeno
molto frequente e che “il non pensarci” consista giustamente in uno sforzo per
effettuare tale rottura.
La persona stessa può sviluppare
una specie di tecnica che permette di sbarazzarsi di molti ricordi spiacevoli.
Gradualmente ne acquisisce l'abitudine e questa “purificazione” della coscienza
per mezzo della dimenticanza allora funziona automaticamente e sicuramente
tutto ciò che è o potrebbe essere doloroso o disonorevole viene eliminato;
cessa di esistere, perché perde tutti i legami con gli altri oggetti contenuti
nella coscienza. Ma benché dimenticate, queste cose non diventano
“incoscienti”; esse restano accessibili. Non sono contenute sotto le
volte dell’inconscio al quale l’uomo non ha accesso diretto, sono piuttosto
contenute in una cassaforte, di cui è conosciuta la combinazione anche se mai
utilizzata.
Non possiamo evitare di usare una terminologia derivata dalla nostra
esperienza dello spazio. Il linguaggio umano è stato tessuto, come rimarca H.
Bergson, per le necessità della vita pratica, dunque attraverso l’esperienza
degli oggetti materiali. Ma non si deve mai dimenticare che questo linguaggio,
quando lo si usa in psicologia, è puramente metaforico, ed imposto
dall’impossibilità del nostro vocabolario piuttosto che da una vera analogia.
Se diciamo che l’anima non ha a sua disposizione che un spazio limitato per
contenere i ricordi sgraditi, ci dobbiamo rammentare che questa espressione non
è che una metafora. Ma, nonostante sia una metafora, essa descrive tuttavia un
fatto assai comune da osservare, capita che questa abitudine all’isolamento
conduca infine a dei risultati opposti a quelli che l’uomo si attende.
L’accumulo di fatti isolati in uno spazio limitato, produce, per così dire, una
sorte di pressione, è come se il ricettacolo, dove questi ricordi sono
contenuti, fosse sul punto di esplodere. O piuttosto, come se questo
ricettacolo cominciasse a debordare a causa di una specie di fermentazione
segreta che fa rientrare nella coscienza i fatti quasi dimenticati e questi
ultimi non uno dopo l’altro, ma in massa. Improvvisamente la coscienza viene
invasa da questi ricordi; c’è una inondazione della coscienza, una vera
catastrofe che alle volte termina con la conversione, ed altre volte con una
durezza di cuore ancora più forte dello stato precedente. In alcuni casi
fortunatamente rari, l’effetto di questa catastrofe è la rivolta satanica.
L’inquietudine, il sentimento di colpevolezza e il vago turbamento, che
alcune persone accusano, meritano la nostra attenzione. Non è sufficiente
dirgli che “non ci deve pensare”, o che non deve frugare nella sua coscienza
per cercarvi cose che non possono essere trovate. Quest’uomo sa molto bene in
sé stesso che non ha ragione e conosce già tutto quello che voi gli dite. E
proprio perché non ha ragione di essere agitato che egli è agitato e che il suo
malessere sta crescendo. L’inquietudine senza ragione è più inquietante ancora
di quella la cui causa è conosciuta. Cerchiamo
una spiegazione: alcuni non trovando niente nel loro passato immaginano che la
loro inquietudine sia il presagio di malesseri futuri, è necessario trovare una
ragione del loro stato, e se non la trovano nel passato la cercano
nell’avvenire.
I buoni consigli, dati così facilmente e di sovente, il “non ci devi
pensare”, non hanno alcun effetto e non apportano alcuna consolazione all’uomo
che soffre di una tale inquietudine o che è perseguitato da un’idea, o
preoccupato da qualche pensiero di cui conosce egli stesso la futilità. Egli sa
molto bene che sviarsi da tutto ciò sarebbe la cosa migliore che potrebbe fare,
è ciò che desidera. Ma il malessere consiste giustamente nel fatto che non può
obbedire né ai consigli altrui, né a quelli che si da lui stesso. Si dice di
sviarsi da tali preoccupazioni, molto bene, ma non ha modo di farlo senza che
ci sia qualcosa verso cui si possa rivolgere. E le idee che lo perseguitano
sembrano possedere un’attrazione troppo forte; anche se potentemente lo vuole,
non può lasciarle. O meglio, esse non lo lasciano. Questi buoni consigli sono
dunque, in quel preciso istante, assolutamente inefficaci. Sovente essi
producono una reazione opposta a quella che vorrebbero vedere. L’uomo sente che
non è compreso o che gli è impossibile di farsi capire; perde la poca
confidenza che aveva nell’opportunità di trovare qualche sollievo; dispera di
mai sganciarsi dallo stato infortunato nel quale si trova. Invece di sentirsi
incoraggiato, conclude piuttosto che niente lo può aiutare e finisce per
abbandonare tutti gli sforzi, si lascia andare di più o di meno, forse non
cesserà di adempiere i suoi obblighi religiosi e morali, ma cadrà nella
routine, in un puro meccanismo.
I casi di questo tipo presentano senza dubbio delle considerevoli
difficoltà, in particolare perché, come diremo più tardi, il confessore non ha
a sua disposizione i mezzi per penetrare nelle profondità della personalità.
L’abitudine di relegare alcuni ricordi in un angolo lontano della
coscienza e di evitare accuratamente di ritornarvi è molto comune; pertanto
essa non produce, sempre felicemente, le conseguenze di cui noi parliamo.
Benché gli uomini non amino (riconoscere) confessare, né a loro stessi, né ad
altri, le azioni cattive che essi hanno commesso o di cui si vergognano, la
memoria generalmente è sufficientemente potente per forzare la coscienza a
riconoscere anche le cose di cui amerebbero sbarazzarsi. Siccome questi ricordi
non cessano di presentarsi alla coscienza, occorre che l’uomo trovi altri mezzi
per sbarazzarsene.
Il mezzo più conosciuto ed il più efficace è la scusa. Si potrebbe
rovesciare un detto conosciuto: chi si accusa si scusa. La semplice confessione
quia peccavi nimis va contro gli istituti più profondi
della natura umana. Gli uomini hanno, in generale, un’opinione troppo buona di
se stessi, che possono credere di aver commesso degli errori senza alcuna
ragione per commetterli. Le scuse sono, sovente, molto incredibili ma occorre
concedere che anche la scusa più incredibile può essere vera. In mezzo alle
scuse ce n’è una, impiegata sovente, che a prima vista vale la pena di essere
presa sul serio. Un uomo vi dirà che egli ha fatto questo e quello, che ora sa
che era male, ma che ignorava il carattere immorale della sua azione al momento
dell’esecuzione. La presunzione generale è naturalmente che un uomo adulto
d’intelligenza normale, o un bambino di una certa età, sia pienamente cosciente
di ciò che è permesso o vietato. Pertanto c’è da esaminare prima una scusa,
anche se incredibile, particolarmente quando si ha a che fare con un ragazzo o
un adolescente. Precisiamo nel frattempo che la differenza tra la mentalità
infantile e quella dell’adulto è molto meno grande di come la si pensi
generalmente.
