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lunedì 31 dicembre 2012

GESU' IL TERAPEUTA - di ANSELM GRUN

Il prolifico scrittore e monaco benedettino Anselm Grün ha dato alle stampe un interessantissimo testo (Gesù il terapeuta. La forza risanante delle parabole, San Paolo, 2012, Cinisello Balsamo) nel quale analizza l’operato di Gesù - parabole, parole e guarigioni - da un punto di vista terapeutico: «Ovviamente non farò riferimento ad alcuna “scuola terapeutica”. Gesù non ha inteso dare vita a una propria corrente di psicoterapia. Egli si accostava alle persone guidato dalla sua intuizione, seguendo l’impulso del cuore. Noi non possiamo “copiare” Gesù, possiamo solo lasciarci ispirare e orientare da lui. Egli, infatti, dopo aver alitato sui suoi discepoli il proprio Spirito, diede loro il mandato, in forza di quello stesso Spirito, di guarire i malati e di proclamare il suo messaggio di salvezza. Così la sua forza risanatrice avrebbe continuato a raggiungere e beneficare gli uomini di ogni tempo» (p. 6). Grün pone il focus della sua indagine su di un aspetto ben preciso: «Mi interessa in primo luogo capire come si possa, nel nostro incontro con Gesù, acquisire una nuova, differente immagine di noi stessi. Infatti, dipende in gran parte dalla propria “autoimmagine” se la nostra vita ottiene senso e pienezza» (p. 5). «[…] Occorre che ognuno di noi – vuoi persone in ricerca, oppure guide spirituali o terapeutiche – si proponga un’assidua meditazione delle azioni e delle parole di Gesù, allo scopo di scrutare la nostra autoimmagine e confrontarci con essa. Questa immagine di sé ha sempre a che fare, in certa misura, con l’immagine che si ha di Dio» (p. 9).

Il primo capitolo è dedicato alla “metodologia terapeutica di Gesù nelle parabole” che, secondo Grün, «[…] sono una vera e propria forma di “colloquio terapeutico”. […] Le parabole costituiscono un percorso terapeutico nel quale gli ascoltatori sono invitati ad entrare. Esse non mirano per prima cosa a “istruire”, bensì a guarire le nostre rappresentazioni interiori» (p. 8). E’ questo l’aspetto delle parabole che l’autore vuole evidenziare: «In passato molti commentatori ritenevano che nelle parabole si dovesse ricercare, al di là dell’impianto narrativo, un punto d’arrivo “terzo” (tecnicamente: tertium comparationis), ovvero una frase o un concetto contenente l’insegnamento di fondo del racconto: la cosiddetta “morale della favola”. […] Ma così viene misconosciuta l’efficacia terapeutica delle parabole. Mentre Gesù racconta, si produce nell’uditore un’intima trasformazione. […] Questo cambiamento, riguardante sia la sua visione interiore sia i suoi sentimenti, non accade in forza di una narrazione puramente didattica. A tale scopo occorre l’arte della parabola» (p. 12). E così il monaco benedettino passa in rassegna le parabole di Gesù classificandole a seconda degli aspetti dell’immagine si sé. La parabola dell’amministratore disonesto (Luca 16, 1-8) tocca il tema della colpa e delle compulsioni: «I disturbi compulsivi sono, in ultima istanza, sempre legati alla colpa rimossa. […] Il problema sta nel modo in cui io riesco a rapportarmi con la colpa, in maniera appropriata, così che non venga meno la mia autostima» (p. 14). Dalla parabola Grün ricava «due possibili reazioni. La prima: si vuole “fare qualcosa, impegnarsi concretamente; ci si ripromette, d’ora in poi, di non commettere più errori. Ma ciò porta all’indurimento, alla rigidità: si diventa rigorosi verso se stessi, si giudicano con severità anche gli altri. Una seconda forma consiste nel cercare riconoscimento, approvazione: ci si fa piccoli, si prende un atteggiamento da convertiti, quasi ci si scusa per il fatto di esistere. Ma in questo modo si sperpera ogni residuo di autostima» (p. 15). La parabola della vedova e del giudice “che non temeva Dio” (Luca 18, 1-8) si lega, invece, al tema del giudice interiore; la famosa parabola dei talenti (Matteo 25, 14-30; Luca 19, 11-27) è, invece, attinente alla paura, in particolare al timore del giudizio degli altri, che porta molti a «controllare tutto» (p. 20). La parabola degli operai inviati nella vigna (Matteo 20, 1-16) mette a tema l’invidia: «Quanto più ci paragoniamo agli altri, tanto più ci ritroviamo insoddisfatti« (p. 23). Alle prese con i nemici interni è la parabola del re che muove guerra con diecimila soldati (Luca 14, 31-32), che l’autore esplica con un esempio: «Una signora, tormentata da ricorrenti e forti attacchi di fame, si puniva imponendosi dei periodi di digiuno. Il sistema funzionava per qualche giorno, ma poi lo stimolo irresistibile tornava a manifestarsi. […] Allo scopo di trasformare l’ingordigia in un’amica potrebbe essere utile questo metodo. Io smetto di lottare contro la fame, non mi colpevolizzo più, non mi punisco col digiuno, ma interrogo la mia avidità per capire che cosa mi vuole dire. A cosa miro quando m’ingozzo di cibo? Forse ho bisogno d’amore? Oppure voglio contrastare sentimenti di rabbia o qualche delusione? O è il bisogno di concedermi qualcosa di gratificante dopo un lavoro faticoso? Queste o simili pulsioni non vanno subito deprecate: dovranno pur voler dire qualcosa. Il problema è come io le possa affrontare diversamente, come possa soddisfarle in maniera più rasserenante, senza che si lascino dietro tracce di vergogna o di cattiva coscienza. Se riesco a interpretare la fame come una pulsione amica, lì pronta a ricordarmi qualche profondo desiderio, allora comincerò a fare a meno della mia avidità. Essa non mi ha più in pungo» (p. 27). La nota parabola del grano e della zizzania (Matteo 13, 24-30) è utilizzata per le persone alle prese con le zone d’ombra, in particolare con atteggiamenti di rigorismo, di perfezionismo e di eccessivo controllo: «Anche noi, molte volte, siamo convinti di avere seminato bene nel campo della nostra anima, e tutt’a un tratto scopriamo delle erbacce» (p. 29). «Chi per eccesso di perfezionismo volesse eliminare dal suo animo e dalla sua condotta ogni forma di imperfezione, potrebbe rendere la propria vita infruttifera» (p. 30). «Questa consapevolezza può preservarci dal pericolo di cadere in un eccesso di rigorismo verso noi stessi e verso il prossimo» (p. 32). «Sovente siamo portati a confrontarci con gli altri e vorremmo essere come loro; oppure ci siamo fatti un quadro ideale di noi stessi e cerchiamo a ogni costi di realizzarlo» (p. 32) Questi casi di ansia per il confronto con gli altri, di idealizzazione di sé, di imitazione, Grün parla di «raffigurazioni illusorie», le quali possono bene essere illuminate dalla parabola della costruzione della torre (Luca 14, 28-30). Mentre per le persone alle prese con le delusioni, e quindi con sentimenti di scontentezza e di elaborazione della fine, l’autore consiglia la parabola del fico infruttifero (Luca 13, 6-9) perché: «Rimane sempre un ultimo brandello di speranza a cui aggrapparsi» (p. 35). Sottolinea, inoltre, un elemento particolare di tale racconto, il letame: «Un’immagine consolante: proprio ciò che a volte in noi consideriamo letame – cioè rifiuto, cosa di poco conto e spregevole – può servire a predisporre il terreno affinché l’albero della nostra vita abbia a produrre buoni frutti» (p. 36). La parabola delle vergini (Matteo 25, 1-13) e quella del convito (Luca 14, 16-24; Matteo 22, 1-14) sono invece inviti all’autorealizzazione, ossia all’esser pronti, vigili, astuti. Con la parabola del seminatore (Matteo 13, 1-9) «Gesù vuole esortarci a scrutare dentro di noi, per scoprirvi la presenza della strada indurita, del terreno sassoso e dei rovi, ovvero la cause che possono rendere arida ed infruttifera la nostra esistenza» (p. 42). Il bisogno di cambiamento, l’invito ad osservare il tempo che passa, e l’importanza delle piccole cose, Grün li ritrova nella bella parabola del lievito (Matteo 13, 33; Luca 13, 20-21): «Che cos’è un pugnello di lievito a confronto di una grande massa di farina? Eppure riesce a farla fermentare tutta» (p. 44). La parabola che «non finirà mai di commuoverci: la storia del “figlio perduto e ritrovato” o anche del “padre misericordioso”» (p. 45) - nota anche come quella del “figliol prodigo”(Luca 15, 11-32) - «[…] prende spunto da due atteggiamenti, due polarità contrapposte […] il figlio più giovane, insofferente delle rigide norme della convivenza, […] il figlio maggiore che non condivide l’atteggiamento misericordioso del padre» (ib.). «Con questa parabola Gesù vuole demolire le resistenze interiori che il nostro inconscio innalza contro la possibilità di un ritorno e di una piena conciliazione» (p. 46). Il pericolo segnalato da Grün è l’orgoglio, ed in particolare il disprezzo di sé e l’autocondanna che ne sono i processi secondari. Il tema del ritrovare ciò che si è perduto, in particolare sé stessi, è tematizzato dalla parabola della donna che possiede dieci monete (Luca 15, 8-10). «Nell’aneddoto della moneta perduta l’accento è posto sul venir meno del nostro “centro interiore”, del nostro “sé”, della nostra identità» (p. 48); «In chiave psicologica si può dire che la moneta è il simbolo del “sé”» (p. 49). «In qualunque modo si legga questa parabola, essa corrisponde a un generale, innato desiderio umano, a una nostalgia profonda: poter ritrovare, prima o poi, ciò che sentiamo d’avere perduto» (p. 51). Le ultime due parabole che l’autore riporta nel primo capitolo sono quella del tesoro sotterrato nel campo e della perla preziosa (Matteo 13, 44-46) entrambe ricondotte alla ricerca del vero “sé”.

Il secondo capitolo è dedicato alla metodologia terapeutica di Gesù nelle sue parole. Come per le parabole, anche per le frasi che Gesù espone nei suoi discorsi Grün precisa che: «In passato, molte parole di Gesù venivano di preferenza intese in chiave moralistica, con l’effetto di trasmettere un senso di sovraccarico e di rigorosità. E questo ingenerava in molte persone l’ansia di non essere in grado di soddisfare le richieste del Cristo» (p. 56). Per Grün, invece, «[…] tutte le volte che una parola del Signore mi disturba, vuol dire che non sono in amicizia né in armonia con me; vuol dire che nutro un’immagine di me, della vita e di Dio non corrispondente a verità, e questo mi procura del danno. Se invece accetto di confrontarmi con la parola di Gesù, l’accolgo e cerco di armonizzare con essa il mio cuore, immediatamente mi diventa comprensibile e gradevole, e mi apre la porta della verità» (ib.). «Ciò che conta è che queste espressioni contengono un significato profondo, in forza del quale possono di volta in volta, nelle varie situazioni della nostra vita, esercitare un’inattesa efficacia» (p. 57). La prima sezione è dedicata alle metafore ed enigmi, ossia «[…] delle vere e proprie “frasi enigmatiche”. Questo espediente – “parlare per metafore ed enigmi” – può contribuire a dare una maggiore efficacia terapeutica alla predicazione di Gesù» (p. 58). Le espressioni analizzate sono (p. 58-62): «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio (Luca 9, 60)»; «Molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi saranno primi (Matteo 10, 31)»; «E’ più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio (Marco 10, 25)» e, su quest’ultima: «La parola di Gesù è come un pungiglione che penetra in me e mi tormenta: sono costretto a domandarmi in quale misura anch’io sono “un ricco”» (p. 62). La seconda sezione è dedicata alle parole che descrivono immagini: «La nostra mente pensa in immagini» (p. 63). Tra le numerose immagini riportate: «Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che vi entrano. Quanto stretta è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e pochi sono quelli che la trovano! (Matteo 7, 13-14). L’invito di Gesù a entrare per la porta stretta significa che ognuno di noi deve saper trovare la strada che gli è stata assegnata […]. La porta larga è quella attraverso cui tutti più o meno facilmente passano. La via stretta è quella che Dio ha predisposto per noi: la via nella quale noi possiamo realizzare la singolare e unica immagine che Dio si è fatta di noi» (p. 65). La terza sezione è per le parole che provocano e sfidano, come queste: «Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, vi dico, ma divisione (Luca 12, 51)» (p. 71). Ed infine le parole che illuminano e infondono coraggio: «Il sabato è stato fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato (Marco 2, 27). […] Ma perché dimenticare che tutti questi metodi e rituali sono “per noi” e che non dobbiamo mai diventarne schiavi?» (p. 77). «Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro (Marco 7, 15). […] Ci occorre, invece, questa solida e ineccepibile espressione di Gesù – quasi scolpita nella pietra – a conferma che le cose negative da cui dobbiamo guardarci sono soprattutto quelle che provengono dal nostro interno. […] E tuttavia c’è in noi uno spazio interiore che non si lascia contaminare dall’esterno, una inviolabile zona di sicurezza» (p. 80).

Il terzo ed ultimo capitolo si focalizza sulla metodologia terapeutica di Gesù nei racconti delle guarigioni. Nel paragrafo introduttivo Grün evidenzia che: «Già gli evangelisti, da parte loro, hanno in qualche modo sistematizzato i metodi terapeutici di Gesù. Ognuno di loro esprime una propria visione e comprensione della malattia e della guarigione […]. Si può dire, ad esempio che per Marco la malattia è sempre conseguenza di una possessione diabolica. […] Oggi, in base alle nostre nozioni psicologiche, i demoni corrispondono a certi modelli nevrotici di vita, ai complessi psichici, alle idee fisse che impediscono una chiara visione della realtà. […] In quanto giudeo-cristiano, l’evangelista Matteo vede sempre un collegamento tra malattia e peccato. […] Le guarigioni narrate da Luca sono generalmente compiute da Gesù in giorno di sabato. Per questo evangelista – di prevalente cultura greca – la malattia è una deformazione dell’uomo, un attacco alla sua dignità, un’alterazione dell’armonia dell’anima. […] Quanto all’evangelista Giovanni si potrebbe dire che per lui la malattia è una dimostrazione che l’uomo ha perduto il contatto con la sua divina sorgente» (p. 86-88). Molte sono le guarigioni di Gesù, e Grün le suddivide per gruppi. Il primo (p. 89-97) contiene gli episodi in cui Gesù interviene di sua iniziativa, in cui trovano posto la «guarigione della suocera di Pietro»; «l’uomo con la mano paralizzata»; «la donna curva e l’uomo idropico»; «la guarigione del paralitico», di cui commenta: «Lo scopo [del guaritore] non è eliminare tutti i sintomi della malattia, ma aiutare a convivere con essi» (p. 97). Il secondo gruppo (p. 97-109) contiene gli episodi in cui i malati si presentano a Gesù: «la guarigione di un lebbroso»; «la guarigione dei dieci lebbrosi», di cui Grün commenta: «Questo racconto ci illumina ulteriormente sui metodi terapeutici di Gesù. Egli indirizza i lebbrosi sulla via già prescritta dalla legge e dalla religione. Così deve fare anche una guida spirituale: non indicare o chiedere al suo assistito prestazioni straordinarie, ma incoraggiarlo a vivere la propria quotidianità secondo le norme e le consuetudini suggerite dalla sua tradizione di fede» (p. 193); «l’indemoniato di Gerasa»; «il mendicante cieco Bartimeo», il quale «viene mandato per la sua strada: non è stato Gesù a operare la guarigione, bensì la sua stessa fede. Perché una guarigione possa compiersi, occorre che il malato riponga piena fiducia nel terapeuta o nella guida spirituale. Ma non è il medico che ci guarisce: è la nostra fiducia a metterci in contatto con le energie sananti presenti nella nostra anima» (p. 108). Il terzo gruppo guarigioni (109-120) include i momenti in cui i malati sono presentati a Gesù: la «guarigione del paralitico», dalla cui vicenda Grün osserva: «Ci sono persone che sarebbero pronte a risollevarsi e riprendere il loro cammino, ma solo a condizione di sentirsi sicure di sé, senza difetti, quasi perfette: fino allora rimangono come paralizzate. Ma in questo modo si tagliano fuori dalla loro autentica realtà umana. L’uomo è perennemente fragile e incompiuto, sempre in via di miglioramento, e così deve accettarsi. Solo quando è disposto a modificare il suo schema di vita, a rivedere certi punti divista, allora anche i sintomi corporei possono venire sanati. Perciò la terapia non mira a curare in primo luogo i sintomi fisiologici, essendo questi, la maggior parte delle volte, manifestazioni di disagi ben più profondi» (p. 110). Sempre riferito a quest’episodio, Grün delinea un vero e proprio percorso per la guarigione: «Similmente al paralitico, anche noi quando siamo oppressi dall’ansia ci affidiamo volentieri a qualcuno in grado di offrirci luce e sostegno. Gesù, invece, mi rimanda preferibilmente a me stesso. Io per primo devo stabilire un colloquio con le mie paure, interrogarle sulla loro origine, su quali invalidanti ragioni di fondo si radicano. Solo quando il mio modo di vedere la realtà sarà radicalmente cambiato, quando mi deciderò ad apprezzare maggiormente me stesso, senza più l’illusione di dover essere sempre perfetto e sicuro di me…, allora potrò con facilità risollevarmi e affrontare con rinnovata energia il cammino della vita» (p. 111); seguono la «guarigione del sordomuto»; la «guarigione di un cieco»; «il centurione di Cafarnao». Il quarto gruppo (120-126) raduna le guarigioni che avvengono «nell’incontro»: «l’indemoniato di Cafarnao» la cui guarigione «[…] è un invito a interrogarci sulla nostra personale immagine di Dio» (p. 123); «il cieco dalla nascita». L’ultimo gruppo (127-134) raggruppa quattro casi in cui «Gesù pratica la terapia familiare» dai quali Grün evince alcuni nodi concettuali inerenti i ruoli, i legami, le difese, i giochi delle parti. Infine l’ultimo paragrafo getta una «visione d’insieme sui metodi terapeutici di Gesù» (p. 134): «In prima istanza, non è la metodologia che guarisce, bensì la partecipazione schietta e comprensiva del terapeuta alla situazione di chi s’affida alle sue cure» (p. 135). «Gesù si lascia coinvolgere profondamente con le situazioni dei malati che incontra, si fa loro “prossimo”. Ha come un fiuto particolare per le reali necessità delle persone e tratta ciascuna nel modo più appropriato, senza vincolarsi a una prassi preconfezionata» (ib.). «[…] non dipende solo da noi se l’incontro risulterà benefico oppure no; questa consapevolezza deve sollevarci dalla pressione di dover portare infallibilmente il nostro cliente alla guarigione. Alla resa dei conti, la guarigione è sempre un dono, per non dire un miracolo» (p. 136). «In ognuno di noi sono presenti forze autoguaritive. Mediante la sua parola e il suo contatto, Gesù fa entrare la persona in relazione con la sua sorgente interiore, con le sue risorse più profonde, dalle quali può attingere abbondantemente. Gesù confida nella autosananti energie presenti nell’uomo. Egli non vuole fare tutto da solo» (p. 137).

