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domenica 28 novembre 2010

RUDOLF ALLERS - PSICOLOGIA E CATTOLICESIMO

La copertina del libro
Il volume che Roberto Marchesini pubblica presso la D’Ettoris edizioni è uno dei libri più importanti di sempre, poiché contiene il testo - mai comparso in italiano - “Le nuove psicologie” di Rudolf Allers. Allievo di Freud all’università, successivamente psicoterapeuta “individuale” della scuola adleriana, Rudolf Allers comprende che la psicologia del XX secolo, che si basa sullo scientismo per quanto concerne la parte sperimentale, e sul materialismo freudiano per quanto riguarda la psicoanalisi, getta le fondamenta in una concezione erronea di uomo, eccessivamente influenzata dall’illuminismo e dal neo-positivismo. Decide, allora, di abbandonare la sequela di Adler – e più in generale la psicoanalisi – per dedicarsi completamente alla costruzione di una psicologia fondata su di una “sana antropologia”. Grazie ai suoi viaggi, che lo porteranno prima a Milano presso la scuola neo-tomista dell’Università Cattolica di Padre Agostino Gemelli, e poi in America, dove si trasferirà nel secondo dopoguerra, Allers individua nell’antropologia di San Tommaso D’Aquino la chiave di volta per comprendere gli errori di una psicologia troppo influenzata da Freud e dal suo modello di uomo (e di mondo) e per la costruzione – che, però, non porterà mai a compimento – di una nuova psicologia che tenga presente l’unitarietà dell’essere umano, corpo e anima, ed al contempo non ne riduca la profonda domanda di senso, di vero, di bello e di giusto, di Dio, a semplice componente culturale, patologica, accessoria.


Nella presentazione, Ermanno Pavesi sottolinea come “uno dei problemi fondamentali della psicologia è quello del rapporto anima-corpo […] la questione del rapporto anima-corpo sottende una serie di altri problemi, come la natura dell’anima, la sua origine e quindi anche l’origine del mondo, l’esistenza di un Essere supremo e i suoi attributi” (pag. 9). “Partendo dal principio che ogni psicologia e ogni psicoterapia si fondano su una visione particolare dell’uomo, che ogni antropologia è inserita a sua volta in una visione del mondo ben precisa e che ogni filosofia non può prescindere dalla teologia, Allers ritiene necessario inquadrare la psicologia in una visione dell’uomo che sia anche filosofia e teologica. […] La lezione di Allers mette in discussione l’impostazione cartesiana: gli ambiti naturale, razionale e spirituale sono distinti ma non completamente separati e la psicologia ne deve tener conto” (pag. 14).

Nella corposa introduzione, Roberto Marchesini mette a tema il delicato rapporto tra le scienze psicologiche ed il cattolicesimo. Parafrasando una frase di don Giussani si chiede: “Se Cristo è tutto, che cosa c’entra con la psicologia?” (pag. 20). La domanda dà spazio all’ulteriore quesito di che cosa sia una psicologia cattolica, se ne esista una e soprattutto che cosa distingua lo psicologo cattolico dal non cattolico: “Il cristianesimo in psicologia, si riduce ad una «psicotica», ad un modo di relazionarsi con il paziente che presuppone dei valori, una morale ed una visione del mondo cristiana?” (pag. 20). Dal momento che “il Magistero non dà indicazioni per quanto riguarda una eventuale “psicologia cattolica” (pag. 20) Marchesini ripercorre i documenti ufficiali nei quali compaiono accenni generici al riguardo: dai discorsi di Pio XII – in cui il Pontefice “mise in luce le differenze tra l’antropologia cristiana e quella sottesa dalla psicoanalisi” (pag. 23) – al Monitum del Sant’Uffizio – voluto da Giovanni XXIII “per condannare l’opinione secondo la quale la psicoanalisi sarebbe necessaria per ricevere gli ordini sacri, o per lo meno come esame attitudinale per i candidati al sacerdozio; questo documento, inoltre, esprimeva il divieto a chierici e religiosi di praticare la psicoanalisi, e ai seminaristi di ricorrervi” (pag. 25) – alla difficile espressione del Concilio Vaticano II di “sana psicologia” – “cosa significa l’aggettivo “sana”? Il Magistero non lo specifica” (pag. 21) – fino alle più recenti dichiarazioni di Papa Paolo VI – che “criticò la psicoanalisi diverse volte; in particolare rimproverava a questa dottrina di essere una “psicologia dal basso” (pag. 26) – e di Giovanni Paolo II, il quale “si riferisce a Freud come ad un “maestro del sospetto”, che accusa implacabilmente il cuore dell’uomo di “concupiscenza della carne” (pag. 27).

