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giovedì 28 febbraio 2013

RIFLESSIONI SULLA PATOLOGIA DEL CONFLITTO - di RUDOLF ALLERS

Rudolf Allers
(1883 - 1963)
Questo mese pubblichiamo un piccolo testo di Allers, tanto breve quanto denso. Al suo interno il Professore condensa tre tematiche di estrema attualità: il concetto di normalità, l'assiologia dei valori, la rivolta delle filosofie umaniste contro lo spirito. Il primo tema, l'idea della normalità, risulta centrale nel momento storico che ci troviamo a vivere. Tra pochi mesi uscirà il nuovo DSM, il manuale di classificazione dei disturbi psichiatrici, giunto alla quinta edizione. Sappiamo già ora che il disturbo narcisista di personalità è stato derubricato a causa dell'idea che la società contemporanea è di per sè stessa narcisista, e quindi una personalità narcisista è ben adattata all'ambiente. Non sussiste, secondo gli psichiatri americani (dalle cui conclusioni hanno preso le distanze il Gabbard e Kernberg), una anormalità e quindi una patologia. Siccome il mondo è narcisista, essere narcisisti è normale. Un ragionamento, quasi sillogistico, che sembra rispettare la logica; eccezion fatta per l'assunto implicito: essere "del mondo" uguale a "normale". Il criterio di normalità che sembra guidare l'operato degli americani sembra dunque essere quello dell'appiattimento alla media. Allers, che già ai suoi tempi conosceva bene questo perverso modo di pensare, così risponde: «Per supposizione, se 99,9% dell’umanità fosse malato di tubercolosi, l’uomo medio sarebbe evidentemente tubercolotico; non di meno il piccolo gruppo degli individui non infettati rappresenterebbe l’anormale. L’infezione tubercolosa obbedisce tuttavia senza alcun dubbio alle leggi della natura; essa non è, dal punto di vista di queste leggi, più «anormale» di quanto non lo sia la salute». Dunque concetti come normalità ed anormalità rimandano di per se stessi a riflessioni che eccedono l'ambito della psicologia, della psichiatria, della medicina stessa, ed abbracciano, invece, la grande tematica dell'essenza dell'uomo e del cosmo: «Utilizzando qui la nozione di normalità, la medicina riconosce senza accorgersene delle categorie che appartengono ad un altro ordine rispetto a quello della scienza naturale». Come a dire: non è possibile esser psicologi, psichiatri o medici senza ricadere, consapevolmente o inconsapevolmente, in una concezione (filosofia) dell'esistente.
     Il tema della seconda parte si ricollega direttamente al precedente: la presenza di una gerarchia tra i valori. Allers chiama questa gerarchia "assiologia", ossia qualcosa che rimanda ad un axios, un oggetto solido, rigido, immutabile (da questa radice derivano le parole "assioma" ed "asse"). C'è un rapporto di importanza tra i principi - ossia i valori - del mondo; alcuni sono più in alto, altri più in basso. Non può sfuggire l'estrema somiglianza ai "principi non-negoziabili" di cui ha parlato Papa Benedetto XVI. Quando l'uomo si ribella a tali principi - consapevolmente, o inconsapevolmente - viola le regole non scritte del suo essere, e quindi si incammina verso il male e la malattia. Allers, infatti, ritiene che la nevrosi sia proprio la rivolta inconsapevole dell'uomo contro l'assiologia.
    Non procedo oltre, e lascio al lettore il suo compito. Sono colpito dalla consapevolezza che Rudolf Allers sia una guida senza pari ancor oggi, a cinquant'anni esatti dalla sua morte.

La traduzione dal francese è di Claudia Sisto (che ringrazio).

Riflessioni sulla patologia del conflitto

PROF. RUDOLF ALLERS

CATHOLIC UNIVERSITY OF AMERICA

Estratto da Etudes Carmélitaines, Aprile 1938.