Nelle riflessioni conclusive, l’autore ribadisce che: «nell’incontro con Lui anche oggi sperimentiamo la forza guaritrice che da Lui continua a emanare» (p. 141). «Gesù, anche quanto parla del peccato e delle colpe che possono contaminare il cuore dell’uomo, non trascura mai di richiamarsi a quel nucleo profondo che il male non è comunque in grado di corrompere» (p. 143).

Giudizio. Il libro di Grün è un testo divulgativo, che ha il merito di essere facilmente leggibile da chiunque. Può annoverarsi tra quelle (poche) pubblicazioni presenti in letteratura che tentano un incontro tra il mondo della psicoterapia e la teologia, in particolare l’esegesi. Gesù il terapeuta si aggiunge, infatti, ai saggi di Hanna Wolff (Gesù psicoterapeuta, ed. Queriniana, 4° ed. 2007), di Helmut Jaschke (Gesù. Il guaritore, ed. Queriniana, 1997), di Bernard Tyrrell (Gesù luce che guarisce, ed. San Paolo, 1998). A differenza dei primi due, ed in particolare del primo con il quale condivide la prospettiva junghiana, il libro di Grün risulta più strutturato: in primo piano viene messa l’opera di Gesù, mentre solo sullo sfondo compare l'interpretazione dell’autore. Dunque si rivela assai più didascalico: le sezioni sono divise per argomenti, ed ogni argomento viene trattato sino all’esaustività. Inoltre gli aspetti della psicologia del profondo sono intesi come uno sguardo in grado di spiegare gli effetti delle azioni di Gesù, senza che l’autore abbia la pretesa di definire la sua prospettiva come univoca o esaustiva (a differenza, invece, di molti altri esponenti del pensiero psicoanalitico che si sono cimentati in imprese simili, come ad esempio Eugene Drewermann). Molti sono gli aspetti della psicoterapia che Grün analizza da vicino. Mi permetto di segnalarne tre, dei quali sono rimasto piacevolmente sorpreso. Il primo è la lettura della parabola, della metafora, dell'aneddoto, della similitudine e persino dell’enigma come strumento finalizzato al cambiamento: «Le parabole costituiscono un percorso terapeutico nel quale gli ascoltatori sono invitati a entrare. Esse non mirano per prima cosa a “istruire”, bensì a guarire le nostre rappresentazioni interiori» (p. 8). «Ciò che conta è che queste espressioni contengono un significato profondo, in forza del quale possono di volta in volta, nelle varie situazioni della nostra vita, esercitare un’inattesa efficacia» (p. 57). Tale concezione è ben presente in diversi approcci psicoterapeutici, come quello ipnotico, ericksoniano, psicodinamico immaginativo, i quali sfruttano il "pensare per immagini" per raggiungere le risorse interne al paziente. Il secondo aspetto, quasi in conseguenza, è la “resource orientation” con la quale Grün legge l’atteggiamento di Gesù. C’è una positività nell’intendere l’umano, poiché esso nasconde sempre una sorgente di bene – spesso inconscia – dalla quale è possibile una ripartenza: «In ognuno di noi sono presenti forze autoguaritive. Mediante la sua parola e il suo contatto, Gesù fa entrare la persona in relazione con la sua sorgente interiore, con le sue risorse profonde, dalle quali può attingere abbondantemente. Gesù confida nelle auto sananti energie presenti nell’uomo» (p. 137). L’idea della “risorsa”, delle “forze di auto guarigione”, è conforme con diverse impostazioni cliniche: penso ad esempio all’epistemologia umanistica, all’approccio relazionale-simbolico, all’esistenzialismo. Si tratta di un aspetto che spesso, in psicologia, è foriero di contraddizioni e di presupposti erronei, ad esempio l’idea di una natura “automaticamente” buona – concezione di origine roussoviana –; di un inconscio saggio e più importante della razionalità – concezione naturalistica e istintivistica –; di “farcela unicamente con i propri mezzi” – concezione antropocentrica e pragmatista. Ma Grün, pur non entrando nel merito delle questioni filosofiche, risponde: «La mia fede deve rafforzare il cliente nella fede in se stesso; mala mia fede non può sostituire la sua. Egli deve anche essere disposto a credere in se stesso, e inoltre a credere che è Dio che opera il miracolo della guarigione» (p. 138). Il terzo aspetto è l’accento posto sulle convinzioni personali. Esse influenzano direttamente la salute, più di quanto la psicologia contemporanea voglia ammettere: «Con quelle storie Gesù cercava di comunicare agli uditori una nuova immagine di Dio, nonché una differente visione di se stessi. Infatti, false concezioni su Dio e una erronea immagine di sé condizionano negativamente il modo d’intendere e condurre la propria esistenza» (p. 13). «Solo quando [l’uomo] è disposto a modificare il suo schema di vita, a rivedere certi punti di vista, allora anche i sintomi corporei possono venire sanati» (p. 110). Non possono che venire alla mente le parole di Rudolf Allers, il quale ha dedicato un articolo all'importanza delle convinzioni (La psichiatria ed il ruolo delle credenze personali, in www.psicologiacattolicesimo.blogspot.com) ed in più occasioni ha ribadito: «Non mi sono fino ad ora mai imbattuto in un caso di nevrosi, che non rivelasse in fondo, un problema metafisico non risolto, come conflitto e problema finale; per così designare il problema che tratta della posizione dell’uomo in generale, non importa se la persona in questione sia religiosa o no, cattolica o non cattolica» (R. Allers, Psicologia e pedagogia del carattere, SEI, Torino, 1961, pag. 295). Non mancano, nel testo, alcuni punti deboli, che potrebbero riassumersi nella stringata univocità di lettura ed interpretazione delle parabole e nell’accento spiccatamente junghiano di alcuni passaggi discutibili (ad es. «Dobbiamo saper scoprire la perla – il nostro “sé”, il nucleo prezioso della nostra identità personale – proprio nelle ferite della nostra vita. A quel punto, la ferita continuerà a esistere, ma non farà più male» p. 54). Ma tali criticità sono del tutto marginali, e non inficiano un’opera che allo psicoterapeuta cattolico può fornire un aiuto importante.

giovedì 13 dicembre 2012

PRINCIPI (ARISTOTELICO-) TOMISTI E LORO APPLICAZIONE CLINICA

di Roberto Marchesini

Presentiamo qui alcuni principi aristotelico-tomisti e la loro applicazione clinica. Si tratta di un estratto da un libro di Roberto Marchesini in corso di pubblicazione per le edizioni D'Ettoris ed intitolato La psicologia e san Tommaso d'Aquino.

Omne ens est bonum (S. Th. I, q. 5, a. 3): ogni ente è buono. “[...] tutto ciò che è stato creato da Dio è buono1. Questa affermazione ha almeno due importanti conseguenze cliniche. La prima: i pazienti sono buoni. Dunque, il loro desiderio di amore incondizionato, di essere amati per quello che sono può essere soddisfatto. Se fino ad ora non si sono sentiti amati senza condizioni, per il solo fatto di esistere, non devono disperare: essi hanno la possibilità di essere amati per se stessi. La seconda: ogni paziente, nonostante le apparenze, è stato creato buono, è meraviglioso, ha un progetto splendido che, a causa delle circostanze, non ha potuto realizzarsi. Tutto ciò che non rende visibile la bontà essenziale dei pazienti (nevrosi, psicosi...) è accidente, cioè contingente; e l'obiettivo della terapia è quello di rimuovere questi accidenti e liberare la natura positiva della persona. La conseguenza più immediata di questa visione del paziente è una sorta di ottimismo terapeutico: non solo il paziente è buono, ma la sua natura (cioè il suo progetto), che ha come fine la propria realizzazione, è il miglior alleato del terapeuta nel processo di cambiamento.

Anima est forma corporis (S. Th. I, q. 76, a. 1): l'anima è la forma del corpo.
Questo principio deriva direttamente dalla dottrina ilemorfica di Aristotele, il quale afferma che l'anima “è sostanza nel senso di forma, ovvero è l'essenza di un determinato corpo” (De Anima, B1, 412, 413a 10). Secondo Aristotele ogni ente è costituito da due elementi: la materia e la forma. Proviamo ad immaginare un ente, ad esempio una palla. Possiamo immaginare una palla di cuoio, di gomma, di vetro, di plastica... ma sempre ci verrà in mente una forma (la sfera) fatta di qualche materia. Allo stesso modo, se pensiamo ad una materia (pietra, legno, terra...), necessariamente la immagineremo con qualche forma, regolare o irregolare. Nelle cose create materia e forma sono inscindibili. Non solo. Materia e forma non sono semplicemente sommate come sosteneva Cartesio (1596-1650), ma costituiscono un sinolo, un'unione particolare per la quale la materia e la forma interagiscono reciprocamente dando origine a qualcosa di nuovo, le cui caratteristiche sono diverse da quelle delle parti che lo compongono. Un esempio di sinolo è la torta, nella quale gli ingredienti non sono separabili e che ha caratteristiche diverse da quelle degli ingredienti che la compongono. Nell'uomo, l'anima è la forma e il corpo è la materia. L'uomo è dunque un sinolo nel quale anima e corpo interagiscono reciprocamente. Questo significa non solo che la psicosomatica trova il suo fondamento nella antropologia tomista; ma anche che ogni tentativo di separare le componenti biologiche dell'uomo da quelle psicologiche, sociali e relazionali (ad esempio l'ideologia di genere2) non tiene in considerazione il dato antropologico.

Omnis appetitus non est nisi boni (S. Th. I-II, q. 8 a. 1): ogni appetito ha per oggetto solo il bene. Eppure ci sono pulsioni che muovono l'uomo verso qualcosa che evidentemente non è un bene. Come è possibile? Risponde, nello stesso articolo, san Tommaso: “Ora, bisogna considerare che, derivando ogni inclinazione da una data forma, l'appetito naturale dipende dalla forma che si trova nella natura; l'appetito sensitivo e quello intellettivo o razionale, chiamato volontà, dipendono invece dalle forme avute in seguito alla percezione. Come quindi l'oggetto verso cui tende l'appetito naturale è il bene esistente in realtà, così l'oggetto verso cui tende l'appetito animale o quello volontario [razionale] è il bene conosciuto. Perché dunque la volontà tenda verso un oggetto non è necessario che esso sia un bene vero, ma che sia conosciuto sotto l'aspetto del bene. E per questo il Filosofo [Aristotele] scrive che «il fine è un bene, o un bene apparente»3”. Dunque, quando un paziente mostra delle tendenze che lo spingono verso un male, non è lui che è sbagliato (“Omne ens est bonum”), né i suoi appetiti (“Omnis appetitus non est nisi boni”); bensì egli è semplicemente attratto da un bene apparente, ossia da qualcosa che non è un vero bene, ma che gli appare come un bene. A volte questa distorsione è la conseguenza dell'educazione, o delle esperienze; spesso, invece, il paziente si accontenta di un bene relativo perché pensa di non poter avere un bene assoluto. È questo, ad esempio, il caso delle dipendenze nelle quali la persona si accontenta di un piacere perché pensa di non poter avere un bene vero4.

Illi qui non possunt gaudere in spiritualibus delectactionibus transferunt se ad corporales (S. Th. II-II, q. 35, a. 4): coloro i quali non sono in grado di gustare dei piaceri spirituali sono portati ai piaceri materiali.
San Tommaso si rivela psicologo fine e profondo in questo brano: “Dal momento [...] che «nessuno», come dice il Filosofo5, «può rimanere a lungo con la tristezza senza qualche piacere», è necessario che dalla tristezza nasca una di queste due cose: o l'uomo abbandona ciò che contrista; o passa ad altre cose in cui si prova piacere. E così il Filosofo nota6 che coloro i quali non sono in grado di gustare i piaceri spirituali sono portati ai piaceri materiali” (ibidem). In questo articolo san Tommaso, ricorrendo ad Aristotele, spiega la natura delle dipendenze: nessuno può rimanere a lungo immerso nella sofferenza spirituale (ansia, angoscia, dolore...); è naturale che cerchi un modo per uscirne. Spesso le persone tentano di uscire dalla sofferenza spirituale passando ad altre cose nelle quali si prova piacere. Questa è la funzione delle dipendenze, ossia della ricerca compulsiva del piacere. A parte la droga, gli oggetti delle dipendenze più diffuse (alcool, cibo, sesso, gioco...) non hanno il piacere come fine, ma come conseguenza; eppure essi vengono usati come fonte di piacere. Poiché, in questo modo, l'uomo non risolve la causa della sofferenza spirituale (cioè non “abbandona ciò che contrista”), una volta che il piacere è terminato egli deve procurarsene di nuovo, poiché continua a soffrire. San Tommaso fornisce anche una indicazione terapeutica: poiché la ricerca di piacere è solo uno dei due modi per uscire dalla sofferenza spirituale (ed è anzi il meno efficace ed il più problematico), la persona deve essere invitata ad abbandonare “ciò che contrista”; ossia, l'attenzione del terapeuta non deve essere posta su ciò che provoca piacere, ma sulla causa della sofferenza. Altra indicazione che possiamo trarre da questo principio tomista è che non ha senso togliere al paziente “le cose in cui si prova piacere” senza che egli abbia abbandonato “ciò che contrista”, perché “nessuno può rimanere a lungo con la tristezza senza qualche piacere”.

Quaelibet delectatio remedium affert ad mitigandam quamlibet tristitiam, ex quocumque procedat (S. Th. I-II, q. 38, a. 1): qualsiasi piacere porta un sollievo capace di mitigare qualsiasi tristezza, qualunque ne sia l'origine.
Questo principio è strettamente legato al precedente, e ci permette di capire che l'oggetto della compulsione o della dipendenza non è necessariamente legato a “ciò che contrista”, ma ha solo la funzione di procurare il piacere che permette di uscire dalla “sofferenza spirituale”. Questa situazione è chiara nei casi in cui, ad esempio, un paziente abbia una compulsione a frequentare prostitute pur essendo sposato con una donna attraente e sessualmente disponibile. In questo caso la frequentazione di prostitute (il “piacere materiale”, cioè sessuale) non ha lo scopo di soddisfare un bisogno materiale, cioè sessuale; bensì quello di alleviare una sofferenza spirituale non sessuale (ad esempio ansia, angoscia, dolore...).

Appetitivus motus circulo agitur (S. Th. I-II, q. 26, a. 2): il moto appetitivo si sviluppa in cerchio.
Per san Tommaso le passioni sono naturalmente orientate verso un oggetto specifico; infatti, non solo “le passioni di potenze diverse dovranno necessariamente riferirsi a oggetti diversi” (S. Th. I-II, q. 23, a. 1), ma tra la passione e il suo oggetto si sviluppa una relazione circolare: “l'oggetto muove l'appetito, mettendosi in qualche modo nella sua intenzione, e l'appetito tende a conseguire l'oggetto nella realtà, in maniera che il moto finisca là dove ha avuto inizio” (S. Th. I-II, q. 26, a. 2). Questa è indubbiamente una visione finalistica delle passioni, e affatto diversa da quella freudiana di pulsione7. Secondo Freud, infatti, l'oggetto pulsionale “È l'elemento più variabile della pulsione, non è originariamente collegato ad essa, ma le è assegnato soltanto in forza della sua proprietà di rendere possibile il soddisfacimento. [...] Può accadere che lo stesso oggetto serva al soddisfacimento di più pulsioni [...]”8. La meta della pulsione non è, secondo Freud, l'oggetto pulsionale, bensì il soddisfacimento della pulsione stessa9. Ad esempio, per Freud la sessualità non è orientata per sua natura ad un oggetto preciso con un fine preciso, ma al contrario essa è originariamente una perversione polimorfa: “[...] è definitivamente impossibile non riconoscere qualche cosa di universalmente umano e di originario nella predisposizione uniforme verso tutte le perversioni10



Homo est animal naturaliter sociale (De regimine principum, I, 12)11: l'uomo è per natura un animale sociale12. La necessità delle relazioni per la vita umana è testimoniata anche da un esperimento condotto da Federico II di Svevia e riportato nella Chronica di fra Salimbene da Parma. Volendo l'imperatore scoprire quale fosse la lingua originaria dell'uomo, fece rinchiudere dei neonati in una torre, ordinando che fossero nutriti e lavati, senza tuttavia parlargli, cullarli o cantare loro canzoni, ossia privandoli di alcun tipo di relazione; i bambini morirono tutti13. Le relazioni sono fondamentali perché svolgono la funzione dello specchio: ci mostrano il nostro volto, ossia la nostra identità. L'imprescindibilità delle relazioni per lo sviluppo della persona è stato sottolineato da varie teorie psicologiche: la famosa “piramide dei bisogni” di Maslow14; la “teoria dell'attaccamento” di Bowlby; la “teoria interpersonale” di  Harry Stack Sullivan; la teoria della “deprivazione affettiva” di Terruwe e Baars.


