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venerdì 8 febbraio 2019

Problemi della psicoterapia - Rudolf Allers

Ancora una volta torniamo a Rudolf Allers. Se lo facciamo non è per il desiderio di fare archeologia, e recuperare così qualche manufatto del passato. Interessante, magari anche affascinante, ma fondamentalmente morto. No. Il nostro intento è diverso. E' di utilizzare un autore poco conosciuto ed anche attempato (il brano che segue è del 1929) per illuminare le verità della psicologia del terzo millennio. Del resto, una verità è vera in modo universale, cioè resiste al tempo. E se i mali della psicoterapia sussistono ancora oggi, la loro cura vale nel duemila come nel mille e novecento. Problemi della psicoterapia (in Voci del tempo, mensile per la vita spirituale del presente, aprile 1929, vol. 117, quaderno 7) costituisce una delle prime sintesi di Rudolf Allers.
Per certi aspetti, se si conosce già l'evoluzione del suo pensiero, è un testo un po' acerbo. La critica alla psicoanalisi non è così puntuale come quella di The successfull error, che verrà dato alle stampe solo nel 1940 (ed in Italia quest'anno...speriamo!). Per altri, invece, è lungimirante, come nella descrizione dei nevrotici, probabilmente il punto più alto del suo contributo alla psicoterapia. Le sue parole sono illuminanti: "Il nevrotico è un uomo che esprime le sue opinioni, i suoi comportamenti e i suoi giudizi in un modo che egli stesso non comprende, non riconosce per nulla la propria funzione espressiva, non prende atto del conflitto tra i suoi giudizi e la “realtà”, piuttosto l’effetto di questo conflitto prende una forma interna di sofferenza". Tra l'uomo che uno è e quello che pensa di essere c'è dunque uno iato che solo la sofferenza fa intravvedere. "La nevrosi si basa quindi su due fatti: il primo, che l’uomo vive in un pensiero “scorretto”; il secondo, che questa circostanza non va in pausa". Un pensiero che si struttura in una vita inautentica, che è segno quindi di una ribellione: "Definiamo appunto inautentica tale ribellione contro il proprio essere, in ultima analisi contro la propria creaturalità, perché in questa rivolta il proprio essere è presupposto e rende perciò possibile la ribellione". La nevrosi è dunque una rivolta inconscia contro l'ordine della realtà, ovvero, in ultima analisi, contro Dio stesso. Si tratta di concetti non banali. Dove è possibile trovarli tra gli autori delle varie scuole contemporanee? Purtroppo, è doveroso dirlo: da nessuna parte. Perché è possibile concepire la verità sulla psicologia solo se si assume, prima, una concezione vera sull'uomo e sul mondo. Come Allers stesso segnala: "costruire una teoria della nevrosi non è possibile senza una metafisica della persona". E' su questo piano che i cattolici sono chiamati a scendere in campo. Perché la Chiesa è maestra di umanità, cioè è depositaria delle verità che riguardano l'uomo. Con una sana antropologia ogni cosa va a suo posto: che cosa sia la malattia psichica, la terapia, persino il ruolo del terapeuta, che Allers descrive con queste parole bellissime: "Perciò il problema della nevrosi è in ultima analisi non solo un problema medico, ma anche etico; è tanto più grande, quindi, la responsabilità dello psicoterapeuta. A lui viene richiesto non solo il sapere medico, non solo la capacità terapeutica, quanto piuttosto l’approfondimento della visione del mondo, la revisione costante del suo atteggiamento, perché non deve essere solo un guaritore ma anche un maestro e una guida. Deve guidare fino a quel punto dove l’uomo, liberato dai grovigli, illuminato dal riconoscimento, può aprirsi a momenti gratuiti di grazia. Il suo compito culmina ed è limitato a questo: che “prepari la via del Signore e appiani le sue strade” (Is. 40,3). Certo non si vuole qui sostenere che tutto è stato chiarito e che bisogna solamente replicare. No. Semmai che vi sono delle regole universali che vanno rintracciate e riscoperte negli infiniti particolari di cui è composta l'unicità di ogni persona. E' un lavoro grande, di cui si percepisce sempre più l'esigenza.

Il testo è per la prima volta disponibile in italiano grazie all'attenta e premurosa traduzione della dot.sa Elena Rovagnati, a cui va il nostro sentito ringraziamento.

  

Problemi della psicoterapia

Rudolf Allers


Al giorno d’oggi vien detto di tutto e di più sulla psicoterapia. Ne si incontrano i concetti ed affermazioni ovunque, in psicologia ed in caratterologia non meno che in pedagogia e criminologia, nei discorsi quotidiani così come in bellissime opere spirituali. È una considerazione che si sente frequentemente, ovvero che, in un certo modo, la psicoterapia ci abbia insegnato a comprendere l’uomo nel suo proprio essere e il comportamento umano nel suo vero significato, e che chiunque abbia a che fare con l’uomo, in veste di guida nell’esercizio di un’arte, o come educatore, insegnante, medico o guida spirituale, non possa e non debba trascurare conoscenze psicoterapeutiche.
Perciò merita certamente lo sforzo, il provare a raggiungere l’essenza di questa disciplina.
Prima di tutto però emerge una domanda: esiste in assoluto “la” psicoterapia? Una domanda invero legittima, dato che le scuole psicoterapeutiche si scontrano l’una con l’altra, e ciascuna afferma di aver da sola scoperto la verità in toto, mentre crede che le altre siano in possesso al massimo di verità parziali e si ritrovino prevenute in errori di fondo.
In tale modo di pensare è evidente una concezione, comune a tutti i singoli approcci dalle differenti teorie e tecniche, ovvero, che esista qualcosa come la psicoterapia. Questo però significa, di conseguenza, che esistano “malattie” verso le quali la psicoterapia risulta il “metodo di elezione”, dove “psichico” indica sia l’oggetto che il mezzo. Tale pensiero non risulta nuovo né in se stesso né nel suo utilizzo.
Di fatto non è corretto se si accomunano alla psicoterapia certe pratiche “magiche” adottate con intenzioni curative, o anche solo se vengono presi in considerazione gli stadi precedenti alla psicoterapia; anche se fosse sopraggiunta una guarigione su diversi pazienti, grazie ad una influenza psicologica avvenuta durante l’intervento, non c’era consapevolezza del fatto né nel guaritore né nel guarito. La consapevolezza evidenzia una caratteristica di ogni psicoterapia, che si distingue nettamente da qualsiasi altro sforzo medico di cura e porta a costituire una certa unità di tutte le diverse scuole.