I tentativi di coniugare direttamente psicologia e cattolicesimo sono stati poco numerosi e spesso “sconfortanti” (pag. 28). Tra di essi spiccano le opere di Victor Frankl, allievo proprio di Allers, il cui merito “consiste nel tenere in considerazione la dimensione spirituale dell’uomo e la sua sete di senso e di trascendenza” (pag. 29) anche se l’Analisi Esistenziale di Frankl “non è ancora una psicologia propriamente cattolica” (pag. 29). “Chi, dunque, cerca una psicologia che sia fondata sull’antropologia cattolica deve rassegnarsi, accontentarsi di mezze misure, ripiegare su l’esercizio di una “psicoetica” senza troppo curarsi delle implicazioni filosofiche ed antropologiche del suo approccio? Oppure, se pervicacemente crede che sia possibile una “psicologia cattolica” può solo rimboccarsi le maniche e tentare di fondarne una dal nulla? Fortunatamente, qualcuno si è già cimentato con l’impresa e, se non ha concluso l’opera titanica, ha per lo meno lasciato un metodo e solide basi dalle quali partire. Questo qualcuno si chiama Rudolf Allers” (pag. 31).


Rudolf Allers
Le prime pagine del testo di Allers sono dedicate ad introdurre il tema di tutto il volume. Allers precisa che le “nuove psicologie” – che si distanziano dalla “vecchia” poiché non più centrate sull’esperimento – nascono da un ritrovato interesse per l’interrogarsi sull’uomo: “La rinascita della metafisica nel nostro tempo mostra una configurazione caratteristica: il primo e più intenso interesse si concentra sul problema dell’uomo; la ricerca più intensa è quella di un’antropologia. […] Oggi gli uomini devono rispondere a questa sola domanda, posta forse in modo più onesto oggi quanto mai in precedenza: cosa è l’uomo?” (pag. 50). Ed aggiunge: “C’è una risposta che non è mai essenzialmente cambiata nel corso di quasi duemila anni – la risposta della Chiesa” (pag. 50).


Il primo capitolo, dedicato alla psicoanalisi, è introdotto dalla riflessione sulla antinomia presente in medicina: “tra la prospettiva della medicina come scienza, che lavora con metodi e concetti scientifici, e la medicina come una pratica, che ha a che fare con individui” (pag. 55). E continua: “Ci sono, per la verità, sofferenze che non toccano il nucleo profondo della personalità, e altre che sembrano riguardare l’intero essere. Una lesione traumatica come una gamba rotta non tocca il vero sé, ma ogni infermità funzionale lo intaccherà. I disturbi della digestione possono, come tutti sanno, influenzare in misura maggiore o minore il comportamento emotivo del paziente e certi disturbi cronici possono causare cambiamenti del carattere molto pronunciati. Nel primo caso il paziente dirà: “Ho rotto lamia gamba”; nel secondo: “Mi sento male”. Nel primo caso il sé sperimenta un disturbo che interviene all’interno del suo campo, ma nessun cambiamento in se stesso; nel secondo il sé sperimenta un cambiamento fondamentale. Tuttavia se il disturbo proviene dal profondo del sé, se il cambiamento che interviene non è prodotto da un potere sentito come estraneo al sé (come un attacco di indisposizione) ma ha le sue radici nella più profonda intimità della personalità, il paziente vorrà più che un’accurata diagnosi e un’indicazione di trattamento da seguire: vorrà essere “compreso” (pag. 56). Mentre la “vecchia” psicologia ha sviluppato i suoi metodi, concetti e categorie conformemente ai modelli ereditati dalle scienze naturali, le attuali esigenze della medicina pratica hanno reso urgente comprendere il paziente come una singola personalità individuale. “Comprendere significa cercare di afferrare la struttura della globalità della personalità e per questo è all’estremo opposto dell’analisi” (pag. 56).