Gli avvenimenti del mondo inanimato come pure quelli della vita sono determinati da leggi immutabili. La medicina come scienza della natura dell’uomo non può farsi un’idea diversa. Per essa la malattia è solo il risultato di certe leggi, un fatto «naturale» che si manifesta dal momento in cui queste leggi entrano in funzione. Lo spirito non scientifico comprende la malattia in un altro modo. La guarda come un «disordine» o un «disturbo», come un avvenimento contrario a quello che «dovrebbe» essere. Quest’idea non è del tutto estranea alla scienza medica poiché essa si serve di parole - forse senza riflettere molto su quello che esprimono - come disturbo o disordine. In un sistema che conosce solo l’azione delle leggi della natura non c’è assolutamente posto per dei «disordini»; ogni fatto deve essere considerato come risultante delle operazioni di queste leggi, dunque, come appartenente all’ordine che esse costituiscono. C’è proprio una contraddizione tra l’opinione professata dalla scienza medica e lo spirito ingenuo - oseremo dire il senso comune - dove quest’espressioni presero origine. Ma questa contraddizione diventa ancora più manifesta in un altro termine, molto più «scientifico», ed utilizzato continuamente dalla medicina; vogliamo parlare di una parola: normale. Il normale, in medicina, non consiste in qualche media stabilita dalla statistica, è piuttosto una sistematizzazione per categorie della medicina. Per supposizione, se 99,9% dell’umanità fosse malato di tubercolosi, l’uomo medio sarebbe evidentemente tubercolotico; non di meno il piccolo gruppo degli individui non infettati rappresenterebbe l’anormale. L’infezione tubercolosa obbedisce tuttavia senza alcun dubbio alle leggi della natura; essa non è, dal punto di vista di queste leggi, più «anormale» di quanto non lo sia la salute. Utilizzando qui la nozione di normalità, la medicina riconosce senza accorgersene delle categorie che appartengono ad un altro ordine rispetto a quello della scienza naturale. La medicina non saprebbe comprendersi tramite una purificazione qualunque di queste categorie, perché essa non è una pura scienza «naturale». Una tale scienza conosce solo dei «casi», cioè degli avvenimenti strettamente determinati dalle leggi della natura, e dunque esattamente riproducibili. L’idea di una legge «statistica», di cui la fisica moderna parla tanto, non cambia niente di tutto questo, almeno per il mondo «macroscopico». La scienza naturale non sa niente, non può sapere niente dell’individuo. Il fatto singolare che non si ripeterà mai non ha interesse per il fisico. Una città dove un tal re è passato alcune centinaia di anni fa è molto interessante per la storia, ma non lo è per niente per la fisica. Henri Poincaré ha caratterizzato molto bene la differenza tra queste due scienze.
     La medicina si trova, a dire il vero, in una posizione piuttosto ambigua: il malato è un «caso» in quanto il suo stato obbedisce alle leggi di tale malattia, ma è nello stesso tempo individuo. Come «caso» si ripete infinitamente; come individuo è assolutamente singolare e unico. La «storia» di un malato è un’altra cosa ancora rispetto alla descrizione di un «caso».
     Il medico, trattando un malato, non ha solo l’intenzione di liberarlo dalle sue sofferenze e di renderlo capace di guadagnarsi la vita; vuole soprattutto restaurare il suo stato «normale», perché sa che il «normale» è proprio ciò che «deve» essere. Dichiarando la profilassi più importante e più efficace della terapia, il medico si rende, per così dire, la sentinella che veglia sulla normalità affinché l’ordine «dovuto» sia il meno turbato possibile. Il medico non può che accettare, sia inconsciamente sia anche contro la sua volontà, l’idea di un ordo al di là dei fatti, uno stato di cose che non esiste sempre ma che deve esistere e la cui sola realizzazione costituisce lo stato «normale».