Note

1 I Tm 4, 4.
2 Cfr. Steven E. Rhoads, Uguali mai. Quello che tutti sanno sulle differenze tra i sessi ma non osano dire, Lindau, Torino 2006; Dale O'Leary, Maschi o femmine? La guerra del genere, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2006; Associazione Scienza & Vita, Identità e genere, Roma 2007; R. Marchesini, L'identità di genere, ART, Novara 2007; Gabriele Kuby, Gender Revolution. Il relativismo in azione, Cantagalli, Siena 2008; Giulia Galeotti, Gender e genere. Chi vuole negare la differenza maschio-femmina? L'alleanza tra femminismo e Chiesa cattolica, Viverein, Monopoli (BA) 2009; Chiara Atzori, Il binario indifferente. Uomo e donna o GLBTQ?, Sugarco, Milano 2010.
3 Cfr. Aristotele, Phisica II, 195a26.
4NERO (...) La paura più grossa dell’ubriacone non è quella di morire per colpa dell’alcol, cosa che tanto gli capiterà. È restare a corto di alcol prima che gli succeda. (...) Ma se dai un bicchiere pieno a un ubriacone e intanto gli dici che non è quello che vuole davvero, secondo te lui che cosa ti risponde?
BIANCO Penso di potermelo immaginare, cosa mi risponde.
NERO Certo. Eppure avevi ragione tu.
BIANCO Dicendogli che non è quello che vuole davvero.
NERO Esatto. Perché quello che vuole davvero non lo può avere. Oppure è convinto che non lo può avere. E quindi si ingozza di quello che non vuole davvero.
BIANCO E invece cos’è che l’ubriacone vuole davvero?
NERO Avanti, lo sai anche da solo.
BIANCO No, non lo so.
NERO Sì, invece.
BIANCO No.
NERO Hm.
BIANCO Hm cosa?
NERO Sei un caso difficile, professore.
BIANCO Guardi che neanche lei è una passeggiata.
NERO E così non sai cos’è che l’ubriacone vuole davvero.
BIANCO No che non lo so.
NERO Vuole quello che vogliono tutti.
BIANCO E cioè?
NERO Essere amato da Dio” (Cormac McCarthySunset Limited, Einaudi, Torino 2008, pp. 48-49).
5 Cfr. Aristotele, Ethica Nicomachea, VIII, 5, 1157b15; ibidem, VIII, 6, 1158a23.
6 Ibidem, X, 6, 1176b19; ibidem, VII, 14, 1154b2.
7 La distinzione tra passione in san Tommaso e pulsione in Freud mi è stata suggerita dal dottor Ermanno Pavesi, che ringrazio. Cfr. Ermanno Pavesi, 'Appetitus' in San Tommaso e pulsione in Sigmund Freud in Atti del IX Congresso Tomistico Internazionale, vol. III, Antropologia Tomista, Pontificia Accademia di S. Tommaso, Liberia Editrice Vaticana, Città del vaticano 1991,  pp. 353-361.
8 Sigmund Freud, Pulsioni e loro destini, in Opere, vol. 8, Bollati Boringhieri, Torino 1989, p. 18.
9La meta di una pulsione è in ogni caso il soddisfacimento che può essere raggiunto soltanto sopprimendo lo stato di stimolazione alla fonte della pulsione” (ibidem).
10 S. Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale, in Opere, vol. 4, Bollati Boringhieri, Torino 1989, p. 500.  
11 “[…] l’uomo di sua natura è un animale sociale e politico fatto  per vivere insieme agli altri anche più di qualsiasi altro animale; e questo risulta in modo evidente dalla sua necessità di ordine naturale. Infatti agli altri animali la natura fornisce cibo, rivestimenti di peli, armi di difesa come denti, corna, unghie o, almeno, la velocità per fuggire. La natura dell’uomo invece è tale da non avere nessuna di queste cose: al loro posto gli è data la ragione, per mezzo della quale può procurarsele tutte con l’opera delle sue mani. Ma a far questo un uomo solo non basta. Infatti un uomo non potrebbe vivere da solo, senza che gli venga a mancare qualcosa di necessario. Dunque l’uomo per natura vive in società con gli altri” (S. Tommaso d’Aquino, La politica dei principi cristiani (De Regimine Principum), Edizioni Cantagalli, Siena 1997, pp. 14 – 15).
 
12 Cfr. Aristotele, Ethica Nicomachea, IX, 9, 1169b18; idem, Politica, I (A), 2, 1253a3. 
13Secunda eius superstitio fuit, quia voluit experiri cuiusmodi linguam et loquelam haberent pueri cum adolevissent si cum nemine loquerentur: et ideo precepit bajulis et nutricibus, ut lac infantibus darent ut mammas sugerent, et balnearent et mundificarent eos, sed nullo modo blandirentur eis, nec loquerentur. Volebat enim cognoscere utrum hebream linguam, quae prima fuerat, an grecam vel latinam vel arabicam aut certe linguam parentum suorum, ex quibus nati fuissent; sed laborabat incassum, quia pueri, sive infantes, moriebantur omnes. Non enim vivere possent sine applausu et gestu et letitia faciei, et blanditiis bajularum et nutricum suarum: unde fascennine dicuntur carmina, que mulier dicit movendo cunas ut sopiat puerum, sine quibus puer male posset dormire et quietem habere” (Salimbene de Adam de Parma, Chronica, parr. 1664-1665, cit. in Eddo Rigotti, Sara Cigada, La comunicazione verbale, Apogeo, Milano 2004, p. 39, nota 38).
14 Abraham Harold Maslow (1908-1970), psicologo statunitense.
15 Cfr. Aristotele, De Anima, B2, 413b 14-21.
16 Discorso ai partecipanti al V Congresso Internazionale di Psicoterapia e di Psicologia Clinica, 13 aprile 1953, Acta Apostolicae Sedis, vol. 45, 1953, pp. 278-286.
17 Cfr. S. Freud, L'interpretazione dei sogni, in Opere, vol. 3, Bollati Boringhieri, Torino 1989; idem, L'Io e l'Es, in Opere, vol. 9, Bollati Boringhieri, Torino 1989, pp. 475-520.
18 Cfr. Aristotele, Ethica Nicomachea, II, 1; S. Th. I-II, q. 516, a. 2.
19 Idem, Ethica Nicomachea, II, 1, 1103b.
20 “[...] quelle [quantità] nelle quali la posizione delle parti produce differenza si dicono un intero o un tutto” (Aristotele, Metafisica, Δ 26, 1024a2).
21 Cfr. Umberta Telfener, Luca Casadio (a cura di), Sistemica. Voci e percorsi nella complessità, Boringhieri, Torino 2003, p. 38.
22 Cfr. Paolo Bertrando, Dario Toffanetti, Storia della terapia familiare. Le persone, le idee, Raffaello Cortina, Milano 2000. Questa affermazione di Aristotele è considerata fondamentale anche dalla cosiddetta “psicologia della gestalt”, fondata da Kurt Koffka (1886-1941), Wolfgang Köhler (1887-1967) e Max Wertheimer (1880-1943). La psicologa della Gestalt si occupa di percezione ed esperienza.
23 Cfr. Paul Watzlawick, Janet Helmick Beavin, Don D. Jackson, Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi delle patologie e dei paradossi, Astrolabio, Roma 1971.
24 Cfr. Salvador Minuchin, Famiglie e terapie della famiglia, Astrolabio, Roma 1976.
25 Cfr. Mara Selvini Palazzoli, Stefano Cirillo, Matteo Selvini, Anna Maria Sorrentino, I giochi psicotici nella famiglia, Raffaello Cortina, Milano 1988; Luigi Boscolo, Gianfranco Cecchin, Lynn Hoffman, Peggy Penn, Clinica sistemica. Dialoghi a quattro sull'evoluzione del modello di Milano, Boringhieri, Torino 2004.

sabato 1 dicembre 2012

INTERVISTA A ROBERTO MARCHESINI

Roberto Marchesini
Il 10 Novembre scorso, presso la sede de Il Timone a Milano, ha preso avvio il primo corso dedicato all'incontro tra Psicologia e Cristianesimo. La lezione è stata tenuta dal dottor Roberto Marchesini, mio caro amico e co-fondatore di questo blog. La sua relazione si è focalizzata su due aspetti: da una parte una disamina degli interventi del Magistero nei confronti della psicologia, con particolare riferimento alle critiche di Pio XII, di Giovanni XXIII, di Paolo VI e di Giovanni Paolo II verso la psicoanalisi ed al concetto di "sana psicologia" del Concilio Vaticano II; dall'altra la presentazione della vita e dei concetti fondamentali dei due autori che, secondo Marchesini, hanno maggiormente sviluppato una vera psicologia cattolica: Rudolf Allers e Conrad Baars. Concordando con la posizione di Allers, secondo cui la psicologia non è altro che ancilla philosophiae, Roberto Marchesini ha esplicitato la necessità dello sviluppo di una vera "psicologia cattolica", che parta da quella filosofia che maggiormente è in sintonia con il Dato Rivelato - ossia l'approccio aristotelico-tomista, in accordo con le parole di Papa Leone XIII - ed affronti il disagio della modernità sulla base di una "sana antropologia".
Ho raccolto alcune domande dei partecipanti al corso, e le ho rivolte direttamente al dottor Marchesini.

Roberto, al corso hai parlato di due psicologie a seconda dei due modi in cui si declina il termine greco 'psiche'. Il primo, di origine positivista, riduce la psiche all'insieme dei processi mentali e del comportamento. Il secondo, maturato nell'ambito della filosofia greca e medievale, conferisce all'anima - oltre alle proprietà precedenti - la fondamentale funzione di "animare" il corpo, ossia di dargli la vita, e, secondo la concezione aristotelico-tomista, di fornire alla materia dell'uomo la forma che gli è propria (anima come forma del corpo). Le due declinazioni sembrano tanto lontane quanto inconciliabili. Esiste un punto d'incontro tra le due concezioni e per la filosofia e, soprattutto, per la psicologia contemporanea?

Concordo sul fatto che le due definizioni siano inconciliabili; la prima ha il vantaggio di essere maggiormente diffusa nel discorso corrente, la seconda è più ampia e profonda, a mio parere più utile per comprendere a fondo l'uomo.
La psicologia contemporanea è fondata (tranne pochissime eccezioni) sulla prima definizione e questo è, a mio parere, il suo limite principale. Esistono tuttavia dei seri tentativi di costruire una psicologia clinica su una antropologia più complessa (ad esempio Allers, Baars, Echavarrìa...).

Forse è proprio causa di questa inconciliabilità tra i due concetti di 'anima', uno più moderno e l'altro più legato alla filosofia antica e medievale, che sorgono anche le difficoltà concettuali e terminologiche del presente, come la distinzione concettuale tra anima e spirito, a cui si è accennato al corso. Alcuni padri della Chiesa parlano dell'uomo come formato da Corpo, Anima e Spirito. Tommaso, invece, declina le due dimensioni, di cui l'uomo è il composto, in materia ed anima, ma di un'anima umana di tipo spirituale (in quanto razionale). Poi ci sono gli spiriti, intesi come demoni, e lo Spirito Santo, ossia l'essenza di Dio, anch'esso che partecipa alla natura umana (si pensi ad esempio ai sette doni dello Spirito). E' possibile fare chiarezza su questi termini?


Nella tua lezione hai indicato due autori nei quali il pensiero antropologico cattolico ha saputo fondersi con la pratica clinica. Purtroppo pero non c'è una scuola Allersiana e neppure un testo, chiaro, di riferimento clinico. Tra le epistemologie della psicologia clinica contemporanea, ce n'è una che si avvicina maggiormente alla filosofia cattolica?

A dire la verità i libri di Baars (A. A. Terruwe, C. W. Baars, Psychic wholeness and healing. Using all the powers of the human psyche, Alba House, New York (NY) 1981 e C. W. Baars, A. A. Terruwe, Healing the unaffirmed. Recognizing emotional deprivation disorder, St Pauls, New York (NY) 2006) contengono parecchie indicazioni cliniche.
Comunque sia, tra le psicologie contemporanee vanno tenute in particolare considerazione la psicologia individuale di Adler (cfr. Rudolf Allers, Le nuove psicologie, D'Ettoris Editore, Crotone, 2009) e l'analisi esistenziale di Viktor E. Frankl. Si consideri che Allers è stato amico e mentore di Frankl, e che insieme hanno collaborato con Adler per poi separarsene ritenendo insufficiente il fondamento filosofico della psicologia individuale.

Dunque consigli ad un cattolico in formazione di seguire la scuola adleriana o frankliana?

Non esattamente. Io consiglio di crearsi una buona base filosofica, antropologica in particolare; mi riferisco soprattutto all'antropologia aristotelico-tomista.
Partendo da questa base è possibile vagliare qualsiasi scuola, anche quelle adleriana e frankliana.
In sintesi: omnia probate, quod bonum est tenete (1 Ts 5, 21). Il criterio con il quale vagliare è "[...] una dottrina più sana e più conforme al magistero della Chiesa, quale appunto è contenuta nei volumi di Tommaso d’Aquino" (LEONE XIII, Lettera Enciclica Aeterni Patris, 4 agosto 1879).

Certo per fare quello che dici, ci vorrebbe un testo sintetico di antropologia o di psicologia aristotelico-tomista, che invece non esiste...

Non ne sarei così sicuro. Ecco qualche titolo:
- Robert E. Brennan, Thomistic Psychology. A philosophic analysis of the nature of man, The Macmillan Company, New York (NY) 1941.
- S. Vanni Rovighi, Appunti di antropologia filosofica, Vita e pensiero, Milano 1978.
- Ramón Lucas Lucas, L'uomo spirito incarnato. Compendio di filosofia dell'uomo, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1983.
- Sebastian Reinstadler, Elementa philosophiae scholasticae, 2 voll., Herder & Co., Friburgo 1937.
Si può anche approcciare la Summa di san Tommaso, soprattutto il Trattato delle passioni, eventualmente dopo aver letto qualche testo introduttivo.

Testi importanti, certo, che però si distanziano parecchio dalla psicologia contemporanea. A tal proposito nel tuo intervento hai fatto riferimento a Viktor Frankl. Cosa pensi della logoterapia?

Credo che Viktor Frankl abbia elaborato un sistema decisamente compatibile con il dato rivelato, e lo testimonia l'attenzione che nel mondo cattolico si è sempre tributata a questo autore.
C'è però, nel lavoro di Frankl, un aspetto che mi suscita qualche perplessità. E' un aspetto che lo differenza in particolare dal suo mentore ed amico Rudolf Allers.
Allers crede che esista un progetto per ognuno di noi, un progetto che ci pone in armonia con tutto il creato e che è disposto provvidenzialmente; è l'orgoglio (ma anche la pusillanimità) a deviarci dal nostro progetto e a provocarci sofferenza. Il nostro compito è quello di dare la nostra umile adesione a questo progetto provvidenziale.
Per quanto riguarda Frankl, credo che le cose stiano in modo leggermente diverso.
I significati secondo Frankl sono sempre "ad personam" e "ad situationem" (quindi sono individuali e non universali). Frankl scriveva che "Il significato non deve essere conferito, ma trovato. E trovare non vuol dire inventare: il significato non viene inventato ma solo scoperto" (Logoterapia e analisi esistenziale, Morcelliana 972, II ed. p. 81); tuttavia, per Frankl, i significati non sono "soggettivi", bensì "trans-soggettivi": sono esigenze e potenzialità insite nella realtà, quindi implicano una autotrascendenza da parte del soggetto; in questo senso dice che non si "inventano" ma vanno "trovati". E' vero che esiste un compito. E' vero che noi dobbiamo aderire a questo compito. Tuttavia ho l'impressione che in Frankl manchino due elementi: 1) la provvidenzialità (il compito non è predeterminato, ma lo scegliamo noi, e scegliendolo ne facciamo la direzione della nostra realizzazione) e 2) l'armonia.

Collegato a quanto dici è la grande questione della malattia: che cos'è la nevrosi, ossia il disturbo psichico, da un punto di vista antropologico?

Da un punto di vista antropologico, la definizione di nevrosi dipende... dal punto di vista antropologico: Freud la descrive come l'esito del conflitto tra Es e SuperIo; Adler come l'esito del conflitto tra volontà di potenza e volontà di comunità; Jung come un ostacolo alla individuazione del soggetto...
Secondo la mia antropologia, che si sforza di essere tomista, la faccenda sta così.
Tradizionalmente la società era descritta tramite la metafora del corpo, per il quale il buon funzionamento è garantito dalle relazioni tra organi diversi e connessi tra loro; secondo questa visione, che ha le sue radici nel pensiero di san Paolo e san Tommaso, il “corpo sociale” fonda la sua esistenza sulla diversità e sulla gerarchia delle parti che lo compongono. Il pensiero rivoluzionario, invece, rappresenta la società come una massa di individui indifferenziati al di sotto dello stato, dal quale essi derivano i loro diritti: ecco l’egalitè. Per passare dal primo al secondo modello di società, la Rivoluzione deve eliminare i corpi intermedi - gli organi, nella prima metafora - quali le confraternite, corporazioni e infine la famiglia, accentrando tutti i poteri nelle mani dello stato. In questo modo l’essere umano cessa di essere una persona, con un posto nella società ed una identità costruita nelle relazioni sociali, e diventa un individuo, identico a tanti altri. Lo psicoterapeuta Viktor Frankl fa risalire a questo processo di perdita dei valori e dei punti di riferimento tradizionali la perdita di senso e il sentimento di inadeguatezza che pervadono l’uomo moderno. Così si esprime sua eminenza Godfried Daneels, arcivescovo di Malines – Bruxelles: “Prima del XVIII secolo, l’uomo europeo viveva in un universo armonioso, posto all’interno di una rete di relazioni ben integrate. La relazione con Dio, con l’universo, col cosmo, i suoi rapporti con gli uomini e la società, con sé stesso erano ben definite. Ogni cosa aveva il suo posto e c’era un posto per ogni cosa. Si era stabilito un solido quadro di riferimento e la religione ne era il cemento. Le regole del gioco – se possiamo così esprimerci – in religione, in morale e in politica, erano fissate ed accettate. A partire dal XVIII secolo le cose sono cambiate”. Non è un caso, infatti, se il termine “nevrosi” – che indica il “male di vivere” – fu coniato alla fine del XVIII secolo; non è un caso nemmeno se, come testimonia la medievista Régine Pernoud, nel Medioevo era praticamente sconosciuto il suicidio, che oggi costituisce una delle principali cause di morte.
Mi sembra che questa sia anche la base per la teoria di Allers sulle nevrosi. Anche per lui, come per Freud, la nevrosi è la conseguenza di un conflitto; solamente non si tratta semplicemente dello scontro tra diversi istinti, o tra la pulsione e l’impossibilità di realizzarla. Il conflitto è, per Allers, inevitabile e, anzi, necessario per lo sviluppo della persona; ciò che causa la nevrosi è l’atteggiamento della persona di fronte a questo conflitto. La nevrosi è «la forma di malattia e aberrazione derivante dalla conseguenza della rivolta della creatura contro la sua naturale mortalità e impotenza»; il nevrotico colui che non accetta la realtà e le rimprovera di non essere come lui la vorrebbe. E’ evidente che il conflitto psichico nasconde un conflitto ontologico che riguarda il compito di una persona nel mondo e il senso della vita; per questo Allers afferma (e ritroviamo un eco di questa posizione nella logoterapia di Frankl): «Non mi sono fino ad ora mai imbattuto in un caso di nevrosi, che non rivelasse in fondo, un problema metafisico non risolto, come conflitto e problema finale; per così designare il problema che tratta della posizione dell’uomo in generale, non importa se la persona in questione sia religiosa o no, cattolica o non cattolica».