Una regola può essere perfettamente legittima come principio generale e
tuttavia inapplicabile in un caso individuale. Negli affari umani non ci
sono leggi simili a quelle che conosce la scienza. Le leggi che noi conosciamo
sono quelle della statistica, quindi valide solo per la media, non per tutti
gli individui. Possiamo supporre, fidandoci della statistica, che ad una certa
età il ragazzo possiederà una sufficiente conoscenza delle leggi morali e dei
comandamenti; ne siamo ancora più sicuri grazie al fatto che il bambino riesce
a recitare tutte queste regole senza errore. Ma tale attitudine a recitare non
deve essere confusa con la vera conoscenza che equivale alla capacità di
applicare correttamente il principio generale al caso particolare. Un ragazzo sa,
per esempio, molto bene, che è vietato rubare; ma sapere ciò non lo rende
necessariamente capace di riconoscere un’azione individuale come un furto. Ci
sono molte persone adulte che sono incapaci di applicare l’idea di furto, per
esempio, a delle azioni grazie alle quali ci si rende possessori di una cosa
trovata o di una cosa che appartiene al pubblico, alla comunità o allo stato.
Queste persone non sono del tutto incapaci di ragionare; esse non soffrono di
una carenza di logica. Se la natura dell’azione viene loro dimostrata, la
comprendono bene. Ma non avrebbero mai pensato che la nozione di furto avesse
potuto essere applicata alle loro azioni. La loro condotta è determinata
dall’ignoranza e non dalla malizia.
Una tale ignoranza non è affatto sorprendente. Essa risulta da un
pregiudizio, da una forte abitudine che consiste nel non esaminare mai le idee
di cui si è perfettamente sicuri che sono esatte. Anche quelli che hanno
imparato a ragionare, non vedono alcuna ragione per esaminare ciò che essi “sanno”
essere vero. Sarebbe per loro una perdita di tempo ed un lavoro inutile. Noi
non possiamo fare qui la psicologia del pregiudizio, problema ben più
importante e multiforme. Ma occorre ben rimarcare che le idee ricevute come
“evidenti” sono tra le più pericolose; l’evidenza che si crede di possedere non
è che l’effetto sovente dell’abitudine.
È grazie all’uomo che si scusa che si esaminano le sue scuse; è sempre
possibile che egli dica la verità. Anche oggi succede che una giovane ragazza
sia completamente ignorante della vita sensuale e commette dei peccati carnali
senza sapere che fa.
L’esame di coscienza deve precedere la confessione. Attraverso questo
esame l’uomo si sforza di ricordare ciò che ha fatto di male durante il tempo
sul quale porta il suo esame; egli cerca nella sua memoria i ricordi che si
rapportano alla sua vita morale e dunque alla sua confessione. Il processo
mentale di un richiamo specificato è lo stesso qui che negli altri casi; ma non
è meno misterioso. La psicologia di tale processo è dunque un problema di
psicologia generale e non può essere discussa qui. Il materiale che l’esame
presenta alla coscienza e al giudizio non è uniforme; essa comprende almeno due
classi di fatti: le azioni (comprese naturalmente le parole ed i pensieri) e le
attitudini.
Ci si ricorda senza troppa difficoltà delle azioni concrete, delle
parole pronunciate, delle idee chiare che si hanno avuto, soprattutto se il
tempo esaminato non è troppo lungo. (Trascuriamo qui i casi particolari di cui
abbiamo parlato prima). Pertanto esiste una difficoltà per alcune anime
timorate che si spaventano all’idea di dimenticare qualcosa e che allora girano
e rigirano nella loro coscienza tutti i loro ricordi per assicurarsi di averli
scoperti tutti. Ma l’uomo è naturalmente incapace di raggiungere una tale
perfezione, non può mai avere la certezza perfetta di non aver omesso nulla,
d’aver ricostruito senza alcuna lacuna i tempi passati, tuttavia c’è in
qualcuno una sorta di vanità segreta che fa loro ambire una certezza ed una
perfezione che nessuno può attendere.
Il richiamo ed il riconoscimento delle attitudini è un’altra cosa
difficile. Ora non si tratta più di ricordarsi di fatti concreti, di azioni
particolari, ma di riesumare dalle “camere segrete del cuore” i motivi che
determinano abitualmente il comportamento. Numerose persone, sincere, oneste,
ansiose di fare dei progressi si lamentano di commettere sempre gli stessi
fatti, d’altronde non troppo gravi, imperfezioni piuttosto che peccati, ma
tuttavia ostacoli sulla via della perfezione.
Qui, come più avanti, non ci occupiamo della questione morale, ma del
problema della responsabilità o del grado di questa responsabilità concernente
le abitudini e le motivazioni abituali. Tale problema si solleva in particolare
nei casi ove il penitente non sa niente o quasi niente delle sue attitudini
abituali. Ma il ruolo della psicologia non è giudicare. Essa sottomette le sue
idee al giudice, essa non giudica mai.
Sappiamo che le azioni di un uomo dipendono non soltanto dalla
situazione momentanea in cui si trova e come la desidera, non soltanto da ciò
che egli conosce o comprende o crede ma che esse dipendono anche dalle sue
attitudini abituali, prodotte da una lenta evoluzione, da influenze molto
diverse che costituiscono il punto di vista dal quale questo uomo guarda la
realtà ed anche guarda se stesso. Non
c’è niente di più difficile da scoprire che il punto di vista che ci è
abituale. Il punto di vita, una volta scelto, ci fa vedere tutto, compreso noi
stessi, da una certa prospettiva che noi non possiamo correggere e di cui non
sappiamo se essa è vera o falsa. Ma ingenuamente la supponiamo corretta e di
conseguenza non sentiamo la necessità di rivederla.
Quando osserviamo qualche edificio, per esempio una cattedrale, sappiamo
che la facciata non è tutto, che ci occorre fare il giro della cattedrale e
sintetizzare nella nostra immaginazione le diverse immagini per avere un’idea
vera dell’edificio. Finché guardiamo la facciata non possiamo indovinare la
lunghezza, né il numero delle finestre, né la forma dell’abside. Portiamo con
noi il punto di vista che ci è abituale e la prospettiva che ne è l’effetto.
Non possiamo fare il giro di noi stessi.
La celebre iscrizione esortante
l’uomo a conoscere se stesso non si trovava su una casa o un tempio nell’agorà di Atene, ma sul portale che apre
ai pellegrini il quartiere consacrato al dio Apollo a Delphi. La saggezza greca
insegnava che l’uomo non può aspirare a questa conoscenza di se stesso in mezzo
agli affari della vita quotidiana e che occorre che ricerchi la solitudine, il
raccoglimento, la preghiera, per arrivarci. Queste condizioni non sono
realizzabili comodamente; l’oracolo sembrava indicare che la conoscenza di se
stessi è cosa rara e difficile da compiere, e che l’uomo non la possiede per
natura. Ma gli uomini pensano in generale che ognuno conosce se stesso meglio
di ogni altro e meglio di come un altro potrebbe conoscerlo.