     L’idea o la categoria di normalità non si incontra affatto nei piani ontologici inferiori della vita. L’indispensabilità della nozione di normale in biologia ed, a fortori, in medicina, testimonia che la medicina si vede obbligata - di buon grado o di cattivo grado - ad affermare una differenza essenziale e non solo graduale tra la vita e la materia. Quando passiamo dal piano della natura inanimata a quello degli esseri viventi, abbiamo a che fare con un sistema di categorie nuove, assolutamente sconosciute al di sotto della vita. Non c’è transizione possibile dal piano della materia a quello della vita; sono separati da un abisso. Questo è altrettanto vero per la vita organica e per quella dello spirito. Che si tratti non di spiegare ma soltanto di descrivere i fenomeni mentali, le categorie biologiche sono assolutamente insufficienti. L’antropologia, come scienza dell’uomo totale, non può accontentarsi di studiare delle funzioni – compito della biologia – poiché essa ha a che vedere con le azioni. L’azione non è affatto una funzione molto complessa, così come pensa che sia il comportamentismo americano, e la psicologia detta oggettiva o la psicoriflessologia russa. L’azione dell’uomo si serve di funzioni per raggiungere il proprio scopo, ma essa è altra cosa ed apparitene ad un piano più elevato rispetto alla semplice funzione. La funzione obbedisce alle leggi biologiche; ci sono anche delle leggi per l’azione, ma quest’ultima (o tutte le azioni di un individuo, ciò che noi chiamiamo condotta o comportamento) può conformarsi a queste leggi o contraddirle. L’azione «normale» è quella che è compiuta secondo queste leggi; disobbedendo loro, l’azione diventa anormale. È superfluo notare che questa nozione di normalità non è più quella di cui parla la biologia.
     L’azione anormale è il risultato o di una volontà cosciente, o di ana alienazione mentale, o di questa curiosa modificazione del carattere che noi chiamiamo nevrosi. Ogni azione o ogni condotta è determinata dal proprio scopo. Questo scopo è, senza alcuna eccezione, la realizzazione di un valore giudicato più alto di qualsiasi altro che possa essere individuato nello stesso caso. Le leggi che regolano la normalità delle azioni sono quelle dell’ordine oggettivo dei valori. L’anormalità di una azione è, in certi casi, causata dall’ignoranza o da una visione erronea dell’ordine. E’ più o meno il caso dell’alienato. In altri casi – speriamo molto rari -, il soggetto agisce contro delle leggi non solo da lui conosciute ma contro delle leggi di cui non mette in dubbio la validità. Allora è rivolta aperta, il satanismo dichiarato. Infine, vi è un terzo atteggiamento che si pone in qualche modo tra i due precedenti: è la rivolta di cui il soggetto stesso ignora e la natura e l’esistenza.
     Le leggi che costituiscono l’ordine obiettivo delle cose sensibili proprio come quelle che regnano sull’ordine delle verità sono dotate di una forza compulsiva. L’uomo non può negarle; gli è impossibile porre l’arancio altrove che non tra il rosso e il giallo. Può ben concludere in un modo falso, ma vi è in lui una coscienza logica per avvertirlo di questo errore che, d’altronde, si manifesta in fretta poiché esso conduce a delle conseguenze contraddittorie. La ragione umana, dopo tutto, obbedisce alle leggi della logica. Funziona diversamente per quanto riguarda i «valori». Sembra che il potere che questo lato dell’oggettività eserciti sullo spirito umano sia molto più debole. Tuttavia, questo non prova per niente che i «valori» siano meno obiettivi delle cose o delle verità, ma solo che lo spirito umano possiede il dono di rifiutare il suo consenso ad un ordine che è ben capace di riconoscere. Il mistero dell’iniquità in un certo senso comincia molto prima il peccato propriamente detto. Appare già quando l’uomo si decide per qualche azione contraria alla sua coscienza, o alla sua conoscenza dell’ordine dei «valori», anche se l’azione fosse sprovvista di ogni importanza morale. Psicologicamente, il fatto è identico che si tratti del peccato, anche mortale, o del «valore» inferiore di qualche azione presunta indifferente. Se noi ci accorgiamo, uscendo da casa, che pioverà e che, unicamente per pigrizia, non ritorniamo per prendere il nostro ombrello, scegliamo evidentemente il valore inferiore, opponendo così il nostro buon piacere all’ordine oggettivo e riconosciuto dei «valori». Video meliora proboque, deteriora sequor.