Queste parole di Allers sono davvero molto belle. Tuttavia esse si riferiscono all'ordine dell'universale, e non spiegano il particolare. Ossia il perché tale rivolta contro la realtà in una persona porti alla nevrosi fobica ad un altro i tratti depressivi, ad un altro ancora il delirio o la mania, ecc. Come si spiega tale diversità di sintomatologie?

La ribellione contro la realtà può avere due esiti: l'orgoglio (pensare di essere più di ciò che si è) e la pusillanimità (pensare di essere meno di ciò che si è). Già questo basterebbe per riflettere su alcune sintomatologie come fobie, depressioni, disturbi dell'identità di genere piuttosto che manie eccetera. Comunque è vero: la riflessione di Allers non si è spinta fino ad una psicopatologia compiuta. Egli stesso ha scritto: «Non sono ancora riuscito a scrivere quello che desidererei – cioè, una filosofia comprensiva (integrale) della natura umana […]» (in R. Titone, Rudolf Allers psicologo del carattere, SEI, Torino 1961; 1970, p. 27); «Sto diventando vecchio […]; tuttavia non ho lasciato la speranza di poter scrivere un giorno una filosofia della natura umana» (ibidem, p. 31).
Però va anche considerato che questo sforzo è fattibile, anzi: è stato tentato con qualche merito da Conrad Baars. In un mio libro di prossima uscita (La psicologia e san Tommaso d'Aquino, D'Etttoris) cerco di dare qualche cenno sul lavoro dello psichiatra olandese, soprattutto sulle sue intuizioni cliniche.

Nel primo dei tuoi principi tomisti e della loro applicazione clinica (omne ens est bonum) sostieni che "ogni paziente, nonostante le apparenze, è stato creato buono, è meraviglioso, ha un progetto splendido che, a causa delle circostanze, non ha potuto realizzarsi". Come si differenzia questa posizione antropologica dall'errore filosofico del "buon selvaggio", sostenuto in psicologia da tanti clinici umanisti (come Carl Rogers, Rollo May) secondo cui l'uomo tende automaticamente al bene, e che non fa i conti con gli aspetti legati all'aggressività, alla caducità, al male, ossia al peccato originale?

Quando Cartesio rifiutò il concetto di sinolo, nell'antropologia si spezzò un equilibrio. Da quel momento i pensatori si sbilanciarono per la materia (il materialismo) o per lo spirito (gnosi, idealismo). Allo stesso modo, il protestantesimo ha modificato il concetto di peccato originale, spezzando un equilibrio. Per il protestantesimo il peccato originale ha corrotto irrimediabilmente l'uomo. L'uomo non può fare altro che il male (e va quindi costretto a fare il bene).
Come reazione a questa visione dell'uomo l'illuminismo, e Rousseau in particolare, hanno coniato il mito del "buon selvaggio": l'uomo è buono per natura e la società lo ha corrotto (quindi bisogna cambiare la società).
La Chiesa cattolica offre invece una prospettiva diversa, in equilibrio tra i due estremi di cui sopra.
Il peccato originale non ha corrotto irrimediabilmente l'uomo, ma lo ha semplicemente inclinato al male, ossia è più facile fare il male che il bene. Tuttavia l'uomo è ancora fatto ad immagine e somiglianza di Dio; desidera ancora il sommo bene, come hanno detto Aristotele e san Tommaso; ha ancora nostalgia di Dio, come dice sant'Agostino.
Quindi: l'umo tende al bene, non al male. Ma è una lotta, una fatica. Una ascesi.

Una ascesi, ossia un percorso, una strada, un cammino che tocca da vicino lo psicoterapeuta in molti casi. Solo che molti professionisti cattolici - forse arginati da impostazioni teoriche neutraliste o libertine - hanno difficoltà ad inserirsi in queste riflessioni nonostante coltivino un desiderio di unità e non di scissione tra il mondo della psicologia e quello dell'antropologia. Non credi che ci sia bisogno di un ambito nella psicologia, in particolare penso alla clinica, dove i professionisti possano avere la loro impostazione teorico-pratica, dove poter confrontarsi su tali questioni senza aver paura di fare ricorso a concetti come il peccato originale, il bisogno umano della Felicità, l'ascesi?

Credo che sia molto opportuno. Credo che il tuo lavoro con il blog "psicologia e cattolicesimo" sia un passo importante in questa direzione. Ovviamente sarebbe bello avere una rivista, degli incontri internazionali, magari anche una associazione...

Sì sono d'accordo. E' qualcosa a cui bisognerà pensare seriamente, perché anch'io, come te, ne sento il bisogno. Nel chiudere questa intervista, vorrei farti qualche domanda di carattere più clinico. Alla porta di uno psicoterapeuta aristotelico-tomista bussa una persona con un notevole carico di sofferenza: è sposato, con figli, con un lavoro. Ad una prima impressione, il tono dell'umore tende alla malinconia, quando parla sembra trasparire un sottile pessimismo nel descrivere sé ed il futuro. Come procede nella diagnosi lo psicologo aristotelico-tomista?

Direi che procede come gli è stato insegnato: analisi della domanda, anamnesi con genogramma e storia personale, diagnosi, trattamento e follow-up. Credo che la differenza stia nello sguardo positivo sul paziente e sulla completa apertura nei suoi confronti, oltre ad un ascolto vero, senza la foga di incasellarlo in categorie diagnostiche (ascolto che, elogiato da molte scuole cliniche, è realmente praticato molto raramente). Questo, ovviamente, sulla base dei presupposti antropologici di cui abbiamo già parlato.

Dunque dici che non c'è difformità di prassi tra la clinica contemporanea, frutto della psicologia moderna, e lo sguardo dell'antropologia. Non credi che il tipo di terapia - e quindi il tipo di strumenti da essa proposti al paziente - dipenda strettamente da quello sguardo di cui tu parli (agere sequitur esse)?

In fondo gli strumenti sono limitati e comuni a tutte le scuole cliniche. Non è forse vero che l'intenzione paradossa, una delle due tecniche proposte da Frankl, ricorda molto e la prescrizione del sintomo usata dai sistemici?
Credo che la differenza stia nella visione che il terapeuta ha del paziente, nel significato che attribuisce ai suoi sintomi, negli obiettivi terapeutici, più che negli strumenti utilizzati.
 
Grazie!

mercoledì 24 ottobre 2012

LA PSICHIATRIA ED IL RUOLO DELLE CREDENZE PERSONALI - RUDOLF ALLERS

Nel 1955, il professor Francis J. Braceland, amico di lungo corso di Rudolf Allers, e direttore dell'Institute of Living di Hartford, dà alle stampe un prezioso volume: Faith, Reason and Modern Psychiatry. Source for a Synthesis (Kenedy & Sons, New York). All'interno sono ospitati diversi contributi particolarmente interessanti che indagano il rapporto tra psicologia, psicoterapia e psichiatria da una parte, ed antropologia filosofica, teologia, direzione spirituale e fede dall'altra. Dopo l'introduzione dell'autore, il primo capitolo è affidato a Rudolf Allers, il quale approfondisce la tematica delle credenze o convinzioni personali. Apparentemente, questo tema può sembrare di importanza marginale. Che cosa hanno a che fare le convinzioni con la psichiatria? Con la sua tipica linearità descrittiva, Allers porta all'evidenza come vi sia un legame strettissimo tra la salute mentale e le convinzioni che una persona ha nei confronti della realtà. Oggi potrebbe sembrare un'affermazione ovvia, persino scontata. Eppure, bisogna tener presente che quest'articolo è scritto a metà degli anni cinquanta, molti anni prima della "svolta cognitivista" o della diffusione della terapia razionale-emotiva di Ellis. Allers individua un punto centrale per qualsiasi prassi terapeutica: il tipo di filosofia che una persona ha, ossia, il punto di vista esplicito ed implicito con cui concepisce la realtà in cui è immerso e se stesso, ha una ricaduta importantissima nella concezione della malattia stessa, nonché del modo in cui il terapeuta definisce il proprio paziente. Molti terapeuti, ad esempio, sono influenzati da concezioni filosofiche implicite che li portano ad etichettare come patologiche alcune forme di religiosità, come la fede. Senza accorgersene, essi stessi diventano portatori di una religiosità che però non si basa su fatti concreti ma su preconcezioni arbitrarie. L'articolo tocca molti altri punti interessanti: il rapporto tra la filosofia esistenzialista e le credenze; il ruolo del terapeuta cattolico; ecc.
Vorrei sottolineare un aspetto che, a mio avviso, rende questo articolo di estrema importanza e di estrema attualità. Al giorno d'oggi nessuno si sognerebbe mai di negare l'esistenza di visioni del mondo differenti e distanti. La cultura psicologica, soprattutto clinica, è ben attenta alla "visione del mondo del paziente", alla "concezione della realtà", alle sue "convinzioni e credenze". Eppure quasi nessuno si interroga su quale ruolo svolgano queste differenti credenze nel determinare una sintomatologia. O meglio, nessuno si interroga se una visione del mondo sia più salutogenica o patogena di un'altra. A tali concetti si preferiscono quelli di adattività ed adattabilità, termini che veicolano l'idea secondo cui comportamenti, opinioni e fatti possano essere "giusti" per le condizioni di vita di una persona, ma "errati" per un'altra. Il legame tra esperienze e natura umana è completamente ignorato (basti pensare, ad esempio, al silenzio che invade le vicende legate agli aborti o alle camere del suicidio). Il mondo della psicoterapia è sostanzialmente relativista: ognuno è libero di pensare ciò che crede, poco importa se tale visione del mondo sia alla base del suo disagio. Male che vada, sarà sufficiente "ristrutturare" o "modificare" o "ridimensionare" alcune convinzioni non adattive al momento storico della persona. Nessuno, invece, giudica tali punti di vista; nessuno li ritiene confutabili; nessuno propone una educazione alla realtà. In un mondo senza verità, mettere in discussione una percezione di realtà consisterebbe nel violare la libertà altrui. Eppure, forse è opportuno chiedersi se non sia una violazione più ampia quella di non proporre, con astuzia e gentilezza, la verità che il clinico intravede e percepisce. 

 

La psichiatria ed il ruolo delle credenze personali

Rudolf Allers


1. Salute mentale e prospettiva filosofica


Il filosofo tedesco Johann Gottlieb Fichte ha espresso per primo un’idea che oggi si sente abbastanza spesso: “Il tipo di filosofia che un uomo ha dipende dal tipo di uomo che è”. Questo è sicuramente vero in una certa misura, ma anche il contrario può essere vero: il tipo di uomo che si è può dipendere dal tipo di filosofia che si ha. Dalla filosofia di un uomo dipende il modo in cui cerca di entrare in contatto con la realtà, dal momento che è la sua filosofia che gli descrive la realtà. Vede il mondo e se stesso e, di conseguenza, il suo posto nel mondo e le relazioni con il mondo, alla luce della sua filosofia. [1][1]

            La psichiatria da tempo è a conoscenza del fatto che un disturbo mentale non costituisce una completa novità nella storia di una persona. Esso non è scollegato dai tratti, dalle disposizioni, dalle esperienze, e dagli effetti delle esperienze nella vita della persona avvenute prima dell’insorgenza del disturbo mentale. Così, in molti casi la malattia mentale sembra essere un incremento o una esagerazione dei tratti che erano evidenti quando la persona era ancora normale – o almeno considerata tale. Lo studio delle relazioni tra questa “personalità pre-psicotica”, come viene chiamata, ed il tipo di disturbo di cui la persona diviene preda è di grande importanza ed è stato molto fecondo. In parte, però, sembra essere unilaterale, dal momento che considera solo quelli che potrebbero essere chiamati gli aspetti formali della personalità.

            La stessa cosa è vera per un filone di indagine collegato, ed anche molto importante, lo studio dei tipi psicologici. I tipi devono essere distinti dalle operazioni mentali o dalle tendenze prevalenti. Infatti le due principali classificazioni dei Tipi Psicologici di C. G. Jung [2][2] differiscono per l’orientamento generale dell’interesse. L’introverso è principalmente occupato con la vita interiore; tende a rinchiudersi; è diffidente e non sufficientemente a suo agio nel mondo delle cose e degli uomini. Il tipo opposto, l’estroverso, è rivolto principalmente all’esterno, è occupato con il mondo, la vita sociale, e con le attività che agiscono nell’ambiente e sull’ambiente.

            Un’altra distinzione simile, proposta da G. Pfahler, [3][3] oppone un tipo caratterizzato da “rigidità di attenzione” ad uno di “attenzione fluida”. Esistono diverse tipologie simili, ma questi due esempi saranno sufficienti per mostrare la natura formale delle differenze discusse. La capacità materiale dell’interesse che si rivolge all’interno o all’esterno, dell’attenzione che è rigida o fluida, non viene considerata. Così ci si può chiedere se non costituisca una differenza nella condotta di un uomo e nella struttura della sua personalità se, nel caso di un introverso, sia attratto dalla matematica o dalla musica; o, nel caso di un estroverso, dallo sport o dall’ingegneria; se sia più interessato alla pratica della politica o allo studio della biologia sperimentale.

            Una tipologia che considera il contenuto piuttosto che la forma dell’attività mentale, la sostanza piuttosto che il metodo, deve essere chiamata materiale. Così è la tipologia evidenziata per primo da E. Spranger [4][4] ed utilizzata, con alcune modifiche significative, da G. Allport. [5][5] In questa classificazione i tipi psicologici sono distinti dai valori centrali attorno a cui si dispone l’intero quadro della realtà dell’individuo. Tali valori possono essere quelli della ragione astratta, dell’utilità, dell’amore, del potere, o della religione. E’ l’interesse principale della persona che è considerato il tratto distintivo del suo comportamento.

            Questa stessa diversità di approcci si trova anche negli studi della personalità pre-psicotica: anche qui, è l’approccio formale che prevale. E. Kretschmer [6][6] ha descritto la personalità “schizoide” o “schizotimica”, di cui il disturbo mentale schizofrenia sembra essere una intensificazione, e l’opposto, il tipo “cicloide” o “ciclotimico” – anche chiamato “sintonico” [7][7] – nei termini di proprietà strettamente formali. Ora può essere vero che, per una comprensione della relazione tra la mentalità pre-psicotica e il conseguente disturbo mentale, l’aspetto formale sia particolarmente rilevante. Non possiamo sapere, però, se sia questo il caso fintanto che non vengano svolte indagini estese anche sugli aspetti materiali.

            Descrizioni di personalità pre-morbose nei termini della psicoanalisi freudiana hanno prodotto un indubbio contributo all’aspetto materiale del quadro, ma questo, però, è stato largamente limitato a considerazioni formali. Esse difficilmente possono essere diverse, dal momento che è la posizione fondamentale della teoria psicoanalitica riguardo la natura umana il fatto che le finalità dell’uomo siano primariamente quelle che promettono soddisfazione ai bisogni istintuali; ogni altra finalità è vista come sostituta di questi bisogni primari, e così le differenze dalla soddisfazione materiale perdono il loro significato. L’obiettivo originario della ricerca psicoanalitica era di scoprire la relazione tra gli stati nevrotici e la storia di vita dell’individuo, ma nei suoi successivi sviluppi essa si è mossa sempre più focalizzandosi sugli stadi infantili. Ora, più lontano nel passato di un individuo vengono rintracciate le cause dei sintomi nevrotici, meno differenziate esse appaiono, e allo stadio infantile tutti i valori sono ridotti all’uniformità della soddisfazione istintuale immediata dove non è possibile alcuna differenziazione. Le differenze caratterizzanti gli stadi successivi di vita vengono interpretate come una specie di sovrastruttura eretta sul terreno dei bisogni istintuali primari; questa superstruttura può essere d’interesse per un approccio descrittivo, ma non per uno genetico.

            E’ una caratteristica essenziale della psicoanalisi e di quasi tutte le altre tipologie di psicologia medica che il punto di vista genetico predomini. Questa enfasi è giustificata, dal momento che ogni pratica medica cerca di rimuovere i disturbi trovando le cause e rendendole vane. Non può, però, essere assunto a priori il fatto che queste cause saranno trovate esclusivamente nei periodi più infantili della vita. Anche se gli istinti ed il destino subito in infanzia fossero fattori decisivi, è possibile che i loro effetti dipendano da fattori aggiuntivi che entrano nel quadro in un secondo tempo. Un interesse predominante per tali cause ultime ha impedito a medici psicologi e psichiatri di rendersi conto della necessità di integrare le loro indagini con descrizioni dettagliate della personalità e degli stati mentali, descrizioni che tengano conto dei fattori materiali tanto quanto di quelli formali che determinano la condotta.

            Le caratteristiche formali della personalità, se costituzionali o provenienti dalle prime esperienze, esercitano un’influenza decisiva sulle attitudini materiali che una persona sviluppa nella vita successiva. Esse, cioè, formano la cornice al cui interno ogni nuova esperienza trova il suo posto e secondo cui vengono interpretate. Dal momento che questi fattori sono formali, però, la loro influenza è senza alcun dubbio rigida o inevitabile. Consente un’ampia varietà di risposte, e può essere largamente modificata, neutralizzata, o controbilanciata da altre influenze che vengono esercitate sull’individuo dopo che è passato dallo stadio delle reazioni automatiche ed inconsce a quello dell’esperienza conscia. D’altronde sarebbe impossibile comprendere il perché gli individui sviluppino personalità completamente differenti sebbene le condizioni della loro infanzia paiono esser state le stesse. Per esempio, ogni bambino ha esperienza di frustrazione. Se è vero che la frustrazione spesso è alla base dell’aggressività, ci devono essere anche altri fattori in gioco, dal momento che non tutti i bambini sviluppano personalità aggressive ed antisociali.

            Quindi è lecito chiedersi se, e in che misura, le attitudini apprese, le convinzioni, e le concezioni generali della realtà possano predisporre, o modificare, a specifici disturbi mentali. Si può porre la questione in questi termini: certe attitudini o visioni del mondo sono più o meno facilitanti di altre nel creare difficoltà, causare conflitti, rendere un uomo meno capace di venire a patti con la realtà? Si può dire che la possibilità di cader preda di disturbi mentali sia minore per le persone che hanno fatto proprio un insieme di convinzioni rispetto ad altre le cui convinzioni sono di un’altra tipologia, forse opposta?

Approssimazioni di risposta


Non è semplice rispondere a queste domande. Oggi, alcuni autori rigettano l’idea di una relazione causale tra convinzioni e stati mentali e sostengono che è piuttosto la convinzione a dipendere da uno stato di anormalità presente o latente. Altri credono che ci sia una forte interdipendenza tra le convinzioni ed i principi di un uomo, da una parte, e il suo stato mentale o salute mentale, dall’altra. Entrambe le riflessioni sembrano basarsi più su idee preconcepite che su di una analisi dei fatti.

