Nel 1955, il professor Francis J. Braceland, amico di lungo corso di Rudolf Allers, e direttore dell'Institute of Living di Hartford, dà alle stampe un prezioso volume: Faith, Reason and Modern Psychiatry. Source for a Synthesis (Kenedy & Sons, New York). All'interno sono ospitati diversi contributi particolarmente interessanti che indagano il rapporto tra psicologia, psicoterapia e psichiatria da una parte, ed antropologia filosofica, teologia, direzione spirituale e fede dall'altra. Dopo l'introduzione dell'autore, il primo capitolo è affidato a Rudolf Allers, il quale approfondisce la tematica delle credenze o convinzioni personali. Apparentemente, questo tema può sembrare di importanza marginale. Che cosa hanno a che fare le convinzioni con la psichiatria? Con la sua tipica linearità descrittiva, Allers porta all'evidenza come vi sia un legame strettissimo tra la salute mentale e le convinzioni che una persona ha nei confronti della realtà. Oggi potrebbe sembrare un'affermazione ovvia, persino scontata. Eppure, bisogna tener presente che quest'articolo è scritto a metà degli anni cinquanta, molti anni prima della "svolta cognitivista" o della diffusione della terapia razionale-emotiva di Ellis. Allers individua un punto centrale per qualsiasi prassi terapeutica: il tipo di filosofia che una persona ha, ossia, il punto di vista esplicito ed implicito con cui concepisce la realtà in cui è immerso e se stesso, ha una ricaduta importantissima nella concezione della malattia stessa, nonché del modo in cui il terapeuta definisce il proprio paziente. Molti terapeuti, ad esempio, sono influenzati da concezioni filosofiche implicite che li portano ad etichettare come patologiche alcune forme di religiosità, come la fede. Senza accorgersene, essi stessi diventano portatori di una religiosità che però non si basa su fatti concreti ma su preconcezioni arbitrarie. L'articolo tocca molti altri punti interessanti: il rapporto tra la filosofia esistenzialista e le credenze; il ruolo del terapeuta cattolico; ecc.
Vorrei sottolineare un aspetto che, a mio avviso, rende questo articolo di estrema importanza e di estrema attualità. Al giorno d'oggi nessuno si sognerebbe mai di negare l'esistenza di visioni del mondo differenti e distanti. La cultura psicologica, soprattutto clinica, è ben attenta alla "visione del mondo del paziente", alla "concezione della realtà", alle sue "convinzioni e credenze". Eppure quasi nessuno si interroga su quale ruolo svolgano queste differenti credenze nel determinare una sintomatologia. O meglio, nessuno si interroga se una visione del mondo sia più salutogenica o patogena di un'altra. A tali concetti si preferiscono quelli di adattività ed adattabilità, termini che veicolano l'idea secondo cui comportamenti, opinioni e fatti possano essere "giusti" per le condizioni di vita di una persona, ma "errati" per un'altra. Il legame tra esperienze e natura umana è completamente ignorato (basti pensare, ad esempio, al silenzio che invade le vicende legate agli aborti o alle camere del suicidio). Il mondo della psicoterapia è sostanzialmente relativista: ognuno è libero di pensare ciò che crede, poco importa se tale visione del mondo sia alla base del suo disagio. Male che vada, sarà sufficiente "ristrutturare" o "modificare" o "ridimensionare" alcune convinzioni non adattive al momento storico della persona. Nessuno, invece, giudica tali punti di vista; nessuno li ritiene confutabili; nessuno propone una educazione alla realtà. In un mondo senza verità, mettere in discussione una percezione di realtà consisterebbe nel violare la libertà altrui. Eppure, forse è opportuno chiedersi se non sia una violazione più ampia quella di non proporre, con astuzia e gentilezza, la verità che il clinico intravede e percepisce.
La psichiatria ed il ruolo delle credenze personali
Rudolf Allers
1. Salute mentale e prospettiva filosofica
Il filosofo tedesco Johann Gottlieb Fichte ha espresso per primo un’idea che oggi si sente abbastanza spesso: “Il tipo di filosofia che un uomo ha dipende dal tipo di uomo che è”. Questo è sicuramente vero in una certa misura, ma anche il contrario può essere vero: il tipo di uomo che si è può dipendere dal tipo di filosofia che si ha. Dalla filosofia di un uomo dipende il modo in cui cerca di entrare in contatto con la realtà, dal momento che è la sua filosofia che gli descrive la realtà. Vede il mondo e se stesso e, di conseguenza, il suo posto nel mondo e le relazioni con il mondo, alla luce della sua filosofia. [1][1]
La psichiatria da tempo è a conoscenza del fatto che un disturbo mentale non costituisce una completa novità nella storia di una persona. Esso non è scollegato dai tratti, dalle disposizioni, dalle esperienze, e dagli effetti delle esperienze nella vita della persona avvenute prima dell’insorgenza del disturbo mentale. Così, in molti casi la malattia mentale sembra essere un incremento o una esagerazione dei tratti che erano evidenti quando la persona era ancora normale – o almeno considerata tale. Lo studio delle relazioni tra questa “personalità pre-psicotica”, come viene chiamata, ed il tipo di disturbo di cui la persona diviene preda è di grande importanza ed è stato molto fecondo. In parte, però, sembra essere unilaterale, dal momento che considera solo quelli che potrebbero essere chiamati gli aspetti formali della personalità.
La stessa cosa è vera per un filone di indagine collegato, ed anche molto importante, lo studio dei tipi psicologici. I tipi devono essere distinti dalle operazioni mentali o dalle tendenze prevalenti. Infatti le due principali classificazioni dei Tipi Psicologici di C. G. Jung [2][2] differiscono per l’orientamento generale dell’interesse. L’introverso è principalmente occupato con la vita interiore; tende a rinchiudersi; è diffidente e non sufficientemente a suo agio nel mondo delle cose e degli uomini. Il tipo opposto, l’estroverso, è rivolto principalmente all’esterno, è occupato con il mondo, la vita sociale, e con le attività che agiscono nell’ambiente e sull’ambiente.
Un’altra distinzione simile, proposta da G. Pfahler, [3][3] oppone un tipo caratterizzato da “rigidità di attenzione” ad uno di “attenzione fluida”. Esistono diverse tipologie simili, ma questi due esempi saranno sufficienti per mostrare la natura formale delle differenze discusse. La capacità materiale dell’interesse che si rivolge all’interno o all’esterno, dell’attenzione che è rigida o fluida, non viene considerata. Così ci si può chiedere se non costituisca una differenza nella condotta di un uomo e nella struttura della sua personalità se, nel caso di un introverso, sia attratto dalla matematica o dalla musica; o, nel caso di un estroverso, dallo sport o dall’ingegneria; se sia più interessato alla pratica della politica o allo studio della biologia sperimentale.
Una tipologia che considera il contenuto piuttosto che la forma dell’attività mentale, la sostanza piuttosto che il metodo, deve essere chiamata materiale. Così è la tipologia evidenziata per primo da E. Spranger [4][4] ed utilizzata, con alcune modifiche significative, da G. Allport. [5][5] In questa classificazione i tipi psicologici sono distinti dai valori centrali attorno a cui si dispone l’intero quadro della realtà dell’individuo. Tali valori possono essere quelli della ragione astratta, dell’utilità, dell’amore, del potere, o della religione. E’ l’interesse principale della persona che è considerato il tratto distintivo del suo comportamento.
Questa stessa diversità di approcci si trova anche negli studi della personalità pre-psicotica: anche qui, è l’approccio formale che prevale. E. Kretschmer [6][6] ha descritto la personalità “schizoide” o “schizotimica”, di cui il disturbo mentale schizofrenia sembra essere una intensificazione, e l’opposto, il tipo “cicloide” o “ciclotimico” – anche chiamato “sintonico” [7][7] – nei termini di proprietà strettamente formali. Ora può essere vero che, per una comprensione della relazione tra la mentalità pre-psicotica e il conseguente disturbo mentale, l’aspetto formale sia particolarmente rilevante. Non possiamo sapere, però, se sia questo il caso fintanto che non vengano svolte indagini estese anche sugli aspetti materiali.
Descrizioni di personalità pre-morbose nei termini della psicoanalisi freudiana hanno prodotto un indubbio contributo all’aspetto materiale del quadro, ma questo, però, è stato largamente limitato a considerazioni formali. Esse difficilmente possono essere diverse, dal momento che è la posizione fondamentale della teoria psicoanalitica riguardo la natura umana il fatto che le finalità dell’uomo siano primariamente quelle che promettono soddisfazione ai bisogni istintuali; ogni altra finalità è vista come sostituta di questi bisogni primari, e così le differenze dalla soddisfazione materiale perdono il loro significato. L’obiettivo originario della ricerca psicoanalitica era di scoprire la relazione tra gli stati nevrotici e la storia di vita dell’individuo, ma nei suoi successivi sviluppi essa si è mossa sempre più focalizzandosi sugli stadi infantili. Ora, più lontano nel passato di un individuo vengono rintracciate le cause dei sintomi nevrotici, meno differenziate esse appaiono, e allo stadio infantile tutti i valori sono ridotti all’uniformità della soddisfazione istintuale immediata dove non è possibile alcuna differenziazione. Le differenze caratterizzanti gli stadi successivi di vita vengono interpretate come una specie di sovrastruttura eretta sul terreno dei bisogni istintuali primari; questa superstruttura può essere d’interesse per un approccio descrittivo, ma non per uno genetico.