La terapia in senso stretto, si potrebbe quasi dire, rende la persona del medico uno strumento puramente casuale. Fondamentalmente non è affatto necessario che la persona del medico entri in gioco. Se le malattie fossero visibili come delle macchie sporche e, per contro, il rimedio fosse un elemento così generalmente accessibile come l’acqua, (e non è questo il caso, né per l’una né per l’altra, se non “accidentalmente”) in moltissimi casi il medico non sarebbe affatto necessario.
Ammesso che questa affermazione sia esagerata, nella sua esagerazione esprime però l’essenziale: che sono in questione la conoscenza e le capacità del medico, non lui. Dato che secondo Rothnagel, solo un uomo buono può essere un buon medico, ciò lo individua non come rappresentante di una scienza e di una tecnica, ma appunto in un aspetto che non è insito nella disciplina, appunto quello sociale, nella sua relazione col malato e non con la malattia.
Il detto, così frequente oggi, che il medico debba avere in mente non solo la malattia, l’organo ammalato, la funzione disturbata, bensì l’intero essere umano - e questi non solo nella sua corporeità e nemmeno nella sua unità anima-corpo, ma piuttosto nella pienezza di quanto gli pertiene dal punto di vista sociale, culturale, economico - questo detto non viene rivolto al dottore (per riprendere l’antitesi pur zoppicante di Liek) ma al medico, nel suo significato pregnante di persona che, in quanto tale, presta il suo aiuto ad un’altra persona.
Naturalmente, come a ragione sosteneva G. Mener, la categoria dell’aiuto non è sufficiente per determinare l’essenza dell’essere e dell’agire medico, come piuttosto vuole Weizsäder; ciononostante il malato chiede un aiuto, seppur specifico, al medico. Ma così come è possibile perseguire le scienze naturali prescindendo totalmente dall’infinita multicromatica molteplicità della natura, così è possibile, entro confini estremamente estesi, esercitare una psicoterapia senza che essa abbia al centro “l’uomo nella sua interezza”. In ogni caso questo “uomo nella sua interezza”, o ancora meglio, la possibilità di rappresentarsi in modo tale da conoscersi come si è veramente, rimane idealmente la meta di ogni terapia. Non è a motivo dell’occhio, ma è a motivo dell’uomo, che viene trattata la malattia dell’occhio. Ma concretamente l’organo malato (o la funzione distorta) rimane l’immediata meta del fare medico. Dove invece la psicoterapia ha a che fare con organi malfunzionanti, modificazioni di funzioni corporee, questi non sono per lei meta, spesso nemmeno oggetto della sua intenzione di cura. La psicoterapia vede in essi solo effetti periferici, solo rappresentazioni parziali, di un più centrale e più completo indebolimento della “salute”, dove una più precisa definizione di tale concetto in generale e di come viene inteso in psicoterapia deve rimanere al momento in sospeso. La psicoterapia si mostra, nella misura in cui si osserva la sua essenza nelle espressioni più complete, come il tentativo di incontrare l’uomo nella sua interezza in un qualche nucleo ultimo e da lì rappresentarlo appunto come intero.
Fin dal principio vede il malato e quindi anche la “malattia” in modo particolare e non come altrimenti nella scienza medica: questo è un uomo, mutato nel senso dell’essere malato, perché e in quanto ci sono organi modificati o funzioni deficitarie. Per la psicoterapia invece l’indebolimento della funzione significa solo una apprezzabile oscillazione fisica o anche psichica riguardante un cambiamento dell’essere umano. Solo da qui in poi si dividono le psicoterapie, quando proseguono nel definire ciò che nell’uomo significa cambiamento e ciò che si dovrebbe immaginare come sua realizzazione.
Con l’uomo intero, in un diretto rapporto con lui, può entrare in relazione solo l’uomo nella sua interezza.
La condotta obiettiva ammissibile verso l’organo malato (che si ritrova significativamente nel verbo “trattare”, come anche nelle forme derivate di trahere, traiter e similari; per contro curare tradisce un’altra concezione) deve differire da una “personale”.
Così anche la scuola psicoanalitica che, attraverso l’accento sui momenti oggettivi e l’eliminazione del personale, aspira a trovare (e ancora di più in passato) la connessione con una medicina pura, orientata sulle scienze naturali, va incontro al tentativo non riuscito che è presente in tutte le psicoterapie: dover riconoscere un atteggiamento terapeutico fondamentale sostanzialmente orientato altrove.
Siccome allora la psicoterapia ha come oggetto l’intero essere umano, il suo concetto di salute, qualunque possa essere, è appunto riferito, logicamente, all’intero essere umano.
La terapia esige una patologia, una dottrina dell’essere malato, che deve costituire l’oggetto delle sue preoccupazioni di cura, e la patologia esige una dottrina della norma, le cui affermazioni e norme appunto permettono di delimitare il “patologico”. Da ciò deriva che la psicoterapia, la quale sotto questo titolo unisce tutte e tre le discipline, agisce e sempre deve agire con l’ambizione di essere di più che una semplice disciplina medica. Se la sua premessa è di dover essere una disciplina “dell’uomo normale nella sua totalità”, allora questa “totalità dell’essere” raccoglierà tutte le cose che si riferiscono all’uomo vivente, così che non sarà pretesa ma piuttosto esigenza interna se la psicoterapia dovrà essere ascoltata a proposito non solo di cura e prevenzione in senso stretto, ma anche riguardo all’educazione, alla rappresentazione sociale, alle costruzioni culturali, al divenire storico; in sintesi, alle ragioni ultime e finalità dell’essere umano. D’altro canto tale esigenza deve suscitare una seria riflessione; appare impossibile che, partendo da una base relativamente esigua quale quella di una osservazione da un punto di vista medico-psicologico, in essa, per quanto amplificata, possa essere compreso l’essere umano tout court. In virtù di un tale sentire, se non proprio per i suddetti motivi, sembra che l’intervento di A. Homburg nell’ambito stesso della psicoterapia, abbia recentemente messo in guardia dal “sovraccarico dei concetti psicoterapeutici”.
Determinato l’atteggiamento di fondo di tutte le psicoterapie e la loro unità essenziale, emerge la divergenza tra scuole nella differenza della loro costruzione teorica sull’essere umano. Il compiere questa costruzione teorica risiede, come detto, nella coerenza interna alla psicoterapia. Si comprende da sé che storicamente l’evoluzione si sia configurata diversamente, non tanto in quanto fosse stato fatto un primo tentativo di chiarimento di una visione teorica dell’essere umano, quanto piuttosto che questa si è costituita nel corso del concreto lavoro di ricerca, attraverso una notevole trasformazione ed elaborazione; ciò però non significa nulla rispetto allo stabilirsi del primato metodologico appunto di quella visione. E ciò ancora meno, quando si è reso evidente che la fondazione di ognuna delle grandi scuole psicoterapeutiche sul terreno della scienza è cresciuta in parte in modo medico-scientifico, in parte filosofico.