            Si potrebbe tentare di rispondere a questa domanda con un’indagine statistica. Se si trovasse che i disturbi mentali fossero decisamente meno frequenti tra le persone con un certo tipo di punto di vista e di convinzione rispetto ad altre, si potrebbe concludere che questo particolare punto di vista possieda alcuni poteri protettivi. Infatti, tali tentativi sono stati compiuti, ma essi non sono definitivi a causa dell’enorme complessità dei fattori in gioco. Per esempio, se alcune convinzioni religiose sono più frequenti in una fascia di reddito e meno frequenti in un’altra, l’incidenza della malattia mentale tra persone che sostengono queste convinzioni può essere dovuta a fattori sociali piuttosto che ideologici. Per di più, è difficile assemblare dati sufficienti per un’elaborazione statistica affidabile. Come N. Wiener [8][8] ha evidenziato, i “percorsi statistici” applicabili agli studi sociali sono troppo brevi anche solo per avvicinarsi alla precisione della fisica statistica. Ed alla fine, sebbene un certo numero di persone possa dire di sostenersi e di vivere grazie a certe credenze, e sebbene esse possano essere perfettamente sincere, non si può sapere quanto le loro affermazioni corrispondano alla realtà oggettiva.

            Anche se le statistiche non sono totalmente d’aiuto, tuttavia, ci sono alcuni dati che suggeriscono fortemente una marcata relazione tra la salute mentale e una visione del mondo o filosofia, e ci sono alcuni fattori inerenti che rendono tale relazione probabile. Forse non è un’argomentazione molto forte, per esempio, ma è un fatto che l’incidenza di disturbi mentali, e specialmente del suicidio, sia considerevolmente bassa tra i filosofi. [9][9] Dal momento che i loro punti di vista variano molto, tuttavia, questo sembrerebbe suggerire che la cosa importante sia solamente avere una qualunque filosofia, di averla prodotta e di credere in essa.

            Un approccio più basilare dovrebbe basarsi sull’analisi della natura umana, e specialmente dei casi in cui un individuo sembra risolvere le sue difficoltà quando raggiunge una maggiore chiarezza nelle questioni di filosofia o di fede. Nel procedere su questa linea, però, risulta estremamente difficile eliminare gli errori (bias, n.d.t.) propri di ognuno, e c’è sempre il pericolo di sopravvalutare l’effetto buono delle credenze simili alle proprie e l’effetto cattivo delle altre.

            A causa della vera natura dei processi psicoterapeutici, uno psichiatra non può mai essere perfettamente sicuro che una guarigione sia il risultato dei suoi sforzi, o del ruolo giocato da altri fattori co-operanti nel portare ad un risultato favorevole. Alla fine della vita Alfred Adler ha rimarcato una volta che metà di tutti i nevrotici stanno meglio indipendentemente dal trattamento che hanno ricevuto, semplicemente perché essi possiedono la volontà e l’abilità di adottare un nuovo atteggiamento verso la realtà. In questi casi la terapia diventa più un “salva faccia” piuttosto che un agente veramente effettivo. Così, anche quando il terapeuta crede di avere una buona ragione per attribuire al suo trattamento il recupero del paziente, ancora non sa con certezza quale sia stata l’influenza decisiva. Può sostenere che fosse il dissotterramento del materiale inconscio, se è un pupillo di Freud; il risveglio della volontà di comunità, se segue Adler; la forza della persuasione, se adotta il punto di vista di Dubois ed altri; ma non può saperlo con certezza.

            Altri fattori subentrano in ogni situazione psicoterapeutica. Abbastanza spesso il terapeuta è la prima persona, forse anche sin dall’infanzia, con cui il paziente ha stabilito una relazione umana di un certo significato. Può essere la sola persona con cui il paziente può parlare di cose, non necessariamente personali o intime, di cui non osa o non può fare menzione ad altri. Non importa in quali termini questa relazione viene descritta; la si chiami “transfert” se si preferisce, con tutte le implicazioni della dottrina freudiana, o si utilizzi un altro termine. Rimane il fatto che nella situazione terapeutica l’isolamento della persona nevrotica viene sconfitto, e viene rotto il muro che lo ha separato dal mondo degli amici e della realtà.

            Molti psichiatri prenderanno alla leggera queste difficoltà e considereranno il ristabilirsi del paziente una prova sia dell’efficacia del loro trattamento sia della verità delle loro teorie, ma questo è un errore. Le relazioni umane sono troppo complicate per permettere tali semplici spiegazioni. Per lo stesso motivo, non si può affermare che l’atteggiamento di un individuo abbia causato o prevenuto uno stato anormale, o che un cambiamento di atteggiamento abbia causato un miglioramento della sua condizione. E’ solo nella piena consapevolezza dell’enorme complessità delle questioni umane e del bisogno di evitare precipitose generalizzazioni che si può ardire di affrontare le domande in esame, proporre alcune visioni come tentativo, e cercare di sostenerle con una analisi attenta dei fatti.

2. Psicoterapia e metodo scientifico


La scienza, che cerca di stabilire leggi generali, può ed anche deve ignorare le differenze individuali. E’ una caratteristica essenziale del metodo sperimentale che tutte le circostante individuali siano eliminate e che il fenomeno sotto investigazione sia reso il più “puro” possibile. Dal punto di vista della scienza medica ogni paziente è un “caso di - ”. E’ caratteristico di un caso il fatto che sia soggetto alla regola generale del suo tipo; è un esempio di una specie, la manifestazione di una legge generale. Così come ogni volta che un oggetto cade sul pavimento la legge di gravitazione diviene manifesta, e sempre accade esattamente allo stesso modo, così per la scienza medica il caso di polmonite appare come un’ulteriore manifestazione della legge generale che è chiamata polmonite.

            Nella pratica medica, però, si ha a che fare non con un esperimento controllato, e neppure con un miscuglio di fattori irrilevanti e trascurabili, ma piuttosto con una persona malata, ed una persona è l’essere più individualizzato di cui abbiamo conoscenza. E’ essenzialmente unica; fondamentalmente non è un “caso” ma un individuo a pieno titolo, irripetibile. Così, la pratica della medicina è stata spesso definita un’arte piuttosto che una scienza. Originariamente, il termine ars medica significava semplicemente che l’attività del medico consiste nell’applicare una conoscenza teorica per un uso pratico. Ars, traduzione del greco téchne, è il nome di tutte le discipline pratiche e della conoscenza che le sottende. E’ significativo, comunque, che questo titolo “arte” abbia conseguito una connotazione specifica. E’ generalmente inteso nel senso che la semplice conoscenza, così come è acquisita dai libri, dalle lezioni, e dall’esperienza di laboratorio, non sia abbastanza, e che il medico debba possedere qualcosa di più che la conoscenza teorica. La teoria tratta le generalità, mentre l’arte ha a che fare con i particolari.

            La pratica medica deve utilizzare un approccio individualizzato poiché il modo generale di pensare del paziente può influenzare lo sviluppo della sua malattia, ed anche l’ampiezza della sua cooperazione con il medico. L’individualità del paziente può “colorare” la malattia, così da differenziare la polmonite di Paul da quella di Peter, anche se entrambi soffrono della stessa infermità. D’altra parte, l’individualità del paziente può giocare un ruolo minore quando la domanda è se operare oppure no, e la scelta delle procedure terapeutiche è abbastanza indipendente dalla personalità del paziente.



Individualizzazione in psichiatria


E’ ovvio che la risposta di una persona alla malattia dipenda largamente dalla sua disposizione generale; può rivoltarsi, può riconciliarsi, può anche ben accettare di essere un invalido e, perciò, essere “in congedo”. Si osserva così che i cambiamenti più consistenti del comportamento avvengono con maggiore probabilità quando la malattia della persona è di un tipo che riguarda tutta la persona piuttosto che solamente, ad esempio, una gamba rotta. Anche una leggera infezione come il raffreddore può cambiare la concezione della persona. Ci sono persone a cui dovrebbe essere vietato di prendere decisioni mentre hanno un raffreddore o la febbre. Altri manterranno una distanza tra se stessi e le loro malattie e di conseguenza saranno meno colpiti nelle loro relazioni con gli altri e con il mondo in generale. Ad essere precisi, la nevrosi è un disturbo minore di quanto non sia una forma particolare di atteggiamento verso la realtà o - per usare un’espressione preferita oggigiorno – verso l’esistenza. A causa della natura sia del disturbo nevrotico che delle procedure curative note come psicoterapia, l’individualizzazione è molto più importante in questi casi che in altre branche della medicina.

            Ogni trattamento mira alla restaurazione della salute, e la salute è uno stato dell’intero uomo. Quando il medico tratta una funzione disturbata, egli si rivolge, in realtà, all’individuo nella sua interezza. Ma il suo punto d’inizio è solo una parte del tutto. Sebbene abbia sempre a che fare con una persona malata e non solo con un organo malato, il trattamento medico abitualmente procede dal sintomo o dal disturbo, da un punto periferico, verso l’obiettivo ultimo di restaurare la normalità all’intero essere umano.

            La procedura della psicoterapia è fondamentalmente differente dalle procedure di tutte le altre branche della medicina. [10][10] Lo psichiatra non tratta il cuore del nevrotico, e non si aspetta di restaurare la normalità riportando il cuore ad un funzionamento normale. Si aspetta che il normale funzionamento del cuore si ristabilirà quando la personalità intera dell’individuo diventerà normale. Così, la psicoterapia procede dall’interno, dal centro dell’essere di una persona verso le manifestazioni periferiche.

            E’ qui che i fattori materiali discussi precedentemente richiedono una considerazione, perché la totalità dell’essere di una persona non può essere descritta e compresa in termini puramente formali. Sapere cosa pensi una persona, cosa lo preoccupi, come stiano le cose per lui, è importante per un’adeguata comprensione del suo essere tanto quanto sapere che è facile ad adirarsi, che è attaccato da incomprensibili cambiamenti di umore, o che non può spostare prontamente la sua attenzione da un soggetto ad un altro. Se vogliamo comprendere una persona, dobbiamo essere familiari con le sue opinioni verso se stesso, verso le cose in generale, e verso i suoi amici uomini.

            Frequentemente si incontra l’affermazione che ciò che si richiede sia una “analisi oggettiva” della situazione di un uomo, implicando che tutti i dettagli della sua situazione debbano essere opportunamente studiati ed elencati. Anche così, la descrizione che ne risulta può essere fuorviante. Potrebbero esserci delle caratteristiche nella situazione che sembrino abbastanza eccezionali all’osservatore ma che abitualmente sono irrilevanti poiché il soggetto non le considera; esse semplicemente non esistono per lui e di conseguenza non giocano alcun ruolo nella sua vita. D’altro lato, le caratteristiche che sembrano insignificanti all’osservatore possono avere una grande importanza per il soggetto, che le vede da un punto di vista differente. La situazione che influenza un uomo ed a cui risponde non è quella rivelata da un’analisi oggettiva ma quella che lui stesso vede, e noi non lo comprenderemo fin tanto che non potremo vedere le cose a suo modo. [11][11]



Casi contro persone


            La scienza non si abbassa mai fino all’individuo ma si muove inevitabilmente al livello delle generalità. Un approccio che tenga pienamente conto dell’individualità non è più scientifico, sebbene sfrutti tutto l’aiuto che la scienza possa fornire. Fondamentalmente, un approccio simile dovrebbe chiamarsi storico. Lo si intravvede nel termine tecnico “storia del caso”, ad eccezione del fatto che non si ha a che fare con la storia di un caso ma di una persona. Per ripetere l’affermazione che avevo proferito molti anni fa: Quando il medico lascia il laboratorio e si avvicina al letto di un paziente, egli passa da un approccio puramente scientifico ad uno storico; egli affronta non semplicemente un caso ma una persona. [12][12]

E’ interessante che le storie dei casi pubblicate dagli psichiatri si leggano in modo molto differente da quelle pubblicate nei giornali e nei trattati medici. E’ già stato detto, non senza ragioni, che le storie dei casi scritte dai discepoli di Freud o di Jung assomigliano ai romanzi moderni, mentre quelle dei seguaci di Adler sono simili a racconti morali. In ogni caso, essi sono certamente molto più simili a biografie che a qualcos’altro. Questo è solo un punto superficiale, ma indica una differenza significativa tra la psicoterapia ed altri tipi di trattamento. In ogni caso, agli uomini delle varie scuole di psicoterapia ha richiesto anni realizzare che né i principi della medicina né quelli della psicologia del senso comune sono sufficienti a far fronte ai problemi incontrati nella psicoterapia.

            L’intento originario di Breuer e di Freud apparentemente comportò una certa riflessione sul fatto che i problemi che stavano studiano richiedevano un altro approccio rispetto a quello della medicina scientifica. Essi ovviamente videro che il loro problema consisteva nell’integrare la vita e l’esperienza di una persona, da una parte, e la nevrosi, dall’altra. L’improvviso allontanamento da un punto di vista strettamente medico e scientifico potrebbe essere stata una ragione del perché la psicoanalisi fu inizialmente rifiutata come non scientifica. I discepoli di Freud hanno sottolineato che in anni recenti la critica è stata capovolta, e la psicoanalisi è ora criticata per essere troppo scientifica. L’osservazione è giustificata, ma non prova, come è stato affermato, che il contrasto alle teorie di Freud si basasse non su basi razionali, sperimentali o oggettive ma sulla “resistenza” di coloro che non accettano la teoria perché essi non hanno personalmente provato l’esperienza della psicoanalisi. Prima di tutto, tra i critici ci sono alcuni che sono passati attraverso un’analisi e che una volta erano freudiani ortodossi. Secondariamente, la psicoanalisi non si è sviluppata secondo il piano implicito contenuto negli Studi sull’isteria del 1895, ma, al contrario, si è mossa per diventare più scientifica possibile e per parlare il linguaggio della scienza. Dunque, questa tendenza era presente dall’inizio: Breuer e Freud alle loro notazioni preliminari danno il titolo significativo: “Sui meccanismi dei sintomi isterici”.

            Si può anche notare qui che, parzialmente a causa dell’influenza dello stesso pensiero di Freud su tutte le scienze sociali, e parzialmente a causa dei grandi cambiamenti nel clima intellettuale dell’Europa prima e soprattutto dalla Prima Guerra Mondiale in poi, i problemi non solo della psicoterapia ma di tutti gli studi dell’uomo sono apparsi sotto una nuova luce. Sarebbe al di là dello scopo di questo saggio cercare di riassumere seppur brevemente questi sviluppi intellettuali, ma deve essere ricordato che la situazione presente della psicoterapia è parte di questa grande storia delle idee.

            Gli psicoterapeuti stanno gradualmente realizzando che anche la vita di un paziente psicoanalitico include qualcosa di più rispetto ai sintomi. E’ comprensibile che le idee ed i problemi del nevrotico possano esser visti come una parte del suo stato generale ed anormale, specialmente quando essi differiscono marcatamente delle convinzioni proprie del medico ma questo è, di fatto, un ragionamento sbagliato. La verità di una affermazione non dipende dallo stato mentale di chi la fa. L’affermazione che due più due fa quattro rimane vera anche se la dice una persona mentalmente disturbata; e potrebbe accadere lo stesso per molte altre affermazioni. Inoltre, il fatto che un’affermazione non abbia senso per noi non prova che sia senza senso, poiché ogni mente ha i propri limiti. Siamo tutti imbrigliati in una rete di idee preconcette e così ostacolati dal riconoscere la verità, o anche la possibilità di farlo, dentro molte affermazioni che sono lontane dal nostro abituale sistema concettuale.

            Il tipo di mentalità che ha prevalso dall’illuminismo del diciottesimo secolo ed ha dominato la maggior parte del diciannovesimo secolo ha impedito il riconoscimento di molti problemi. Anche “oggi…gli psicologi scrivono con la schiettezza di Freud o Kinsey sulle passioni sessuali del genere umano, ma si vergognano e tacciono quando le passioni religiose diventano visibili”. [13][13] Nella misura in cui alcuni psicologi e psichiatri considerano la religione come un problema, essi la vedono come un sintomo. Essi cercano di trovare il perché una persona sia impegnata in tali questioni, il perché essi giochino un ruolo nella sua vita, e particolarmente quale sia “il retroterra” (la loro origine, in altre parole).



L’errore genetico


Sotto l’influenza della psicoanalisi, la psicologia e la psichiatria moderne sono diventate preda di ciò che in logica è noto come “l’errore genetico” – ossia, esse confondono la scoperta dell’origine con quella del significato. [14][14] Questo comporta due conseguenze, entrambe hanno ostacolato la comprensione delle nevrosi e lo sviluppo di una terapia efficace. La prima di queste conseguenze è la mancanza pressoché completa di descrizione o di fenomenologia. Le affermazioni dei pazienti vengono recepite per il loro valore formale, e nessuno si chiede se due persone che parlano di un sentimento di colpa, ad esempio, si riferiscano alla stessa cosa. E’ abbastanza possibile che non sia così. La seconda conseguenza è che le esperienze vengono considerate unicamente come manifestazioni dell’origine da cui si suppone che fossero derivate. Lo psichiatra può sentirsi soddisfatto quando, ad esempio, è stato in grado di tracciare una convinzione religiosa fino alla situazione edipica, o di interpretarla come una maschera della volontà di superiorità. Non percepisce alcun bisogno di indagare sul significato della convinzione nella vita del suo paziente, meno ancora del suo possibile valore di verità.

            Certamente, può essere caratteristico di una persona essere preoccupato per una specifica tipologia di problema, ma questo fatto non implica alcun giudizio sul problema in sé. [15][15] Dovrebbe essere ovvio che i problemi non sono semplici sintomi, e che essi devono essere giudicati sulla base della loro natura intrinseca. Ciononostante, molti psicologi medici credono ancora che sia improprio per loro, come psicologi, avere a che fare con questioni che hanno attinenza con la religione, la metafisica, o la visione generale del mondo dei loro pazienti, dal momento che tali questioni includono un elemento di giudizio di valore che fuoriesce dalla finalità di un trattamento strettamente scientifico. [16][16]

            E’ vero, certamente, che la scienza non deve e non può considerare i valori, e quindi, le motivazioni delle azioni individuali. Come disse H. Poincaré: “La scienza parla sempre al modo indicativo, mai all’imperativo”. Lo psichiatra, però, esprime una valutazione nel momento in cui parla di qualcuno come, ad esempio, “disadattato”. Il termine implica non solo che sia soggettivamente preferibile essere adattato, e così evitare la sofferenza, i conflitti, ed i disagio sociale, ma anche che è oggettivamente meglio che le persone siano adatte alle condizioni in cui si trovano ad esistere.

