L'incontro con Rudolf Allers è stato per me estremamente importante, poiché il suo contributo getta le fondamenta per la costruzione di un ponte in grado di collegare lo iato esistente tra le psicologie contemporanee e l'antropologia cristiana. La sua proposta di "recupero" della filosofia tomista riguarda sia gli ambiti puramente teoretici, ovvero di antropologia filosofica e di psicologia generale, sia pratici, cioè di clinica e di teoria della clinica. Però, mentre non mancano nel corpus allersiano le pagine spese in ambito filosofico, così come le riflessioni sulla teoria della clinica, i "casi" - se così si può dire - direttamente riferiti sono invece sporadici e limitati. Fatta eccezione per alcuni articoli scritti nei primi anni di lavoro a Vienna, e tutt'ora ignoti al pubblico italiano poiché di lingua tedesca, dopo il trasferimento negli Stati Uniti Rudolf Allers ha condiviso molto poco dei suoi trattamenti coi pazienti, nonostante la sua attività terapeutica fosse perdurata sino a pochi anni dalla morte. L'articolo Aridité symptom et aridité stade, pubblicato sul numero 22 di Etudes Carmelitaines nel 1937 (pag. 132-153) copre parzialmente la lacuna. In esso troviamo la descrizione di quattro pazienti conosciuti e seguiti da Allers.
Il tema centrale, però, non è specificatamente clinico: l'intento è di approfondire gli aspetti eziopatogenetici (ovvero sulle cause o origini) di alcune forme fenomenologiche simil-depressive, caratterizzate da labilità affettiva, vuoto, percezione di insignificanza, freddezza emotiva, ecc., che Allers chiama "aridità" e che si collegano al rapporto del soggetto con le domande ultime, ovvero con gli interrogativi esistenziali o senso religioso. Un cristiano, fedele ai Sacramenti e devoto alla ricerca di Cristo nella propria vita ma pervaso da una tale "aridità", è affetto da nevrosi? Oppure attraversa una fase della propria esperienza di fede, come quella descritta da san Giovanni della Croce col nome di "notte oscura"? O, ancora, l'aridità è segno di una inconsistenza della fede?
Il tema centrale, però, non è specificatamente clinico: l'intento è di approfondire gli aspetti eziopatogenetici (ovvero sulle cause o origini) di alcune forme fenomenologiche simil-depressive, caratterizzate da labilità affettiva, vuoto, percezione di insignificanza, freddezza emotiva, ecc., che Allers chiama "aridità" e che si collegano al rapporto del soggetto con le domande ultime, ovvero con gli interrogativi esistenziali o senso religioso. Un cristiano, fedele ai Sacramenti e devoto alla ricerca di Cristo nella propria vita ma pervaso da una tale "aridità", è affetto da nevrosi? Oppure attraversa una fase della propria esperienza di fede, come quella descritta da san Giovanni della Croce col nome di "notte oscura"? O, ancora, l'aridità è segno di una inconsistenza della fede?
L'articolo ripropone il delicato rapporto tra psicologia e fede, ovvero l'interrogativo di quale sia il ruolo della psicologia all'interno del mondo cristiano. Un mio caro amico, sacerdote, non molto tempo fa mi confidò che, a suo modo d'intendere, lo psicologo copre oggi il ruolo lasciato vacante dai preti. "Se ci fossero dei buoni preti - mi confidava - non ci sarebbe bisogno degli psicologi". Da un certo punto di vista non si può dargli torto. Molte persone richiedono una consulenza che potrebbe essere svolta da un sacerdote preparato all'ascolto e competente nell'ambito del carattere e della personalità. Quest'ultimo settore - ovvero la psicologia del carattere o della personalità - è inerente la sua formazione poiché riguarda il cuore dell'ascesi cristiana ed è un tema specifico della filosofia cristiana (basti pensare ai trattati sui vizi e sulle virtù della seconda parte della Summa Teologica, o agli esercizi sul discernimento degli spiriti di Sant'Ignazio, solo per citare gli esempi più noti). Forse è questo il livello del counseling, ai giorni nostri estremamente sviluppato benché su presupposti antropologici poco conciliabili con la concezione cristiana dell'uomo (come le varie correnti umaniste, di cui Carl Rogers è l'esponente principale, i cui limiti ed errori sono stati ben segnalati da Paul Vitz nel celebre Selfismo e culto di sé). Ma Rudolf Allers non sarebbe pienamente d'accordo. Ed io neppure, poiché l'ambito dello psicologo non si riduce al counseling e si estende, invece, a quello della psicopatologia. È bene chiarire subito che cosa si intenda per psicopatologia poiché è un termine che si presta a molteplici significati. La psicopatologia è un tipo di sofferenza (pathos) che ha una causa psicologica. Ci sono disturbi - termine che si preferisce oggigiorno - che hanno cause biologiche e concause psicologiche ed ambientali. Si pensi, ad esempio, ai sempre più numerosi casi di demenza senile, in cui uno o più fattori neurobiologici (come le