Pertanto non è raro osservare
che l’uomo ha di se stesso un’idea molto falsa. Si crede amabile ed è invece di
una rudezza intollerabile; si crede piacevole e gli altri lo temono tanto è
noioso, e via di seguito. Queste modalità di condotta provano che gli altri
sono evidentemente giudici migliori, perché sono le vittime di questa condotta
e conoscono le nostre reazioni. Ma l’uomo non è da meno per mantenere altre
forme di condotta. Citiamo un esempio: una giovane ragazza di venticinque anni
ci è stata indirizzata dal suo confessore perché afflitta da turbe nevrotiche.
Per semplificare il suo racconto, essa mise nelle nostre mani, a partire dal
nostro incontro, un diario sul quale riportava in dettaglio tutti gli
avvenimenti della sua vita interiore ed esteriore. Ora l’ultima annotazione
portata al nostro primo incontro diceva così: “Il Padre X ed il dottore mi
hanno detto oggi che sono una persona molto egoista; io mi ero sempre
considerata come la persona meno egoista del mondo”. Un uomo può restare
ignorante anche di una passione; a volte capita che gli altri capiscano prima
che due persone si amano rispetto agli stessi innamorati.
Se gli uomini ignorano sovente la natura del loro carattere o della loro
condotta, essi ignorano ancora più i motivi che determinano questa condotta.
Essi sanno bene che una qualsiasi azione è il risultato di un’idea; ma se voi gli
domandate perché essi agiscono in quella maniera, le risposte saranno poco
soddisfacenti. Vi diranno che è naturale agire in quel modo, che tutte le
persone ragionevoli fanno la stessa cosa, che in effetti lo fanno tutti, ecc.
Ma se voi insistete e gli domandate perché dunque tutti agiscono in quel modo,
scoprirete che non sa rispondere.
Si è rimarcato sovente che è molto difficile far cambiare metodo a degli
uomini che ne hanno l’abitudine. Si è sempre fatto così; era molto buono per il
padre, perché far seguire un altro procedimento ai figli; è il costume; è così
che si fa. D’altra parte gli uomini sono curiosi ed avidi di novità; ma a quel
che sembra, ci sono degli aspetti della vita dove il cambiamento è approvato ed
altri dove è fuori discussione. Sarebbe interessante analizzare queste
attitudini, ma non possiamo pensare di farlo ora.
Questa sorta di attitudine conservatrice, questa resistenza ad ogni
innovazione, questa conservazione ostinata di ciò che esiste, s’incontra a
tutti i livelli della vita. Gli uomini sono poco disposti ad abbandonare un
procedimento di lavoro abituale e non sono disposti ad abbandonare delle idee
una volta impiantate nel loro animo. È difficile convincere gli uomini che
un’idea che a loro dispiace può avere nientemeno che dei meriti o che le forme
di vita di un popolo straniero sono più ragionevoli delle loro. Non si può far
vedere loro, se non con sforzi continui, che un’idea non è necessariamente
falsa perché essi non l’approvano o perché non la conoscono. Essi non sono
stupidi ma sono dominati da attitudini di cui ignorano l’esistenza e l’origine.
Se è così nei casi ove l’interesse personale non interviene che ad un
livello moderato, si comprende come la resistenza sia ancora più grande quando
si tratta di attitudini che formano la base della vita morale. Gli uomini non
vedono alcuna ragione di esaminare e di riformare le loro attitudini perché
sono una parte integrale di tutta la loro esistenza. Della condotta che deriva da queste
attitudini più o meno funeste, gli uomini raramente ne cercano la ragione in
loro stessi, piuttosto accusano la cattiva fortuna, la malizia degli altri, o
anche il diavolo.
Qualunque sia il grado di responsabilità è importante che l’uomo si
liberi delle attitudini che non sono compatibili con i principi che egli
professa ed i fini che vuole raggiungere. Se egli desidera veramente il
progresso deve esaminare ciò di cui non ha le idee chiare. Questo è necessario
perché una condotta che non va perfettamente d’accordo con i principi
riconosciuti e inviolabili, diventa un ostacolo per il progresso morale, anche
se non porta delle disgrazie materiali e forse appare formalmente impeccabile.
Ma c’è anche un’altra ragione che rende indispensabile l’autocritica delle
attitudini fondamentali.
L’azione individuale, come atto completo, diparte evidentemente dalla
persona che agisce. Ma un’azione può essere più o meno estranea a ciò che
l’uomo concepisce come sua natura o suo essere. Un’azione può sorprendere
l’uomo. Egli può stupirsi di essere capace di agire in tale maniera, tuttavia
sa che questa azione è la sua, che è un prodotto della sua volontà. Ma la
relazione tra l’azione e la persona presenta un duplice aspetto; benché
l’azione appartiene all’uomo come sua, essa è anche posizionata, per così dire,
ad una certa distanza dalla persona nel momento che l’azione viene compiuta.
L’azione una volta eseguita si stacca dall’uomo e diventa oggettiva e perciò
cessa di essere un atto e muta in effetto[3].
Ogni azione, anche la meno importante, raggiunge qualche “creazione” qualche
effetto che sovente è di natura passeggera (come una parola o un gesto) ma che
cambia nientemeno per un momento la realtà e che fa apparire un nuovo fenomeno.
Più grande e più persistente è il cambiamento della realtà, più gravi sono le conseguenze
dell’azione. È per questo che l’azione propriamente detta è cosa più seria che
la parola o il pensiero (quia peccavi
nimis cogitazione, verbo et opere). Nello stesso tempo l’azione ha un
carattere liberatorio per il fatto che essa si stacca dalla persona e che il
suo effetto è in qualche modo al di fuori della persona[4].
L’attitudine, d’altra parte, fa parte essa stessa della personalità da cui non
se ne separa mai, almeno che l’attitudine non sia profondamente alterata o
totalmente distrutta.
Se l’azione proviene dall’essere (operari
sequitur esse), essa non è
però l’essere stesso. Ma l’attitudine abituale appare come un tratto inerente a
questo essere. Questo fatto diventa particolarmente importante nella psicologia
della contrizione o del pentimento.
La contrizione è una condizione necessaria affinché la confessione abbia
l'influenza purificatrice che le è propria. Si capisce che qui non parliamo di
teologia; ma il penitente che va a confessarsi sa che occorre pentirsi perché
senza questa intenzione la confessione sarebbe vana. L’esperienza della
contrizione è dunque una condizione psicologica come l’esistenza della
contrizione è una condizione teologica[5].
Subito vogliamo sottolineare la nostra convinzione che l’atto del
pentimento non è in prima linea un fenomeno emozionale; per pentirsi occorre
che si abbia la conoscenza del peccato, ogni contrizione, qualunque sia il suo
sviluppo ulteriore, comincia ed è fondata su di un atto cognitivo. Occorre
giudicare per pentirsi.
Il rimorso, il rimpianto, la contrizione si rapportano da vicino ad
un’azione particolare che è giudicata immorale. Va detto che ci sono dei
fenomeni analoghi per non dire identici, riguardo ad altre azioni; si può
rimpiangere di esserci ingannati o di non aver approfittato di una opportunità.
Ma la contrizione nel senso stretto della parola appartiene alla vita morale.