La psicoanalisi si è inserita all’interno di questo incontro-scontro tra il vecchio ed il nuovo, unendo “due tipi di pensiero scientifico diversi ed incompatibili” (pag. 57). “A prima vista la teoria psicoanalitica dà l’impressione di essere saldamente consistente e sistematica. Questa impressione, tuttavia, può durare fino a quando la teoria non è analizzata nei suoi assunti fondamentali. […] Ci sono, per quanto io possa vedere, cinque proposizioni fondamentali da smascherare nella psicoanalisi, principalmente nel lavoro di Freud” (pag. 58). La prima è “l’”ipotesi psicoenergetica”. Freud ipotizza che nella vita mentale ci sia uno scambio di energia come quello supposto in fisica; quantità di energia sarebbero attaccate a questo o a quello stato mentale, oggetto, o fenomeno: l‘energia – chiamata in psicoanalisi libido – è tolta da un oggetto e trasferita ad un altro” (pag. 59). “Questa idea dell’energia psichica con le sue precise quantità, congiunta a singoli fenomeni mentali, implica una seconda fondamentale proposizione. Una definita quantità di energia può essere concepita come unita ad un determinato stato mentale solo quando questo stato è assolutamente distinto da qualsiasi altro” (pag. 59). Il terzo assunto è quello di “impulso”. “Un impulso, come viene inteso dalla psicoanalisi, non è la stessa cosa di un istinto. L’istinto produce alcune complesse reazioni nell’organismo quando quest’ultimo viene messo in certe situazioni, e la coscienza non è coinvolta in nessun modo. Gli impulsi, per la verità, come reazioni istintive dell’organismo, sono schemi che hanno la loro origine nel profondo della struttura vivente; ma essi diventano in qualche modo contenuti dell’esperienza cosciente. […] E’ la soddisfazione dell’impulso che causa il piacere. La psicoanalisi non conosce altra forma di piacere che non sia una soddisfazione, della quale l’esempio supremo è la soddisfazione sessuale, e il fatto che ne esistano anche altre forme è ignorato da Freud” (pag. 60). “L’ipotesi dell’impulso ha una doppia funzione all’interno del sistema della psicoanalisi. L’introduzione degli impulsi, nel significato specifico attribuito loro dalla psicoanalisi, sembra legittimare il concetto psicoenergetico di uomo. Gli impulsi sono considerati come l’unico e originale materiale dal quale tutti i fenomeni mentali (siano consci o inconsci) sono direttamente o indirettamente derivati; essi sono funzioni dell’organismo, di natura dinamica: accumulano una certa tensione, che termina dopo il suo sfogo attraverso un’azione adeguata e piacevole; e la soddisfazione è l’esperienza connessa con lo sfogo di questa tensione. Se questa idea è un’esatta riproduzione della realtà, allora veramente l’energia qualcosa di simile potrebbe sembrare un concetto legittimo in psicologia. Il secondo compito dell’ipotesi dell’impulso è di creare un collegamento tra la vita organica e quella mentale. Persino il materialismo più estremo non potrebbe ignorare la differenza essenziale tra i fenomeni corporei e quelli mentali; la spiegazione di questa differenza è sempre stata la croce della filosofia materialista” (pag. 61). Quarto assioma: la causalità. La psicoanalisi “sostenne di essere una scienza naturale, che lavorava all’interno delle opportune categorie. La connessione tra i diversi elementi che contribuivano a formare una personalità appariva dunque come dominata esclusivamente dalla causalità, la quale aveva lo stesso significato che aveva in medicina. Questo […] implica che in ogni determinato momento la condizione di un individuo è assolutamente determinata dal suo passato. L’originale costituzione dell’individuo e il particolare lavoro degli impulsi che ne deriva, sono le cause (nel senso più stretto della parola) di tutta la sua esperienza e di tutti i suoi atteggiamenti presenti. La psicoanalisi, dunque, non lascia alcuno spazio alla libertà” (pag. 63). “Il quinto fondamentale assioma dice che la connessione causale è identica alla catena delle libere associazioni. […] Poiché la psicoanalisi crede che nel corso di questa catena di libere associazioni, partita da un qualunque elemento – un’idea appena passata per la mente, un sogno e così via -, apparirà l’elemento determinante, al paziente fiene detto di lasciare che i suoi pensieri seguano in modo assolutamente libero il loro corso e di riferirli altrettanto liberamente all’analista. Ma non c’è nessuna prova convincente che seguendo la catena delle libere associazioni questo elemento determinante debba essere scoperto” (pag. 63).