E’ una caratteristica essenziale della psicoanalisi e di quasi tutte le altre tipologie di psicologia medica che il punto di vista genetico predomini. Questa enfasi è giustificata, dal momento che ogni pratica medica cerca di rimuovere i disturbi trovando le cause e rendendole vane. Non può, però, essere assunto a priori il fatto che queste cause saranno trovate esclusivamente nei periodi più infantili della vita. Anche se gli istinti ed il destino subito in infanzia fossero fattori decisivi, è possibile che i loro effetti dipendano da fattori aggiuntivi che entrano nel quadro in un secondo tempo. Un interesse predominante per tali cause ultime ha impedito a medici psicologi e psichiatri di rendersi conto della necessità di integrare le loro indagini con descrizioni dettagliate della personalità e degli stati mentali, descrizioni che tengano conto dei fattori materiali tanto quanto di quelli formali che determinano la condotta.
Le caratteristiche formali della personalità, se costituzionali o provenienti dalle prime esperienze, esercitano un’influenza decisiva sulle attitudini materiali che una persona sviluppa nella vita successiva. Esse, cioè, formano la cornice al cui interno ogni nuova esperienza trova il suo posto e secondo cui vengono interpretate. Dal momento che questi fattori sono formali, però, la loro influenza è senza alcun dubbio rigida o inevitabile. Consente un’ampia varietà di risposte, e può essere largamente modificata, neutralizzata, o controbilanciata da altre influenze che vengono esercitate sull’individuo dopo che è passato dallo stadio delle reazioni automatiche ed inconsce a quello dell’esperienza conscia. D’altronde sarebbe impossibile comprendere il perché gli individui sviluppino personalità completamente differenti sebbene le condizioni della loro infanzia paiono esser state le stesse. Per esempio, ogni bambino ha esperienza di frustrazione. Se è vero che la frustrazione spesso è alla base dell’aggressività, ci devono essere anche altri fattori in gioco, dal momento che non tutti i bambini sviluppano personalità aggressive ed antisociali.
Quindi è lecito chiedersi se, e in che misura, le attitudini apprese, le convinzioni, e le concezioni generali della realtà possano predisporre, o modificare, a specifici disturbi mentali. Si può porre la questione in questi termini: certe attitudini o visioni del mondo sono più o meno facilitanti di altre nel creare difficoltà, causare conflitti, rendere un uomo meno capace di venire a patti con la realtà? Si può dire che la possibilità di cader preda di disturbi mentali sia minore per le persone che hanno fatto proprio un insieme di convinzioni rispetto ad altre le cui convinzioni sono di un’altra tipologia, forse opposta?
Approssimazioni di risposta
Non è semplice rispondere a queste domande. Oggi, alcuni autori rigettano l’idea di una relazione causale tra convinzioni e stati mentali e sostengono che è piuttosto la convinzione a dipendere da uno stato di anormalità presente o latente. Altri credono che ci sia una forte interdipendenza tra le convinzioni ed i principi di un uomo, da una parte, e il suo stato mentale o salute mentale, dall’altra. Entrambe le riflessioni sembrano basarsi più su idee preconcepite che su di una analisi dei fatti.
Si potrebbe tentare di rispondere a questa domanda con un’indagine statistica. Se si trovasse che i disturbi mentali fossero decisamente meno frequenti tra le persone con un certo tipo di punto di vista e di convinzione rispetto ad altre, si potrebbe concludere che questo particolare punto di vista possieda alcuni poteri protettivi. Infatti, tali tentativi sono stati compiuti, ma essi non sono definitivi a causa dell’enorme complessità dei fattori in gioco. Per esempio, se alcune convinzioni religiose sono più frequenti in una fascia di reddito e meno frequenti in un’altra, l’incidenza della malattia mentale tra persone che sostengono queste convinzioni può essere dovuta a fattori sociali piuttosto che ideologici. Per di più, è difficile assemblare dati sufficienti per un’elaborazione statistica affidabile. Come N. Wiener [8] ha evidenziato, i “percorsi statistici” applicabili agli studi sociali sono troppo brevi anche solo per avvicinarsi alla precisione della fisica statistica. Ed alla fine, sebbene un certo numero di persone possa dire di sostenersi e di vivere grazie a certe credenze, e sebbene esse possano essere perfettamente sincere, non si può sapere quanto le loro affermazioni corrispondano alla realtà oggettiva.
Anche se le statistiche non sono totalmente d’aiuto, tuttavia, ci sono alcuni dati che suggeriscono fortemente una marcata relazione tra la salute mentale e una visione del mondo o filosofia, e ci sono alcuni fattori inerenti che rendono tale relazione probabile. Forse non è un’argomentazione molto forte, per esempio, ma è un fatto che l’incidenza di disturbi mentali, e specialmente del suicidio, sia considerevolmente bassa tra i filosofi. [9] Dal momento che i loro punti di vista variano molto, tuttavia, questo sembrerebbe suggerire che la cosa importante sia solamente avere una qualunque filosofia, di averla prodotta e di credere in essa.
Un approccio più basilare dovrebbe basarsi sull’analisi della natura umana, e specialmente dei casi in cui un individuo sembra risolvere le sue difficoltà quando raggiunge una maggiore chiarezza nelle questioni di filosofia o di fede. Nel procedere su questa linea, però, risulta estremamente difficile eliminare gli errori (bias, n.d.t.) propri di ognuno, e c’è sempre il pericolo di sopravvalutare l’effetto buono delle credenze simili alle proprie e l’effetto cattivo delle altre.
A causa della vera natura dei processi psicoterapeutici, uno psichiatra non può mai essere perfettamente sicuro che una guarigione sia il risultato dei suoi sforzi, o del ruolo giocato da altri fattori co-operanti nel portare ad un risultato favorevole. Alla fine della vita Alfred Adler ha rimarcato una volta che metà di tutti i nevrotici stanno meglio indipendentemente dal trattamento che hanno ricevuto, semplicemente perché essi possiedono la volontà e l’abilità di adottare un nuovo atteggiamento verso la realtà. In questi casi la terapia diventa più un “salva faccia” piuttosto che un agente veramente effettivo. Così, anche quando il terapeuta crede di avere una buona ragione per attribuire al suo trattamento il recupero del paziente, ancora non sa con certezza quale sia stata l’influenza decisiva. Può sostenere che fosse il dissotterramento del materiale inconscio, se è un pupillo di Freud; il risveglio della volontà di comunità, se segue Adler; la forza della persuasione, se adotta il punto di vista di Dubois ed altri; ma non può saperlo con certezza.
Altri fattori subentrano in ogni situazione psicoterapeutica. Abbastanza spesso il terapeuta è la prima persona, forse anche sin dall’infanzia, con cui il paziente ha stabilito una relazione umana di un certo significato. Può essere la sola persona con cui il paziente può parlare di cose, non necessariamente personali o intime, di cui non osa o non può fare menzione ad altri. Non importa in quali termini questa relazione viene descritta; la si chiami “transfert” se si preferisce, con tutte le implicazioni della dottrina freudiana, o si utilizzi un altro termine. Rimane il fatto che nella situazione terapeutica l’isolamento della persona nevrotica viene sconfitto, e viene rotto il muro che lo ha separato dal mondo degli amici e della realtà.
Molti psichiatri prenderanno alla leggera queste difficoltà e considereranno il ristabilirsi del paziente una prova sia dell’efficacia del loro trattamento sia della verità delle loro teorie, ma questo è un errore. Le relazioni umane sono troppo complicate per permettere tali semplici spiegazioni. Per lo stesso motivo, non si può affermare che l’atteggiamento di un individuo abbia causato o prevenuto uno stato anormale, o che un cambiamento di atteggiamento abbia causato un miglioramento della sua condizione. E’ solo nella piena consapevolezza dell’enorme complessità delle questioni umane e del bisogno di evitare precipitose generalizzazioni che si può ardire di affrontare le domande in esame, proporre alcune visioni come tentativo, e cercare di sostenerle con una analisi attenta dei fatti.
2. Psicoterapia e metodo scientifico
La scienza, che cerca di stabilire leggi generali, può ed anche deve ignorare le differenze individuali. E’ una caratteristica essenziale del metodo sperimentale che tutte le circostante individuali siano eliminate e che il fenomeno sotto investigazione sia reso il più “puro” possibile. Dal punto di vista della scienza medica ogni paziente è un “caso di - ”. E’ caratteristico di un caso il fatto che sia soggetto alla regola generale del suo tipo; è un esempio di una specie, la manifestazione di una legge generale. Così come ogni volta che un oggetto cade sul pavimento la legge di gravitazione diviene manifesta, e sempre accade esattamente allo stesso modo, così per la scienza medica il caso di polmonite appare come un’ulteriore manifestazione della legge generale che è chiamata polmonite.
