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sabato 24 gennaio 2015

PER UNA #PSICOLOGIA RINNOVATA

Venerdì 16 Gennaio 2015, il neo-quotidiano La Croce pubblica una mia lettera inerente la Psicologia Cattolica, titolandola "Per una #psicologia rinnovata" e dandole ampio spazio a pagina 6. La riportiamo con gratitudine al direttore Mario Adinolfi.

Egregio Direttore, ho comperato e letto con piacere i primi tre numeri del suo nuovo quotidiano. Tanto che sto pensando persino di abbonarmi. Mi piace l’idea di essere temerari: siamo cattolici. Mi piace l’idea di poter giudicare i temi etici: l’aborto, l’eutanasia, la teoria del gender sono un male. Mi piace l’idea che si possa parlare di cose irriverenti: dei falsi Miti di Progresso e, in particolare, di psicologia. A pagina sei del primo numero compare infatti l’articolo del dot. Marco Scicchitano che è particolarmente bello, e si presta a più livelli interpretativi.
Sin da quando solcavo i corridoi dell’Università, dotato di incoerenza ed al contempo di quel bisogno di verità così tipico dell’età, ho sempre provato un malcelato fastidio per la disciplina che stavo studiando. Un fastidio dovuto ad una premessa implicita, nascosta ed inverificata: la psicologia è una scienza moderna. Ove per moderno si intende “nata dalla modernità”, “prodotto della modernità”, frutto delle “magnifiche sorti e progressive” della “rivoluzione” scientifica. Ovvero: un edificio che rottama la pattumiera preesistente. Eppure, in seguito alla conversione avvenuta proprio in Università - dopo l’incontro con alcuni “strani” coetanei (niente sesso e niente stupidaggini, molta amicizia e tanta felicità) - mi rendevo conto che le parole della Chiesa spiegavano di più e meglio me stesso di quanto non facessero le disarticolate ed artificiose teorie della psicologia accademica. E nello spiegare me stesso mi spalancavano anche agli altri.
Un esempio? Nessuno degli autori più studiati dice chiaramente che l’uomo si muove per la felicità. Freud sostiene che cerchiamo il piacere. Lacan addirittura il godimento. Io avevo entrambi, ma non erano abbastanza. Adler la perfezione, e già mi piace di più. Ma il rischio di un intellettualismo superbo getta un’ombra su cosa intenda per perfezione. Frankl il senso della vita. Invece, San Tommaso lo dice chiarissimamente: “Il fine ultimo dell’uomo è la beatitudine” (Summa Theologiae, I-II, art. 1).
Dunque ho sentito l’esigenza di approfondire il motivo di una frattura con il passato così evidente e così universalmente sostenuta, tanto che uno dei testi più importanti del corso universitario recitava: “Per molti secoli il pensiero umano occidentale ha escluso che l’uomo potesse essere oggetto di indagine scientifica. […] Questa impossibilità affermata di studiare l’uomo è tipica del pensiero cristiano medievale. […] Il pensiero medievale è infatti del tutto alieno dallo studio dell’uomo, di cui nega addirittura la possibilità” (Riccardo Luccio in P. Legrenzi, Storia della psicologia, Il Mulino, Bologna 1980, p. 40). Mi sono accorto che la scienza psicologica si fonda su di un “falso Mito di Progresso”: l’idea che la modernità sia in antitesi con il passato, ovvero con quel medioevo così vituperato nei libri scolastici e quel cristianesimo così scomodo. Invece non c’è alcuna antitesi, anzi semmai c’è una buona e semplice censura. Perché studiando i filosofi medievali, San Tommaso in primis, ed i Padri della Chiesa, sant’Agostino e san Massimo il Confessore soprattutto, mi sono accorto che esiste una psicologia più e meglio strutturata di quella contemporanea. Ho così capito che il mio compito in qualità di psicologo cattolico è di riesumare il lascito perduto e dimenticato. Ma nel fare ciò, ho dovuto amaramente constatare che la psicologia cattolica, ed in particolare sua formulazione più sistematica, ovvero la psicologia tomista, comporta un riesame dei fondamenti impliciti delle principali correnti di psicologia contemporanea. Purtroppo, la quasi totalità delle scuole, da Mesmer ai recenti cognitivisti, ha edificato le proprie teorie su di filosofie implicite e parziali.