“Avendo definito le cinque proposizioni fondamentali della psicoanalisi, possiamo ora chiederci: quale è l’atteggiamento mentale generale che dà origine a un sistema basato su tali principi? E’ facile rispondere alla domanda. C’è una sola posizione filosofica o metafisica che possa rendere un simile sistema di assiomi sulla natura umana non solo possibile ma anche necessario – il naturalismo ovvero il materialismo. La psicoanalisi è il frutto di una interpretazione della vita puramente materialista” (pag. 64). “Strettamente connesso con questo materialismo è il determinismo della psicoanalisi, già menzionato. Un’altra conseguenza dello stesso fondamentale punto di vista è la posizione edonistica di Freud e della sua scuola. Come abbiamo illustrato, la psicoanalisi non conosce altro piacere che la soddisfazione, e nessun altro scopo eccetto il piacere. Di conseguenza ci sono due principi che regolano la vita umana, chiamati da Freud principio di piacere e principio di realtà; l’ultimo rimpiazza il primo nel corso dello sviluppo di una persona. Il bambino piccolo (e, stando a Freud, anche l’uomo primitivo) si attiverà dapprima esclusivamente per una soddisfazione immediata dei desideri nati dai suoi impulsi. L’esperienza, però, gli insegna che una soddisfazione così immediata potrebbe essere seguita da un dispiacere ancora più grande dell’immediato piacere della soddisfazione. Egli impara quindi ad adattarsi alla realtà, a prendere in considerazione l’alto prezzo che spesso deve pagare per una soddisfazione momentanea, e in questo modo si vieta di cedere al suo impulso originario. Tuttavia il motivo per il suo adattamento alla realtà è ancora una volta lo sforzo per la maggior quantità possibile di piacere. Il così detto principio di realtà è, infatti, nient’altro che una modificazione del principio di piacere. Lo scopo di ogni comportamento umano rimane dunque, secondo la psicoanalisi, lo stesso; non c’è altro scopo che il piacere” (pag. 64). Dunque la psicoanalisi “è basata su una simile filosofia – materialismo, determinismo, edonismo – […]” (pag. 67).

Sin qui l’analisi di Allers potrebbe sembrare un attacco frontale senza scrupoli alla teoria freudiana. Essa, invece, è una descrizione semplice e minuziosa di quei presupposti sottesi al pensare ed all’agire psicoanalitico. E come tutte le analisi che mirano in profondità non soffermandosi alla superficie essa non esclude gli aspetti positivi che la psicoanalisi ha portato. “E’ stata anche il primo sistema che abbia tentato di arrivare ad una comprensione della personalità umana come una totalità; infatti un grande merito della psicoanalisi è quello di aver preso atto dei principi irrazionali che lavorano all’interno della personalità umana” (pag. 67). “Sebbene la teoria sia mal concepita, ha dato prova di efficacia nel trattamento della nevrosi” (pag. 67) anche se su questo aspetto Allers precisa istantaneamente: “Come può un trattamento basato su falsi assunti avere la possibilità di curare i pazienti? La mia impressione è che gli analisti curino i loro pazienti – se davvero li curano – non perché utilizzino il trattamento psicoanalitico, ma nonostante il suo utilizzo. La “situazione analitica” produce dei cambiamenti nella personalità del paziente, e in questo senso alcuni problemi potrebbero ben scomparire” (pag. 68). “