Nella pratica medica, però, si ha a che fare non con un esperimento controllato, e neppure con un miscuglio di fattori irrilevanti e trascurabili, ma piuttosto con una persona malata, ed una persona è l’essere più individualizzato di cui abbiamo conoscenza. E’ essenzialmente unica; fondamentalmente non è un “caso” ma un individuo a pieno titolo, irripetibile. Così, la pratica della medicina è stata spesso definita un’arte piuttosto che una scienza. Originariamente, il termine ars medica significava semplicemente che l’attività del medico consiste nell’applicare una conoscenza teorica per un uso pratico. Ars, traduzione del greco téchne, è il nome di tutte le discipline pratiche e della conoscenza che le sottende. E’ significativo, comunque, che questo titolo “arte” abbia conseguito una connotazione specifica. E’ generalmente inteso nel senso che la semplice conoscenza, così come è acquisita dai libri, dalle lezioni, e dall’esperienza di laboratorio, non sia abbastanza, e che il medico debba possedere qualcosa di più che la conoscenza teorica. La teoria tratta le generalità, mentre l’arte ha a che fare con i particolari.
La pratica medica deve utilizzare un approccio individualizzato poiché il modo generale di pensare del paziente può influenzare lo sviluppo della sua malattia, ed anche l’ampiezza della sua cooperazione con il medico. L’individualità del paziente può “colorare” la malattia, così da differenziare la polmonite di Paul da quella di Peter, anche se entrambi soffrono della stessa infermità. D’altra parte, l’individualità del paziente può giocare un ruolo minore quando la domanda è se operare oppure no, e la scelta delle procedure terapeutiche è abbastanza indipendente dalla personalità del paziente.
Individualizzazione in psichiatria
E’ ovvio che la risposta di una persona alla malattia dipenda largamente dalla sua disposizione generale; può rivoltarsi, può riconciliarsi, può anche ben accettare di essere un invalido e, perciò, essere “in congedo”. Si osserva così che i cambiamenti più consistenti del comportamento avvengono con maggiore probabilità quando la malattia della persona è di un tipo che riguarda tutta la persona piuttosto che solamente, ad esempio, una gamba rotta. Anche una leggera infezione come il raffreddore può cambiare la concezione della persona. Ci sono persone a cui dovrebbe essere vietato di prendere decisioni mentre hanno un raffreddore o la febbre. Altri manterranno una distanza tra se stessi e le loro malattie e di conseguenza saranno meno colpiti nelle loro relazioni con gli altri e con il mondo in generale. Ad essere precisi, la nevrosi è un disturbo minore di quanto non sia una forma particolare di atteggiamento verso la realtà o - per usare un’espressione preferita oggigiorno – verso l’esistenza. A causa della natura sia del disturbo nevrotico che delle procedure curative note come psicoterapia, l’individualizzazione è molto più importante in questi casi che in altre branche della medicina.
Ogni trattamento mira alla restaurazione della salute, e la salute è uno stato dell’intero uomo. Quando il medico tratta una funzione disturbata, egli si rivolge, in realtà, all’individuo nella sua interezza. Ma il suo punto d’inizio è solo una parte del tutto. Sebbene abbia sempre a che fare con una persona malata e non solo con un organo malato, il trattamento medico abitualmente procede dal sintomo o dal disturbo, da un punto periferico, verso l’obiettivo ultimo di restaurare la normalità all’intero essere umano.
La procedura della psicoterapia è fondamentalmente differente dalle procedure di tutte le altre branche della medicina. [10] Lo psichiatra non tratta il cuore del nevrotico, e non si aspetta di restaurare la normalità riportando il cuore ad un funzionamento normale. Si aspetta che il normale funzionamento del cuore si ristabilirà quando la personalità intera dell’individuo diventerà normale. Così, la psicoterapia procede dall’interno, dal centro dell’essere di una persona verso le manifestazioni periferiche.
E’ qui che i fattori materiali discussi precedentemente richiedono una considerazione, perché la totalità dell’essere di una persona non può essere descritta e compresa in termini puramente formali. Sapere cosa pensi una persona, cosa lo preoccupi, come stiano le cose per lui, è importante per un’adeguata comprensione del suo essere tanto quanto sapere che è facile ad adirarsi, che è attaccato da incomprensibili cambiamenti di umore, o che non può spostare prontamente la sua attenzione da un soggetto ad un altro. Se vogliamo comprendere una persona, dobbiamo essere familiari con le sue opinioni verso se stesso, verso le cose in generale, e verso i suoi amici uomini.
Frequentemente si incontra l’affermazione che ciò che si richiede sia una “analisi oggettiva” della situazione di un uomo, implicando che tutti i dettagli della sua situazione debbano essere opportunamente studiati ed elencati. Anche così, la descrizione che ne risulta può essere fuorviante. Potrebbero esserci delle caratteristiche nella situazione che sembrino abbastanza eccezionali all’osservatore ma che abitualmente sono irrilevanti poiché il soggetto non le considera; esse semplicemente non esistono per lui e di conseguenza non giocano alcun ruolo nella sua vita. D’altro lato, le caratteristiche che sembrano insignificanti all’osservatore possono avere una grande importanza per il soggetto, che le vede da un punto di vista differente. La situazione che influenza un uomo ed a cui risponde non è quella rivelata da un’analisi oggettiva ma quella che lui stesso vede, e noi non lo comprenderemo fin tanto che non potremo vedere le cose a suo modo. [11]
Casi contro persone
La scienza non si abbassa mai fino all’individuo ma si muove inevitabilmente al livello delle generalità. Un approccio che tenga pienamente conto dell’individualità non è più scientifico, sebbene sfrutti tutto l’aiuto che la scienza possa fornire. Fondamentalmente, un approccio simile dovrebbe chiamarsi storico. Lo si intravvede nel termine tecnico “storia del caso”, ad eccezione del fatto che non si ha a che fare con la storia di un caso ma di una persona. Per ripetere l’affermazione che avevo proferito molti anni fa: Quando il medico lascia il laboratorio e si avvicina al letto di un paziente, egli passa da un approccio puramente scientifico ad uno storico; egli affronta non semplicemente un caso ma una persona. [12]
E’ interessante che le storie dei casi pubblicate dagli psichiatri si leggano in modo molto differente da quelle pubblicate nei giornali e nei trattati medici. E’ già stato detto, non senza ragioni, che le storie dei casi scritte dai discepoli di Freud o di Jung assomigliano ai romanzi moderni, mentre quelle dei seguaci di Adler sono simili a racconti morali. In ogni caso, essi sono certamente molto più simili a biografie che a qualcos’altro. Questo è solo un punto superficiale, ma indica una differenza significativa tra la psicoterapia ed altri tipi di trattamento. In ogni caso, agli uomini delle varie scuole di psicoterapia ha richiesto anni realizzare che né i principi della medicina né quelli della psicologia del senso comune sono sufficienti a far fronte ai problemi incontrati nella psicoterapia.
L’intento originario di Breuer e di Freud apparentemente comportò una certa riflessione sul fatto che i problemi che stavano studiano richiedevano un altro approccio rispetto a quello della medicina scientifica. Essi ovviamente videro che il loro problema consisteva nell’integrare la vita e l’esperienza di una persona, da una parte, e la nevrosi, dall’altra. L’improvviso allontanamento da un punto di vista strettamente medico e scientifico potrebbe essere stata una ragione del perché la psicoanalisi fu inizialmente rifiutata come non scientifica. I discepoli di Freud hanno sottolineato che in anni recenti la critica è stata capovolta, e la psicoanalisi è ora criticata per essere troppo scientifica. L’osservazione è giustificata, ma non prova, come è stato affermato, che il contrasto alle teorie di Freud si basasse non su basi razionali, sperimentali o oggettive ma sulla “resistenza” di coloro che non accettano la teoria perché essi non hanno personalmente provato l’esperienza della psicoanalisi. Prima di tutto, tra i critici ci sono alcuni che sono passati attraverso un’analisi e che una volta erano freudiani ortodossi. Secondariamente, la psicoanalisi non si è sviluppata secondo il piano implicito contenuto negli Studi sull’isteria del 1895, ma, al contrario, si è mossa per diventare più scientifica possibile e per parlare il linguaggio della scienza. Dunque, questa tendenza era presente dall’inizio: Breuer e Freud alle loro notazioni preliminari danno il titolo significativo: “Sui meccanismi dei sintomi isterici”.
Si può anche notare qui che, parzialmente a causa dell’influenza dello stesso pensiero di Freud su tutte le scienze sociali, e parzialmente a causa dei grandi cambiamenti nel clima intellettuale dell’Europa prima e soprattutto dalla Prima Guerra Mondiale in poi, i problemi non solo della psicoterapia ma di tutti gli studi dell’uomo sono apparsi sotto una nuova luce. Sarebbe al di là dello scopo di questo saggio cercare di riassumere seppur brevemente questi sviluppi intellettuali, ma deve essere ricordato che la situazione presente della psicoterapia è parte di questa grande storia delle idee.