     Questo fatto che nessun moralista ha mai potuto ignorare ha condotto alcuni filosofi moderni a supporre che i «valori» abbiano minore influenza sulla natura umana se sono posti più in alto nell’ordine assiologico o della dignità. Dubitiamo che sia così. Nessun valore si impone alla coscienza con una forza tale da essere assolutamente obbligati a farne lo scopo o la regola delle nostre azioni, benché la coscienza – non affetta dalla passione o da qualche dogmatismo – sia assolutamente capace di concepirne la posizione o il grado. Per quanto grande sia l’attrazione esercitata sull’uomo da certi «valori», essa non può abolire del tutto la libertà. I valori inferiori, sia biologici come quelli del piacere sensuale, sia di ordine morale come quelli che fanno appello all’egoismo, alla vanità, alla passione del potere, ecc., non hanno più forza compulsiva di quanto non ne possiedano i valori più sublimi. Non si deve confondere attrazione e compulsione. Le filosofie alle quali facciamo allusione peccano per mancanza di discernimento fenomenologico; esse non distinguono abbastanza tra un’attrazione più o meno forte ed una vera compulsione.
     Si sa dunque che l’uomo ha il potere di ignorare le leggi assiologiche. Non solo è possibile agli individui, ma anche ai gruppi ed ugualmente a popoli interi. Noi viviamo oggi in un mondo dove la violazione delle leggi assiologiche ha assunto proporzioni assolutamente sconosciute finora. Ma per quanto grande sia il potere dell’uomo di ignorare dette leggi, ce ne sono tuttavia alcune alle quali non saprebbe sottrarsi. Può ben comportarsi come se l’ignorasse, ma non può farlo impunemente. Vi arriva solo attraverso la menzogna, imbrogliando innanzitutto se stesso per poter in seguito imbrogliare gli altri. Ma la menzogna mina, per così dire, l’esistenza dalla base e lo porterebbe presto o tardi fino ad un abisso minaccioso, se fosse possibile un annientamento totale dell’esistenza.

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Una rivolta è sempre il rifiuto di una data situazione. Ci sono delle rivolte ragionevoli, persino legittime. Ma bisogna allora che si tratti di una situazione suscettibile di un cambiamento qualunque. La rivolta perde ogni senso e, a fortiori, ogni diritto, quand’essa si eleva contro una situazione essenzialmente immutabile. Essa diventa per questo un puro controsenso. L’uomo trascinato da una forza misteriosa, non necessariamente demoniaca (cf. quello che dice sant’Agostino della «seconda volontà», Conf. VIII, 9), verso un atteggiamento essenzialmente insensato, contrario all’oggettività, diventa per questo stesso, in virtù di una legge inesorabile, la preda della menzogna.
     Coloro che osarono un tempo rivoltarsi apertamente – non sono affatto numerosi – non poterono sfuggire alla menzogna. Essi non volevano mentire, erano piuttosto fieri della loro sincerità e del loro coraggio. Così coloro che proclamano oggi la supremazia assoluta dell’uomo e delle cose umane, ossia la razza, la società o lo Stato. Come negazione degli esseri superiori all’uomo – e dunque di Dio – tutte queste idee sono equivalenti. Esse sono solo una manifestazione terribile e grandiosa dell’orgoglio umano suscitato e munito infine di tutto quel potere che invano ha aspettato con pazienza per tanti secoli. Il materialismo e l’ateismo che alcuni filosofi inculcarono alle masse di un tempo, l’individualismo eccessivo che fioriva nell’ultimo secolo, tutte queste eresie sono, insomma, poca cosa, paragonati a questa ribellione gigantesca che viene da centinaia di milioni di esseri e li fa urlare di odio contro quello che non potranno mai diventare. Friedrich Nietzsche esclamava: «se Dio esistesse come potrei mai sopportare di non essere Dio?».
     Questa aperta ribellione è veramente una menzogna. Non solo c’è la menzogna che afferma un’affermazione contraria alla verità, ma c’è colui che chiude volontariamente gli occhi davanti alla verità. La maggior parte di coloro che si attaccano a questi dogmi insensati e funesti non sono responsabili. Non fanno che ripetere quello che viene detto loro ogni giorno, sono preda di una suggestione la cui messa in scena lascia indovinare una intelligenza maligna, quasi satanica, che comanda tutte queste manifestazioni. Non è alle masse che bisogna chiedere ragione di questa rivolta. Bisognerebbe rivolgersi a coloro che, per qualche stratagemma degno del diavolo, hanno saputo impadronirsi dello spirito delle masse, utilizzare i loro desideri a volte molto giusti, al fine di esaltare una teologia menzognera.