In conclusione possiamo ora ricapitolare i fattori principali della psicoanalisi in poche brevi proposizioni. La psicoanalisi si basa sul presupposto che nella natura umana non agiscano altre forze che quelle puramente biologiche. Il sistema è fondamentalmente materialista. La sua posizione etica è quella di un estremo edonismo. Esso ignora l’oggettività dei valori, anzi, qualunque oggettività; persino gli oggetti che trascendono il sé sono considerati solamente come occasioni di soddisfazione di desideri. Il suo materialismo intrinseco conduce ad una concezione materialistica della vita della mente, che rende impossibile concepire l’esistenza di un io al di fuori del contenuto mentale, o a maggior ragione di un’anima sostanziale” (pag. 70).


Il secondo capitolo è dedicato alla psicologia individuale. Le prime parole che Allers spende per descrivere la teoria del suo maestro Alfred Adler hanno il preciso obiettivo di distinguere la psicologia individuale dalla psicoanalisi freudiana: “[…] la psicologia individuale è nei fatti una cosa completamente diversa” (pag. 75). “[…] Adler per primo vide che i metodi della biologia da soli non avrebbero funzionato. Egli concepiva l’uomo non solo come un organismo, ma anche e soprattutto come un essere sociale. […] Il concetto fondamentale della psicologia individuale è quindi molti simile a quello proposto da Aristotele, di uomo concepito come un zoon politikon” (pag. 75). Questo principio centrale sviluppa ulteriori concezioni da esso derivate, come l’idea di salute: “Freud da qualche parte definisce la salute come l’abilità di lavorare e di godersi la vita; ma la riuscita di qualsiasi lavoro deve necessariamente, secondo l’interpretazione psicoanalitica, indicare il raggiungimento di una soddisfazione degli impulsi, per quanto modificata. La psicologia individuale, al contrario, sostiene che la salute o la normalità sia l’effetto della conformità alla realtà, essendo questa non solo più forte, ma anche antecedente gli sforzi della persona. Ora, l’aspetto della realtà che ha la maggiore e più decisiva influenza sulla vita umana è la società” (pag. 75).

“La psicologia individuale suppone che l’istinto fondamentale dell’auto-conservazione sia presente nell’uomo come nell’animale, ma in maniera differente nell’uno e nell’altro. […] La reazione corrispondente al pericolo, nel caso del genere umano, prenderà la forma di una lotta per la superiorità. Le varie forme con le quali la tendenza alla supremazia diventa visibile potrebbero essere appropriatamente raggruppate sotto un termine originariamente inventato da Nietzsche, “volontà di potenza”. […] La “volontà di potenza” è la vera centrale elettrica delle azioni umane, siano buone o cattive. In certe condizioni questa cosiddetta “volontà di potenza” può svilupparsi come egoismo ed iper-accentuazione dell’io, con la conseguente indifferenza alle domande poste dalla realtà. Ma finché la realtà è più forte dell’io ogni fuga da essa o ogni tentativo di sottometterla ai propri desideri causerà innumerevoli conflitti che appariranno, in molti casi, sotto forma di nevrosi” (pag. 77).