Gli psicoterapeuti stanno gradualmente realizzando che anche la vita di un paziente psicoanalitico include qualcosa di più rispetto ai sintomi. E’ comprensibile che le idee ed i problemi del nevrotico possano esser visti come una parte del suo stato generale ed anormale, specialmente quando essi differiscono marcatamente delle convinzioni proprie del medico ma questo è, di fatto, un ragionamento sbagliato. La verità di una affermazione non dipende dallo stato mentale di chi la fa. L’affermazione che due più due fa quattro rimane vera anche se la dice una persona mentalmente disturbata; e potrebbe accadere lo stesso per molte altre affermazioni. Inoltre, il fatto che un’affermazione non abbia senso per noi non prova che sia senza senso, poiché ogni mente ha i propri limiti. Siamo tutti imbrigliati in una rete di idee preconcette e così ostacolati dal riconoscere la verità, o anche la possibilità di farlo, dentro molte affermazioni che sono lontane dal nostro abituale sistema concettuale.
Il tipo di mentalità che ha prevalso dall’illuminismo del diciottesimo secolo ed ha dominato la maggior parte del diciannovesimo secolo ha impedito il riconoscimento di molti problemi. Anche “oggi…gli psicologi scrivono con la schiettezza di Freud o Kinsey sulle passioni sessuali del genere umano, ma si vergognano e tacciono quando le passioni religiose diventano visibili”. [13] Nella misura in cui alcuni psicologi e psichiatri considerano la religione come un problema, essi la vedono come un sintomo. Essi cercano di trovare il perché una persona sia impegnata in tali questioni, il perché essi giochino un ruolo nella sua vita, e particolarmente quale sia “il retroterra” (la loro origine, in altre parole).
L’errore genetico
Sotto l’influenza della psicoanalisi, la psicologia e la psichiatria moderne sono diventate preda di ciò che in logica è noto come “l’errore genetico” – ossia, esse confondono la scoperta dell’origine con quella del significato. [14] Questo comporta due conseguenze, entrambe hanno ostacolato la comprensione delle nevrosi e lo sviluppo di una terapia efficace. La prima di queste conseguenze è la mancanza pressoché completa di descrizione o di fenomenologia. Le affermazioni dei pazienti vengono recepite per il loro valore formale, e nessuno si chiede se due persone che parlano di un sentimento di colpa, ad esempio, si riferiscano alla stessa cosa. E’ abbastanza possibile che non sia così. La seconda conseguenza è che le esperienze vengono considerate unicamente come manifestazioni dell’origine da cui si suppone che fossero derivate. Lo psichiatra può sentirsi soddisfatto quando, ad esempio, è stato in grado di tracciare una convinzione religiosa fino alla situazione edipica, o di interpretarla come una maschera della volontà di superiorità. Non percepisce alcun bisogno di indagare sul significato della convinzione nella vita del suo paziente, meno ancora del suo possibile valore di verità.
Certamente, può essere caratteristico di una persona essere preoccupato per una specifica tipologia di problema, ma questo fatto non implica alcun giudizio sul problema in sé. [15] Dovrebbe essere ovvio che i problemi non sono semplici sintomi, e che essi devono essere giudicati sulla base della loro natura intrinseca. Ciononostante, molti psicologi medici credono ancora che sia improprio per loro, come psicologi, avere a che fare con questioni che hanno attinenza con la religione, la metafisica, o la visione generale del mondo dei loro pazienti, dal momento che tali questioni includono un elemento di giudizio di valore che fuoriesce dalla finalità di un trattamento strettamente scientifico. [16]
E’ vero, certamente, che la scienza non deve e non può considerare i valori, e quindi, le motivazioni delle azioni individuali. Come disse H. Poincaré: “La scienza parla sempre al modo indicativo, mai all’imperativo”. Lo psichiatra, però, esprime una valutazione nel momento in cui parla di qualcuno come, ad esempio, “disadattato”. Il termine implica non solo che sia soggettivamente preferibile essere adattato, e così evitare la sofferenza, i conflitti, ed i disagio sociale, ma anche che è oggettivamente meglio che le persone siano adatte alle condizioni in cui si trovano ad esistere.
Una volta che hanno piantato le radici, le idee non muoiono facilmente, e la persistenza dell’ideale del metodo scientifico è largamente dovuta a quella che si potrebbe chiamare inerzia culturale. Per un pensatore formato nella scienza e impregnato dell’idolatria della scienza del diciannovesimo secolo era naturale assumere che tutti i problemi, inclusi quelli dell’esistenza individuale dell’uomo, potessero e dovessero essere risolti dal metodo scientifico. La pretesa che la psicoterapia sia primariamente o anche esclusivamente scientifica, dunque, è nata dal pregiudizio e non si è imposta dai fatti. Essa toglie allo psicoterapeuta ogni possibilità di vedere le idee ed i problemi del suo paziente eccetto che come sintomi, o come irrilevanti per il momento psicoterapeutico. Quando ci si ferma nel comprendere che le idee e gli atteggiamenti non sono semplici sovrastrutture ma agenti potenti, questa posizione diviene praticamente indifendibile. Non solo il particolare, il singolare, al di là della comprensione della metodologia scientifica, ma gli aspetti più importanti dell’esistenza umana, le credenze dell’uomo, i suoi ideali, le sue motivazioni ultime, tutto appartiene al regno della realtà con cui la scienza è incapace di avere a che fare.
Il metodo scientifico procede con l’analisi e cerca di ridurre tutti i fenomeni ad alcuni elementi di base che si assume siano costanti ed immutabili, comparabili agli atomi di poco tempo fa. In psicologia questi elementi erano chiamati “idee” o “impressioni”, poi “sensazioni”, e più recentemente “istinti”. La metodologia della scienza richiede che questi elementi di base e le leggi che governano la loro combinazione siano sufficienti come principi di spiegazione. Il mondo è ricostruito mettendo assieme ciò che l’analisi ha separato. Ma questo implica che può essere integrato solo quello che l’analisi è stata in grado di districare da tutto il complesso dell’esperienza immediata. Dal momento che gli elementi sono concepiti necessariamente come esseri semplici e, quindi, al vertice della scala dell’essere, la visione che ne risulta è quella che vede le cose “dal basso”. [17]
3. Il contributo del pensiero esistenzialista
L’evolvere della psicoterapia verso il riconoscimento progressivo di questi problemi è parallelo ad uno sviluppo simile in filosofia che è giunto ad esser noto con il titolo di “esistenzialismo”. [18] In anni recenti un certo numero di scrittori credevano che un progresso reale nella comprensione e nel trattamento della malattia mentale potesse essere raggiunto se la psichiatria si fosse dotata dell’approccio esistenzialista.
Tra i filosofi, J. P. Sartre ha scritto di una “psicoanalisi esistenziale”, [19] un termine che implica che la psicoanalisi dovrebbe considerare il punto di vista esistenziale. Ci sono anche alcuni riferimenti incidentali ai problemi psichiatrici negli scritti di Gabriel Marcel. [20] Tra gli psichiatri, L. Binswanger è stato probabilmente il primo a studiare i problemi della psicoterapia alla luce della filosofia di M. Heidegger, [21] uno scrittore che ha influenzato diversi psichiatri contemporanei. Seguendo la terminologia di Heidegger, Binswanger parla di Daseinsanalyse, un termine difficile da tradurre poiché Dasein significa non semplicemente “esistenza” ma il tipo di esistenza propria dell’uomo. Binswanger sembra credere che qualcosa come un’analisi dell’esistenza sia possibile. Dal 1934 V. E. Frankl ha sostenuto un approccio con un nome simile, Existenzanalyse, ma egli non cerca di analizzare l’esistenza bensì di immaginare una forma “esistenziale” di vita come l’obiettivo della psicoterapia. [22]. I. Caruso propone la “psicoanalisi dell’esistenza”, come il suo pupillo, W. Daim. [23] Bisogna essere attenti dal non confondersi per via di questi termini molto simili, perché le idee che essi rappresentano sono abbastanza diverse. Ci si può chiedere se alcuni di questi termini, ad esempio “psicoanalisi dell’esistenza” e “sintesi dell’esistenza”, possano essere usati in modo totalmente significativo. Il lassismo delle espressioni conduce all’inesattezza del pensiero.
Una questione di metafora
Una trappola ancor più pericolosa è quella della metafora. E’ troppo facile dimenticare che la maggior parte dei termini utilizzati nella psicologia e nella psichiatria sono metafore e non indicano direttamente la natura di ciò che riferiscono. A causa dell’uso frequente essi iniziano ad essere considerati come denotazioni della realtà. Così è abituale riferirsi a certe scuole di psicoterapia con il nome comune di “psicologia del profondo” e parlare di “profondità” o di “strati” della mente umana. Questa sembra essere una metafora naturale, dal momento che il linguaggio comune include espressioni come “mosso profondamente”, stato “superficiale”, ed altre. Però non è una metafora comune a tutti i linguaggi; gli antichi Greci, ad esempio, definivano una emozione “profonda” come “pesante”. Nonostante ciò che la metafora della profondità può suggerire, essa rimane una metafora, e non si è autorizzati a parlare degli “strati” della mente come di una realtà.