     Questo è stato possibile perché vi è nella natura umana una disposizione funesta che porta l’uomo a mentire a se stesso, a fare una cosa credendola completamente diversa da quello che è, ad agire infine senza sospettare i veri motivi delle sue azioni. Altrimenti, l’uomo non potrebbe mai comportarsi in un modo che è, dopo tutto, una rivolta contro la sua propria esistenza e la sua propria natura. La natura di ogni essere è definita non solo dalle sue qualità, attuali o potenziali, ma anche dal posto che riceve nell’ordine generale degli esseri. E’ totalmente vero che nessuna creatura non può scendere al di sotto del livello ontologico che gli è proprio, né elevarsi al di sopra. L’uomo non può farsi animale, o pianta, o pietra, non più che trasformarsi in angelo o in Dio stesso. Un tempo, gli uomini ne erano convinti. Le favole possono parlarci di individui trasformati in cani, in maiali, in piante; li lasciano sempre la loro natura umana. Lo stregone, dando all’uomo la figura di un cane, non può togliergli la natura umana: questo cane pensa, sente, agisce anche come un uomo. Le religioni pagane ci raccontano storie di uomini diventati dei, o – tratto molto caratteristico - semidei, ma sono stati trasportati su di un piano più elevato rispetto a quello della loro propria natura da forze sovraumane: gli dei li scelgono come compagni e regalano loro una natura nuova, superiore a quella che è loro propria. Chiunque, secondo le leggende pagane, cerchi di farsi dio attraverso la sua sola volontà non ci arriva mai. Al contrario, è punito da sofferenze spaventose.
     La maggior parte degli uomini, che vorrebbero non solo «essere come Dio» ma essere Dio, indietreggiano davanti alla ribellione aperta. Hanno coraggio solo se qualche seduttore li assicura che non esiste Dio, o che non fanno altro che obbedire a Dio seguendo la cattiva strada che viene loro mostrata, o ancora che Dio, essendo dentro loro stessi, sono loro che, in realtà, sono Dio. Essi non si accorgono della contraddizione implicata in tali affermazioni. Sono simili a colui di cui parla il salmo: dixit insipiens in corde suo: non est Deus.
     D’altronde vi è un numero enorme – e sempre crescente – di uomini che, anche incoraggiati da un tale seduttore, non osano ribellarsi apertamente contro Dio. Si trovano in uno stato di ribellione sorda di cui ignorano essi stessi l’esistenza; molto spesso, fanno finta di accettare pienamente la situazione ontologica dell’uomo; si dicono umili, devoti, sottomessi alla volontà divina, ma in fondo al loro essere vi è la rivolta nascosta. Assoggettati alla loro condizione umana ma rosi dall’orgoglio, vogliono essere «uguali a Dio». E’ questo lo stato fondamentale di quello che si chiama la nevrosi.
     Il dot. Alfred Adler vedeva più giusto di quanto lui stesso non sapesse quando insegnava che i tratti caratteristici del nevrotico sono l’espressione e la conseguenza di questa ambizione inaudita, ambizione tuttavia nascosta agli occhi del «malato». Ma lui non ha saputo, sia in seguito a certe limitazioni del suo pensiero, sia a causa di altri fattori, misurare tutta l’importanza della sua scoperta. A dire il vero, questa scoperta non era nuova; si trova già qua e là in certi trattati, molto vecchi ed ignorati dagli psicologi e dai medici, dei brani che denotano una conoscenza sorprendente di queste cose. La psicologia moderna ha tuttavia dovuto riapprendere queste verità cadute nell’oblio. Il grande merito del dot. Adler e della sua scuola è di aver attratto su questo punto l’attenzione degli psicologi.
     Noi non possiamo in queste pagine spiegare lungamente come quest’ambizione di essere uguale a Dio sia la base stessa della nevrosi. L’abbiamo fatto altrove e speriamo di poter farlo sistematicamente un giorno. Non possiamo nemmeno riferire qui dei casi a sostegno di questa tesi. Ci basti dire che abbiamo potuto stabilirlo attraverso un numero assai grande di osservazioni.