Allo stesso tempo esiste un altro aspetto. Max Scheler rimarcava giustamente
che la vera contrizione consiste meno nel deplorare di aver agito in un tale o
tal’altra maniera quanto più nello scoprire che aver agito in tale maniera è
stato come una cosa “naturale” al momento dell’azione. Ciò che noi deploriamo
meno è l’azione come tale ma non il fatto che una tale azione sia risultata del
nostro essere. L’oggetto della contrizione non è tanto il fatto che si abbia
commesso un peccato, piuttosto che si sia stati capaci di agire così. La parola
“potere” non significa nel contesto presente la possibilità generica di poter
fare il male, possibilità inerente alla natura umana, ma piuttosto ciò che si
potrebbe chiamare la “connaturalità” del peccato.
Scheler, aveva ragione, come noi
pensiamo, quando diceva che la vera contrizione è più del semplice rimpianto,
se la contrizione diventa perfetta essa ci eleva al di sopra della condizione
dello stato in virtù della quale questa “connaturalità” esisteva. O piuttosto,
affinché una vera contrizione possa esistere occorre essere già elevati al di
sopra del livello esistenziale dove il peccato ci era “naturale”[6].
Affinché la contrizione sia
sufficiente alle condizioni della confessione è necessario che essa sia
chiaramente accompagnata da uno stato emozionale? La questione ha un certo
interesse pratico salvo la sua importanza dal punto di vista della teoria.
Riguardo quest’ultima la questione non è altro che una specificazione del
problema generale dell’importanza degli stati affettivi nella vita religiosa.
In pratica la questione consiste nel sapere se si può avere una vera
contrizione senza che l’uomo si senta profondamente emozionato.
Alcune persone si accusano di
non essere mai contriti “come si dovrebbe”. Queste persone sanno molto bene che
hanno peccato, esse riconoscono perfettamente il carattere morale delle loro
azioni, essi vogliono promettere bene di non agire più in tale maniera e di
evitare le occasioni di peccato. Ma tutto ciò non basta loro: “essi non sentono
niente” e dubitano della sincerità ed anche dell’esistenza del loro pentimento.
L’atto di contrizione che recitano coscienziosamente appare loro come privato
di senso, solo delle parole, perché non si sentono emozionate. Hanno paura che
la confessione sia senza valore, che essi commettono un peccato in più
andandosi a confessare e quindi preferiscono non confessarsi. Non è il lassismo
che li fa agire così, tutto il contrario, sono persone che prendono molto
seriamente il dovere della religione, che aspirano sinceramente ad una vita
buona e morale e che sono pienamente coscienti della dignità del sacramento. Ma
“non sentono niente”. Pensano che bisogna essere profondamente emozionati,
anche sciolti in lacrime, etc… Hanno sentito parlare di alcune persone che
deplorano tale condotta, forse qualcuno ha insegnato loro che occorrerebbe “essere
tristi”, deplorare, nel senso proprio del termine, il proprio peccato, in una
parola avere un’esperienza emozionale chiara e forte.
La psicologia detta dei tipi, ha
fatto rimarcare che il dono dell’affettività non è sviluppato allo stesso grado
in tutti. Alcuni reagiscono con più ed altri con meno emozione. Pertanto ciò
non vuol dire che questi ultimi siano meno capaci di una valutazione dei beni
morali o della volontà di perseguirli. Sarebbe ingiusto rimproverare ad un uomo
di non fare ciò di cui è incapace. E sarebbe irrazionale che un uomo esiga da
se stesso una condotta per cui non è dotato.
Molti di quelli che sono così
scontenti di sé stessi perché “non sentono niente”, sono in effetti animati da
una specie di “vanità dello spirito” (riportiamo questa parola da La
Rochefoucauld). Sembrano pensare che a loro è richiesto il grado supremo di
contrizione. Desiderano l’eccezionale, il sensazionale e sono più interessati
alle loro esperienze che a ciò che queste esperienze significano nella realtà.
Assomigliano in qualche modo a quelle persone che, contemplando un’opera d’arte
o ascoltando la musica, godono del loro stato soggettivo piuttosto che della bellezza
oggettiva.
Questa vanità dello spirito o
questa ambizione spirituale ha un’importanza molto grande. Molte persone
abbandonano gli sforzi verso il progresso spirituale perché non incontrano per
niente le straordinarie sensazioni che si attendono. Ci sono che cercano a qualsiasi prezzo la “grandezza”,
se non vogliono commettere dei “grandi” peccati fino alla fine, essi descrivono
almeno in un modo o nell’altro, ciò di cui sono capaci. Vogliono essere “interessanti”,
fosse anche attraverso il peccato[7].
Talvolta non è l’ambizione ma
l’ignoranza che fa dubitare un uomo della sincerità e dell’efficacia del suo
pentimento. Egli ben rimpiange il male che ha fatto, ma anche lui “non sente
niente” ed è convinto che occorre sentire. Sovente sente qualcosa ma crede che
occorra sentire di più. Ha una certa idea della intensità che l’emozione deve
provocare perché si abbia contrizione. Dice il vero quando rimarca che sente
molto di più nelle occasioni numerose della vita quotidiana; aver offeso Dio è
una cosa ben più grave di tutti gli avvenimenti ordinari e ciononostante non è
maggiormente emozionato. Ma questa ci appare come una teoria colpevole di
cercare nell’emozione tutta la valutazione o tutto il riconoscimento del bene e
del male.
Noi osserviamo che se c’è un
istante in cui il pentimento presuppone un giudizio, dunque un atto di
conoscenza che può o non può causare una reazione emozionale. Ma, si dirà, il
giudizio è ben un atto cognitivo mentre l’intuizione o l’apprendimento dei
valori non lo è. È attraverso l’emozione che noi sentiamo, noi sappiamo di
essere in presenza di un valore. Questa teoria è mantenuta da molti autori che
si sono occupati di questi problemi; ma noi riteniamo che sia falsa e basata su
osservazioni insufficienti[8].
Pertanto non siamo i soli a sostenere questa tesi.
Forse è naturale che la
conoscenza dei valori sia attribuita ad una reazioni affettiva, naturale,
poiché l’uomo reagisce generalmente attraverso qualche emozione al
riconoscimento di un valore; se è un bene noi sentiamo della gioia, o se è
qualcosa di piacevole noi sentiamo del benessere; una cosa ci disgusta,
un’altra ci atterrisce, e così via di seguito. Ma ci sono anche dei casi ove
noi riconosciamo un valore senza che si abbia una reazione emotiva. Può
succedere anche che la reazione emotiva sia opposta a quella che
corrisponderebbe al valore riconosciuto.
Siamo capaci di dire di fronte
ad un oggetto d’arte “ne vedo bene la bellezza, ma è in una condizione che mi
lascia freddo”. Diciamo la stessa cosa riguardo ad una donna, è bella, ma “non
è il mio tipo”. C’è senza dubbio un apprezzamento dei valori estetici senza
un’emozione corrispondente. La stessa cosa può creare delle impressioni
opposte; la musica che noi amiamo da sempre oggi può avere un effetto
deprimente; non siamo ben disposti; diciamo: “che peccato, non posso godere
della bellezza di questa musica”; ma non pensiamo che quella bella musica di
ieri sia diventata meno bella perché oggi la nostra reazione emotiva è
differente.