            Una volta che hanno piantato le radici, le idee non muoiono facilmente, e la persistenza dell’ideale del metodo scientifico è largamente dovuta a quella che si potrebbe chiamare inerzia culturale. Per un pensatore formato nella scienza e impregnato dell’idolatria della scienza del diciannovesimo secolo era naturale assumere che tutti i problemi, inclusi quelli dell’esistenza individuale dell’uomo, potessero e dovessero essere risolti dal metodo scientifico. La pretesa che la psicoterapia sia primariamente o anche esclusivamente scientifica, dunque, è nata dal pregiudizio e non si è imposta dai fatti. Essa toglie allo psicoterapeuta ogni possibilità di vedere le idee ed i problemi del suo paziente eccetto che come sintomi, o come irrilevanti per il momento psicoterapeutico. Quando ci si ferma nel comprendere che le idee e gli atteggiamenti non sono semplici sovrastrutture ma agenti potenti, questa posizione diviene praticamente indifendibile. Non solo il particolare, il singolare, al di là della comprensione della metodologia scientifica, ma gli aspetti più importanti dell’esistenza umana, le credenze dell’uomo, i suoi ideali, le sue motivazioni ultime, tutto appartiene al regno della realtà con cui la scienza è incapace di avere a che fare.

            Il metodo scientifico procede con l’analisi e cerca di ridurre tutti i fenomeni ad alcuni elementi di base che si assume siano costanti ed immutabili, comparabili agli atomi di poco tempo fa. In psicologia questi elementi erano chiamati “idee” o “impressioni”, poi “sensazioni”, e più recentemente “istinti”. La metodologia della scienza richiede che questi elementi di base e le leggi che governano la loro combinazione siano sufficienti come principi di spiegazione. Il mondo è ricostruito mettendo assieme ciò che l’analisi ha separato. Ma questo implica che può essere integrato solo quello che l’analisi è stata in grado di districare da tutto il complesso dell’esperienza immediata. Dal momento che gli elementi sono concepiti necessariamente come esseri semplici e, quindi, al vertice della scala dell’essere, la visione che ne risulta è quella che vede le cose “dal basso”. [17][17]



3. Il contributo del pensiero esistenzialista


L’evolvere della psicoterapia verso il riconoscimento progressivo di questi problemi è parallelo ad uno sviluppo simile in filosofia che è giunto ad esser noto con il titolo di “esistenzialismo”. [18][18] In anni recenti un certo numero di scrittori credevano che un progresso reale nella comprensione e nel trattamento della malattia mentale potesse essere raggiunto se la psichiatria si fosse dotata dell’approccio esistenzialista.

            Tra i filosofi, J. P. Sartre ha scritto di una “psicoanalisi esistenziale”, [19][19] un termine che implica che la psicoanalisi dovrebbe considerare il punto di vista esistenziale. Ci sono anche alcuni riferimenti incidentali ai problemi psichiatrici negli scritti di Gabriel Marcel. [20] [20] Tra gli psichiatri, L. Binswanger è stato probabilmente il primo a studiare i problemi della psicoterapia alla luce della filosofia di M. Heidegger, [21][21] uno scrittore che ha influenzato diversi psichiatri contemporanei. Seguendo la terminologia di Heidegger, Binswanger parla di Daseinsanalyse, un termine difficile da tradurre poiché Dasein significa non semplicemente “esistenza” ma il tipo di esistenza propria dell’uomo. Binswanger sembra credere che qualcosa come un’analisi dell’esistenza sia possibile. Dal 1934 V. E. Frankl ha sostenuto un approccio con un nome simile, Existenzanalyse, ma egli non cerca di analizzare l’esistenza bensì di immaginare una forma “esistenziale” di vita come l’obiettivo della psicoterapia. [22][22]. I. Caruso propone la “psicoanalisi dell’esistenza”, come il suo pupillo, W. Daim. [23][23] Bisogna essere attenti dal non confondersi per via di questi termini molto simili, perché le idee che essi rappresentano sono abbastanza diverse. Ci si può chiedere se alcuni di questi termini, ad esempio “psicoanalisi dell’esistenza” e “sintesi dell’esistenza”, possano essere usati in modo totalmente significativo. Il lassismo delle espressioni conduce all’inesattezza del pensiero.



Una questione di metafora


Una trappola ancor più pericolosa è quella della metafora. E’ troppo facile dimenticare che la maggior parte dei termini utilizzati nella psicologia e nella psichiatria sono metafore e non indicano direttamente la natura di ciò che riferiscono. A causa dell’uso frequente essi iniziano ad essere considerati come denotazioni della realtà. Così è abituale riferirsi a certe scuole di psicoterapia con il nome comune di “psicologia del profondo” e parlare di “profondità” o di “strati” della mente umana. Questa sembra essere una metafora naturale, dal momento che il linguaggio comune include espressioni come “mosso profondamente”, stato “superficiale”, ed altre. Però non è una metafora comune a tutti i linguaggi; gli antichi Greci, ad esempio, definivano una emozione “profonda” come “pesante”. Nonostante ciò che la metafora della profondità può suggerire, essa rimane una metafora, e non si è autorizzati a parlare degli “strati” della mente come di una realtà.

            Né il linguaggio né l’immaginazione possiedono strumenti adeguati per riferire gli oggetti ideali o mentali, e l’utilizzo della metafora è inevitabile. Ciononostante, è fuorviante dire, così come viene regolarmente ripetuto, che Freud “ha scoperto” l’inconscio, o la repressione, o la regressione, o qualsiasi altra cosa. In realtà, Freud fece determinate osservazioni la cui novità ed originalità nessuno vuole contestare, ed egli inventò alcuni nomi, ossia, metafore, come modalità convenienti per riferirsi a queste scoperte. Allo stesso modo, nessuno ha mai osservato un istinto; il termine è un’etichetta utile ed una spiegazione ipotetica per una tipologia definita di comportamento osservato con regolarità in alcune specie animali. [24][24]

            Se si ricorda il carattere metaforico della terminologia psicologica, e si realizza anche che la filosofia deve dipendere dalla terminologia metaforica, [25][25] col tempo si noterà una conferma della coincidenza dei termini utilizzati nei due campi. Una filosofia che ha derivato la sua terminologia principalmente dalla fisica e dalla meccanica, ad esempio, sembrerà simile alle scoperte di uno psichiatra che utilizza le stesse metafore. Può darsi, però, che tutto quello che i due hanno in comune sia la terminologia, ed è anche possibile che entrambi abbiano scelto delle metafore che potrebbero essere sostituite da altre più adatte nel rapporto con i fatti. Così una riflessione attenta e minuziosa sulle metafore e, quindi, su tutti i termini diventa necessaria. Uno studio degli scritti chiamati “esistenzialisti”, ad esempio, conduce alla conclusione che il vero termine “esistenza” significa cose differenti per differenti pensatori, e che non possiamo prendere in prestito un’affermazione sull’esistenza da uno scrittore, ed una seconda affermazione da un altro, senza appurare quali siano le loro rispettive posizioni.

            Una volta che siano state annotate queste qualificazioni, però, non c’è dubbio che il movimento esistenzialista abbia portato alla ribalta dei problemi d’estremo interesse per gli psicologi e, forse ancor di più, per gli psichiatri. I filosofi non sono psicologi, ma quello che hanno da dire è spesso estremamente utile allo psicologo, e questo movimento moderno di filosofia è certamente più vicino alla realtà umana di quanto fossero molti filosofi del passato. Al di là delle loro differenze, tutti i filosofi esistenzialisti mostrano un interesse comune per l’essere della persona individuale, nella situazione concreta della sua vita. Dal momento che l’essere, o la sua manifestazione, è codeterminata dalla situazione, che a sua volta deve essere vista così come viene sperimentata piuttosto che come essa viene oggettivamente data, sembra che il capovolgimento dell’affermazione di Fichte sia giustificato – che il tipo di uomo che uno è dipende dalla sua filosofia o posizione nei confronti del mondo.



Essere-in-un-mondo


La nozione fondamentale di Heidegger è che un uomo esiste inevitabilmente, in virtù del suo vero essere, in un mondo. Essere in un mondo è un fattore costitutivo dell’esistenza dell’uomo. Ma questo mondo assume un aspetto nuovo ogni volta che viene osservato da un’altra persona. I problemi da affrontare non sono quelli dell’ontologia, che considererebbe l’essere dell’uomo in generale ed il suo mondo in generale; i problemi riguardano “le forme che accadono concretamente e le configurazioni degli esistenti”. [26][26] L’importanza di questo approccio per la psicoterapia è scontato. A causa di questo punto di vista, gli esistenzialisti bollano le altre filosofie come “essenzialiste” – ossia, che trattano la natura generica o l’essenza dell’uomo. L’analisi esistenziale (un termine che dovrebbe essere preferito ad “analisi dell’esistenza”) non cerca di scoprire le relazioni causali o l’origine di questo o di quell’altro fenomeno; essa cerca “la connessione spirituale (geistig) tra i contenuti dell’esperienza”. [27][27]

            Sebbene questa formulazione dell’essere in un mondo sia peculiare di Heidegger, ed egli enfatizzi in modo particolare questo aspetto dell’esistenza umana, la preoccupazione per l’ego verso il non ego è centrale in tutte le filosofie esistenzialiste. [28][28] Quando un uomo incontra il mondo, o il suo mondo, è costretto dalle dinamiche del suo essere a cercare un’interpretazione di cosa incontra. E si noti ancora una volta che la verità o la falsità di tali interpretazioni, l’adeguatezza o l’inadeguatezza, non dipendono dal modo in cui un uomo giunge ad esse. Tutta l’analisi genetica è completamente senza potere nei confronti delle domande reali circa la vita, la sua importanza, il posto dell’uomo nell’ordine delle cose, ed il suo destino ultimo. Così le nuove idee enfatizzano l’importanza di quei problemi che la psicoterapia dell’ultimo mezzo secolo ha trascurato o trattato come semplici sintomi. Sebbene le due nuove scuole viennesi, quella di V. E. Frankl e di I. Caruso, non debbano essere confuse, entrambe parlano di esistenza e sottolineano l’importanza della religione per la vita umana e per la restaurazione di relazioni soddisfacenti tra l’individuo e la realtà.

            Ci si può chiedere perché non si faccia menzione qui delle idee di C. C. Jung. Lo psichiatra svizzero è stato spesso giudicato come uno che, andando al di là degli insegnamenti del suo maestro Freud, ha compiuto una ricognizione completa sul ruolo che la religione gioca e deve giocare nella vita umana. Un esame più preciso rivela, però, che la posizione di Jung differisce considerevolmente da quella delle scuole viennesi e certamente da quella di ogni persona veramente religiosa. Lui non è interessato al vero valore della religione o alle domande metafisiche coinvolte. Nella “psicologia complessa” di Jung Dio non è una realtà trascendente di cui l’uomo può raggiungere una qualche conoscenza per mezzo della ragione naturale, ma piuttosto un “archetipo” o una esternalizzazione di una tendenza di base interno alla natura umana. [29][29] Le idee di Dio, della giustizia divina, di una vita futura, e ogni altro principio della religione è visto non come una espressione della realtà ma come l’equivalente di un bisogno soggettivo. Jung non è andato oltre il soggettivismo così eminentemente caratteristico della mentalità del diciannovesimo secolo.



Simboli e soggettivismo


Questo soggettivismo è evidente nell’intera teoria degli archetipi di Jung. Egli ha osservato – una osservazione molto interessante ed importante, certamente – che alcune raffigurazioni, di ovvia natura simbolica [30][30], siano presenti in civiltà abbastanza differenti e siano anche prodotte nei disegni spontanei di persone che non sanno nulla di antropologia culturale o di religione. Secondo il suo modo di pensare, l’unica possibile spiegazione è che queste immagini risiedano in qualche modo, nascoste alla consapevolezza ordinaria, nella mente di ogni uomo; esse sono archetipi non della realtà ma di operazioni mentali. Non gli viene in mente che sia possibile spiegare, e probabilmente con una ragione migliore, il ritorno periodico dei simboli come il risultato di fattori oggettivi piuttosto che soggettivi.

            Potrebbe essere di aiuto considerare alcune idee simili che giocano un ruolo principale nella teoria psicoanalitica, quelle di “regressione”, e di pensiero “arcaico” e “magico”. Freud credeva in un preciso parallelismo tra lo sviluppo della mente individuale e della mente dell’umanità così come si manifestava nella storia delle civiltà. Egli applicava qui la cosiddetta “legge dell’ontogenesi” formulata da E. Haeckel, che sosteneva che lo sviluppo dell’organismo individuale ricapitolava, in un modo abbreviato, lo sviluppo della razza. Ora, anche se si assumesse che la legge di Haeckel sia valida, questo non avrebbe necessariamente giustificato la sua applicazione da parte di Freud, poiché c’è un’enorme differenza tra la storia della razza e lo sviluppo della civiltà. La prima include l’azione di forze naturali lungo numerosi periodi geologici, mentre la seconda ha a che vedere con l’attività propria dell’uomo durante un periodo relativamente breve. [31][31] L’applicazione di Freud appare concepibile grazie all’utilizzo metaforico del termine “sviluppo”, che esprime la sua credenza fondamentale secondo cui tutte le operazioni umane devono essere della stessa natura di quelle delle forze dell’universo fisico. Diversi fatti sono stati utilizzati per supportare questa teoria, anche se essi non l’hanno dimostrata. [32][32]

            La teoria di Freud sembra essere confermata dagli scritti di L. Lévy-Bruhl, pubblicati nel 1910. [33][33] Secondo questo autore, la mente dei primitivi funziona in modo differente da quella dell’uomo civilizzato. Egli sostiene che il principio di non contraddizione non è presente nel pensiero primitivo, che è dominato dalla “legge di partecipazione”; è “pensiero magico” e “pre-logico”. Severamente criticato sia dagli antropologi culturali che dagli psicologi, Lévy-Bruhl ha gradualmente moderato le sue affermazioni più estreme, ed alla fine della sua vita ha composto un libro che avrebbe completamente ritrattato la sua visione precedente. [34][34] Egli ha ammesso francamente che il pensiero “pre-logico” non esiste; che i principi che governano il pensiero dei primitivi sono gli stessi dei nostri; che l’intera idea di uno sviluppo nel modo di pensare dal magico al realistico fino allo scientifico era un costrutto fittizio.

            Questa ritrattazione fallì nel convincere gli psicoanalisti, e quegli psichiatri che avevano seguito la loro guida. [35][35] Essi aderiscono ancora alla nozione di pensiero arcaico come unica possibile spiegazione per le somiglianze osservate nel pensiero dei primitivi, dei bambini, e degli schizofrenici. Questa spiegazione si basa sul concetto di regressione ed assume che, sull’impatto della malattia mentale o di uno shock sofferto nell’incontrare una realtà con cui l’individuo non può avere a che fare, la mente si ritrae in uno stadio più primitivo, uno che ha già attraversato, individualmente, nello sviluppo dall’infanzia all’adultità, e da un punto di vista della razza, nel progresso da una civilizzazione primitiva ad una avanzata. A causa del predominio della mentalità soggettivistica, questa è sembrata essere l’unica possibile spiegazione.

            Una volta che il soggettivismo viene abbandonato e l’idea di essere nel-mondo viene presa sul serio, un altro approccio diventa possibile. Ovviamente la natura umana non è cambiata fondamentalmente dai primordi. [36][36] Gli uomini rispondono a situazioni simili in modo simile; se non lo fanno, non possiamo comprendere né i nostri colleghi uomini né la storia. Non è richiesta nessuna analisi particolarmente approfondita per realizzare che i primitivi, i bambini, e gli schizofrenici vivono tutti in mondi simili: essi sono gettati in un mondo che ampiamente ignorano, costretti ad affrontare eventi strani, inesplicabili ed impredicibili, esposti a pericoli che essi non possono prevedere, e vittime di forze che non possono controllare. E’ certamente comprensibile che le loro risposte siano più o meno le stesse.

            Lo stesso approccio può essere utilizzato per comprendere la ricorrenza dei simboli che Jung ha cercato di spiegare. E’ immaginabile che alcuni dati comuni di esperienza e certe forme e figure che giungono prontamente in mente siano, per la loro stessa natura, simboli; essi rivelano un “mondo di significato”. In altre parole, i simboli non sono tanto creati quanto piuttosto scoperti. I fenomeni naturali e gli artefatti possono provare entrambi di essere simbolici in se stessi. Uno dei simboli più comuni è la ruota, ed un altro è la porta. Entrambi sono artefatti e non sono certamente stati inventati come simboli.



Religione e neutralità scientifica


Quando il soggettivismo verrà abbandonato, la psicoterapia dovrà seriamente impegnarsi con i segni oggettivi degli stati soggettivi, poiché questi stati sembrano essere le risposte dell’individuo al mondo come egli lo percepisce. Questioni metafisiche e religiose non possono essere viste semplicemente come sintomi. Non si conoscono abbastanza, (se è possibile conoscerli) quali fattori determinino l’interesse di un uomo verso tali problematiche; le problematiche stesse devono essere comprese. E neppure è sufficiente introdurre un “istinto religioso” tra gli altri istinti, poiché una tale nozione ipotetica, ed altamente discutibile, non ci porta assolutamente più vicini al problema. [37][37] Un istinto, come sembra, è una tendenza innata che abilita l’organismo ad affrontare alcuni aspetti della realtà o a funzionare in alcune situazioni concrete che sopraggiungono nella vita delle specie. Parlare di un istinto religioso, se il termine ha del tutto un senso, implica che tali questioni formino parte della realtà. Naturalmente, non è certamente intenzione degli psicologi soggettivisti ammettere questo.

            Comunque possa essere interpretata la religione, il riconoscere che la psicoterapia deve avere a che fare con tali materie solleva problemi seri. Il terapeuta non può più affidarsi ad una semplice tecnica e mantenere il distacco che ha affermato come un suo diritto e, quindi, come la condizione necessaria della sua attività; inevitabilmente, egli viene personalmente coinvolto. Se crede, in un modo o in un altro, in una realtà trascendente o soprannaturale, allora può intenzionalmente o non intenzionalmente tentare di persuadere il suo paziente ad adottare la sua visione. Infatti, questo accade facilmente e non in modo infrequente anche a quegli psicologi che credono di essere “neutrali” e non sono portatori del tutto di tali credenze. Sulla questione delle visioni del mondo filosofiche o religiose, nessuna neutralità è possibile. Quella che spesso è chiamata neutralità è un tipo di tolleranza per le convinzioni che sono percepite essere arbitrarie o superstiziose o incompatibili con la scienza e la ragione. Ma anche l’indifferenza tollerante e lo scetticismo sono convinzioni di un certo tipo, e la persona più tollerante può involontariamente influenzare un altro modo di pensare, specialmente all’interno della relazione particolare che si sviluppa nella psicoterapia. Solo una semplice domanda da parte dello psichiatra – “E’ questo quello che crede?” – può essere sufficiente per rendere il paziente incerto delle sue convinzioni, e così può diventare la fonte di conflitti a volte più seri di quelli per i quali ha chiesto aiuto con la psicoterapia.