Ora la situazione che i motivi esistenziali, scientifici o non scientifici, siano compresi nel sistema della psicoterapia non solo di fatto, ma anche debbano esserlo - appunto, perché la psicoterapia stessa è condotta, per necessità, a riflettere sull’essenza della persona umana – costringe la psicoterapia a porre attenzione anche al di fuori dei confini della materia. Fosse ciò che non è e non può essere, ovvero solo una terapia accanto ad altre, oppure una dottrina sull’origine, forma e trattamento di alcune forme particolari di malattia, allora potrebbero essere tralasciate la sua rappresentazione e valutazione, il chiarimento del suo diritto e della sua portata nel dibattito scientifico. Il suo essere però spinge ad occuparsi di lei, ogni volta che viene posta la domanda sull’essere umano.

Innanzitutto la psicoterapia nell’esercizio pratico e nel suo sorgere storico si applica all’uomo malato. Per una comprensione più approfondita si rende necessaria, perciò, la definizione dei suoi oggetti principali e secondari. Oggetto dell’intervento psicoterapeutico sono o è in primo luogo quella condizione che definiamo col titolo di “nevrosi”; più o meno con lo stesso significato si utilizza anche l’etichetta di “disturbi psicogeni”, ancora adottata. Il dibattito sulla delimitazione della nevrosi e della manifestazione psicogena e di altre questioni corollarie, ma sostanzialmente e metodologicamente molto significative, non può essere esaurito in questo contesto. Qui deve bastare il tentativo pur frammentario di avvicinarci un poco all’essenza della nevrosi. Siccome riguarda il campo di applicazione della psicoterapia, devono anche essere estratti gli aspetti più importanti per la sua valutazione.
Da uno sguardo retrospettivo storico emerge un concetto precedente alla nevrosi in quello del disturbo “funzionale”, dentro il quale veniva compresa (e in parte lo è ancora) qualora non fossero rintracciabili apprezzabili modificazioni anatomiche od organiche.
La comprensione dell’entità dei disturbi funzionali ha conosciuto, da una parte, una notevole riduzione tramite l’ampiamento delle nostre conoscenze e il perfezionamento dei metodi (ad esempio l’epilessia, attualmente riconosciuta come una malattia cerebrale e probabilmente sistemica, è stata vista per molto tempo come una sofferenza funzionale) dall’altra, circa dagli anni ottanta del secolo scorso, questo campo si è significativamente ampliato, attraverso la ricerca sulle nevrosi.
Ma se la nevrosi fosse definita solamente come “disturbo funzionale” potrebbe comunque trattarsi di una inadeguatezza transitoria (o anche sostanziale) delle nostre conoscenze, come è stato il caso per altri quadri patologici, che determina il fatto di aver “non ancora” potuto scoprire la modifica organica che ne è alla base. La particolarità della nevrosi mostra però che – e qui si colloca il significato profondamente metodologico della ricerca – non solo ha bisogno di essere definita negativamente come un disturbo funzionale, ovvero giustificatamente anatomico-organico, bensì possa essere definita, positivamente, come “psicogena”. Psicogena significa letteralmente: sorta su un percorso dell’anima, da circostanze dell’anima. Però non si esaurisce così il senso di questa parola, come la utilizzano oggi medicina e psicopatologia. In fin dei conti sarebbe una sorta di pregiudizio se, per esempio, in un uomo attirato da una passione, questa fosse considerata come “psicogena”.
L’essenza della manifestazione psicogena, che si mostri in ambiti corporei, come la paralisi, la modifica della attività cardiaca o digestiva etc., oppure in quelli psichici come una manifestazione ossessiva, una certa forma di depressione, una inibizione, una paura e simili, risiede piuttosto principalmente nel fatto che è qualcosa come una “espressione”. Espressione che però ricade sotto l’ulteriore titolo di “segno” (vedi le fondamentali analisi di Husserl su questo tema) e contiene perciò una doppia valenza di segno e di designato. Ora in un certo senso ogni sintomo è segno…appunto della malattia. L’espressione è però specificatamente segno…di un oggetto inteso; il discorso intende un determinato oggetto (fatto) e lo intende nelle sue parti e struttura (parole, frase etc). La manifestazione nevrotica può essere intesa direttamente come espressione in questo senso, presa più precisamente, però, essa è l’espressione di una espressione o perlomeno di una possibilità di espressione. Porta con sé la particolarità che colui che si esprime non sa della funzione espressiva della relativa manifestazione; è a lui sconosciuto ciò che “effettivamente” essa significa. Ad esempio: nell’agorafobia è data, a chi la sperimenta, la pericolosità della strada; egli la vive, quando realizza di non potervi accedere, come se non potesse conoscerne alcun motivo razionale. Ma l’agorafobia “effettivamente” significa altro, ad esempio la pericolosità del matrimonio; di questo però lui non sa nulla. La pericolosità della strada “rappresenta” un’altra pericolosità, e la manifestazione dell’agorafobia un’altra fobia, che è essa stessa un significato, esprimibile “effettivamente”, di quel fatto determinante. La manifestazione nevrotica è così un “ineffettivo”, al posto di una “effettiva” espressione sostituita. Ad ogni manifestazione nevrotica si affianca così una “caratteristica simbolica”, dove la parola “simbolico” vuole essere intesa nella sua accezione generale e non in quella specifica psicoanalitica[1].
Siccome ora il significante è una persona e il suo significato è fondato coerentemente nelle sue posizioni, la manifestazione nevrotica è sempre indizio di queste posizioni. Si dà anche, nella analisi concreta dei casi nevrotici, che la persona stessa deve sempre ogni volta tornare al problema e al suo punto d’accesso.