G. E. Moore ha rimarcato che c’è
valutazione anche delle nostre emozioni. Approviamo una reazione affettiva
poiché giustificata e ne condanniamo un’altra che non giudichiamo decente. È
impossibile che la valutazione di un sentimento sia un altro sentimento.
La prova più convincente della
relativa indipendenza della valutazione dalla relazione emozionale sembra
essere fornita dalla perdita di un oggetto e della tristezza che essa ci causa.
Affinché la perdita sia dolorosa occorre che l’oggetto perduto possieda un
grande valore ed occorre inoltre che questo valore sia riconosciuto e persista
come riconosciuto anche come stato di tristezza. In questo stato ci sono
simultaneamente due atti di valutazione: uno che ci assicura del valore,
l’altro che corrisponde alla consapevolezza di non possederlo più. Il paradosso
della consistenza di due atti valutativi opposti sparisce dal momento che si
smette di attribuire la valutazione all’emozione. Il riconoscimento del valore
è la causa primaria ed appartiene ad una facoltà cognitiva; l’emozione è il
fenomeno secondario, la reazione da parte della persona al riconoscimento di un
valore[9].
Se l’emozione non è il mezzo
attraverso la quale (in quo) noi
arriviamo alla conoscenza dei valori, essa non è per questo senza importanza
nella situazione totale. La reazione emozionale ci mette, in qualche modo, in
contatto più intimo con il valore, e per questo diventa un fattore nell’azione
di valutazione di questo valore. L’emozione ha anche l’effetto di rendere la
nostra coscienza più permeabile al valore; quest’ultima ci sembra più attraente
e più repulsiva secondo la natura della reazione affettiva.
Dalle note precedenti (che
avrebbero bisogno di ulteriori spiegazioni e di approfondimenti) segue che la
contrizione è in prima linea come fenomeno spirituale e che l’emozione vi entra
come reazione secondaria. Dunque è perfettamente possibile pentirsi realmente
ed avere un’esperienza emozionale molto debole. Il grado (se si può parlare in
termini quantitativi di queste cose) di contrizione non può essere giudicato
dall’intensità della reazione emozionale; il solo criterio di contrizione è il
suo carattere di lealtà, di cui solo Dio e il penitente sono giudici. La
contrizione sincera esercita abitualmente un’influenza trasformatrice sulla
condotta.
L’uomo contribuisce alla
trasformazione del suo essere attraverso la decisione di non peccare più. Si
dirà che tutte le vere contrizioni devono portare a tale decisione. Ma si
incontrano alle volte dei casi che accusano uno stato mentale molto
paradossale. Ci sono delle persone che dichiarano di sapere che hanno peccato,
che si pentono e si rammaricano del male fatto, ma non vogliono promettere di
non peccare più; al contrario dicono che non possono fare una tale promessa,
perché sanno che ci ricadranno se si presenta un’occasione uguale.
In alcuni casi questa
dichiarazione paradossale non è che l’espressione di poca confidenza e un
eccesso di sincerità combinata con un malinteso. Queste persone credono che si
chiede loro di tenere una vita assolutamente impeccabile affidandosi alle
proprie forze. Ed è vero che l’uomo non può avere la certezza perfetta
riguardante la sua futura vita morale perché egli non ha nessuna sicurezza
riguardo all’avvenire in generale. Se fosse così facile vivere senza peccato – integer vitae scelerisque purus -, noi
non avremo bisogno dei sacramenti. L’uomo che non vuole fare promesse è troppo
cosciente della propria debolezza e non ha abbastanza confidenza nell’aiuto che
riceverà dalla grazia[10].
Ma la coesistenza di un
pentimento sincero con il rifiuto della promessa è alle volte di natura più
complicata. Ci sono degli uomini che non soltanto non vogliono promettere di
non peccare più ma che dichiarano che sono sicuri di peccare un’altra volta se
si troveranno nella stessa situazione. L’uomo sente lui stesso il paradosso e
ne è turbato; qualche volta si sviluppa un serio conflitto interiore. Egli non
vuole peccare ed allo stesso tempo sa che peccherà e non perché sarebbe troppo
debole per resistere alla tentazione ma perché sente che agirà in un modo che
riconosce lui stesso come colpevole. Questo stato sembra all’inizio
incomprensibile ma un’analisi più approfondita ne rivela la natura.
Il conflitto non è tra due
volontà coscienti e contraddittorie ma tra una volontà formata da principi
riconosciuti dalla conoscenza teorica intellettuale, ed un’attitudine le cui
radici si estendono nella profondità della personalità. In questi casi ci sono in qualche modo due
coscienze, come ci sono, secondo un passaggio ben conosciuto delle Confessioni di Sant’Agostino, talvolta,
due volontà. Chiamiamo queste due coscienze la “coscienza intellettuale” e la “coscienza
attitudinale”. Il rammarico e la confessione del peccato appartengono alla
prima, il rifiuto della promessa e della previsione di agire così nell’avvenire
alla seconda. La prima condanna l’azione commessa, la seconda predice che
l’azione sarà eseguita. Si può dire che l’uomo incastrato in una tale
situazione non riesce a resistere alla tentazione perché è una tentazione solo
per la coscienza cosiddetta intellettuale, al posto di un invito ad un’azione
che si stima onorabile da punto di vista della coscienza attitudinale. Si
potrebbe dire che l’uomo possiede una seconda coscienza che è sbagliata, senza
che conosca l’esistenza né di questa coscienza né del suo giudizio[11]. Ma per
quanto paradossale sembri, è così che l’uomo peccando obbedisce alla sua
coscienza o ad una delle sue coscienze.
Non si tratta, nell’ultimo caso,
di peccati che devono apparire come tali a tutta. La coscienza, superficiale o
profonda (se vogliamo creare questo termine per analogia al “ sé profondo” di
M. Bergson). I peccati di cui parlano questi uomini non sono tra quelli detti
grossolani, come il furto, o il libertinaggio. Sono piuttosto dei peccati
sottili, concernenti la carità, la preservazione dell’onore, tutto ciò che si
rapporta con l’orgoglio.
Occorre essere prudenti in
questi casi paradossali, per non giudicare ingiustamente. Non si deve dubitare
della possibilità che il penitente, malgrado l’apparente contraddizione, possa
essere anche sincero. Abbiamo già rimarcato come sia possibile che il penitente
che parla in detta maniera si sia sforzato di essere eccessivamente sincero.
Quando si incontra un caso così, si dovrà fare un’attenta investigazione prima
di condannarlo come mancante di sincerità o di buona volontà.
L’uomo che si crede incapace di
resistere alla tentazione è di un altro tipo. Egli non vuole promettere che non
peccherà più, perché prevede che cederà, prima o poi, alla tentazione. Egli “si
conosce” ha esperienza; è stato provocato tante volte ed è convinto che non ci
si può fare niente. Gli si dice che deve evitare le occasioni di peccato, ma
non è sempre possibile, egli non cerca le occasioni, esse vengono a cercarlo.
Ha pregato per avere la forza di resistere e non è stato esaudito. Preda di un
peccato abitudinario l’uomo immagina che Dio lo ha abbandonato. Si vede
chiaramente che un pensiero di questo tipo mette l’uomo in una posizione
estremamente pericolosa. Non durerà a lungo, e cesserà di fare altro sforzo,
non soltanto nei riguardi del suo peccato abitudinario ma nei riguardi di tutta
la vita morale. Non c’è alcuna ragione per fare degli sforzi; egli pecca e se
non può liberarsi dei suoi peccati, ogni sforzo perde senso.