Né il linguaggio né l’immaginazione possiedono strumenti adeguati per riferire gli oggetti ideali o mentali, e l’utilizzo della metafora è inevitabile. Ciononostante, è fuorviante dire, così come viene regolarmente ripetuto, che Freud “ha scoperto” l’inconscio, o la repressione, o la regressione, o qualsiasi altra cosa. In realtà, Freud fece determinate osservazioni la cui novità ed originalità nessuno vuole contestare, ed egli inventò alcuni nomi, ossia, metafore, come modalità convenienti per riferirsi a queste scoperte. Allo stesso modo, nessuno ha mai osservato un istinto; il termine è un’etichetta utile ed una spiegazione ipotetica per una tipologia definita di comportamento osservato con regolarità in alcune specie animali. [24]
Se si ricorda il carattere metaforico della terminologia psicologica, e si realizza anche che la filosofia deve dipendere dalla terminologia metaforica, [25] col tempo si noterà una conferma della coincidenza dei termini utilizzati nei due campi. Una filosofia che ha derivato la sua terminologia principalmente dalla fisica e dalla meccanica, ad esempio, sembrerà simile alle scoperte di uno psichiatra che utilizza le stesse metafore. Può darsi, però, che tutto quello che i due hanno in comune sia la terminologia, ed è anche possibile che entrambi abbiano scelto delle metafore che potrebbero essere sostituite da altre più adatte nel rapporto con i fatti. Così una riflessione attenta e minuziosa sulle metafore e, quindi, su tutti i termini diventa necessaria. Uno studio degli scritti chiamati “esistenzialisti”, ad esempio, conduce alla conclusione che il vero termine “esistenza” significa cose differenti per differenti pensatori, e che non possiamo prendere in prestito un’affermazione sull’esistenza da uno scrittore, ed una seconda affermazione da un altro, senza appurare quali siano le loro rispettive posizioni.
Una volta che siano state annotate queste qualificazioni, però, non c’è dubbio che il movimento esistenzialista abbia portato alla ribalta dei problemi d’estremo interesse per gli psicologi e, forse ancor di più, per gli psichiatri. I filosofi non sono psicologi, ma quello che hanno da dire è spesso estremamente utile allo psicologo, e questo movimento moderno di filosofia è certamente più vicino alla realtà umana di quanto fossero molti filosofi del passato. Al di là delle loro differenze, tutti i filosofi esistenzialisti mostrano un interesse comune per l’essere della persona individuale, nella situazione concreta della sua vita. Dal momento che l’essere, o la sua manifestazione, è codeterminata dalla situazione, che a sua volta deve essere vista così come viene sperimentata piuttosto che come essa viene oggettivamente data, sembra che il capovolgimento dell’affermazione di Fichte sia giustificato – che il tipo di uomo che uno è dipende dalla sua filosofia o posizione nei confronti del mondo.
Essere-in-un-mondo
La nozione fondamentale di Heidegger è che un uomo esiste inevitabilmente, in virtù del suo vero essere, in un mondo. Essere in un mondo è un fattore costitutivo dell’esistenza dell’uomo. Ma questo mondo assume un aspetto nuovo ogni volta che viene osservato da un’altra persona. I problemi da affrontare non sono quelli dell’ontologia, che considererebbe l’essere dell’uomo in generale ed il suo mondo in generale; i problemi riguardano “le forme che accadono concretamente e le configurazioni degli esistenti”. [26] L’importanza di questo approccio per la psicoterapia è scontato. A causa di questo punto di vista, gli esistenzialisti bollano le altre filosofie come “essenzialiste” – ossia, che trattano la natura generica o l’essenza dell’uomo. L’analisi esistenziale (un termine che dovrebbe essere preferito ad “analisi dell’esistenza”) non cerca di scoprire le relazioni causali o l’origine di questo o di quell’altro fenomeno; essa cerca “la connessione spirituale (geistig) tra i contenuti dell’esperienza”. [27]
Sebbene questa formulazione dell’essere in un mondo sia peculiare di Heidegger, ed egli enfatizzi in modo particolare questo aspetto dell’esistenza umana, la preoccupazione per l’ego verso il non ego è centrale in tutte le filosofie esistenzialiste. [28] Quando un uomo incontra il mondo, o il suo mondo, è costretto dalle dinamiche del suo essere a cercare un’interpretazione di cosa incontra. E si noti ancora una volta che la verità o la falsità di tali interpretazioni, l’adeguatezza o l’inadeguatezza, non dipendono dal modo in cui un uomo giunge ad esse. Tutta l’analisi genetica è completamente senza potere nei confronti delle domande reali circa la vita, la sua importanza, il posto dell’uomo nell’ordine delle cose, ed il suo destino ultimo. Così le nuove idee enfatizzano l’importanza di quei problemi che la psicoterapia dell’ultimo mezzo secolo ha trascurato o trattato come semplici sintomi. Sebbene le due nuove scuole viennesi, quella di V. E. Frankl e di I. Caruso, non debbano essere confuse, entrambe parlano di esistenza e sottolineano l’importanza della religione per la vita umana e per la restaurazione di relazioni soddisfacenti tra l’individuo e la realtà.
Ci si può chiedere perché non si faccia menzione qui delle idee di C. C. Jung. Lo psichiatra svizzero è stato spesso giudicato come uno che, andando al di là degli insegnamenti del suo maestro Freud, ha compiuto una ricognizione completa sul ruolo che la religione gioca e deve giocare nella vita umana. Un esame più preciso rivela, però, che la posizione di Jung differisce considerevolmente da quella delle scuole viennesi e certamente da quella di ogni persona veramente religiosa. Lui non è interessato al vero valore della religione o alle domande metafisiche coinvolte. Nella “psicologia complessa” di Jung Dio non è una realtà trascendente di cui l’uomo può raggiungere una qualche conoscenza per mezzo della ragione naturale, ma piuttosto un “archetipo” o una esternalizzazione di una tendenza di base interno alla natura umana. [29] Le idee di Dio, della giustizia divina, di una vita futura, e ogni altro principio della religione è visto non come una espressione della realtà ma come l’equivalente di un bisogno soggettivo. Jung non è andato oltre il soggettivismo così eminentemente caratteristico della mentalità del diciannovesimo secolo.
Simboli e soggettivismo
Questo soggettivismo è evidente nell’intera teoria degli archetipi di Jung. Egli ha osservato – una osservazione molto interessante ed importante, certamente – che alcune raffigurazioni, di ovvia natura simbolica [30], siano presenti in civiltà abbastanza differenti e siano anche prodotte nei disegni spontanei di persone che non sanno nulla di antropologia culturale o di religione. Secondo il suo modo di pensare, l’unica possibile spiegazione è che queste immagini risiedano in qualche modo, nascoste alla consapevolezza ordinaria, nella mente di ogni uomo; esse sono archetipi non della realtà ma di operazioni mentali. Non gli viene in mente che sia possibile spiegare, e probabilmente con una ragione migliore, il ritorno periodico dei simboli come il risultato di fattori oggettivi piuttosto che soggettivi.
Potrebbe essere di aiuto considerare alcune idee simili che giocano un ruolo principale nella teoria psicoanalitica, quelle di “regressione”, e di pensiero “arcaico” e “magico”. Freud credeva in un preciso parallelismo tra lo sviluppo della mente individuale e della mente dell’umanità così come si manifestava nella storia delle civiltà. Egli applicava qui la cosiddetta “legge dell’ontogenesi” formulata da E. Haeckel, che sosteneva che lo sviluppo dell’organismo individuale ricapitolava, in un modo abbreviato, lo sviluppo della razza. Ora, anche se si assumesse che la legge di Haeckel sia valida, questo non avrebbe necessariamente giustificato la sua applicazione da parte di Freud, poiché c’è un’enorme differenza tra la storia della razza e lo sviluppo della civiltà. La prima include l’azione di forze naturali lungo numerosi periodi geologici, mentre la seconda ha a che vedere con l’attività propria dell’uomo durante un periodo relativamente breve. [31] L’applicazione di Freud appare concepibile grazie all’utilizzo metaforico del termine “sviluppo”, che esprime la sua credenza fondamentale secondo cui tutte le operazioni umane devono essere della stessa natura di quelle delle forze dell’universo fisico. Diversi fatti sono stati utilizzati per supportare questa teoria, anche se essi non l’hanno dimostrata. [32]
La teoria di Freud sembra essere confermata dagli scritti di L. Lévy-Bruhl, pubblicati nel 1910. [33] Secondo questo autore, la mente dei primitivi funziona in modo differente da quella dell’uomo civilizzato. Egli sostiene che il principio di non contraddizione non è presente nel pensiero primitivo, che è dominato dalla “legge di partecipazione”; è “pensiero magico” e “pre-logico”. Severamente criticato sia dagli antropologi culturali che dagli psicologi, Lévy-Bruhl ha gradualmente moderato le sue affermazioni più estreme, ed alla fine della sua vita ha composto un libro che avrebbe completamente ritrattato la sua visione precedente. [34] Egli ha ammesso francamente che il pensiero “pre-logico” non esiste; che i principi che governano il pensiero dei primitivi sono gli stessi dei nostri; che l’intera idea di uno sviluppo nel modo di pensare dal magico al realistico fino allo scientifico era un costrutto fittizio.