Di conseguenza, i singoli indirizzi all’interno della psicoterapia si distinguono per la concezione dell’essenza della persona. Siccome la persona come tale è immediatamente incontrabile nell’esperienza quotidiana, ma non coglibile nella sua essenza, piuttosto può essere portata ad una certa chiarezza solo in senso ontologico-metafisico, (come questo possa riuscire poi è una questione aperta), ne consegue che la psicoterapia, se e in quanto solleva una domanda di spiegazione sistematica, sempre procede da presupposti che non possono dirsi altro che metafisici. Un accreditamento e una valorizzazione delle psicoterapie divengono perciò fondamentali, ma ciò significa in questo caso che vengano orientate ad una visione del mondo. Di conseguenza è da porre attenzione a quanto segue: poiché la psicoterapia si è sviluppata di fatto dalle necessità della pratica, e su di esse evolve, il suo compito non può essere affatto quello di elaborare i suoi presupposti ultimi. Non ci si può quindi aspettare dagli scritti psicoterapeutici rappresentazioni esaustive di tali assunti, piuttosto bisogna cercarli nel lavoro ivi descritto. Ma bisogna sottolineare anche una seconda cosa: capita – non solo nella psicoterapia – che i ricercatori non siano affatto consapevoli delle loro premesse, e addirittura credano di procedere da altre (o da nessuna). Perciò può accadere che, sulle premesse o sulla mancanza di premesse, possano essere formulate sia affermazioni totalmente errate, come anche possano essere portate avanti singole affermazioni che contraddicono i loro stessi presupposti, tramite le quali trovano spazio pensieri soggettivi “di contrabbando”, estranei al sistema, grazie ad una non-chiarezza originaria. Anticipando una considerazione successiva, si noti che entrambe le cose si trovano nelle due grandi scuole di psicoterapia. Non viene confutato il fatto che la psicoanalisi sia possibile solo su terreno naturalistico-materialistico, quando ad esempio Liertz[2] o Pfister[3] sostengono la sua compatibilità con le concezioni soprannaturali, e nemmeno che l’orientamento sia essenzialmente di altro genere nella psicologia individuale, quando lo stesso suo fondatore, Adler, indica la “visione materialistica della storia” come una delle condizioni nel suo insegnamento. Si potrebbe respingere come eccessiva la valutazione, qui compiuta, della fondazione metafisica di tutta la psicoterapia, avendo detto che tale questione, la fondazione metafisica della psicoterapia, risulta importante sia scientificamente che spiritualmente, ma non per il suo esercizio, perché essendo appunto una disciplina pratica, deve interrogarsi maggiormente non sui fondamenti riguardanti la visione del mondo, ma sulla verità delle sue dichiarazioni sui fatti empirici e del successo delle sue preoccupazioni di cura. Questo argomento è però ingiustificato ed ignora il collegamento soggiacente.
La psicoterapia è certo una cura ma, come detto, una che si rivolge all’ “uomo nella sua totalità”. I fenomeni coi quali essa ha a che fare sono espressioni di giudizi. Un giudizio contiene il suo significato all’interno di una vita in base al fatto che esso indica “una posizione” da cui può scaturire un movimento; esso dà l’impronta a quella forma realizzata dentro una vita. All’interno del giudizio è incluso non solo il punto dal quale segue il movimento, ma anche quel punto verso il quale esso si muove. Se la nevrosi è solo una espressione incompresa di un giudizio non conosciuto, e questa espressione si trova in conflitto con l’ambiente reale, diventando sperimentabile come dolore, la guarigione può avvenire in tali casi solo se si offre, a chi la vive, una comprensione della sua espressione, ovvero uno sguardo su quell’effettiva opinione che vi sta dietro. Ma in più può anche essere che il giudizio fondante questa opinione, potendo condurre esso stesso ai conflitti, sia in un certo senso “falso”. Inoltre la cura richiede non solo la comprensione profonda dell’esatta opinione, bensì anche cambiamento della posizione. Questo è necessario di fatto nella stragrande maggioranza dei casi. Fino a qui, le psicoterapie hanno ancora la medesima prospettiva: divergono però visibilmente nel modo in cui un tale “cambiamento di posizione” venga portato a compimento o consolidamento. Siccome di fatto il motivo ultimo della nevrosi è da vedersi nei giudizi, e giudizio significa lo stabilirsi di una forma o direzione della vita e del comportamento, che per noi significa inoltre la forma coerente del comportamento caratteriale, allora la ricerca è l’esatto tema della psicoterapia come teoria, e la struttura del carattere lo è per la pratica. Per quanto differentemente le diverse scuole definiscano l’essenza e la nascita del carattere, arrivano comunque a concordare (perlomeno oggi) sul fatto che il carattere e le sue anomalie dovrebbero essere il tema preciso. Che ogni nevrosi sia una “nevrosi caratteriale” e che le sue singole manifestazioni sorgano a motivo di un carattere nevroticamente modificato, viene ora accettato anche dalla psicoanalisi, che era stata preceduta in questa riflessione dalla psicologia individuale.
Ma, proseguendo, se il carattere è la modalità espressiva dell’agire individuale e della condotta, allora esso soggiace alle condizioni della totalità dell’agire. Siccome l’agire si presenta come una relazione tra l’Io e il Non-Io, allora di fatto il carattere non può essere mai definibile solamente con l’Io. Poiché l’agire è orientato ad uno scopo, e il suo scopo significa sempre una attuazione di un valore, può essere compreso e ancora di più guidato solo facendo riferimento ai relativi scopi. Tutti gli scopi però portano con sé l’essenza del valore che vanno ad attuare. Se gli scopi sono “falsi”, allora è perché sotto c’è una condotta valoriale difettosa, e la correzione degli scopi e del giudizio e, proseguendo, persino la trasformazione dell’uomo verso cui tende la psicoterapia, può accadere solo a partire da una precisa condotta valoriale (del terapeuta) verso e su una precisa condotta valoriale (del “malato”).
Le condotte valoriali però non sono in sé provvisorie, ma piuttosto sorgono da convinzioni personali fondate in una visione del mondo. Perciò anche la conduzione pratica nella psicoterapia è dominata da aspetti riguardanti una visione del mondo. Una valorizzazione della psicoterapia sotto tali punti di vista ha assolutamente significato non solo per la teoria della scienza e per la storia dello spirito.

Conclusa in questo modo l’argomentazione, ciò può permettere la comprensione, così conquistata, dell’essenza e in generale dell’intento della psicoterapia, così come già anche una panoramica delle sue possibili modalità e contemporaneamente un suo ordinamento da punti di vista trasversali.
C.G. Jung una volta ha differenziato quattro stadi dell’accadimento psicoterapeutico: riconoscimento, chiarimento, educazione, trasformazione. Riconoscimento significa rimozione del segreto, e con ciò (almeno parzialmente) dell’isolamento, ed anche, nella misura in cui è riconoscimento di una colpa, espiazione e rientro nella comunità, dalla quale azioni cattive o anche solo atteggiamenti cattivi avevano allontanato il peccatore. Chiarimento deve riferirsi a ciò che è stato chiamato in precedenza il “rendere visibile” il pensiero reale. In questo punto si compie la prima separazione delle scuole. La prima, ovvero la psicoanalisi, invita ad un peculiare ottimismo, in quanto essa crede che quel diventare visibile del pensiero reale basta di per sé ad aiutare l’uomo a muoversi verso un altro giudizio. La seconda scuola, quella della psicologia individuale, necessita di individuare una ulteriore influenza, che a ragione può essere chiamata educazione, cioè una mediazione, un suggerimento, o come dir si voglia, dei “giusti” punti di vista, verso i quali il nuovo giudizio dovrebbe orientarsi. Anche ciò che Jung chiama trasformazione si verifica, sebbene forse in un senso diverso da come desiderava intenderlo.