Tra i peccati abituali, il
peccato carnale gioca il ruolo più importante, almeno secondo l’opinione
generale. Ma ci sono altri peccati, carnali anch’essi, che sono d’importanza
appena minore. Citiamo, senza voler dare un’enumerazione completa: la
ghiottoneria, l’abuso di bevande alcoliche, l’uso di sostanze narcotiche, il
gioco, la pigrizia. Inoltre ci sono dei peccati di ordine superiore, che sono
più gravi e soprattutto che hanno delle conseguenze assolutamente deplorabili
come il “pettegolezzo”, questa funeste abitudine di diffondere le “notizie
interessanti” senza alcuna garanzia di veridicità; c’è la mancanza di carità,
molto più comune di quanto si pensi. Ma le persone non se ne accusano affatto,
perché donano il denaro ai poveri o alla parrocchia. Essi non suppongono che la
loro abitudine di critica maldicente, la loro invidia, la loro mancanza di
fiducia in chicchessia, sia l’espressione di una mentalità completamente
estranea alla carità. C’è ancora il cattivo umore abituale, la depressione
cronica (non nel senso della psicopatologia), l’idea che si è trattati dal Buon
Dio come il figlio di un altro letto[12].
Occorrerebbe un trattato intero
se volessimo discutere in dettaglio la psicologia delle diverse forme di
peccato abitudinario. Essendo impossibile ci limiteremo ad una nota generale e
cercheremo di illustrare attraverso una breve analisi una sola forma di
condotta.
Ci sembra che sia ben necessario
essere pienamente coscienti di una cosa: una condotta che appare come la “stessa”
può essere l’effetto di fattori molto diversi e può avere, nel contesto di due
personalità, dei significati molto diversi. O, per usare una formula che ci ha
dato buoni risultati: non esiste il dizionario dei sintomi. Non è consentito
dire che un tratto del carattere, una forma di condotta, o un sintomo nel senso
della clinica mentale, siano sempre causati dagli stessi fattori, indirizzati
verso gli stessi fini, o che esprimono le stesse attitudini. È la stessa cosa
nei confronti dello stesso singolo individuo. Egli può comportarsi alla stessa
maniera in differenti periodi della sua vita e la sua condotta può avere un
significato durante la giovinezza ed un altro durante la maturità. Il
comportamento o il carattere non sono mai dei dati univoci. Non si ha il
diritto di giudicare senza fare prima l’analisi di ciascun caso. Questo è tanto
più necessario quanto più la persona in esame è normale. Il carattere di un
uomo diventa via via tanto più tipico quanto più si allontana dalla normalità.
Non esistono “degli originali” nelle case di cura.
Diamo ora un colpo d’occhio al
fenomeno della pigrizia. La scegliamo perché l’opinione generale la considera
come una cosa semplice ed univoca. Così possiamo dimostrare la nostra tesi
attraverso una discussione veloce secondo cui non è sempre “la stessa cosa”. La
pigrizia ci sembra possa offrire delle particolarità piuttosto istruttive.
Per cominciare diciamo che c’è
una pigrizia apparente che è l’effetto di una malattia, o di un malessere
cronico senza sintomi, ben definita. È
importante soprattutto quando si ha a che fare con i bambini. Un bambino che
diventa pigro deve essere esaminato dal medico prima di essere punito o
esortato a grandi sforzi. Ogni medico preparato sa che ci sono dei disturbi
cronici che consumano l’energia vitale e rendono impossibili gli sforzi
continui.
Evidentemente, i casi di questa
natura non sono di competenza della psicologia. I casi ordinari di pigrizia
meritano un esame.
Il pigro è guardato come
qualcuno che odia lo sforzo. Egli preferisce la tranquillità, l’inattività,
anche se gli costa caro. Egli sopporta le punizioni, si accontenta di una vita
precaria, resta sordo a tutte le critiche pur di non essere spinto a fare uno
sforzo. Il pigro non sempre è un flemmatico, benché lo sia di sovente o lo
diventi a causa di molti meccanismi di difesa. Ma ci sono quelli vivaci,
sanguigni, anche collerici e che malgrado ciò odiano tutti gli sforzi. Tra
questi ultimi se ne trovano alcuni che sono pigri soltanto riguardo ad alcune
attività. Lo scolaro pigro è sovente capace di un’attività sorprendente nel
momento in cui si orienta verso un’occupazione che non ha niente a che vedere
con la scuola ed i suoi impegni. Questo fenomeno dovrebbe far pensare,
evidentemente non si può parlare in questo caso di una pigrizia “costituzionale”
dovuta ad un temperamento innato.
La madre o l’educatore considera
lo studente pigro (e la stessa considerazione può essere applicata ai pigri
adulti) come un individuo privo di ogni ambizione. Non lo preoccupa essere
ultimo, il successo non ha alcun significato per lui.
Un bel giorno il maestro di
scuola, annoiato per non poter far progredire lo scolaro pigro, lo invia ad un
consulto psicologico. E, fatto curioso, l’opinione dello psicologo è molto
diversa da quella del maestro. Lo psicologo pretende che questo scolaro,
lontano dal non essere ambizioso, lo è troppo e la sua pigrizia è l’effetto di
un’ambizione esagerata. Che l’ambizione causi la pigrizia non è così
paradossale come potrebbe apparire in un primo momento. Per un uomo che non
possa soddisfarsi se non di successi straordinari e che nello stesso tempo
dubiti di poterli ottenere, la pigrizia sarà per lui un modo per sottrarsi alla
disfatta. Sicuramente la pigrizia non
riporta delle vittorie ma non soffre delle disfatte.
In altri casi la vittoria sarà
possibile, ma troppo facile. Un bambino dal talento eccezionale può diventare
pigro se il lavoro che gli è proposto è molto al di sopra delle sue capacità.
Ci sono altre cause di pigrizia, che sembrano le “stesse”, così diverse
nell’origine. C’è una pigrizia che nasce
da una volontà di aggressione. Un ragazzo i cui genitori sono molto ambiziosi e
vogliono vederlo trionfare tanto che guardano al successo scolastico come ad un
obbligo morale, può trovare nella pigrizia uno strumento forte ed efficace per
fare resistenza; se questo bambino ha sviluppato per qualche motivo
un’attitudine ostile verso i genitori, la pigrizia diventa un’arma formidabile.
Essa può essere impiegata anche contro un maestro che ha saputo suscitare
l’ostilità dello scolaro. Si notano dei gruppi di allievi che si mostrano
eccessivamente pigri durante le ore di classe con un maestro ed assai ardenti
al lavoro durante quelle di un altro.
La pigrizia, può essere inoltre,
e ciò non è così raro tra gli adulti, l’espressione di una ostilità verso la
società in generale. La pigrizia del vagabondo è di questa natura. Essa è
legata, alle volte, ad un marcata criminalità che può avere la stessa origine.