     Chiunque, vicino o lontano, si occupi di nevrotici o tratti di questioni di educazione e di caratteriologia, non può dubitare del fatto che la nevrosi divenga più frequente di giorno in giorno. E’ un fatto innegabile che i progressi della scienza non spiegano. Aiutando a meglio rivelare la nevrosi, essa sembra moltiplicarne i casi. Sono state accusate le difficoltà economiche, l’incertezza della politica interna ed estera, l’ansietà di cui soffrono oggi tante persone, di essere causa di questo spaventoso fiorire di nevrosi. Noi concediamo a tutti questi fattori una certa importanza, ma bisogna riconoscere che questa «nevrotizzazione» dell’umanità occidentale è cominciata parecchi anni prima della guerra.
     Avvicinando dei dati eterogenei, si corre sempre il rischio di incappare in errori. Si può tuttavia segnalare con prudenza questo. Si deve notare una rinascita filosofica durante i dieci o quindici anni che precedettero la guerra. Molte dottrine mostrarono allora alcune tendenze verso la filosofia cristiana. Ecco chi sembra rivelatore di un movimento della mentalità generale. Né il materialismo, né lo scientismo, né l’agnosticismo, né nessuna delle numerose scuole bastavano più a contenere le aspirazioni di tante anime disturbate. Ora, questo mutamento improvviso in filosofia, l’interesse che suscitarono i libri che trattavano questioni religiose, i progressi di studi medievali e tanti altri tratti comuni al periodo prima della guerra, possono essere avvicinati, di fatto riconosciuti, dall’aumento di malattie nevrotiche. Poco tempo fa un autore credette di poter parlare di una vera pandemia. Ed ecco dove: se, come noi siamo convinti, c’è veramente in fondo alla nevrosi un conflitto metafisico, potrebbe non essere temerario credere a qualche relazione tra questi due fatti.
     Bisogna saper distinguere tra la nevrosi che si manifesta con sintomi, sia organici sia puramente mentali, e il «carattere nervoso» come diceva il dottor Adler; bisogna saper distinguere anche tra la nevrosi – manifesta o no – e l’apparizione di certi tratti più o meno nevrotici in una persona peraltro sana. Non si deve dichiarare nevrotico ogni individuo che soffre di qualche disturbo «nervoso»; la diagnosi della nevrosi si basa sempre e senza nessuna eccezione sullo studio della personalità totale. Il carattere nervoso si trasforma in nevrosi manifesta quando la situazione dell’individuo minaccia di porlo di fronte al «conflitto metafisico». In certe condizioni, questo conflitto può restare assolutamente ignorato. E’ il caso di quando l’individuo vive in un ambiente dove le leggi della metafisica – e dunque della realtà – sono state abolite da qualche decreto. (Esse non possono essere abolite realmente, si intende, ma si può ben far credere alle masse troppo credule che lo siano). Potrebbe essere che nei paesi in cui l’uomo, la razza, la società, lo Stato sono dichiarati il bene supremo, ci sia una diminuzione della nevrosi. Ma non si potrebbe concluderne che queste ideologie siano più «sane» di quanto non lo sia la filosofia cristiana. Si dovrebbe solamente giudicare che queste ideologie impediscono la fioritura della nevrosi perché esse insegnano alla maggioranza degli uomini un metodo proprio a distogliere gli occhi dalla verità. Invece di spaventarsi davanti a delle realtà, hanno paura di certi spettri. Prevedono dei pericoli illusori e non sanno niente di quello che li minaccia veramente. Da qualche parte nel Corano è scritto: Il demone colora le sue opere e loro le considerano buone.
     La somiglianza tra la mentalità di questo falso umanismo e quella della nevrosi colpisce notevolmente. Poiché noi non possiamo approfondire qui questa questione rinviamo allo studio magistrale che il professore DeGrief ha pubblicato, nel mese di aprile del 1937, negli Etude Carmélitaine.