famose "placche") si fondono con una scarsa abitudine alla lettura, all'isolamento relazionale, ad una rigidità caratteriale, e via dicendo. Ma anche altri quadri nosografici forse più vicini al mondo psicologico sono spesso somatogenetici: le depressioni di matrice organica (ad esempio quelle dovute ad una alterazione della tiroide), i disturbi bipolari, le insonnie, ecc. In questi casi l'operatore di riferimento è il medico, geriatra, fisiologo o psichiatra. Ci sono invece dei disturbi la cui origine è accentuata da aspetti ambientali, come i fattori educativi, e biologici, come i cambiamenti degli equilibri serotoninergici e noradrenalinici, ma che sono dovuti originalmente alle percezioni-vissuti-convinzioni soggettivi, ovvero a fattori psicologici. Una valutazione falsa o scorretta di se stessi e del mondo può portare a meccanismi difensivi. Allers dice che la nevrosi, ovvero la malattia psicogena per eccellenza (ma, io mi domando, ce ne sono altre?), è la conseguenza del rifiuto della realtà. Ad esempio, un ragazzino che sviluppa una percezione di sé come inadeguata, favorita da una configurazione familiare in cui il papà è assente o in cui l'educazione è stata punitiva e demotivante, può non accettare la verità di sé e trovare un escamotage in grado di salvaguardare una falsa rappresentazione di sé - sono uno forte - attraverso un comportamento sintomatico, come l'essere ribelle, alternativo, oppositivo, antisociale. Una compensazione mira a guadagnare ciò di cui si ritiene di aver bisogno (la percezione di forza) senza però alterare il quadro di riferimento soggettivo originario (l'inadeguatezza). Così una dipendenza affettiva, che si palesa in una continua ossessione per i rapporti sessuali, per un attaccamento morboso al partner, per una coazione a ripetere tradimenti, gelosie, abusi di pornografia ecc., può essere il modo in cui una persona compensa il bisogno di sentirsi forte ed amato, sicuro e ricercato. In questi casi il professionista adeguato è lo psicoterapeuta o, nel linguaggio di Rudolf Allers, lo "psicologo medico". L'ambito specifico del sacerdote è invece quello della Confessione, e dunque del peccato. Ovvero degli atti deliberati pienamente. Abbiamo, quindi, tre condizioni. La prima è quella in cui una persona richiede un aiuto per delle tendenze che vive nell'ambito delle relazioni, del carattere o personalità. In questo caso il counselor, professionista, o il direttore spirituale, guida educativa, lo aiutano a capire e a capirsi. Se ci sono degli atti c'è la possibilità di richiedere la Confessione al sacerdote che, peraltro, apre a doni di cambiamento e non solamente di riparazione. Ci sono poi le tendenze o gli atti che paiono autonomi dal controllo della volontà. Qui il direttore spirituale, lo psicologo, il confessore possono aiutare la persona a percepire che la volontà non è mai oltrepassata da forze extra personali, da "impulsi irresistibili", come direbbe Allers (lasciamo a latere le questioni delle possessioni e dei casi sui generis). Le abitudini, che stabiliscono gli automatismi, possono essere corrette e cambiate (i vizi dalle virtù). Ci sono, infine, dei terzi casi in cui i comportamenti e, soprattutto, le tendenze, che il soggetto sperimenta come costrizioni non-volontarie, non sono dovuti a delle abitudini negative (i vizi), bensì a meccanismi compensativi. In questo caso sono lo psicologo o il medico le persone indicate: il primo se la causa è un meccanismo psicologico, il secondo biologico. Dunque la differenza risiede nelle cause e non nei sintomi. Una aridità può essere causata da una depressione organica, cosi come da una compensazione nevrotica o, infine, da una lontananza dalla fede. Il sintomo può essere lo stesso, la causa differente. In conclusione mi pare di poter rispondere così al mio amico sacerdote: "Se ci fossero solo buoni sacerdoti - perché già ce ne sono molti - gli psicologi smettrerebbero sì di fare i falsi preti e, forse, si limiterebbero al compito loro proprio, curare le nevrosi! Cosa che il prete, specificatamente, non è chiamato né formato a fare". Le cause organiche sono di specifica competenza medica. Le cause psicologiche, ovvero la compensazione o nevrosi, sono di specifica competenza psicologica (ma sarebbe meglio dire psicoterapeutica, che è l'ambito specifico dello psicologo). Gli aspetti relativi al soprannaturale sono di competenza specifica del sacerdote. Tutti, però, hanno un terreno comune: l'uomo nella sua globalità, e
tutti, quindi, hanno a che fare con aspetti legati alla sua
psicologia così come alla sua educazione o ascesi e al rapporto con la persona di Cristo, ovvero col divino. Condividere questo terreno comune, ovvero condividere l'antropologia, permette ad ognuno di compiere il proprio lavoro specifico sapendo di poter coadiuvarsi delle altre specificità all'occorrenza.