Non ci dimentichiamo che il
pigro conosce sempre la ragione della sua condotta, benché ne sia cosciente più
sovente di quanto ne pensi. Ma non è necessario fare appello, per una
spiegazione, alle forze istintive e irrazionali. Quelli che non credono alla
razionalità fondamentale della natura umana e che dunque considerano gli
istinti, le emozioni, tutto ciò che c’è di irrazionale dell’uomo come forze
primordiali determinanti la condotta, interpretano le spiegazioni che i pigri
(o le altre vittime di disturbi abitudinari) danno sulla loro condotta come
delle razionalizzazioni secondarie; essi credono che un tale uomo, per esempio,
è da prima pigro e poi rivoluzionario.
Ma in molti casi la relazione è diversa: il pigro è pigro perché non
riconosce alla società il diritto di chiedergli un qualsiasi sforzo. Se dice
che è pigro è perché non vuole alcun obbligo di impegno, egli dice la verità.
Si potrebbe dilungare questa
analisi sulla pigrizia ed unirvi dell’altro della stessa natura. Ma pensiamo
che queste note siano sufficienti per far comprendere la nostra tesi: che la
spiegazione delle colpe abitudinarie deve essere fondata su un’analisi
individuale e che occorre guardarsi dalle generalizzazioni.
L’analisi individuale è uno
studio difficile e soprattutto è uno studio che richiede molto tempo e molta
pazienza. Non si può arrivare a comprendere un uomo con un solo colloquio, a
meno che non sia un caso “tipico” di qualche disturbo mentale. È possibile
valutare la schizofrenia o l’ossessione attraverso un esame molto breve, benché
ci siano dei casi dove la diagnosi non sia del tutto facile. Ma è un errore
vedere nell’uomo vittima di un disturbo abituale un nevrotico, benché egli non
sappia ciò che lo fa agire in quel modo[13].
L’esplorazione e più ancora la rieducazione è uno studio che non si compie in
breve tempo, normalmente la rieducazione richiede un lavoro continuo durante
settimane e anche mesi. Ed occorre, per farlo bene, che si possieda una tecnica
sicura e che condizioni sicure siano impiegate. Queste condizioni non esistono
mai nel confessionale.
La situazione del penitente che
entra nel confessionale offre, anch’essa, numerosi problemi all’analisi
psicologica. Per non oltrepassare il quadro di una prova certamente aforistica
e preliminare ci accontenteremo di indicare l’uno o l’altro di questi problemi,
particolarmente quelli che riguardano la rieducazione.
Il confessionale crea una
situazione unica perché non assomiglia a nessuna situazione della vita
ordinaria. Molti hanno pensato che la situazione che si crea nella confessione
è analoga a quella di una consultazione in uno studio di un psicologo o di uno
psichiatra. Senza dubbio c’è una certa rassomiglianza ma è molto superficiale.
Lo psicologo, comparando le due
situazioni, può lasciare da parte il carattere sacramentale della confessione. Esso
rientra nell’analisi psicologica soltanto per ciò che influisce sulla mentalità
del penitente. L’uomo che crede al carattere sacramentale della confessione
distingue molto bene le due situazioni; e per lui è tutta altra cosa che
discutere dei suoi errori e riceverne il perdono. Il sollievo che tanti uomini
sentono dopo aver confessato i propri peccati non è dovuto semplicemente al
fatto di essersi sbarazzati di un peso che pesava sulla loro coscienza. Questo fattore gioca un grande ruolo, è vero,
ma non è il solo né il più importante. Il confessore parlando in nome di Dio
perdona, lo psicologo spiega.
Ma ci sono ancora altri elementi
che distinguono la consultazione dalla confessione, elementi che dipendono
dalla natura delle due situazioni, e dunque dalle attitudini che l’uomo ha nei
riguardi dell’una o dell’altra. La
materia di cui si parla non è la stessa. Nel confessionale il penitente enumera
i suoi peccati, nella consultazione parla delle sue sofferenze e spiega tutta
la sua vita. Là parla dei suoi errori qui delle ferite inflittegli dal destino.
Il confessore può ben indirizzare alcune domande al penitente, sia per
assicuralo di aver ben compreso, sia per aiutarlo a comprendere se stesso. Ma
questi elementi sono limitati a ciò che esprime il penitente. Lo psicologo
esplora molte cose che il cliente non ha considerato. L’oggetto primario della
confessione è la disobbedienza e quindi la relazione del penitente con Dio,
nella consultazione è l’uomo stesso e i suoi disturbi.
Se la consultazione non può mai
rimpiazzare la confessione, quest’ultima non può essere sostituita alla
consultazione. Il confessionale è un tribunale. Per il confessore come tale il
ruolo di educatore è di natura secondaria. Lo studio dello psicologo è un luogo
di esplorazione ed il compito dello psicologo è quello di “ri-educatore”, nel
senso letterale della parola, perché deve ricondurre il suo cliente ad una vita
normale. La confessione non dà al confessore il tempo necessario per la
rieducazione; egli non possiede la tecnica né le facilitazioni proprie dello
psicologo, non può “trattare”.
Il confessore giudica, lo
psicologo tratta. Questo non è come dire che lo psicologo deve astenersi da
tutti i giudizi morali o anche, come la pensano alcuni autori, che deve
approvare una condotta immorale solo perché dona soddisfazione al cliente e gli
è utile per “aggiustarsi” o adattarsi a qualche situazione sociale.
La verità secondo cui le leggi
morali sono leggi dello stesso titolo delle leggi della natura è oggi
dimenticata da troppe persone. Un relativismo fatale si è impadronito dei moderni
in modo che essi non sono più capaci di intravedere le verità immutabili della
morale. Il soggettivismo che
inevitabilmente accompagna tutto il relativismo finisce per abolire l’idea
stessa dei valori eterni. Il
pragmatismo, figlio dei due altri sistemi, dichiara che il bene è ciò che si
dimostra utile nelle condizioni del presente. Questa mentalità distruttiva è
una delle ragioni per cui non si riconosce la natura cognitiva della
valutazione. Niente è così soggettivo e variabile come l’emozione. Se i valori
sono soggettivi anch’essi è naturale che si colleghi la conoscenza dei valori
all’emozione.
Uno psicologo che ritenesse,
come fanno molti suoi confratelli, che il bene e il male sono relativi alla
situazione momentanea dell’individuo, non sentirà il bisogno di giudicare né di
dirigere il suo cliente verso una vita moralmente buona, la sola vita che
conosce è la vita piacevole. Lo psicologo, che al contrario è convinto
dell’esistenza di una morale assoluta, non può approvare una condotta immorale (o
il desiderio di una vita immorale). Ma egli non aiuterà il suo cliente
condannandolo. In diverse occasioni, il cliente sa lui stesso che le sue azioni
sono malvagie. Lo psicologo deve, almeno durante i primi stadi del trattamento,
“mettere tra parentesi” il suo giudizio morale. Il suo compito è in primo luogo
di comprendere e di far comprendere il cliente. Gli deve far scoprire le
motivazioni segrete, le influenze del passato, le attitudini da cui è affetto,
le tendenze generali di questa vita individuale prima che possa pensare di
riformarla. La ricostruzione di una vita non si compie in qualche ora.