L’ottimismo terapeutico della psicoanalisi freudiana si accompagna necessariamente ad un nichilismo educativo. Poiché, se la scoperta della convinzione reale è sufficiente, allora non si ha più bisogno di una guida ulteriore, di fatto. L’ottimismo è però solo corollario di una costruzione dell’essere umano di fondo connotata pessimisticamente, perlomeno di una che, essenzialmente, non deve generare questo ottimismo, il quale piuttosto le si palesa “casualmente”. La psicoanalisi effettivamente vede la situazione del momento e il comportamento di un uomo come il risultato determinato dal passato, ovvero come la risultante d’istanti fatidici: di caratteristiche date in precedenza e perciò agenti sulle condizioni di vita. Così la possibilità nella terapia di vedere nuovi momenti, forze, tramite i quali vengano corretti o paralizzati effetti indesiderati che portano a sofferenze e conflitti, a causa degli ipotizzati fattori accaduti precedentemente, non deriva dalla concezione di base dell’essere umano, come la intende la psicoanalisi, ma da un sistemico “caso fortuito”. Quando Ferenczi e Kant dicono[4] che la funzione degli psicoanalisti nella terapia si esaurisce “nell’accelerare lo sviluppo della libido” per “trasmissione”, ciò mette in evidenza che nella natura umana si trovi, per quanto fragile e soggetta a limitazioni, una liberante tendenza di fondo verso un “normale” sviluppo sotto precise condizioni. Questa credenza si mostra ad un più attento esame come una parafrasi di quell’ottimismo che ritorna in tutti si sistemi positivisti e si ritrova come complemento nelle teorie sociali e commerciali. Anche se nasce da molteplici radici della storia del pensiero, la lezione psicoanalitica si lascia piuttosto ricondurre linearmente alla modalità di pensiero che trova in Th. Hobbes un suo ottimo rappresentante. Di fatto qui si insegna la versione psicologica della sua costruzione sociologica “bellum omnium contra omnes”.  Infatti lo stato di un uomo si mostra, nella concezione psicoanalitica, come il risultato di “conflitti pulsionali”; ma siccome le pulsioni, pensabili come naturali-biologiche tramite le categorie delle scienze naturali, non possono effettivamente entrare in “conflitto” tra loro, allora bisognerebbe parlare della risultante tra forze pulsionali orientate diversamente. E così come Hobbes e i suoi successori credevano, che un felice stato sociale potesse scaturire dall’autorizzazione delle tendenze egoistiche in modo naturale e necessario grazie a una qualche felice istituzione mondana, così la psicoanalisi crede che sotto “normali” condizioni la risultante delle forze pulsionali venga condotta verso una direzione desiderabile, ovvero con dolore e attrito ridotti al minimo.
In quanto detto, compare appunto il tratto meccanicistico di fondo del pensiero psicoanalitico, come già è stato scritto nella sua dichiarazione degli inizi, la comunicazione provvisoria di Breuer e Freud (1894): “Sul meccanismo dei fenomeni isterici”. Allo stesso ambito concettuale appartiene il concetto, fondamentale per la psicanalisi, dell’energia psichica.  Si pensa che ad aver dato lo slancio alla costruzione del concetto, non sia stata una esperienza peculiare solo della psicoanalisi, come invece per i concetti di sforzo, superamento, riluttanza. L’energia psichica è pensata come un accadimento psichico allo stesso modo in cui la fisica parla di energia e di applicazione di energia. In nessun senso si tratta di una metafora; per quanto Freud avesse occasionalmente parlato di una aspettativa riguardo la misurabilità di questa energia psichica. Quantità di energia possono però essere concretamente pensate per alcuni elementi. Perciò la concezione che la psicoanalisi deve avere dell’essenza dello spirituale e della persona è alla fine un atomismo. Anche in questo aspetto la dottrina si mostra come discendente di quell’ indirizzo di pensiero nato durante o prima del Rinascimento, e come chiarimento del positivismo materialistico. Poiché, per questo modo di pensare, forse niente è così caratterizzante come l’eliminazione di tutte le totalità complessive, e il tentativo di coglierle come somme o aggregati di elementi pensati essenzialmente identici. Il sostanziale atomismo (anche se per certi versi contestato dai successori di Freud) è in strettissima relazione con la concezione della “casualità psichica” come allo stesso modo c’è in fisica. Con ciò viene affermato il completo determinismo degli stati dell’anima dal passato in poi. Proprio come l’atomismo e la psicoenergetica non permettono la costruzione di un soggetto unitario, portatore di fenomeni psichici, di una persona o di un Io, e l’introduzione di tale concetto costituisce un collegamento nel sistema psicoanalitico, così la concezione di uno stretto e coerente determinismo contraddice ogni introduzione della libertà. La curiosa affermazione di Schilder[5] secondo cui il determinismo stabilisce il presente solamente a partire dal passato, come dire, che semplicemente risulta esistere retrospettivamente, ma che per il trattamento rimarrebbe un “avanzo di libertà” rivolto al futuro (che corrisponderebbe all’incirca al cosiddetto “determinismo moderato”) risulta essere difficilmente sostenibile all’interno di una costruzione fortemente sistematica come quella della teoria psicoanalitica. Il suddetto ricercatore è peraltro generalmente riconosciuto come un indispensabile discepolo della psicoanalisi e si considera anch’egli come tale; ma si riconosce in una credenza incompatibile con il pensiero psicoanalitico anche in un secondo punto, quello dei “valori oggettivi”.  In quanto autentica evoluzione del pensiero del diciannovesimo secolo (che ovviamente ha la sua origine in epoche molto precedenti) del cui superamento Joel[6] seppe dire per molto tempo cose considerevoli, la psicoanalisi è inoltre imprigionata in un completo soggettivismo e psicologismo. Può comprendere idee e valori solo come prodotto psichico. Cultura, morale, costumi, scienza, religione, devono ultimamente la loro esistenza a processi intrapsichici, che vengono inquadrati come “meccanismi” sotto le definizioni di sublimazione e identificazione. Il totale rifiuto di tutte le religioni e il tentativo di smascherare la religione come “illusione”, la negazione di tutta la metafisica (che, come tutte le posizioni di questo tipo, non può mostrare il proprio fondamento metafisico) come la troviamo negli ultimi libri di Freud[7] si è sviluppata in modo totalmente conseguente al pensiero psicoanalitico. Tutti questi momenti: l’atomismo, portatore di un unitario (e ancor più sostanziale!) determinismo, che esclude la libertà dell’essere e del valere, e lo psicologismo, determinano una incompatibilità assoluta della teoria psicoanalitica con una visione del mondo che non si attenga strettamente al puro materialismo e naturalismo.