Ovviamente tali riflessioni, tutt'altro che esaustive, hanno il solo obiettivo di fare chiarezza su di un tema delicato ma fondamentale e, spero, possano incrementare l'aiuto vicendevole tra queste due importanti figure d'aiuto alle persone sofferenti.
Ovviamente tali riflessioni, tutt'altro che esaustive, hanno il solo obiettivo di fare chiarezza su di un tema delicato ma fondamentale e, spero, possano incrementare l'aiuto vicendevole tra queste due importanti figure d'aiuto alle persone sofferenti.
Aridità sintomo e aridità
stadio
di Rudolf Allers
di Rudolf Allers
Queste denominazioni: aridità-sintomo e aridità-stadio sono state scelte come abbreviazioni comode e sufficientemente significative. Con esse pretendo designare due stati dell’anima che frequentemente si assomigliano molto, anche se sono di origine molto differente. L’aridità-sintomo è giustamente un sintomo, come a dire che fa parte di un insieme di tratti mentali più o meno patologici; perlomeno, è di natura puramente e semplicemente patologica. L'aridità-stadio è una fase dello sviluppo della vita interiore; se anche si manifesta con alterazioni fisiologiche, se segue in qualche modo le loro leggi, senza dubbio non dipende esclusivamente da queste leggi. Per cui, è necessario distinguere tra questi due stati, pena il trattare come malata una persona che attraversa una crisi religiosa, o di sottrarre una persona malata da un trattamento a volte indispensabile. Disconoscere uno stato patologico può ritardare o anche impedire una guarigione possibile (non solamente dall'aridità, ma anche dai disturbi dei quali questa non è più che un sintomo). Applicare i procedimenti della medicina mentale ad uno stato che sorpassa essenzialmente questa scienza può impedire o almeno complicare profondamente l'evoluzione verso un fine religioso più alto. La diagnosi differenziale tra questi due stati è, quindi, di grande interesse, tanto per il direttore spirituale come per lo psicologo medico.
Però
esiste il pericolo di confondere entrambi i casi; questi possono assomigliarsi
a tal punto che non si può essere sicuri, considerandoli isolatamente, di stare
di fronte ad uno o all'altro. Qui non posso tentare di descriverli
minuziosamente, né discutere a fondo la questione: cioè, se essi presentano –
almeno a volte – caratteristiche che permettono di distinguerli. Il mio
contributo consisterà nell'apporto di alcune osservazioni personali. Tratterò
di come discernere l'uno dall'altro punto di vista, secondo quello che ho
potuto compiere nel corso di una carriera abbastanza lunga. Senza dubbio, credo
di dover presentare alcune segnalazioni preliminari necessarie per chiarire il
problema e servire come punto di partenza per la discussione.
Nessun
sintomo possiede un significato determinato, né nella psicopatologia, né nella
caratterologia, né nella psicologia normale, se è staccato dalla totalità di
cui fa parte. In psicopatologia non si trovano se non pochissimi sintomi che,
presi in se stessi, rivestono un'importanza patognomonica (per es., le
allucinazioni di insetti nei deliri di intossicazione); non si trovano neppure
nella caratterologia né nella psicologia normale. Non esiste – per riprendere
una parola di cui mi sono servito già varie volte – un “dizionario dei
sintomi”. È da molto tempo che in psichiatria ogni diagnosi si deve basare
sulla natura della personalità totale e che si rischia di commettere dei gravi
errori se ci si fida di un sintomo isolato. Accade lo stesso nella
caratterologia. Un certo tratto del carattere avrà un significato molto
distinto, a seconda che compaia unito ad uno o a vari tratti differenti. Alcuni
tratti, anche se apparentemente univoci, come per esempio il coraggio o la
flemma, acquistano un significato distinto per ogni caso, secondo la
personalità totale a cui appartengono.