La situazione del confessore lo
priva di alcuni vantaggi di cui gode lo psicologo. Il confessore ascolta
parlare una persona quasi invisibile che snocciola i suoi peccati ad un uomo
che non vedrà più. Il racconto è fatto da una voce monotona e sussurrante molto
diversa da quella di cui lo stesso uomo si servirebbe in un’altra situazione e
di cui si serve attualmente parlando allo psicologo. Quest’ultimo può osservare
ogni gesto, notare ogni inflessione della voce, seguire tutte le espressioni.
Il penitente si è preparato alla confessione; sovente recita una lezione
preparata ma non può essere preparato alle domande che lo psicologo gli pone e
le sue risposte sono rivelatrici non soltanto di ciò che dice (o che non dice)
ma anche della sua maniera di dirle. Un cambio di posizione, un gesto furtivo
della mano, un piccolo sorriso, tutti questi dettagli diventano indicazioni
preziose per lo psicologo. Il confessore non vede niente. È una situazione
molto più precaria per ciò che riguarda la possibilità di un giudizio sulla
personalità del penitente. La confessione non è resa più facile da queste
circostanze, perché la materia da giudicare non è la persona ma i suoi atti. Si
comprende pertanto che il confessionale può servire alla rieducazione, soltanto
in modo restrittivo.
In generale il confessore non
conosce il penitente e non lo riconosce se ritorna a confessarsi; il confessore
non può stabilire una continuità con i confessati che ascolta oggi e quelli
ricevuti nelle confessioni precedenti. Non arriva quasi mai a formarsi un’idea
della totale personalità del suo penitente. Tutto ciò cambia completamente se
passiamo dal confessionale alla consultazione dello psicologo. Tutto ciò è
troppo evidente per richiedere una descrizione dettagliata.
Non vogliamo dire che sia
proibito al prete occuparsi di rieducazione, o se vuole, di psicoterapia,
purché possieda un sapere sufficiente.
Ma pensiamo che il confessionale non sia un luogo convenevole per una
tale impresa. Se si comprende il nome di “théraphie”
nel senso originale, così come lo usava Socrate, essa può ben diventare il
compito di un prete o di chiunque è sufficientemente dotato ed istruito.
Pertanto, i casi più complicati, particolarmente quelli che presentano dei
tratti più o meno anormali, dovranno essere inviati alla consultazione di un
psicologo o di uno psichiatra.
È evidente che la psicologia
della confessione pone degli altri problemi oltre quelli di cui abbiamo parlato
qui. La nostra intenzione non era di presentarne una lista completa, né di
discutere a fondo quelli ai quali abbiamo fatto allusione. A fortiori, non poteva essere la nostra intenzione fornire delle soluzioni definitive.
La psicologia non è avanzata sufficientemente, almeno ci sembra, perché possa
arrogarsi un’autorità in questa materia. Non ci sentiamo di fare, al momento, “la
psicologia della confessione”, tutto quello di cui ci sentiamo capaci è di
muoverci “attorno ad una psicologia della confessione”.
Dr. Rudolf Allers
Georgetown University
U.S.A
[1] R. P. Jules Baisné, S. S., professore di
filosofia, si è voluto assumere la revisione del testo. Tengo a rimarcare
ancora una volta la sua benevolenza e la sua assistenza amicale.
[2] La psicanalisi non ha contribuito quasi mai
alla fenomenologia degli stati onirici; malgrado il numero enorme di sogni
analizzati.
[3] Questo
distacco dell'azione o dei suoi effetti non è semplicemente prodotto dal tempo;
l'azione appartiene completamente, questo è vero, al passato, mentre
l'attitudine fa parte del presente. Ma un'attitudine passata, un'attitudine di
cui l'uomo si è saputo liberare, resta più vicina alla persona che un'azione
completata.
[4] La
catarsi così come l'ha compresa Aristotele, o anche la psicoanalisi nella sua
fase iniziale, non è che un caso speciale di una legge generale.
[5]
La letteratura psicologica contiene alcuni studi sulla contrizione, in
particolare quella del Professore Wunderle di Wurzbourg e quella di Madam
Moers. Inoltre c'è l'analisi fenomenologica compiuta da Max Scheler, studio a
cui ci riferiremo in seguito.
[6] In
quanto psicologi dobbiamo evitare attentamente l’introduzione di idee che
appartengono sia alla filosofia che alla teologia. Mi sia permesso di ricordare
un punto della dottrina: la contrizione perfetta (coinvolgendo il voto della
confessione a realizzarsi nel tempo debito) è sufficiente a cancellare il
peccato mortale.
[7] Una
volta una giovane figlia ci scrisse: “Devo essere un angelo o un diavolo; ma
niente tra questi estremi potrebbe bastarmi”. La Sig.ra Gertrud von Le Fort,
nel suo romanzo Il velo della Veronica,
parla di una ragazza che, dopo d’essersi rifiutata lungamente alla grazia,
infine si confessa e comincia dicendo: “Padre mio, sono la più grande
peccatrice del mondo”. Il confessore le risponde: “Figlia mia, rimani umile
davanti alla recita dei tuoi peccati; è un peccato molto più comune dei vostri”
(citazione a memoria).
[8] Non è
possibile presentare ora tutti i fatti che portano a rigettare la concezione di
una “conoscenza affettiva” dei valori. Le nostre ragioni si trovano dettagliate
nei due seguenti articoli: “La valutazione e la vis cogitativa”, The New Scholasticism, 1941, XV, 195
[tr. it. su www.psicologiacattolicesimo.blogspot.it]
e “L’aspetto cognitivo delle emozioni”, The
Thomist, 1942, VII, 589 [tr. it. su www.psicologiacattolicesimo.blogspot.it].
Quello riportato in codesto testo è solo un riassunto succinto delle idee
proposte in quei due studi.
[9] Nel modo
in cui l’abbiamo mostrato nel primo degli articoli citato precedentemente, la
psicologia tradizionale ci fornisce una spiegazione soddisfacente della
dinamica della valutazione. Tale psicologia riconosce una facoltà speciale che
ci permette l’apprensione del bene particolare; è quella designata dal nome di vis cogitativa. Una ragione che spiega
il successo della teoria della valutazione emotiva risiede nel fatto che la
psicologia moderna non conosce la dinamica mentale, a cui si può attribuire la
valutazione. Ma non possiamo discutere qui questo capitolo davvero interessante
e troppo dimenticato della psicologia tomista.
[10] A volte
questo rifiuto può essere prodotto anche dalla stessa vanità dello spirito di
cui stavamo parlando prima, o di un orgoglio che difende l’uomo dal promettere
quello che non sa con una certezza assoluta che lo farà.
[11]
Ripetendo ancora una volta che non ci occupiamo qui di fenomenologia o della
descrizione e neppure della questione della genesi dei nostri atti. Non
cerchiamo affatto se l’una o l’altra delle due coscienze debba la sua esistenza
ad un super-io o a qualche altra dinamica psichica di cui parla la
psicoanalisi.
[12] Come
ripetuto da altri nostri clienti.
[13]
Omettiamo da questo articolo le questioni relative alle anormalità della vita
mentale. Non parliamo, ad esempio, degli scrupoli, i quali meriterebbero un
trattamento speciale.
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