Vorrei però dare prova delle parole sin ora spese. Il bell’articolo di Scicchitano riporta una realtà clinica che anch’io, nel lavoro coi miei pazienti, osservo spesso: la reiterazione, ovvero “il percorrere lo stesso iter contro la propria volontà”. San Tommaso avrebbe chiamato questo processo habitus, ovvero abitudine. E trattandosi di una abitudine negativa, avrebbe forse aggiunto il termine vizio. Scicchitano parla di “dipendenza” e “pregiudizio” e propone, a ragione, di analizzarne la “radice” ovvero le cause. San Tommaso, probabilmente, avrebbe proposto anche di analizzarne le finalità, ovvero gli effetti che tali formae mentis mirano ad ottenere. Se infatti la causa della coazione a ripetere (altro modo per descrivere la medesima reiterazione) può rinvenirsi nella “non accettazione del limite”, l’effetto o finalità consiste nell’obiettivo di custodire e rinnovare a se stessi la percezione di forza, di sicurezza, di certezza, di padronanza. Ovvero cercare, pur con iter e re-iter inadeguati, una cosa buona e giusta quale la serenità (sorella minore di quella beatitudo che è il fine ultimo dell’uomo). Purtroppo le psicologie contemporanee difficilmente possono proporre una strada alternativa, fondandosi su di antropologie implicite parziali o erronee. Se il fine dell’uomo è il piacere, allora basta sostituire il dispiacere con un altro piacere. Non ti va più bene tua moglie? Che problema c’è. Cambiala! Per scoprire, invece, che il confine oggettivo ed invalicabile dei limiti è positivo e non negativo è necessario alzare il tiro e domandarsi: cosa davvero può soddisfarmi, ovvero saturare il desiderio di felicità che provo (satisfacere)? O per dirla con Sant’Agostino: quid animo satis?
In assenza di una sana antropologia filosofica di riferimento, non si può capire perché l’uomo “non accetti il limite” ma anzi desideri superarlo con una reiterazione senza senso. Lo fa in virtù di quel peccato originale che è alla radice della nostra natura umana decaduta e che perdura alimentato dalla reiterazione o vizio. Lo aveva ben compreso un Gigante della psicologia, purtroppo sconosciuto proprio perché Cattolico, Rudolf Allers, il quale scriveva che: “Sorge dalla consapevolezza – che si potrebbe, volendo, chiamare anche inconscia – della finitezza essenziale dell'uomo e della rinuncia da parte dell'individuo di accettare la condizione umana”. Il non serviam di Lucifero prima e di Adamo ed Eva poi è la stessa rivolta dei moderni contro la tradizione e la realtà: “Il conflitto alla radice della nevrosi non è tra impulsi e condizioni ambientali insoddisfacenti, né tra l'individuo e le esigenze della società, ma tra la superbia originale dell'uomo caduto […] e il riconoscimento della sua essenziale finitezza” (in Psicologia e Cattolicesimo, D’Ettoris, Crotone, 2009, pag. 102). Non è infatti la caratteristica del solo psicotico il “piegare il dato di realtà ad esigenze di coerenza che partono unicamente dal vissuto soggettivo”, bensì anche e primariamente del nevrotico, ovvero di ogni persona comune, potenzialmente (Allers sostiene che ogni uomo è un nevrotico in potenza, ovvero che in ogni scelta è chiamato ad aderire o eludere la realtà).
Recuperare la psicologia cattolica significa ampliare lo sguardo sulla psicologia contemporanea ed anche sulla clinica. “Per restare umani”, come titola l’articolo di Scicchitano, bisogna riscoprire il bene ed aderirvi. E per fare ciò riconoscere che la realtà ci anticipa, perché non la creiamo noi, ed è buona, poiché è un regalo. Ma come è possibile avere esperienza di questo al di fuori di una sana antropologia? Noi psicologi cattolici dobbiamo riscoprire le nostre origini ed esserne fieri, divulgarle, approfondirle. Perché nelle università cattoliche non si studia più la psicologia tomista?
Spero che questo giornale possa essere l’occasione per testimoniare la bellezza della nostra filosofia, che nasce dalla bellezza dell’essere cristiani.
Stefano Parenti

Fonte: La Croce, 16/01/2015

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