Ci
sono delle personalità le cui qualità escludono l'aridità-stadio? La risposta a
questa domanda è molto difficile. Sembra che ci sia una contraddizione assoluta
tra lo stato di un'anima completamente nevrotizzata e l'evoluzione della vita
interiore che deve aver preceduto l'aridità-stadio. Nella nevrosi c'è una tale
ossessione per l' “io”, una tale incapacità di donarsi veramente a chicchessia,
che si può dubitare che un'anima così deformata possa raggiungere il grado di
vita interiore che genera l'aridità-stadio. Però si impongono due obiezioni.
In
primo luogo, è stato frequentemente osservato che, durante l'evoluzione di una
vita interiore verso un'intensità maggiore, si possono produrre stati che
assomigliano molto alla nevrosi. Possiamo domandarci se si tratti realmente di
una nevrosi o solamente di sintomi o stati che le assomigliano senza essere
francamente patologici. Però sembra che la diagnosi non si possa fare se non a
parte post. Se santa Teresa di Gesù fosse morta prima di raggiungere i
gradi superiori della vita mistica, la si sarebbe classificata tra le
nevrotiche, oppure no? Non lo so. Oggigiorno, avendo davanti agli occhi la sua
vita nella sua totalità, è facile escludere la nevrosi. Può essere che un
osservatore dotato del discernimento degli spiriti lo avrebbe potuto
constatare, anche all'inizio dell'evoluzione spirituale. Per noi la questione
sarebbe rimasta piena di difficoltà. D'altra parte, bisogna ammettere che la
grazia potrebbe impadronirsi improvvisamente di un'anima anche se persa nelle
vie della nevrosi e recuperarla. Non è sicuro che tutti i sintomi di nevrosi
scompaiano improvvisamente. Quindi, una situazione di aridità-stadio potrebbe
accadere benché ci siano numerosi sintomi più o meno caratteristici di nevrosi.
Una vita interiore già progredita, non offre nessuna garanzia contro la caduta
nella nevrosi: ragione in più per non pronunciarsi su questo terreno se non con
grandi precauzioni.
Un'altra
difficoltà si pone anche per il medico. Abbiamo detto che la diagnosi della
nevrosi si pone sull'analisi della personalità totale. Però ci sono molti
sintomi il cui carattere nevrotico non può essere accertato se non per un
procedimento di esclusione. Questo è vero, in primo luogo, per tutti i sintomi
di ordine somatico. Benché ci siano elementi che fanno pensare inizialmente alla
nevrosi, in presenza di alcuni problemi del cuore, dello stomaco, ecc., non
bisogna dimenticare mai che un nevrotico non può procurarsi nessuna infermità
organica e che quindi c'è una sovrapposizione di disturbi puramente nevrotici
con alterazioni anatomiche. La diagnosi della nevrosi non si compie se non dopo
aver escluso ogni infermità organica. Però di fronte ad uno stato di aridità,
questo procedimento diviene impraticabile. Il medico non ha la possibilità di
escludere l'aridità-stadio, perché essa non entra nel dominio della medicina e
perché fuoriesce dai metodi dell'esame medico. Non c'è diagnosi della salute;
il medico non può mai provare che una persona da lui esaminata sia sana; egli
può solo decidere che, nel momento presente, non riscontra alcuna infermità.
Uno stato che, benché appartenendo ad una vita medicalmente normale – o super
normale, se si vuole – riveste le apparenze di uno stato patologico, presenta
quindi delle difficoltà particolari alla diagnosi del medico.
I
casi che, anche dopo un'analisi molto estesa, non sembrano giustificare la
diagnosi di nevrosi, reclamano la cooperazione di un direttore di anime
illuminato. Il giudizio definitivo dovrà risultare dalla collaborazione del
medico con il sacerdote. Però è necessario che il medico stesso abbia alcune
nozioni di psicologia religiosa per concepire la possibilità di uno stato che
ecceda il proprio dominio. Senza dubbio, il medico non potrà mai ergersi come
direttore o consigliere di una persona che non considera inferma.
Prima
di entrare nel dettaglio dei casi che ho potuto osservare, rileviamo alcuni
tratti di natura generale.