Questa ritrattazione fallì nel convincere gli psicoanalisti, e quegli psichiatri che avevano seguito la loro guida. [35] Essi aderiscono ancora alla nozione di pensiero arcaico come unica possibile spiegazione per le somiglianze osservate nel pensiero dei primitivi, dei bambini, e degli schizofrenici. Questa spiegazione si basa sul concetto di regressione ed assume che, sull’impatto della malattia mentale o di uno shock sofferto nell’incontrare una realtà con cui l’individuo non può avere a che fare, la mente si ritrae in uno stadio più primitivo, uno che ha già attraversato, individualmente, nello sviluppo dall’infanzia all’adultità, e da un punto di vista della razza, nel progresso da una civilizzazione primitiva ad una avanzata. A causa del predominio della mentalità soggettivistica, questa è sembrata essere l’unica possibile spiegazione.
Una volta che il soggettivismo viene abbandonato e l’idea di essere nel-mondo viene presa sul serio, un altro approccio diventa possibile. Ovviamente la natura umana non è cambiata fondamentalmente dai primordi. [36] Gli uomini rispondono a situazioni simili in modo simile; se non lo fanno, non possiamo comprendere né i nostri colleghi uomini né la storia. Non è richiesta nessuna analisi particolarmente approfondita per realizzare che i primitivi, i bambini, e gli schizofrenici vivono tutti in mondi simili: essi sono gettati in un mondo che ampiamente ignorano, costretti ad affrontare eventi strani, inesplicabili ed impredicibili, esposti a pericoli che essi non possono prevedere, e vittime di forze che non possono controllare. E’ certamente comprensibile che le loro risposte siano più o meno le stesse.
Lo stesso approccio può essere utilizzato per comprendere la ricorrenza dei simboli che Jung ha cercato di spiegare. E’ immaginabile che alcuni dati comuni di esperienza e certe forme e figure che giungono prontamente in mente siano, per la loro stessa natura, simboli; essi rivelano un “mondo di significato”. In altre parole, i simboli non sono tanto creati quanto piuttosto scoperti. I fenomeni naturali e gli artefatti possono provare entrambi di essere simbolici in se stessi. Uno dei simboli più comuni è la ruota, ed un altro è la porta. Entrambi sono artefatti e non sono certamente stati inventati come simboli.
Religione e neutralità scientifica
Quando il soggettivismo verrà abbandonato, la psicoterapia dovrà seriamente impegnarsi con i segni oggettivi degli stati soggettivi, poiché questi stati sembrano essere le risposte dell’individuo al mondo come egli lo percepisce. Questioni metafisiche e religiose non possono essere viste semplicemente come sintomi. Non si conoscono abbastanza, (se è possibile conoscerli) quali fattori determinino l’interesse di un uomo verso tali problematiche; le problematiche stesse devono essere comprese. E neppure è sufficiente introdurre un “istinto religioso” tra gli altri istinti, poiché una tale nozione ipotetica, ed altamente discutibile, non ci porta assolutamente più vicini al problema. [37] Un istinto, come sembra, è una tendenza innata che abilita l’organismo ad affrontare alcuni aspetti della realtà o a funzionare in alcune situazioni concrete che sopraggiungono nella vita delle specie. Parlare di un istinto religioso, se il termine ha del tutto un senso, implica che tali questioni formino parte della realtà. Naturalmente, non è certamente intenzione degli psicologi soggettivisti ammettere questo.
Comunque possa essere interpretata la religione, il riconoscere che la psicoterapia deve avere a che fare con tali materie solleva problemi seri. Il terapeuta non può più affidarsi ad una semplice tecnica e mantenere il distacco che ha affermato come un suo diritto e, quindi, come la condizione necessaria della sua attività; inevitabilmente, egli viene personalmente coinvolto. Se crede, in un modo o in un altro, in una realtà trascendente o soprannaturale, allora può intenzionalmente o non intenzionalmente tentare di persuadere il suo paziente ad adottare la sua visione. Infatti, questo accade facilmente e non in modo infrequente anche a quegli psicologi che credono di essere “neutrali” e non sono portatori del tutto di tali credenze. Sulla questione delle visioni del mondo filosofiche o religiose, nessuna neutralità è possibile. Quella che spesso è chiamata neutralità è un tipo di tolleranza per le convinzioni che sono percepite essere arbitrarie o superstiziose o incompatibili con la scienza e la ragione. Ma anche l’indifferenza tollerante e lo scetticismo sono convinzioni di un certo tipo, e la persona più tollerante può involontariamente influenzare un altro modo di pensare, specialmente all’interno della relazione particolare che si sviluppa nella psicoterapia. Solo una semplice domanda da parte dello psichiatra – “E’ questo quello che crede?” – può essere sufficiente per rendere il paziente incerto delle sue convinzioni, e così può diventare la fonte di conflitti a volte più seri di quelli per i quali ha chiesto aiuto con la psicoterapia.
Non può essere il compito dello psicoterapeuta “convertire” il suo paziente. Per quanto forte siano le sue convinzioni e per quanto buone siano le sue ragioni, esse non hanno posto nella situazione psicoterapeutica. Se qualche convinzione di natura più o meno religiosa risulti necessaria per il ritorno del paziente alla normalità ed ad una soddisfacente forma di esistenza, bisogna trovare una formula veramente neutrale che sia indipendente dalle convinzioni dello psichiatra ed allo stesso modo del paziente, cioè, una definizione dei requisiti minimi da rispettare.
Alcune persone, con convinzioni religiose forti e ben definite, sentono che limitarsi a tali requisiti minimi sarebbe un compromesso improprio. Qualcosa di meno che la verità intera, così come essi la percepiscono, appare quasi equivalente alla falsità, perché se si conosce la verità, si ha l’obbligo di proclamarla. Per quanto comprensibile questa visione possa essere, essa è sia infondata nella teoria che indifendibile nella pratica. Queste persone troppo zelanti dovrebbero riflettere bene sulle parole di San Paolo circa il latte che deve essere dato ai bambini ed il cibo solido appropriato agli adulti. I requisiti minimi dovrebbero essere tali da essere accettati da chiunque, qualunque sia il suo percorso religioso, qualunque siano le sue attitudini ed i suoi pregiudizi.
Aperto dall’alto
“Per molte persone un senso di affiliazione cosmica è necessario. L’amore romantico è necessario per far sì che la vita sembri completa, intelligibile, e giusta” [38] Infatti, l’esistenza dell’uomo non è pienamente descritta dalla formula di Heidegger come essere nel mondo, poiché questo mondo e l’esistenza dell’uomo sono, per così dire, aperte dall’alto. Esse richiedono un qualche completamento. Non è possibile dimostrare con la forza di una formula chimica o di una equazione matematica – i principi della cristianità. Ancora meno una scienza non teologica può far fronte a quella “affiliazione cosmica”, più o meno definita, che Allport postula. Ma la ragione, quando non è frenata da troppi pregiudizi, può e frequentemente porta le persone verso la scoperta della verità teologica.
L’ostacolo più potente alla riflessione sulla religione è la paura di non essere sufficientemente moderni, avanzati, o al passo con la scienza. La mentalità cosiddetta progredita critica il fedele, e coloro che trovano senso nella speculazione metafisica, perché ospitano visioni “obsolete”. Questa mentalità progredita sembra essere completamente inconsapevole di essere semplicemente una ripetizione delle idee, piuttosto abusate, dell’Illuminismo del diciottesimo secolo. Lo studente di storia delle idee rimane qualche volta stupito della naiveté con cui vengono presentate come nuove le idee che, in realtà, sono state proposte da les philosophes e dai loro seguaci.
Simile è la posizione di E. Fromm, che sostiene che la religione, specialmente quando rappresentata da una organizzazione ecclesiastica, è necessariamente “autoritaria” e, quindi, da rifiutare in favore dell’indipendenza e dell’autoresponsabilità della persona umana. [39] Fromm fallisce nel compiere due importanti distinzioni. Egli confonde un’accettazione volontaria e responsabile della fede con la sottomissione immatura di una mente sottosviluppata. Ed egli confonde l’autorità di ufficio con quella della verità. In realtà, quando si crede che una dottrina sia vera, ci si sottopone ad essa con la stessa necessità estrinseca che spinge ad accettare una proposizione matematica, anche se il consenso è di un tipo differente. Ma il “fedele” riconosce che certi principi dogmatici e morali sono in armonia con le esigenze della ragione e della coscienza in simultanea con il riconoscimento che la Chiesa insegnando e legiferando, in quanto ha la sua autorità in Dio, non può professare dottrine o imporre leggi che potrebbero essere irragionevoli o assurde. Il credente maturo accetta i principi della sua Fede con lo stesso assenso libero ed intelligente con cui accetta di obbedire alle leggi, e con la stessa giustificazione: la ragione divina di un potere divino. La verità rende l’uomo libero.