A questa posizione sostanziale altre eccezioni, seppur importanti in sé, suscitate attraverso singole importanti affermazioni riguardo la psicoanalisi, significano relativamente poco. Finché si tratta di opinioni scorrette contro i fatti, come ad esempio le affermazioni sul divenire dei costumi e della religione, attraverso una stima molto parziale ed acritica dei dati etnologici, o l’ingiustificata analogia tra storia della cultura e filogenesi, sorgono per la maggior parte dai presupposti citati, i quali, nella chiusura dogmatica di cui sono rappresentanti, mostrano solo ciò che combacia con le loro teorie. Alcune altre espressioni su fatti di genere psicologico necessitano solo di essere separate da terminologie specifiche e dal mai evitato mescolamento tra scoperte e spiegazioni teoriche, per trovare accesso, come conoscenze di reale valore, al campo del sapere psicologico. Questo si applica anche per la maggior parte delle frasi contro le quali si rivolge l’accusa di “pansessualismo”, spesso sollevata, la quale più che altro si riferisce ad aspetti di esteriorità e casualità storica, piuttosto che a punti veramente essenziali.
Ma la psicoanalisi come teoria dell’essere umano è del tutto impossibile senza il suo fondamento materialistico e naturalistico. Lo si intravvede, per quanto non ci si debba soffermare, anche nella parte fondamentale del suo insegnamento, la teoria delle pulsioni. Il suo metodo terapeutico è così intimamente intrecciato alla teoria che devono essere rivolte delle pesanti considerazioni anche contro il suo utilizzo, non appena si allarga oltre il semplice sostegno alla “esplorazione”. Nella letteratura psicoanalitica, per esempio in Schulz-Henke[8], si trova l’affermazione che certe nevrosi non potrebbero essere curate altrimenti che con la psicoanalisi. La constatazione non si basa però su di una esperienza di comparazione, quanto piuttosto su preconcetti teorici. Non esiste un approccio uniforme che si applichi a casi refrattari per uno o per l’altro metodo. Il successo o il fallimento di una terapia, in questi casi, è squisitamente una questione di approccio individuale (non della collocazione nosologica) del paziente e anche del terapeuta. Non si può parlare di una psicoanalisi indispensabile per alcune malattie. Quindi siamo sollevati dal conflitto di doverci chiedere, dal punto di vista cattolico, fino a che punto la psicoanalisi come processo terapeutico possa essere ritenuta affidabile nonostante l’inaccettabilità della sua teoria. Poiché non può esistere una “psicoanalisi cattolica”: questo accostamento di parole è una contraddizione in termini. Non è nemmeno possibile una psicoanalisi “cristiana”. Chi crede ciò, non è riuscito a chiarirsi l’essenza della psicoanalisi oppure la visione cristiana.[9]
Con ciò non si vuole assolutamente dire, che la terapia non sia praticabile. Poiché la psicoanalisi è stata sì la prima tra le discipline teorico-sistematiche, ma non l’unica forma di psicoterapia e di teoria. Questo merita di essere evidenziato, perché frequentemente psicoterapia e psicoanalisi si vedono equiparate (in particolar modo in Inghilterra e negli Stati Uniti), per cui si sollevano contro la psicoterapia le legittime preoccupazioni riguardanti la psicoanalisi.
Non bisogna neppure dimenticare che, pur con tutte le inammissibilità degli insegnamenti freudiani, quest’uomo ha il merito eterno non solo di aver portato in primo piano la realtà della dimensione psichica con tutte le ristampe dei suoi libri, non solo di aver riconosciuto il significato della storia individuale, ma soprattutto di aver nuovamente delineato l’idea di uomo nella sua interezza come effettivo oggetto di trattamento terapeutico. Tanto quanto ha dovuto essere infedele a questa linea guida nell'espansione dell'insegnamento, poiché non è stato in grado di liberarsi dall’incantesimo delle categorie e delle concezioni assunte, altrettanto Freud ha contribuito al nuovo orientamento del pensiero medico e psicologico. Si può e si deve combattere il suo insegnamento, ma non si può passargli oltre o dimenticare la dovuta riconoscenza nei suoi confronti.

In parte per l’impulso dato da Freud, in parte per altri motivi, volgiamoci ora al secondo grande tentativo di creare una nuova teoria e terapia della nevrosi, e con ciò nuovamente una teoria dell’uomo nella sua totalità, seguendo la suddetta logica immanentistica. Non molto felicemente, nella scelta della denominazione, il suo fondatore Alfred Adler l’ha battezzata “psicologia individuale comparativa”. Così come nell’approfondimento delle affermazioni che procedono dal pensiero psicoanalitico, ci si può sentir chiamati al medesimo compito con alcuni tentativi della psicologia individuale, che miravano ad una chiarezza sistematica. Principalmente orientata a compiti immediatamente pratici, caricata di un forte pathos social-pedagogico, al fondatore di questo approccio importa ovviamente poco delle definizioni e degli approfondimenti logico-critici. Quanto poco regni la chiarezza - in entrambe le scuole – lo si può vedere dal fatto che, recentemente, un discepolo di Freud poneva la psicoanalisi come strettamente appaiabile al marxismo, così che solo negli stati marxisti la si sarebbe potuta esercitare pienamente, mentre poco prima per un altro autore (in un periodico socialdemocratico) solo la psicologia individuale risultava marxista, rispetto alla psicoanalisi invece ritenuta come ultima propaggine dello spirito borghese. Nonostante alcuni seguaci di Adler vedessero necessaria e richiesta una stretta correlazione tra la filosofia della storia e del commercio di stampo marxista e la psicologia individuale ed il suo spirito, in questa controversia ha ragione lo psicoanalista. L’apparente fraseologia marxista della psicologia analitica è appunto solo fraseologia; il concetto di “utile”, che con Adler gioca un grosso ruolo, appartiene ad un piano totalmente altro rispetto alle parole analoghe della filosofia sociale marxista, mentre il concetto di “libido” in Freud (“guadagno” della libido, etc) e l’insegnamento sulla nascita di tutte le culture dalla sublimazione delle pulsioni, per la necessità di rifiutare la soddisfazione delle pulsioni e simili, di fatto originarono storicamente da una ideologia non dissomigliante dal marxismo.