            Non può essere il compito dello psicoterapeuta “convertire” il suo paziente. Per quanto forte siano le sue convinzioni e per quanto buone siano le sue ragioni, esse non hanno posto nella situazione psicoterapeutica. Se qualche convinzione di natura più o meno religiosa risulti necessaria per il ritorno del paziente alla normalità ed ad una soddisfacente forma di esistenza, bisogna trovare una formula veramente neutrale che sia indipendente dalle convinzioni dello psichiatra ed allo stesso modo del paziente, cioè, una definizione dei requisiti minimi da rispettare.

            Alcune persone, con convinzioni religiose forti e ben definite, sentono che limitarsi a tali requisiti minimi sarebbe un compromesso improprio. Qualcosa di meno che la verità intera, così come essi la percepiscono, appare quasi equivalente alla falsità, perché se si conosce la verità, si ha l’obbligo di proclamarla. Per quanto comprensibile questa visione possa essere, essa è sia infondata nella teoria che indifendibile nella pratica. Queste persone troppo zelanti dovrebbero riflettere bene sulle parole di San Paolo circa il latte che deve essere dato ai bambini ed il cibo solido appropriato agli adulti. I requisiti minimi dovrebbero essere tali da essere accettati da chiunque, qualunque sia il suo percorso religioso, qualunque siano le sue attitudini ed i suoi pregiudizi.



Aperto dall’alto


“Per molte persone un senso di affiliazione cosmica è necessario. L’amore romantico è necessario per far sì che la vita sembri completa, intelligibile, e giusta” [38][38] Infatti, l’esistenza dell’uomo non è pienamente descritta dalla formula di Heidegger come essere nel mondo, poiché questo mondo e l’esistenza dell’uomo sono, per così dire, aperte dall’alto. Esse richiedono un qualche completamento. Non è possibile dimostrare con la forza di una formula chimica o di una equazione matematica – i principi della cristianità. Ancora meno una scienza non teologica può far fronte a quella “affiliazione cosmica”, più o meno definita, che Allport postula. Ma la ragione, quando non è frenata da troppi pregiudizi, può e frequentemente porta le persone verso la scoperta della verità teologica.

            L’ostacolo più potente alla riflessione sulla religione è la paura di non essere sufficientemente moderni, avanzati, o al passo con la scienza. La mentalità cosiddetta progredita critica il fedele, e coloro che trovano senso nella speculazione metafisica, perché ospitano visioni “obsolete”. Questa mentalità progredita sembra essere completamente inconsapevole di essere semplicemente una ripetizione delle idee, piuttosto abusate, dell’Illuminismo del diciottesimo secolo. Lo studente di storia delle idee rimane qualche volta stupito della naiveté con cui vengono presentate come nuove le idee che, in realtà, sono state proposte da les philosophes e dai loro seguaci.

            Simile è la posizione di E. Fromm, che sostiene che la religione, specialmente quando rappresentata da una organizzazione ecclesiastica, è necessariamente “autoritaria” e, quindi, da rifiutare in favore dell’indipendenza e dell’autoresponsabilità della persona umana. [39][39] Fromm fallisce nel compiere due importanti distinzioni. Egli confonde un’accettazione volontaria e responsabile della fede con la sottomissione immatura di una mente sottosviluppata. Ed egli confonde l’autorità di ufficio con quella della verità. In realtà, quando si crede che una dottrina sia vera, ci si sottopone ad essa con la stessa necessità estrinseca che spinge ad accettare una proposizione matematica, anche se il consenso è di un tipo differente. Ma il “fedele” riconosce che certi principi dogmatici e morali sono in armonia con le esigenze della ragione e della coscienza in simultanea con il riconoscimento che la Chiesa insegnando e legiferando, in quanto ha la sua autorità in Dio, non può professare dottrine o imporre leggi che potrebbero essere irragionevoli o assurde. Il credente maturo accetta i principi della sua Fede con lo stesso assenso libero ed intelligente con cui accetta di obbedire alle leggi, e con la stessa giustificazione: la ragione divina di un potere divino. La verità rende l’uomo libero.

            Allo stesso modo, non si può dire che la coscienza sia un prodotto dell’autorità genitoriale, un residuo della condizione infantile che ancora grava l’individuo ed a cui obbedisce come una volta ha obbedito ai suoi genitori [40][40]. Questo è il caso in cui la generalizzazione delle osservazioni delle personalità anormali (come avviene nella psicologia contemporanea) prova l’esistenza di un ostacolo alla comprensione adeguata del fenomeno in questione. La prassi, che suppone che le caratteristiche osservate nelle personalità anormali siano comuni ad ogni uomo, si basa ultimamente sull’idea che i fenomeni come la coscienza siano senza alcuna realtà oggettiva e debbano essere guardati come sintomi di qualcos’altro.



I simboli non sono sintomi


Questo viene spesso trascurato poiché le discussioni di tali questioni sono svolte piuttosto in termini di simboli più che di sintomi. Ora c’è una grande differenza tra i due: il sintomo è causato da un problema sottostante, ma il simbolo non deve la sua esistenza a quello che simboleggia. Freud, però, pensava che un simbolo fosse un tipo di sintomo e così confondeva due relazioni totalmente differenti, quella di causa e quella di significato. [41][41] Un sintomo indica e permette la scoperta di un problema delimitato; un simbolo si riferisce ad un contesto di significato che diventa manifesto, sebbene non in modo perfettamente chiaro, al soggetto.

            L’avventata identificazione di sintomo e simbolo è una delle caratteristiche della psicoanalisi che i lavori recenti cercano di eliminare. Binswanger con la sua nozione di Daseinsanalyse, Sartre quando parla di psychanalyse existentielle, Frankl nel tentativo di completare la psicoterapia con una “logoterapia”, Caruso con la sua idea di analisi dell’esistenza – tutto realizza che non si abbia semplicemente a che fare con sintomi simbolici ma con la manifestazione dell’essenza totale di una persona umana. [42][42] Sebbene il termine di Caruso “sintesi dell’esistenza” abbia una natura opinabile, poiché secondo la definizione è un tutto organico che non può essere messe assieme o sintetizzato da un insieme di elementi o parti, l’idea implica il riconoscimento che l’analisi non sia sufficiente, che l’interpretazione della vita umana implichi qualcosa in più rispetto alla rottura in relazioni tra fattori elementari come gli istinti di Freud.

            Tra le varie filosofie esistenzialiste ci sono differenze profonde che non possiamo considerare qui, ma tutte hanno in comune una preoccupazione seria per la comprensione dell’uomo come un individuo che vive nel mondo, e l’idea che le filosofie precedenti hanno fallito nel fornire significati adeguati per raggiungere una tale comprensione. [43][43] Nel corso del loro lavoro, le scuole esistenzialiste hanno accumulato un interessante quantità di materiale empirico. Il loro approccio non è né quello della psicologia erudita e praticata nei laboratori contemporanei né quella della psicologia medica così come è cresciuta dalle idee di Freud e di altri. E’ una psicologia “fenomenologica”, che tenta di descrivere precisamente cosa accada un uomo che vive in una determinata situazione. Riconosce che la situazione a cui un uomo risponde deve essere compresa così come appare a lui, attraverso la mediazione della sua posizione fondamentale verso la realtà. E realtà qui significa non semplicemente il contesto ma qualsiasi cosa fuori dall’io – l’intero universo di cose ed eventi, di istituzioni ed idee, di fatti e valori, inclusa la persona stessa.



IV. Verso una piena comprensione della condizione umana


Dalle recenti tendenze in filosofia da una parte, e da certe difficoltà inerenti la psicoterapia dall’altra, è scaturito un riconoscimento del ruolo giocato dalla visione del mondo della persona nella sua esistenza individuale. Le implicazioni di queste nuove conoscenze, quando riconosciute nel loro pieno significato, trasformeranno senza dubbio le idee odierne della psicoterapia. Le condizioni sia dello psicoterapeuta che del suo paziente appariranno sotto una nuova luce.

            L’approccio medico, analitico e scientifico che ha prevalso fino ad ora ha tentato di considerare tutti i problemi mentali, che fossero disturbi in senso stretto o conflitti, come qualcosa che “accade” all’individuo. Di conseguenza, il paziente è un oggetto totalmente passivo dell’opera terapeutica. Egli si aspetta di cooperare in qualche misura, ma fondamentalmente la cura “accade” a lui proprio come accade lo sviluppo della nevrosi. Oggi, tuttavia, non è “irrealistico pensare che un uomo sia capace di essere responsabile di se stesso”. [44][44] E’ possibile vedere la personalità di un uomo non semplicemente come il prodotto di disposizioni innate modellate da forze ambientali, ma come qualcosa che egli stesso ha realizzato e che, quindi, può anche trasformare. Sicuramente, le potenzialità di un individuo sono limitate dalla natura del suo essere, ma tra questi limiti c’è spazio per una grande varietà di sviluppi che dipendono per larga parte dalla scelta personale dell’uomo. La personalità non è data ma affidata all’uomo. [45][45] Il motto delle nuove scuole di psicoterapia potrebbe essere l’espressione pronunciata per primo da Pindaro, ripetuta da Plotino, e ripresa da Goethe: “Diventa ciò che sei”.



Ancora i requisiti minimi


In ogni caso, se un uomo può essere una persona in virtù della sua unicità, partecipa della natura umana e condivide con gli altri la condizione umana. Dunque sorge la domanda se possa esserci qualche schema della personalità umana e della condotta umana secondo cui l’uomo dovrebbe muoversi se vuole evitare conflitti seri con se stesso e con il mondo attorno a sé. Torniamo alla questione dei requisiti minimi [46][46] – una questione che è così complessa e coinvolge così tante problematiche che anche abbozzare e suggerire, non una risposta ma un modo per cercare una risposta, risulta molto difficile. Mentre è certamente vero che un “giusto stile di vita” può prevenire conflitti e nevrosi, è molto più difficile dire in cosa consista tale stile. [47][47]

            Il termine “requisito minimo” può essere preso per indicare due cose che sono collegate ma ciononostante distinte. Può indicare, per primo, i requisiti minimi dell’uomo per la sussistenza. Come ci sono condizioni fisiche che devono verificarsi affinché la vita sia preservata, ed altre condizioni, prima che la vita meriti di esser chiamata umana, così ci sono altri tipi di condizioni che devono verificarsi prima che un uomo possa vivere senza il peso eccessivo dei conflitti e dell’insoddisfazione. I sociologi e gli psicologi hanno definito “bisogni di base” la mancanza di appagamento che porta la vita dell’uomo al di sotto del livello minimo, ma questi bisogni di base non possono essere definiti in termini biologici. Georg Simmel ha sottolineato che la vita richiede non solo più vita ma più che vita; e Ortéga y Gasset ha evidenziato che la soddisfazione dei bisogni vitali non è sufficiente a rendere la vita una vita umana. [48][48] Inoltre, cosa sia necessario oltre l’appagamento dei bisogni strettamente vitali varia considerevolmente a seconda degli individui, delle civiltà, e delle circostanze sociali. Un tentativo di definire i requisiti minimi in questo senso più elementare incontra grandi difficoltà.

            Secondariamente, il termine “requisiti minimi” può riferirsi non alle richieste che l’uomo fa al mondo, ma alle richieste che il mondo fa a lui. Sorge qui un problema molto serio, perché è abituale includere i vari problemi ed i conflitti che formano una nevrosi sotto il concetto generico di inadattabilità, e quindi a considerare il compito dello psicoterapeuta come quello di ricostituire l’adattamento dell’individuo alla sua situazione. Questo approccio fallisce nel considerare la questione se l’adattamento a condizioni generali sia sempre eguagliabile alla normalità e se sempre eliminerà i disturbi e comporterà una maggiore capacità di attività e di piacere.



Adattamento – a che cosa?


Infatti, è abbastanza possibile che le condizioni a cui una persona si aspetta di adattarsi siano tali che la conformità causerà problemi maggiori di quelli del non adattamento. E non mi sto riferendo qui a condizioni così estreme ed inusuali come fare delle richieste al di là dei limiti della tolleranza umana. Per quanto possa sembrare paradossale, può essere normale, o almeno salutare, per un individuo rispondere in modo anormale a situazioni altamente anormali. Essere adatto o tentare di raggiungere l’adattamento a certe condizioni può essere più dannoso che utile nel tentativo di calcolare una forma tollerabile di esistenza.  L’uomo moderno qualche volta si scopre forzato a vivere in un certo gruppo e a conformarsi con gli schemi del gruppo. Se rifiuta di conformarsi, sarà ostracizzato. Così lo schema del gruppo può essere contrario alle tendenze più profonde del suo essere, e la conformità può agire delle richieste su di lui che presto o tardi diventeranno intollerabili e causeranno seri conflitti in lui. Per una persona simile, nessuna strategia d’azione può assicurare una forma normale di esistenza.

            Si possono chiamare sfortunati questi sviluppi; ciononostante essi sono reali, e nessun individuo può cambiarli. Uno psichiatra può credere fermamente nel bisogno di ogni individuo di essere totalmente se stesso nei limiti del possibile e può realizzare che la camicia di forza di uno schema di gruppo minacci di soffocare il vero essere del suo paziente. Il paziente può vedere con chiarezza che la maggior parte dei suoi conflitti scomparirà dentro circostanze differenti. E non può fare nulla circa la situazione. E’ un fatto che troppe persone si scoprono prigioniere in situazioni da cui non sono in grado di liberarsi. [49][49] Così è pressoché impossibile definire i requisiti minimi poiché essi non garantirebbero ancora una forma soddisfacente di esistenza in cui le condizioni esterne sono di ostacolo. In più, gli individui sono diversi, ed una situazione che è tollerabile per una persona può essere percepita da un’altra come al di là dei limiti di tolleranza. Alcune persone trovano delle compensazioni per un’esistenza insoddisfacente in una intensa vita religiosa, o in svaghi intellettuali, o in una attività artistica; altri non hanno tali risorse.

            Lo scontento causato dal vuoto e dalla meccanizzazione della vita moderna [50][50] ha destato l’esigenza all’uomo di avere l’opportunità di “esprimere se stesso”. E’ certamente vero che l’auto-espressione è di qualche aiuto, ma non è sufficiente, specialmente in un lungo periodo di tempo. Affinché l’auto-espressione sia significativa, deve esserci qualcosa nel sé che chiede e merita di essere espresso. L’espressione di un sé vuoto non è altro che un gesto vuoto. Quando un uomo chiede realmente, quando reclama un’auto-espressione, c’è qualcos’altro. Il problema reale è che la sua vita è priva di significato e lui è incapace di un’azione creativa. La conseguenza di questa situazione tragica è che l’uomo è sempre più preoccupato di ricevere, e sempre meno di dare. Il vuoto, così sembra, deve essere riempito; quindi, l’uomo diventa sempre più esigente ed è ossessionato dalla paura di non ottenere abbastanza.

            Si potrebbe procedere senza fine nel descrivere la sfortunata confusione in cui l’uomo moderno ha permesso a se stesso di essere caduto, ma anche questa breve discussione è sufficiente ad indicare che soluzioni semplici e semplici formule sono irrealizzabili. Inoltre, il problema è più difficile da quando sotto le condizioni livellate dell’esistenza moderna l’uomo non cessa di essere un individuo nel senso più stretto del termine. Allo stesso tempo, è vero che l’unicità di un essere umano è sempre più oscurata quanto meno egli è se stesso e, quindi, quanto più è lontano dalla normalità. Ogni anormalità è in un certo senso una diminuzione o un difetto, e quindi è distruttiva dell’individualità. Più un uomo diventa anormale, più sarà “un tipo vero”, e gli idioti ed i dementi conserveranno poca individualità come esseri umani. Uno studio dell’uomo che parta dalle persone anormali è, quindi, sempre esposto al pericolo di trascurare aspetti essenziali dell’essere dell’uomo. [51][51]

            Qualsiasi siano le circostanze dell’esistenza umana, sembra che sia possibile raggiungere una comprensione della sua natura sufficiente per stabilire certe condizioni come necessarie per il raggiungimento di una esistenza normale e soddisfacente. Tuttavia, non dobbiamo deludere noi stessi nel credere che la completezza delle condizioni necessarie assicurerà il successo. Senza di esse, l’obiettivo non può essere raggiunto, ma con esse si può ancora fallire.

            Per la realizzazione di una visione del mondo che tenga conto dell’essere nella sua totalità, è evidente che la condizione fondamentale sia l’accettazione del posto dell’uomo nell’ordine dell’essere, la posizione che Gabriel Marcel ha appropriatamente definito “umiltà ontologica”. [52][52] Nella concezione di Heidegger di essere nel mondo come caratteristica fondamentale della statura dell’uomo è implicato qualcosa di simile, ma non è sviluppato come in Marcel. Abbiamo visto che le idee di Heidegger hanno esercitato un influsso consistente sugli psichiatri i cui approcci sono comunque differenti come quelli di Binswanger, Frankl, e Caruso. D’altra parte le concezioni di Marcel – che dovrebbero essere di grande interesse per gli psichiatri cristiani – hanno attratto ben poca attenzione. Ci sono nei lavori di Marcel molte visioni ed osservazioni che la psicoterapia potrebbe utilizzare. [53][53]

            Né Heidegger né Marcel si focalizzano specificatamente sui problemi della psichiatria, ma J. P. Sartre ha dedicato un capitolo della sua principale opera filosofica alla discussione della “psicoanalisi esistenziale”. Mentre questo non è il luogo per discutere né della filosofia di Sartre ne delle sue idee sulla psicoanalisi, [54][54] pochi brevi commenti serviranno per introdurre le nostre considerazioni finali.