“La realtà, secondo la psicoanalisi, nega all’individuo l’immediata gratificazione dei suoi desideri; ma, secondo la psicologia individuale, l’individuo è parte della realtà. Secondo la prima teoria l’individuo può esistere soltanto opponendosi alla realtà; secondo l’altra può esistere soltanto in conformità alle leggi della realtà, perché quelle leggi sono allo stesso tempo le leggi dell’individuo. Secondo il punto di vista della psicologia individuale il conformarsi alle leggi della realtà non significa una limitazione più o meno dolora dello sviluppo dell’individuo; al contrario, significa vivere secondo la propria natura immanente. Di converso, il non adattamento alla realtà è, per la psicologia individuale, la stessa cosa che non essere pienamente se stessi” (pag. 78).

“La terapia quindi, dal punto di vista della psicologia individuale, deve perseguire un duplice obiettivo. Essa deve innanzitutto dare in modo che il paziente si accorga di essere stato intrappolato in un errore e di come questo errore sia sorto; in secondo luogo deve sostituire gli obiettivi distorti fondati su una base erronea, e di conseguenza inadatti alla realtà, con altri obiettivi in armonia con le leggi della realtà” (pag. 81).

“L’uso della parola “errore” mostra il fondamentale intellettualismo della psicologia individuale. La conoscenza della realtà e della personalità è, infatti, un elemento essenziale per un normale e soddisfacente sviluppo del carattere. […] L’intellettualismo della filosofia individuale non deve essere confuso con il razionalismo. La tesi è che la percezione intellettuale sia l’unico fattore in grado di produrre un cambiamento nel comportamento di una personalità sviluppata in modo anomalo, non che la cosa appresa tramite questa percezione sia di carattere razionale. Ma questa tesi, che potremmo chiamare il socratismo della psicologia individuale, va troppo oltre. In un certo senso è vero che la virtù può essere insegnata, e che una conoscenza delle esigenze della realtà è la prima condizione per soddisfarle, ma noi tutti sappiamo che conoscere queste leggi e persino l’approvare i loro obiettivi non equivale a prestargli obbedienza. Una conoscenza acquisita per via intellettuale, dunque, è una condizione indispensabile per ogni azione morale ma di per sé non è sufficiente perché non è, come sembra pretendere la psicologia individuale, l’unica conoscenza. Infatti, il termine “conoscenza” è equivoco. Dobbiamo distinguere tra la conoscenza puramente intellettuale, che, è vero, è la prima che abbiamo, e quella di altro tipo, per cui non è ancora stata trovata una espressione adeguata. […] L’assenso intellettuale rimane qualcosa di superficiale; è un processo che coinvolge solamente la periferia del sé complessivo, lasciando inesplorato il profondo, mentre il vero assenso scaturisce dalle profondità più intime” (pag. 82).

Allers, che apprezza in modo evidente la concezione adleriana, non si esime dal metterne a nudo anche le falle: “La psicologia individuale insegna che l’uomo deve tendere all’“utile”, al bene comune, e tutti i valori sono ridotti all’“utile” con una semplificazione non meno ingenua di quella che vorrebbe spiegare le differenze individuali con le variazione nello sviluppo della volontà di potenza” (pag. 80). “Adler concepisce la realtà come composta dalla natura e dalla società e la sua idea dell’esistenza di un solo valore, l’utile, è sicuramente connessa a questa visione limitata. Entrambe le idee sono la conseguenza di una certa incapacità di un chiaro pensiero filosofico. […] Un’ulteriore tesi della psicologia individuale, connessa con questa visione ristretta e con la mancanza di basi filosofiche, sembra essere egualmente errata. Adler e i suoi seguaci ortodossi affermano che tutti gli uomini sono uguali nelle loro potenzialità innate, abilità, talenti e così via, e che ogni variazione individuale è dovuta esclusivamente alle influenze ambientali” (pag. 83).