Caratteristica peculiare solo della psicologia individuale è che questa sin dall’inizio procede, come punto di partenza, dal concetto di uomo e della sua vita nella totalità e unità. In modo simile, in effetti, la formula psicoanalitica parla del destino delle pulsioni a partire dall’influsso determinante della tendenza fondamentale della volontà di potere e di comunità (come sarebbe più preciso dire, invece di “sentimento di comunità”). Mentre però per la psicoanalisi la persona essenzialmente origina e consiste in pulsioni, per la psicologia individuale la volontà di potenza e così via rimane solo qualcosa riguardante la persona. La persona “sbaglia” se si lascia spingere dalla volontà di potenza in una direzione contraria alla vita. Naturalmente una pulsione non può sbagliare; questo lo può solo una persona. E siccome Adler vede la produzione di una “linea di condotta” difettosa (secondo la quale l’uomo invece “dell’utile” persegue “l’inutile”) a motivo dell’errare, stabilisce, forse senza nemmeno accorgersi, una libertà necessaria. Come conseguenza trova fondamento la modalità osservativa “finale” della psicologia individuale; poiché l’agire libero può essere costruito teleologicamente solo a partire dalla libertà. Se la categoria di “errore” risulta proprio la più adeguata, questo resta da vedere; qui non si tratta di criticare cose singole, ma solo i punti di vista fondamentali. In questo personalismo di principio e nell’introduzione (anche se in modo conclusivo) della libertà, rimane decisa la possibilità di portare la psicologia individuale, secondo la sua essenza, in sintonia con una metafisica non naturalistica, e persino la necessità di strutturarla tramite essa.
Certo, non è da disconoscere che la psicologia individuale, come viene insegnata e proposta da non pochi dei suoi seguaci, procede in collegamento con pensieri che appaiono assolutamente inaccettabili (contraddicendosi nella sua essenza). Questo riguarda però la poca chiarezza già notata, che nella letteratura regna sui concetti propri. La mal appresa opinione che alcuni – analisti ed esterni – portano avanti, che la psicologia individuale sia solo una parte della psicoanalisi e perciò che le sue procedure siano utilizzabili solo in certi casi e con certe manifestazioni nevrotiche, trascura questa fondamentale differenza (in senso logico-metodologico) delle posizioni di partenza di entrambe le teorie. Non appare opportuno indagare altri aspetti fondamentali dell’insegnamento di Adler. Si è trattato piuttosto di esporre la sua principale differenza con la psicoanalisi. Potremmo anche non affrontare qui una terza teoria, che aspira ad essere una specie di collegamento tra le due suddette, e contemporaneamente si intreccia con rappresentazioni proprie, in parte rifacentesi alla mitologia, quella appunto di K.G. Jung[10]. Però bisognerà dire qualcosa a proposito, siccome in primo luogo dovremo pensare all’essenza della nevrosi, e in secondo luogo dovremo individuare, per l’affermarsi della psicoterapia, quali insegnamenti per eccellenza possiedano una teoria sull’essenza dell’uomo.

Il nevrotico è un uomo che esprime le sue opinioni, i suoi comportamenti e i suoi giudizi in un modo che egli stesso non comprende, non riconosce per nulla la propria funzione espressiva, non prende atto del conflitto tra i suoi giudizi e la “realtà”, piuttosto l’effetto di questo conflitto prende una forma interna di sofferenza. Realtà qui non significa solo il mondo delle cose, ma anche il mondo dei valori, della cultura, della comunità, e infine l’essere stesso dell’uomo.  Il soffrire non deve affatto presentarsi in una forma, che appaia in un certo senso come malattia, a chi lo sperimenta. Perché la nevrosi, in quanto modificazione del carattere, può sussistere senza “sintomi” fisici o psichici. In tali casi la sofferenza si mostra come incidente, conflitto con i propri simili, inattitudine alla vita, difficoltà lavorative, “sfortuna” in amore, o nelle amicizie o in famiglia o in qualsiasi altro ambito che solo all’esperto appaiono riconoscibili come manifestazioni ed effetti di un carattere nevrotico. La nevrosi si basa quindi su due fatti: il primo, che l’uomo vive in un pensiero “scorretto”; il secondo, che questa circostanza non va in pausa.  Il fatto è che la nevrosi ci pone di fronte a due domande, se non viene compresa altrimenti. La prima: com’è possibile il pensiero “corretto”? Come l’ottiene l’uomo? Dove “ottenere” è da considerarsi meno in senso genetico-storico, quanto piuttosto in quello di una derivazione dalla qualità umana essenziale, in qualche misura ontologica. La seconda: come si arriva a questo e cosa significa, che l’uomo così fatto non è in grado di comprendere questo suo essere-fatto-così e i suoi modi di esprimerlo? Tali domande, che sorgono dalla problematica della nevrosi, necessitano di una più completa interpretazione e risposta, di quanto sia possibile all’interno della cornice di un articolo. Che si destino tali interrogativi, mostra però quanto la problematica della nevrosi sia estremamente contigua a quella dello stesso essere umano. Affrontare la problematica umana a partire dalla psicoterapia non è solo possibile, sorge anzi da una profonda necessità interna alla disciplina. La psicoterapia invita, se vuole essere conclusa in modo sistematico, al fondamento di una metafisica della persona. In ciò consiste la necessità del suo affrontarla.
Quindi, rispondere alle domande sopra esposte non funziona. Deve essere chiarita solo la direzione in cui cercarle. Il chiarimento può essere avviato a partire dal concetto di “inautenticità”, come è stato introdotto da Haas e Von Pfander[11] nella psicologia e nella fenomenologia. Ci sono tre modalità di inautenticità (qui, però, non seguiamo già più il pensiero citato). La prima è quella del vissuto: se il soggetto non vive il suo vissuto del momento in modo unificato, quanto piuttosto in due o più strati. Maschera, posa, finzione, autoinganno o similari possono illustrarlo, così come il “non essere sul pezzo” o “ascoltare solo in parte” etc. La seconda, in opposizione alla prima definibile come immanente, è quella “trascendente”, nella misura in cui la rappresentazione di sé della persona non è conforme alla stessa. Nel modo più evidente questa forma di inautenticità si manifesta quando, di fronte ad un uomo, abbiamo l’indubitabile impressione che egli sia “effettivamente”, “sostanzialmente” più ricco, più profondo, migliore di quanto appaia a prima vista. Ovviamente c’è anche il caso opposto (e pure più frequente), solo che la prima modalità copre la seconda e non lascia più trasparire nulla. La terza e più importante forma di inautenticità che più probabilmente sta alla base delle altre due (o che perlomeno ne abbia la possibilità), si può chiamare ontica: essa consiste nel paradosso che l’uomo prenda posizione contro il suo stesso essere. Tale suo stesso essere non è da intendere solo come l’essere individuale, quanto piuttosto come l’essere umano in generale. Definiamo appunto inautentica tale ribellione contro il proprio essere, in ultima analisi contro la propria creaturalità, perché in questa rivolta il proprio essere è presupposto e rende perciò possibile la ribellione. La ribellione contro la propria creaturalità, però, non è altro che il peccato originale. In questo Freud ha visto giusto, quando ha configurato la nevrosi come l’autoprotezione dell’individuo dalle tendenze criminali, asociali e antimorali; solo che non ha cercato abbastanza di andare più a fondo in tali tendenze. A questo punto non ci si può addentrare in questo difficilissimo ma anche estremamente significativo problema del collegamento tra nevrosi e peccato (nel senso di una colpa più consapevole e più responsabile). Se definiamo superbia questo sdegno verso il proprio essere, come avviene nella psicologia individuale anche se non nell’ultimo intendere la situazione ontica, e come molto prima fece Sant’Agostino (“la superbia è la radice di tutte le malattie” in Omelia 25 su Giovanni), allora la nevrosi è la maschera di questa superbia, e il discorso sulla “fuga nella malattia” (Freud) è corretto; il “la fuga davanti a cosa” per dirla con Heidegger, non solo è la realtà dell’ambiente, in cui ci sono sconfitte e conflitto, bensì primariamente lo stesso essere dell’uomo e per contro l’essenziale insostenibilità dello sdegno. Per questo l’uomo non può comprendere il proprio comportamento né gli è permesso.