Due strade si aprono all’uomo


            Quando un uomo realizza, non solo teoricamente ma con tutto il suo essere, quale sia la sua natura – cioè un essere finito con infinite possibilità – sembrano aprirsi due strade. Una è quella dell’auto esaltazione, il tentativo insensato di sollevarsi al livello dell’assoluto. Egli quindi cade nella disperazione, come Kierkegaard ha intuito così chiaramente. Questa disperazione può non essere riconosciuta dal soggetto e può essere camuffata in molti modi, uno dei quali è proprio la nevrosi. [55][55] L’esistenzialismo ateo di Sartre è il maestoso ma disperato tentativo di rendere la norma dell’esistenza umana questo stato fondamentalmente anormale.

            L’altra strada è quella della fede. Questa è la via di Gabriel Marcel. Ma una fede che sia capace di trasformare l’essere dell’uomo dev’essere molto più che l’accettazione di alcuni principi e il compimento di alcuni obblighi. Deve diventare una cosa sola con l’essere della persona.

            Sartre scrive che il desiderio più profondo dell’uomo, la fonte vera di tutto il suo fare ed il suo sforzo, è di diventare Dio. Egli sembra inconsapevole del fatto che Alfred Adler aveva visto precisamente in questo sforzo uno dei tratti di base del carattere nevrotico. Probabilmente non significa nulla per l’autore di questo esistenzialismo ateo e tragico il fatto che le sue parole suonino affascinanti come la promessa tentatrice e deludente del Serpente. Quello che Sartre chiede non sono certamente i “requisiti minimi”. La sua filosofia è una filosofia della disperazione poiché è una filosofia dell’assurdità: dal momento che non può spiegare perché ci siano le cose, e perché esse siano come sono, egli giudica l’intero regno dell’essere come assurdo. Quindi, le sue idee costituiscono un “tragico finale”, come W. Desan prontamente le ha definite – ma se così fosse, sarebbe una tragedia senza catarsi. Essa lascia l’uomo nelle profondità della disperazione, e l’unica consolazione che gli offre è l’assicurazione che il poco senso che egli potrebbe trovare nella vita sarà il suo lavoro.

            Per tutte le oscurità della sua analisi, l’immagine dell’uomo di Sartre è pietosamente incompleta. Il successo che il suo lavoro ha riscosso è comprensibile in un momento in cui molti uomini si sentono incapaci di dar senso alla loro situazione e di trovare un posto per se stessi. Non è che non possano esistere nella società, o che i difetti della società moderna non possano essere rimediati. Essi non trovano posto poiché non sanno più chi sono.

            Il finito può essere compreso solo in contrapposizione allo sfondo dell’infinito. L’immagine può essere compresa solo quando appare come un riflesso dell’originale. Per conoscere se stesso l’uomo dovrà comprendere nuovamente, e nella totalità del suo essere, che è fatto ad immagine e somiglianza del suo Creatore. Ma la religione e l’adesione coscienziosa agli obblighi della Fede non sono sufficienti; queste sono solo le condizioni necessarie. L’uomo deve rendersi capace di vivere la sua fede. Invece di affannarsi per l’adattamento, egli deve affannarsi per essere; invece che cercare beni su beni, egli deve cercare di essere buono in se stesso.

            Non è compito della psicoterapia né di convertire i suoi pazienti né di indottrinarli. E’ compito – e gloria – della psicoterapia aiutare un uomo caduto nelle trappole della nevrosi, e così deprivato della libertà di decidere sulla sua vita, mostrandogli la strada per arrivare ad una vera immagine di se e del suo posto nell’ordine dell’essere, del suo compito e della sua speranza.

            Lo psichiatra, anche se può essere un uomo religioso, non ha il compito di predicare la buona novella; ma a lui è dato il compito di “preparare le strade di Dio e raddrizzare le Sue vie”.





[1] [1] “Filosofia” come è utilizzato qui non indica un sistema elaborato, ed avere una filosofia non implica la conoscenza di alcuno degli scrittori di tale materia. Il termine si riferisce all’attitudine generale, largamente implicita e non chiarificata che ogni persona ha nei confronti di se stesso, degli altri, e del mondo in cui vive. Se la persona comune fosse in grado di esprimere queste cose, o anche di rappresentarsele, il risultato consisterebbe nella sua filosofia personale.


[2] [2] C. G. Jung, Psychological Types (New York, 1922).


[3] [3] G. Pfahler, “System der Typenlehren,” Beih. d. Zeitschr. f. Psychol. (Leipzig,

1929), No. 15.


[4] [4] E. Spranger, Lebensformen (6th ed.; Halle a. s., 1927).


[5] [5] G. W. Allport, Personality, 2nd ed. (New York, 1939).


[6] [6] E. Kretschmer, Physique and Character (2nd ed.; London, 1936).


[7] [7] Si veda, ad esempio, E. Minkowski, La Schizophrénie, psychopathologie des schizoides et

des schizophrènes (new ed.; Paris, 1953).


[8] [8] N. Wiener, Cybernetics (New York, 1951).


[9] [9] Una rapida indagine dei filosofi elencati nel IV volume del Grundriss der Geschichte der Philosophie di Ueberweg-Heinze (13th ed.; Basel, 1951) mostra che tra circa 450 uomini che hanno vissuto e sono morti nel periodo dal 1800, ce n'è ’no che è si è ammalato, Nietzsche (forse J. J. Rousseau è il secondo), ed uno che ha commesso il suicidio O. Weininger (che non era strettamente un filosofo).


[10] [10] Questo non significa, però, che la psicoterapia sia una semplice tecnica e che la conoscenza sottesa costituisca una disciplina aliena alla medicina. Il nevrotico è fondamentalmente una persona malata, sebbene soffra di una malattia peculiare, ed averci a che fare è essenzialmente il compito di un medico addestrato. Questo è particolarmente vero da quando la diagnosi ed il trattamento di molti sintomi psicosomatici ha richiesto che il terapeuta sia pienamente formato in medicina.


[11] [11] Molte azioni denominate incomprensibili da parte di persone normali o anormali possono essere comprese in questo modo. Il rifiuto improvviso di un uomo di proseguire lungo il percorso diventa abbastanza comprensibile una volta che scopriamo che è molto superstizioso e che il gatto nero che avremmo difficilmente notato era sufficiente per cambiare i suoi piani. La stessa cosa è vera per il comportamento di certi schizofrenici: piccoli incidenti che sembrano a noi totalmente insignificanti possono essere pieni di grande significato per lo schizofrenico.


[12] [12] R. Allers, “Begriff und Methodik der Deutung,” in O. Schwarz, ed., Psychogenese und Psychotherapie körperlicher Symptome (Vienna, 1925). La parola tedesca equivalente a storia di un caso è Krankengeschichte – ossia, la storia di una persona malata; mentre la parola viene largamente utilizzata col significato di storia di un caso, essa può anche essere interpretata nel senso discusso in questo articolo.


[13] [13] G. W. Allport, The Individual and His Religion (London, 1951), p. 1.


[14] [14] Questa confusione tra origine e significato è stata evidenziata recentemente da K. Jaspers, Vernunft und Widervernunft im gegenwärtigen Philosophieren (Munich, 1953) [tr. it. Ragione e antiragione del nostro tempo, 1999, ed. SE, Milano]. Inoltre R. McKeon, Thought, Action and Passion (Chicago, 1954), p. 213: “Noi possiamo spiegare aspetti dello sviluppo della scienza, della conoscenza, e delle istituzioni idealmente, epistemologicamente, storicamente, e sociologicamente, ma quando spieghiamo il perché gli uomini dicano quello che fanno, tentiamo di afferrare cosa intendano quando dicono così”.


[15] [15] Possiamo annotare di passaggio che alcuni approcci psicologistici e soggettivistici sono fondati su quegli studi dell’arte e della poesia che vengono concepiti in accordo con le categorie psichiatriche. Si può studiare gli antecedenti di un’opera d’arte, l’esperienza personale del suo creatore, ed anche il materiale “inconscio” che appare in esso, ma tutto ciò non ha niente a che fare con l’opera in sé, che deve essere giudicata in se stessa. Infatti, la conoscenza del passato e della personalità di un artista non contribuisce affatto ad una valutazione strettamente estetica dell’opera o ad una comprensione del suo significato. L’opera parla da sé e non per il suo artista. L’aspetto psicogenico è irrilevante per la valutazione dell’arte o della poesia tanto quanto lo sono, ad esempio, i dettagli della tecnica di casting che Benvenuto Cellini ha utilizzato nella preparazione del suo Perseus, o il fatto che il Mosè di Michelangelo consista di carbonato di calcio di Carrara.


[16] [16] Si veda, ad esempio, Ch. Odier, Les deux sources, consciente et incosciente, de la vie morale (Neufchatel, 1943): “A mio avviso il concetto di autonomia, se sia psicologica, è un concetto limite oltre il quale lo psicologo come tale non si deve avventurare. Egli deve limitarsi ad analizzare e registrare le condizioni per il ripristino di questa autonomia, o della facoltà di realizzare un atto moralmente libero”.


[17] [17] Per un’ulteriore discussione sulla “visione dal basso” e “dall’alto” si consulti Allers, Le nuove psicologie (Londra-New York, 1931) [tr. it. Psicologia e cattolicesimo, 2009, ed. D’Ettoris, Crotone].


[18] [18] Lo studio e l’analisi migliore di queste filosofie è contenuto in J. Collins, The Existentialists (Chicago, 1952).


[19] [19] J. P. Sartre, L’Essere e il nulla (Parigi, 1943) [Feltrinelli, 2008]. Si veda anche A. Stern, Sartre, His Philosophy and Psychoanalysis (New York, 1953).


[20] [20] R. Troisfontaines, De l’existence a l’etre: La philosophie de Gabriel Marcel (Parigi, 1953).


[21] [21] L. Binswanger, Ausgewählte Vorträge und Aufsätze (Berne, 1947). Da consultare anche il nuovo trattato di U. Sonnemann, Existence and Therapy (New York, 1954).


[22] [22]  V. E. Frankl, Ärztliche Seelsorge (Vienna, 1946) [tr. it. Logoterapia ed analisi esistenziale, 2005, ed. Morcelliana, Brescia], and Der unbewusste Gott (Vienna, 1948) [tr. it. Dio nell’inconscio. Psicoterapia  e religion, 2002, Morcelliana, Brescia].


[23] [23] I. Caruso, Psychoanalyse und Synthese der Existenz (Vienna, 1952). W.  Daim, Umwertung des Psychoanalyse (Vienna, 1951).


[24] [24] E’ istruttivo sperimentare l’elaborazione di alter metafore per rimpiazzare quelle attualmente in uso. La metafora della profondità, per esempio, può essere rimpiazzata da quella del centro e della periferia. La repressione quindi diventa espulsione; l’inconscio non è profondo ma insolito. Questa metafora può essere sviluppata nel dettaglio, e nel fare questo si realizza quante delle nostre idee circa le operazioni della mente dipendano dalla metafora, e come oggetti differenti possono apparire quando la metafora viene cambiata.


[25] [25] La fonte delle metafore fondamentali di un filosofo creano una differenza nella sua visione complessiva. Questo è possibile vederlo con chiarezza se si comparano le filosofie ispirate a Platone-Plotino-Sant’Agostino con quelle la cui origine è di Aristotele-San Tommaso d’Aquino.


[26] [26] L. Binswanger, op. cit., p. 190.


[27] [27] Ibid., p. 61.


[28] [28] Questo è particolarmente vero per quanto riguarda Gabriel Marcel. Si veda Sonnemann, op. cit., p. 126.


[29] [29] Per una diversa interpretazione, consultare V. White, God and the Unconscious (Chicago, 1953).


[30] [30] Sul significato del termine “simbolo”, si veda oltre.


[31] [31] Anche un pensatore naturalista convinto come Julian Huxley realizza che con la comparsa dell’uomo e l’inizio della civiltà i fattori diventano altri rispetto a quelli che determinano la filogenesi. Si veda J. Huxley, Evolution (New York, 1941), specialmente le pagine conclusive.


[32] [32] Questo è uno dei molti esempi di ragionamento circolare che si possono scoprire nelle teorie di Freud, si veda R. Allers, The Successful Error (New York, 1940). Si veda anche, V. Sonnemann, op. cit., p. 163. I freudiani ortodossi, tuttavia, rifiutano di riconoscere persino la dimostrazione degli errori. Nel 1946 in una lezione alla Sorbona, Anna Freud sosteneva ancora che “il bambino è nato nell’Età della Pietra e deve raggiungere, entro i cinque anni, la civilizzazione attuale”. Citato da A. Stocker, Psychologie du sens moral (Geneva, 1948), p. 178.


[33] [33] L. Lévy-Bruhl, Le fonctions mentales dans les sociétés inférieures, (Parigi, 1910) [tr. it. Pensiero primitivo e mentalità moderna, 2006, ed. Unicopoli, Milano].


[34] [34] Les carnets de Lucien Lévy-Bruhl (Parigi, 1951). Per una discussione maggiormente dettagliata, si veda R. Allers, “Uber die Begriffe eines archaischen Denkens und der Regression”, iener Zeitschrift fur Nervenheilkunde, I (1941), 287.


[35] [35] Essi non hanno considerato le avvertenze critiche di alcuni uomini come l’eminente antropologo culturale B. Malinowski, o G. Cassirer, la cui visione è riassunta nel suo Essay on Man (New Haven, 1948), p. 80 [Saggio sull’uomo, 2004, ed. Armando, Roma].


[36] [36] Sui primitive, si veda W. Koppers, “Lévy-Bruhl und das Ende des ‘praelogischen’ Denkens”, ristampa: Abhandl. d. 14 Internat. Soziologen Kongr., IV, Roma, 1951.


[37] [37] V. E. Frankl (Des unbewusste Gott, p. 96) [tr. it. Dio nell’inconscio. Psicoterapia e religione, 2000, ed. Morcelliana, Brescia], in un passaggio che contiene una critica incisiva alle nozioni soggettivistiche di Jung, riporta una frase di H. Banziger (Schweizer Zeitschrift fur Psychologie, VI, 1947, p. 281): “Si può parlare di un istinto religioso (Trieb) come di un istinto sessuale o un istinto di aggressione”.


[38] [38] G. W. Allport, op. cit., p. 91.


[39] [39] E. Fromm, Escape from Freedom (New York, 1941) [tr. it. Fuga dalla libertà, 1963, Edizioni di Comunità, Milano].


[40] [40] G. W. Allport, op. cit., p. 100: “La coscienza nella personalità normale non può essere considerata come una continuazione dell’infanzia, un superio imposto genitorialmente”.


[41] [41] Ho sottolineato prima che questa identificazione è infondata. E’ stata possibile a causa del fatto che nella psicoanalisi quando un sintomo viene tracciato fino alla sua origine, come viene concettualizzato nella dottrina di Freud, il sintomo scompare. Freud vide questo come una conferma empirica della sua visione. Però, non è possibile generalizzare da tali osservazioni ad una teoria che sarà valida in tutti i casi, anche quelli in cui la conferma esperienziale è irraggiungibile. Nel caso di un sogno analizzato, ad esempio, l’elemento del sogno analizzato non può scomparire poiché è già scomparso.


[42] [42] “Il principio di questa psicoanalisi (esistenziale) è che l’uomo è una totalità e non una collezione; che, di conseguenza, esprime se stesso totalmente anche nel comportamento più superficiale e più insignificante” J. P. Sartre, L’Etre et le néant (Parigi, 1948), p. 656 [tr. it. Essere e nulla, 2008, ed. Il Saggiatore, Milano].


[43] [43] Per una critica affine delle psicologie non fenomenologiche e della loro importanza, o non importanza, ai fini della comprensione dell’essere dell’uomo o esistenza, si veda la discussione tra comportamentismo e configurazionismo (Gestaltpsychology) nel libro di Sonnemann, passim.


[44] [44] A. Roe, “The Use of Clinical Diagnostic Technique in Research with Normals”, in Feelings and Emotions: The Mooseheart Symposium, ed. M. L. Reymert (New York, 1950), p. 341.


[45] [45] R. Allers, Self Improvement (New York, 1939).


[46] [46] La questione qui discussa ha delle precise implicazioni per il ruolo dello psichiatra. “Bene e male sono essenzialmente concetti etici e non hanno posto nel regno della scienza…Per lo psichiatra, tuttavia,…un’inadattabilità è un disturbo che deve essere trattato..egli è tenuto non solo ad investigare ma anche a giudicare e modificare il comportamento” L. F. Shaffer, The Psychology of Adjustment (Boston, 1936), p. 137.


[47] [47] “…oggi gli psicoterapeuti sono portati a dimenticare che un giusto stile di vita che viene completamente accettato ed attuato previene i conflitti e, quindi, le nevrosi” M. B. Arnold, “The Theory of Psychotherapy”, in M. B. Arnold e J. A. Gasson, The Human Person (New York, 1958), p. 531.


[48] [48] G. Simmel, Lebensanschauung (Monaco, 1918). J. Ortéga y Gasset, Toward a Philosophy of History, trans. H. Weyl (New York, 1941).


[49] [49] V. E. Frankl ha certamente ragione nel dire che “si diventa un uomo nel vero senso della parola solo nel momento in cui si è liberi di resistere quel tipo di determinismo che produce i tipi” (Arztliche Seelsorge, p. 58) [tr. it. Logoterapia ed analisi esistenziale, 2005, ed. Morcelliana, Brescia]. Ma come può essere libero per farlo?


[50] [50] Cf. G. Marcel, Man against Humanity (Londra, 1952), e D. Riesman, N. Glazer e R. Denney, The Lonely Crows (New Haven, 1950). L’edizione Americana del lavoro di Marcel è intitolato Man against Mass Society (Chicago, 1952) [tr. it. Gli uomini contro l’umano, 1987, ed. Logos, Roma].


[51] [51] B. Bosanquet una volta ha sottolineato che la natura umana può essere studiata meglio nei grandi eroi, nei geni e nei santi della storia piuttosto che nei pazienti psichici degli ospedali e delle prigioni. The Value and Destiny of the Individual (Londra, 1918).


[52] [52] G. Marcel, Being and Having, trans. K Farrer (Londra, 1949) [tr. it. Essere e Avere, 1999, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli].


[53] [53] Devo la mia conoscenza del lavoro di questo pensatore alla tesi non pubblicata di una mia studentessa, Miss Guillemine de Vitry, che vorrei ringraziare per avermi permesso di utilizzare il suo saggio.


[54] [54] Per un’analisi critica delle idée di Sartre, si veda A. Stern, Sartre, His Philosophy and Psychoanalysis (New York, 1953), e più di recente, W. Desan, The Tragic Finale. An Essay on the Philososphy of Jean Paul Sartre (Cambridge, 1954).


[55] [55] Ho sottolineato già nel 1929 che “al fondo di ogni nevrosi c’è un problema metafisico”, Psicologia del Carattere, SEI, Torino, 1961.