Allo stesso modo, non si può dire che la coscienza sia un prodotto dell’autorità genitoriale, un residuo della condizione infantile che ancora grava l’individuo ed a cui obbedisce come una volta ha obbedito ai suoi genitori [40]. Questo è il caso in cui la generalizzazione delle osservazioni delle personalità anormali (come avviene nella psicologia contemporanea) prova l’esistenza di un ostacolo alla comprensione adeguata del fenomeno in questione. La prassi, che suppone che le caratteristiche osservate nelle personalità anormali siano comuni ad ogni uomo, si basa ultimamente sull’idea che i fenomeni come la coscienza siano senza alcuna realtà oggettiva e debbano essere guardati come sintomi di qualcos’altro.
I simboli non sono sintomi
Questo viene spesso trascurato poiché le discussioni di tali questioni sono svolte piuttosto in termini di simboli più che di sintomi. Ora c’è una grande differenza tra i due: il sintomo è causato da un problema sottostante, ma il simbolo non deve la sua esistenza a quello che simboleggia. Freud, però, pensava che un simbolo fosse un tipo di sintomo e così confondeva due relazioni totalmente differenti, quella di causa e quella di significato. [41] Un sintomo indica e permette la scoperta di un problema delimitato; un simbolo si riferisce ad un contesto di significato che diventa manifesto, sebbene non in modo perfettamente chiaro, al soggetto.
L’avventata identificazione di sintomo e simbolo è una delle caratteristiche della psicoanalisi che i lavori recenti cercano di eliminare. Binswanger con la sua nozione di Daseinsanalyse, Sartre quando parla di psychanalyse existentielle, Frankl nel tentativo di completare la psicoterapia con una “logoterapia”, Caruso con la sua idea di analisi dell’esistenza – tutto realizza che non si abbia semplicemente a che fare con sintomi simbolici ma con la manifestazione dell’essenza totale di una persona umana. [42] Sebbene il termine di Caruso “sintesi dell’esistenza” abbia una natura opinabile, poiché secondo la definizione è un tutto organico che non può essere messe assieme o sintetizzato da un insieme di elementi o parti, l’idea implica il riconoscimento che l’analisi non sia sufficiente, che l’interpretazione della vita umana implichi qualcosa in più rispetto alla rottura in relazioni tra fattori elementari come gli istinti di Freud.
Tra le varie filosofie esistenzialiste ci sono differenze profonde che non possiamo considerare qui, ma tutte hanno in comune una preoccupazione seria per la comprensione dell’uomo come un individuo che vive nel mondo, e l’idea che le filosofie precedenti hanno fallito nel fornire significati adeguati per raggiungere una tale comprensione. [43] Nel corso del loro lavoro, le scuole esistenzialiste hanno accumulato un interessante quantità di materiale empirico. Il loro approccio non è né quello della psicologia erudita e praticata nei laboratori contemporanei né quella della psicologia medica così come è cresciuta dalle idee di Freud e di altri. E’ una psicologia “fenomenologica”, che tenta di descrivere precisamente cosa accada un uomo che vive in una determinata situazione. Riconosce che la situazione a cui un uomo risponde deve essere compresa così come appare a lui, attraverso la mediazione della sua posizione fondamentale verso la realtà. E realtà qui significa non semplicemente il contesto ma qualsiasi cosa fuori dall’io – l’intero universo di cose ed eventi, di istituzioni ed idee, di fatti e valori, inclusa la persona stessa.
IV. Verso una piena comprensione della condizione umana
Dalle recenti tendenze in filosofia da una parte, e da certe difficoltà inerenti la psicoterapia dall’altra, è scaturito un riconoscimento del ruolo giocato dalla visione del mondo della persona nella sua esistenza individuale. Le implicazioni di queste nuove conoscenze, quando riconosciute nel loro pieno significato, trasformeranno senza dubbio le idee odierne della psicoterapia. Le condizioni sia dello psicoterapeuta che del suo paziente appariranno sotto una nuova luce.
L’approccio medico, analitico e scientifico che ha prevalso fino ad ora ha tentato di considerare tutti i problemi mentali, che fossero disturbi in senso stretto o conflitti, come qualcosa che “accade” all’individuo. Di conseguenza, il paziente è un oggetto totalmente passivo dell’opera terapeutica. Egli si aspetta di cooperare in qualche misura, ma fondamentalmente la cura “accade” a lui proprio come accade lo sviluppo della nevrosi. Oggi, tuttavia, non è “irrealistico pensare che un uomo sia capace di essere responsabile di se stesso”. [44] E’ possibile vedere la personalità di un uomo non semplicemente come il prodotto di disposizioni innate modellate da forze ambientali, ma come qualcosa che egli stesso ha realizzato e che, quindi, può anche trasformare. Sicuramente, le potenzialità di un individuo sono limitate dalla natura del suo essere, ma tra questi limiti c’è spazio per una grande varietà di sviluppi che dipendono per larga parte dalla scelta personale dell’uomo. La personalità non è data ma affidata all’uomo. [45] Il motto delle nuove scuole di psicoterapia potrebbe essere l’espressione pronunciata per primo da Pindaro, ripetuta da Plotino, e ripresa da Goethe: “Diventa ciò che sei”.
Ancora i requisiti minimi
In ogni caso, se un uomo può essere una persona in virtù della sua unicità, partecipa della natura umana e condivide con gli altri la condizione umana. Dunque sorge la domanda se possa esserci qualche schema della personalità umana e della condotta umana secondo cui l’uomo dovrebbe muoversi se vuole evitare conflitti seri con se stesso e con il mondo attorno a sé. Torniamo alla questione dei requisiti minimi [46] – una questione che è così complessa e coinvolge così tante problematiche che anche abbozzare e suggerire, non una risposta ma un modo per cercare una risposta, risulta molto difficile. Mentre è certamente vero che un “giusto stile di vita” può prevenire conflitti e nevrosi, è molto più difficile dire in cosa consista tale stile. [47]
Il termine “requisito minimo” può essere preso per indicare due cose che sono collegate ma ciononostante distinte. Può indicare, per primo, i requisiti minimi dell’uomo per la sussistenza. Come ci sono condizioni fisiche che devono verificarsi affinché la vita sia preservata, ed altre condizioni, prima che la vita meriti di esser chiamata umana, così ci sono altri tipi di condizioni che devono verificarsi prima che un uomo possa vivere senza il peso eccessivo dei conflitti e dell’insoddisfazione. I sociologi e gli psicologi hanno definito “bisogni di base” la mancanza di appagamento che porta la vita dell’uomo al di sotto del livello minimo, ma questi bisogni di base non possono essere definiti in termini biologici. Georg Simmel ha sottolineato che la vita richiede non solo più vita ma più che vita; e Ortéga y Gasset ha evidenziato che la soddisfazione dei bisogni vitali non è sufficiente a rendere la vita una vita umana. [48] Inoltre, cosa sia necessario oltre l’appagamento dei bisogni strettamente vitali varia considerevolmente a seconda degli individui, delle civiltà, e delle circostanze sociali. Un tentativo di definire i requisiti minimi in questo senso più elementare incontra grandi difficoltà.
Secondariamente, il termine “requisiti minimi” può riferirsi non alle richieste che l’uomo fa al mondo, ma alle richieste che il mondo fa a lui. Sorge qui un problema molto serio, perché è abituale includere i vari problemi ed i conflitti che formano una nevrosi sotto il concetto generico di inadattabilità, e quindi a considerare il compito dello psicoterapeuta come quello di ricostituire l’adattamento dell’individuo alla sua situazione. Questo approccio fallisce nel considerare la questione se l’adattamento a condizioni generali sia sempre eguagliabile alla normalità e se sempre eliminerà i disturbi e comporterà una maggiore capacità di attività e di piacere.
Adattamento – a che cosa?
Infatti, è abbastanza possibile che le condizioni a cui una persona si aspetta di adattarsi siano tali che la conformità causerà problemi maggiori di quelli del non adattamento. E non mi sto riferendo qui a condizioni così estreme ed inusuali come fare delle richieste al di là dei limiti della tolleranza umana. Per quanto possa sembrare paradossale, può essere normale, o almeno salutare, per un individuo rispondere in modo anormale a situazioni altamente anormali. Essere adatto o tentare di raggiungere l’adattamento a certe condizioni può essere più dannoso che utile nel tentativo di calcolare una forma tollerabile di esistenza. L’uomo moderno qualche volta si scopre forzato a vivere in un certo gruppo e a conformarsi con gli schemi del gruppo. Se rifiuta di conformarsi, sarà ostracizzato. Così lo schema del gruppo può essere contrario alle tendenze più profonde del suo essere, e la conformità può agire delle richieste su di lui che presto o tardi diventeranno intollerabili e causeranno seri conflitti in lui. Per una persona simile, nessuna strategia d’azione può assicurare una forma normale di esistenza.