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Forse qualche lettore si è già chiesto: «Con che cosa tutto questo si lega al problema della relazione tra la vita e lo spirito»? Noi pensiamo che le idee, semplicemente tracciate, è vero, e non dettagliate nelle pagine precedenti, si rapportino immediatamente a questo problema. Che la nevrosi individuale, come in quest’atteggiamento molto vicino alla nevrosi di cui abbiamo parlato, sia proprio la «vita» che si rivolta contro lo «spirito». Non è come essere viventi che noi diventiamo coscienti delle leggi immutabili della realtà, che scopriamo la condizione ontologica propria dell’uomo. Per arrivare ad una tale scoperta, una tale coscienza, dobbiamo utilizzare le facoltà dello spirito. La rivolta contro le leggi dell’essere è, di conseguenza, sempre anche una rivolta contro lo spirito. Le ideologie «umaniste», alle quali facemmo allusione prima, dimostrano, ciò che nessuno può ignorare, una ostilità notevole contro tutto ciò che è spirito: la vita, che sia quella dell’individuo, quella della razza o quella di non so cosa, è eretta come valore supremo.
     Che la vita sia un valore molto alto, nessuno saprebbe dubitarne. Ma non è meno evidente che essa non può essere il valore supremo, nemmeno tra quelle che detengono la natura umana. Abbiamo detto che la rivolta, cosciente o no, contro l’ordine assiologico o l’ordine della dignità conduce necessariamente alla menzogna. E’ – tra parentesi - ciò che fa sì che tante nevrosi diano l’impressione di non essere realmente «malattie» ed è la ragione per cui gli altri li accusano di cattiva volontà, di esagerazione ed anche di simulazione. Questa menzogna è inestricabile perché per rivoltarsi occorre che l’uomo esista e perché esistendo è incorporato, per così dire, in quest’ordine che rifiuta di accettare. Non può mai uscirne, non può che comportarsi come se potesse uscirne; ma «agire come se», questo vuol dire, insomma, recitare la commedia.
     Non si trattano le nevrosi moralizzando, benché la morale sia veramente la via attraverso la quale ognuno di noi deve andare. Occorre innanzitutto aprire gli occhi al nevrotico, fargli vedere ciò che fa, ciò che è realmente. E’ stato detto: cognoscetis veritatem et veritas liberabit vos. Forse è permesso applicare questo motto a tutti i tipi di tenebre e i nevrotici sono rinchiusi in tenebre senza accorgersene. Hanno gli occhi fissi su una piccola fiamma la cui oscura luce ha un’attrazione curiosa: è la fiamma dell’egoismo. Non possono farsi uguali a Dio, fanno almeno un dio il loro proprio ego. Non c’è differenza essenziale tra l’egoismo individuale e l’egoismo collettivo. E’ lo stesso orgoglio che fa un dio del sé individuale e colui che s’inginocchia davanti alla razza, al popolo o allo Stato. Coacervabunt sibi magistros prurientes auribus. Siamo appena a questo punto.
     La vita, è ancora una parola equivoca. C’è vita e vita. La vita biologica non è la sola. Non senza ragione si parla anche di una vita mentale, di una vita dello spirito. Quella dello spirito è dotata di una dignità più grande di quella dell’organismo. Non bisogna dimenticare che ogni realtà è, intanto che è reale, detentrice di valori. Omne ens bonum. Noi non abbiamo il diritto di negare il valore della vita organica; sarebbe un altro modo di fare violenza all’ordine assiologico. Bisogna che l’uomo si inchini davanti all’ordine oggettivo dell’essere e dei valori, e in ciò che consiste la sua salute mentale e morale. Ogni rivolta contro questo ordine è, in qualche modo, uno stato patologico che può portarci solo a qualche catastrofe. E’ quello che noi osserviamo in molto casi di nevrosi, e ciò che prevediamo per queste persone che si sono lasciate sedurre dalla menzogna. Alle sofferenze degli uni ed agli errori degli altri va tutta la nostra pietà. Ma noi abbiamo il dovere di combattere la menzogna con tutte le nostre forze, affinché il volto della terra sia rinnovato da questo Spirito di cui la nostra non è altro che un’immagine debole ed incolore: Emitte Spiritum tuum et creabuntur, et renovabis faciem terrae.