Allers conclude le riflessioni sulla psicologia individuale formalizzando un giudizio: “La psicologia individuale, fondata più di dieci anni dopo, è stata in grado di evitare alcuni degli errori iniziali della psicoanalisi. […] La psicologia individuale è, quindi, in un determinato senso, più “moderna” della psicoanalisi. […] La psicoanalisi vede nella realtà solamente il regno della realtà organica ed è cieca a ogni cosa al di fuori di ciò. La psicologia individuale vede più lontano, fino a percepire l’esistenza di un “altro io” e della società e persino, sebbene debolmente, dell’oggettività dei valori. E’ convinta dell’importanza di questi valori per la vita umana fino a professare apertamente una visione finalistica. Questa visione della vita umana è governata più dal futuro che dal passato, e il fatto che si debba trovare un significato reale negli obiettivi per i quali si vive può essere considerato un passo verso una “antropologia” veramente filosofica. Tuttavia, considerando la “società” come il vertice della realtà e non indagando le sue basi ontologiche, la psicologia individuale rivela la sua debolezza. Corretta nei punti menzionati qui sopra, la psicologia individuale può, senza perdere il suo carattere specifico, essere incorporata in un’antropologia più ampia che tiene conto di tutti i livelli di realtà” (pag. 85).


Nel terzo capitolo, Allers prende spunto dai progressi delle “nuove” psicologie - in particolare dalla psicologia analitica di cui ha grande stima - al fine di comparare il sapere psicologico con il pensiero cattolico. “Quest’idea della totalità potrebbe essere definita come una caratteristica comune di tutte le recenti scuole di psicologia. […] In primo luogo potremmo chiederci cosa significhi l’affermazione che il carattere o la personalità dell’uomo è un “intero” e che dovrebbe essere incluso nella categoria della totalità” (pag. 89). “Se vogliamo capire la reazione di un soggetto ad una esperienza dobbiamo tener conto di tutta la sua storia precedente fino al momento della sua esperienza. Dobbiamo conoscere la “totalità storica” del soggetto; di più, dobbiamo considerare il soggetto nella totalità del suo essere attuale e nella totalità di tutte le sue connessioni con la realtà (il che significa non solo il mondo delle cose e delle persone, ma quello di tutti gli oggetti e del “non-io”, nel senso più profondo del termine). E questo modo di guardare al soggetto deve necessariamente essere adottato per ogni momento della sua vita. […] Nessun sintomo – neppure in una persona anormale o in un nevrotico o altro -, nessun singolo aspetto del comportamento possiede un significato fissato una volta per tutte. […] Lo “stesso” tratto potrebbe avere diversi significati nella stessa persona in differenti momenti della sua vita. La reale conoscenza di una persona può essere ottenuta soltanto attraverso lo studio della totalità del suo comportamento insieme con la sua storia precedente” (pag. 90). “Lo studio dell’ipnosi e dei sintomi della nevrosi (o disordine psicogenico) mostrò che non c’è nessuna funzione o organo del corpo che non subisca l’influenza della mente o dell’anima. Sembrava che queste scoperte fornissero la prova empirica alle tesi dei filosofi medievali: anima tota in corpore et tota in qualibet parte. Non possiamo mostrare qui in dettaglio come la psicologia, al suo stato attuale, sia costretta a riconoscere l’unità psicofisica dell’uomo come affermata da san Tommaso, accettata dal quarto Concilio Laterano e ratificata dal Concilio Vaticano: anima forma substantialis corporis” (pag. 92).

Da questa ed altre riflessioni, Allers conclude: “La psicologia, per la natura immanente che le è propria, è dunque costretta a non spingersi oltre alla linea di confine che separa la scienza empirica dalla metafisica e dalla speculazione ontologica” (pag. 93); e più oltre aggiungerà: “La pretesa da parte della psicologia clinica di essere considerata non soltanto come una branca della medicina ma come un capitolo importante dell’antropologia sembra dunque giustificata, ma è legittima solamente se le affermazioni della psicologia clinica si sono dimostrate corrette tramite altri metodi, e ottengono una maggiore probabilità quanto più esse forniscono giudizi provenienti da altri metodi e da altri punti di partenza” (pag. 98).