Si possono chiamare sfortunati questi sviluppi; ciononostante essi sono reali, e nessun individuo può cambiarli. Uno psichiatra può credere fermamente nel bisogno di ogni individuo di essere totalmente se stesso nei limiti del possibile e può realizzare che la camicia di forza di uno schema di gruppo minacci di soffocare il vero essere del suo paziente. Il paziente può vedere con chiarezza che la maggior parte dei suoi conflitti scomparirà dentro circostanze differenti. E non può fare nulla circa la situazione. E’ un fatto che troppe persone si scoprono prigioniere in situazioni da cui non sono in grado di liberarsi. [49] Così è pressoché impossibile definire i requisiti minimi poiché essi non garantirebbero ancora una forma soddisfacente di esistenza in cui le condizioni esterne sono di ostacolo. In più, gli individui sono diversi, ed una situazione che è tollerabile per una persona può essere percepita da un’altra come al di là dei limiti di tolleranza. Alcune persone trovano delle compensazioni per un’esistenza insoddisfacente in una intensa vita religiosa, o in svaghi intellettuali, o in una attività artistica; altri non hanno tali risorse.
Lo scontento causato dal vuoto e dalla meccanizzazione della vita moderna [50] ha destato l’esigenza all’uomo di avere l’opportunità di “esprimere se stesso”. E’ certamente vero che l’auto-espressione è di qualche aiuto, ma non è sufficiente, specialmente in un lungo periodo di tempo. Affinché l’auto-espressione sia significativa, deve esserci qualcosa nel sé che chiede e merita di essere espresso. L’espressione di un sé vuoto non è altro che un gesto vuoto. Quando un uomo chiede realmente, quando reclama un’auto-espressione, c’è qualcos’altro. Il problema reale è che la sua vita è priva di significato e lui è incapace di un’azione creativa. La conseguenza di questa situazione tragica è che l’uomo è sempre più preoccupato di ricevere, e sempre meno di dare. Il vuoto, così sembra, deve essere riempito; quindi, l’uomo diventa sempre più esigente ed è ossessionato dalla paura di non ottenere abbastanza.
Si potrebbe procedere senza fine nel descrivere la sfortunata confusione in cui l’uomo moderno ha permesso a se stesso di essere caduto, ma anche questa breve discussione è sufficiente ad indicare che soluzioni semplici e semplici formule sono irrealizzabili. Inoltre, il problema è più difficile da quando sotto le condizioni livellate dell’esistenza moderna l’uomo non cessa di essere un individuo nel senso più stretto del termine. Allo stesso tempo, è vero che l’unicità di un essere umano è sempre più oscurata quanto meno egli è se stesso e, quindi, quanto più è lontano dalla normalità. Ogni anormalità è in un certo senso una diminuzione o un difetto, e quindi è distruttiva dell’individualità. Più un uomo diventa anormale, più sarà “un tipo vero”, e gli idioti ed i dementi conserveranno poca individualità come esseri umani. Uno studio dell’uomo che parta dalle persone anormali è, quindi, sempre esposto al pericolo di trascurare aspetti essenziali dell’essere dell’uomo. [51]
Qualsiasi siano le circostanze dell’esistenza umana, sembra che sia possibile raggiungere una comprensione della sua natura sufficiente per stabilire certe condizioni come necessarie per il raggiungimento di una esistenza normale e soddisfacente. Tuttavia, non dobbiamo deludere noi stessi nel credere che la completezza delle condizioni necessarie assicurerà il successo. Senza di esse, l’obiettivo non può essere raggiunto, ma con esse si può ancora fallire.
Per la realizzazione di una visione del mondo che tenga conto dell’essere nella sua totalità, è evidente che la condizione fondamentale sia l’accettazione del posto dell’uomo nell’ordine dell’essere, la posizione che Gabriel Marcel ha appropriatamente definito “umiltà ontologica”. [52] Nella concezione di Heidegger di essere nel mondo come caratteristica fondamentale della statura dell’uomo è implicato qualcosa di simile, ma non è sviluppato come in Marcel. Abbiamo visto che le idee di Heidegger hanno esercitato un influsso consistente sugli psichiatri i cui approcci sono comunque differenti come quelli di Binswanger, Frankl, e Caruso. D’altra parte le concezioni di Marcel – che dovrebbero essere di grande interesse per gli psichiatri cristiani – hanno attratto ben poca attenzione. Ci sono nei lavori di Marcel molte visioni ed osservazioni che la psicoterapia potrebbe utilizzare. [53]
Né Heidegger né Marcel si focalizzano specificatamente sui problemi della psichiatria, ma J. P. Sartre ha dedicato un capitolo della sua principale opera filosofica alla discussione della “psicoanalisi esistenziale”. Mentre questo non è il luogo per discutere né della filosofia di Sartre ne delle sue idee sulla psicoanalisi, [54] pochi brevi commenti serviranno per introdurre le nostre considerazioni finali.
Due strade si aprono all’uomo
Quando un uomo realizza, non solo teoricamente ma con tutto il suo essere, quale sia la sua natura – cioè un essere finito con infinite possibilità – sembrano aprirsi due strade. Una è quella dell’auto esaltazione, il tentativo insensato di sollevarsi al livello dell’assoluto. Egli quindi cade nella disperazione, come Kierkegaard ha intuito così chiaramente. Questa disperazione può non essere riconosciuta dal soggetto e può essere camuffata in molti modi, uno dei quali è proprio la nevrosi. [55] L’esistenzialismo ateo di Sartre è il maestoso ma disperato tentativo di rendere la norma dell’esistenza umana questo stato fondamentalmente anormale.
L’altra strada è quella della fede. Questa è la via di Gabriel Marcel. Ma una fede che sia capace di trasformare l’essere dell’uomo dev’essere molto più che l’accettazione di alcuni principi e il compimento di alcuni obblighi. Deve diventare una cosa sola con l’essere della persona.
Sartre scrive che il desiderio più profondo dell’uomo, la fonte vera di tutto il suo fare ed il suo sforzo, è di diventare Dio. Egli sembra inconsapevole del fatto che Alfred Adler aveva visto precisamente in questo sforzo uno dei tratti di base del carattere nevrotico. Probabilmente non significa nulla per l’autore di questo esistenzialismo ateo e tragico il fatto che le sue parole suonino affascinanti come la promessa tentatrice e deludente del Serpente. Quello che Sartre chiede non sono certamente i “requisiti minimi”. La sua filosofia è una filosofia della disperazione poiché è una filosofia dell’assurdità: dal momento che non può spiegare perché ci siano le cose, e perché esse siano come sono, egli giudica l’intero regno dell’essere come assurdo. Quindi, le sue idee costituiscono un “tragico finale”, come W. Desan prontamente le ha definite – ma se così fosse, sarebbe una tragedia senza catarsi. Essa lascia l’uomo nelle profondità della disperazione, e l’unica consolazione che gli offre è l’assicurazione che il poco senso che egli potrebbe trovare nella vita sarà il suo lavoro.
Per tutte le oscurità della sua analisi, l’immagine dell’uomo di Sartre è pietosamente incompleta. Il successo che il suo lavoro ha riscosso è comprensibile in un momento in cui molti uomini si sentono incapaci di dar senso alla loro situazione e di trovare un posto per se stessi. Non è che non possano esistere nella società, o che i difetti della società moderna non possano essere rimediati. Essi non trovano posto poiché non sanno più chi sono.
Il finito può essere compreso solo in contrapposizione allo sfondo dell’infinito. L’immagine può essere compresa solo quando appare come un riflesso dell’originale. Per conoscere se stesso l’uomo dovrà comprendere nuovamente, e nella totalità del suo essere, che è fatto ad immagine e somiglianza del suo Creatore. Ma la religione e l’adesione coscienziosa agli obblighi della Fede non sono sufficienti; queste sono solo le condizioni necessarie. L’uomo deve rendersi capace di vivere la sua fede. Invece di affannarsi per l’adattamento, egli deve affannarsi per essere; invece che cercare beni su beni, egli deve cercare di essere buono in se stesso.
Non è compito della psicoterapia né di convertire i suoi pazienti né di indottrinarli. E’ compito – e gloria – della psicoterapia aiutare un uomo caduto nelle trappole della nevrosi, e così deprivato della libertà di decidere sulla sua vita, mostrandogli la strada per arrivare ad una vera immagine di se e del suo posto nell’ordine dell’essere, del suo compito e della sua speranza.
Lo psichiatra, anche se può essere un uomo religioso, non ha il compito di predicare la buona novella; ma a lui è dato il compito di “preparare le strade di Dio e raddrizzare le Sue vie”.