Siamo arrivati a fare uno schizzo dei percorsi del pensiero che ha reso visibile l’ultima problematica, così come ci è stato dato dal fatto della nevrosi. Si potrebbe compiere una esplorazione penetrante, che presumibilmente non troverebbe posto qui: una esauriente teoria della nevrosi si può sviluppare solo sulla base di precisi elementi riguardanti la costituzione dell’essere umano; costruire una teoria della nevrosi non è possibile senza una metafisica della persona[12]. Si noti tra l’altro che, in un certo senso, sia in Haeberlin[13] che in Heidegger[14] si trovano simili percorsi di pensiero, anche se originanti da altri assunti. Sarebbe interessante indagare una nuova-  e però sostanzialmente antica-  rappresentazione dell’essere umano nel pensiero attuale, in particolare apprezzare criticamente le riflessioni di Scheler[15] riguardo i tipi di concezione su questo essere, però deve essere sufficiente il riferimento a queste implicazioni nell’attuale movimento intellettuale.
Per quanto riguarda la richiesta di una fondata teoria dell’essere umano in psicoterapia, si è riscontrata appunto per la stessa psicoterapia la necessità di presupporne una. Perciò non può esserle contestato il diritto di sviluppare una tale teoria a partire da sé stessa. Altra è la questione se questo punto di partenza permetta uno sguardo globale sulla totalità degli aspetti dell’essere dell’uomo. In ogni caso, la modalità osservativa della psicoterapia può solo valere come una delle possibili, anche se si deve ammettere che per certi versi si rivela molto fruttuosa. Inoltre la psicoterapia può aspettarsi che si considerino seriamente i suoi enunciati sull’uomo, sulle condizioni del suo sviluppo e del suo comportamento. Non è perciò ammissibile riferirsi ai costrutti della psicoterapia, la sua domanda, formazione, conduzione e trattamento dell’uomo, per evitare che si dica che questa vale solo per gli uomini “malati”, perché la causa ultima di quelle malattie, delle nevrosi, non si radica nella particolarità di un singolo individuo, bensì piuttosto nel paradosso dell’essere umano; in quel paradosso, per cui il nostro pensiero scaturisce dall’insieme della nostre finite creaturalità e libertà. Perciò il problema della nevrosi è in ultima analisi non solo un problema medico, ma anche etico; è tanto più grande, quindi, la responsabilità dello psicoterapeuta. A lui viene richiesto non solo il sapere medico, non solo la capacità terapeutica, quanto piuttosto l’approfondimento della visione del mondo, la revisione costante del suo atteggiamento, perché non deve essere solo un guaritore ma anche un maestro e una guida. Deve guidare fino a quel punto dove l’uomo, liberato dai grovigli, illuminato dal riconoscimento, può aprirsi a momenti gratuiti di grazia. Il suo compito culmina ed è limitato a questo: che “prepari la via del Signore e appiani le sue strade” (Is. 40,3).




[1]          Cfr. Allers, Significato e metodologia dell’interpretazione, in Psicogenesi e psicoterapia dei sintomi corporei, di D. Schwarz, Vienna 1925 Springer.
[2]          Vedi ultimamente “I psiconeuroni”, Monaco 1928, Koesel e Pustet.
[3]          “Psicoanalisi e visione del mondo” così come “religiosità e isteria”, entrambi Vienna 1928 Edizioni Psicoanalitiche
[4]          Die Entwicklungsziele der Psychoanalyse (gli obiettivi di sviluppo della psicoanalisi, ndr) Vienna, 1924, Psychoanalyt. Verlag.
[5]          Relazione al secondo congresso di Psicoterapia, Leipzig 1928.
[6]          Kantstudien 1928
[7]          Il futuro di una illusione, Vienna, 1928 Psychanalyt. Verlag
[8]          Allegmeine aertzl. Zeitschrift der Psychotherapie 1928
[9]          Cfr. Allers, in Schweizerische Rundschau, 1928 quaderno 1 e 2. vedi anche le dissertazioni del teologo evengelico A. Runestam, Psicoanalisi e Cristianesimo, Guetersloh 1928, Vertelsmann
[10]        Si veda per es. Die Beziehungen des Unbewusstes usw Le relazioni dell’inconscio,  etc, Darmstadt 1928 Reichel.
[11]        Psychologie der Gesinnungen, Jahrbuch fuer phil. un phaenom. Forschungen Bd.1 u.2 (1914, 1915) Psicologia dei sentimenti,  annuario per ricerche filosofiche e fenomenologiche volume 1 e 2
[12]        In un certo qual modo dettagliatamente, ma non esaurientemente, secondo me le domande qui sfiorate sono trattate nel libro di Herder: “das Werden des sittlichen Person. 1.Teil: Erziehung des Charakters (divenire persona morale. Prma parte: Educazione del carattere”). Forse chiarisce le spiegazioni qui sopra, la acuta annotazione di Gertrud Le Fort: la cura medica delle anime rende gli uomini dei filistei; come anche l’altra, lo psichiatra non conosce peccati; a tal punto concorda con alcune scuole o alcuni terapeuti, però non coglie la psicoterapia nella sua essenza (si veda “das Schweisstuch der Veronika” - il sudario della Veronica)
[13]        Der Charakter, (il carattere) Basel 1925, Kober.
[14]        Sein und Zeit, (essere e tempo) Halle 1927, Niemener
[15]        Mensch und Geschichte (uomo e storia) Zurich 1928, Neue Schweiz. Rundschau

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