Senza l’aiuto di uno sguardo più ampio, la sola psicologia non è in grado di cogliere gli aspetti più specifici dell’uomo e della malattia: “La psicologia individuale, per come viene generalmente rappresentata nei suoi testi base e persino nei libri dello stesso Adler, non è in grado di rispondere alla domanda che ognuno necessariamente pone quando si trova faccia a faccia con lo studio della nevrosi. Perché i sintomi nevrotici sono così frequentemente simili ad atti peccaminosi? Perché così spesso i peccatori descrivono il loro stato interiore in termini quasi identici alle espressioni usate dai nevrotici? Perché l’ansia e il senso di colpa sono così frequenti fra i nevrotici?” (pag. 97). Allers vuole così proporre una teoria della malattia mentale tale per cui la persona nevrotica non è qualitativamente diversa da una persona sana: “[…] quando consideriamo dei caratteri nevrotici dobbiamo essere consapevoli che non c’è una differenza essenziale tra le strutture e le tendenze fondamentali di una personalità nevrotica e quelle comuni a tutti noi” (pag. 97). “La psicologia clinica ha ragione nel pretendere che la nevrosi non dovrebbe essere definita una malattia nel senso in cui intendiamo questa parola quando viene applicata, per esempio, alla tubercolosi, alla dispepsia o al morbillo. Come le malattie del corpo, la nevrosi comporta una sofferenza soggettiva […]. […] Sebbene le parole e il comportamento di un nevrotico possano talvolta sembrare all’inesperto identici a quelli di una persona che soffre per un disturbo organico, esiste una considerevole differenza nei loro rispettivi modi di comportarsi. Il nevrotico fa esperienza della nevrosi come di un disturbo; la sua efficienza fisica soffre – per esempio, potrebbe essere spinto verso una incapacità assoluta di lavorare. Tuttavia non c’è una reale malattia nel nevrotico; per quanto egli possa soffrire di disturbi digestivi, lo stomaco è in buone condizioni; sebbene egli senta il cuore palpitare o battere con un ritmo assolutamente anomalo, i muscoli e i nervi del cuore sono intatti; nonostante egli sia tormentato dal dolore e turbato da sensazioni molto curiose, i suoi organi stanno funzionando normalmente, e così via” (pag. 99). “Il pensiero che una persona umana possa puntare ad uno scopo non conosciuto in modo esplicito o a essa sconosciuto non è quindi del tutto alieno alla filosofia dei Padri e dei loro successori; e l’idea di una personalità nevrotica che insegue obiettivi che non riconosce come tali è decisamente compatibile con le idee fondamentali sulla natura della mente umana che si trovano nei lavori dei grandi pensatori cristiani” (pag. 100). “Il problema, quindi, non consiste semplicemente nel fatto che il nevrotico – e l’individuo normale, a questo proposito – ignora parecchi dei suoi scopi e motivazioni; piuttosto riguarda il sistema con il quale il vero sé del soggetto è nascosto alla sua coscienza. Perché, ad esempio, il mezzo prescelto dovrebbe essere una falsa malattia?” (pag. 101). Allers conclude che: “Il disgusto nei confronti della propria natura umana e finita è un rifiuto di quella natura sulla quale ogni ambizione si deve fondare e la nevrosi è la forma che questo atteggiamento paradossale assume. […] Solo il santo è libero dalla nevrosi e al di là di essa, perché soltanto lui ha accettato, tramite un’azione di “assenso reale”, la sua condizione di essere finito, di un semplice nulla di fronte all’Infinito” (pag. 102). “Un’analisi completa della mentalità nevrotica scoprirà che in tutti i casi di nevrosi, senza eccezioni, il problema reale è metafisico. Il conflitto alla radice della nevrosi non è tra gli impulsi e le condizioni dello sviluppo che negano la soddisfazione, e nemmeno tra l’individuo e le richieste della società, ma tra la superbia originale dell’individuo caduto (che, causata dal peccato e riconducente ad esso, lo costringe a sforzarsi per raggiungere l’infinitezza) e il riconoscimento della sua essenziale finitezza” (pag. 101).

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