Le
ragioni che condussero questi “infermi” a consultarmi furono diverse. In certi
casi, lo stato di aridità stesso fece pensare al soggetto o a qualcuno del suo
ambiente (amico, sacerdote) che forse si trattava di un disturbo nevrotico. In
altri casi, non era l'aridità come tale, ma le sue conseguenze sotto forma di
reazioni emozionali che portarono queste persone a cercare l'aiuto del medico.
Senza dubbio, nella maggioranza dei casi, li inquietavano altri problemi e
l'aridità, riconosciuta o meno, non era il motivo preponderante del consulto.
Non posso assicurare che le ragioni invocate dagli “infermi” (non sono infermi
se non in quanto sofferenti ed anche una nevrosi non è una infermità nel senso
ordinario) mi siano state d'aiuto per giungere alla diagnosi differenziale.
Però è vero che, tra coloro che si lamentavano di vari sintomi e coloro in cui
l'aridità non fu scoperta sino all'esame del medico, non si trattava di un caso
di aridità-stadio. Però dubito di avere il diritto di appoggiarmi a questo
fatto; dovrò raccogliere almeno un numero sufficientemente grande di
osservazioni.
Forse
si potrebbe utilizzare con prudenza un altro fattore, non per un giudizio
definitivo ma per formulare un'ipotesi che serva come orientamento per le
indagini seguenti. In effetti, il modo di descrivere gli stati mentali e le
sofferenze che da essi risultano presenta differenze interessanti. Mentre
alcune persone si lamentano molto e fanno molto caso alle proprie sofferenze,
altre danno di esse una descrizione molto oggettiva, mostrando una certa
distanza. Quest'ultima attitudine non si deve confondere con l'aplomb,
l'eroismo ricercato, tratto caratteristico della personalità isterica. La
definiamo con queste parole: “Preoccupati, anche se lo sopporto come un eroe”.
Ricordiamo l’espressione di Charcot, che parla della “bella indifferenza degli isterici”. Al contrario, Gerson, il doctor christianissimus, giudicava
sospetto ogni individuo che facesse troppo caso ai propri stati interiori. Ci
troviamo, senza dubbio, nella piena analisi della personalità, perché queste
attitudini provengono e dipendono dalla struttura della personalità. La
questione delle caratteristiche di questa struttura dovrà essere ripresa quando
avremo presentato le nostre osservazioni.
Descriveremo,
in primo luogo, due casi decisamente patologici la cui sintomatologia proviene
o dalla depressione mentale – ossia, la melanconia – o dalla nevrosi. Ad essi
aggiungeremo un caso che rimase dubbio, poiché il tempo di osservazione fu
troppo corto e perché la sindrome non era molto definita. Infine, racconteremo
un esempio che tratta di persone cattoliche, che aspirano ad una vita
religiosa. Abbiamo scelto tra le nostre osservazioni questi quattro casi,
perché i primi due ci sembrano molto tipici e perché gli altri due offrono un
interesse particolare, dal punto di vista della psicologia religiosa.
1. – Paulina A., maestra,
trentasette anni, proveniente da una famiglia molto liberale. Ciononostante, fu
posta in una casa di educazione religiosa il cui spirito non ebbe un’influenza
decisiva tanto che la Sig.ra A. abbandonò la scuola dopo quasi dieci anni. Di
carattere serio, amante nell’approfondire le cose, decide di non sposarsi (dopo
un fidanzamento rotto con un uomo che, per ragioni sconosciute, emigra
dall’Austria); sufficientemente contenta della sua professione, che aveva
scoperto persino per inclinazione. A ventisette anni, sentì la necessità
d'incontrare una base solida per la sua vita e, disillusa da alcune filosofie
studiate con un accanimento poco comune, si converte alla religione cattolica.
Di tipo intellettuale più che emotivo, al principio si sentì attratta più dal
lato filosofico del cattolicesimo che dall’idea di una religione viva. Lo
studio di alcuni libri (in primo piano le Confessioni
di sant’Agostino), le conversazioni con un’amica, il sacerdote che questa le
fece conoscere e che assunse come direttore un’importanza enorme: tutte queste
influenze la portarono ad una vita religiosa molto intensa. I progressi che era
cosciente di compiere le provocarono un’allegria molto viva. Per sette anni,
fece il suo dovere con passione e si sentì molto felice. Alcuni mesi prima che
venisse a chiedere il mio aiuto, stava iniziando un cambiamento.
Successivamente, ella perdette i suoi interessi per la professione; insegnare
le pareva una mansione pesante, tediosa, insopportabile. I bambini che aveva
amato la irritavano. Tutto quello che considerava importante o interessante era
diventato insipido. Solo la routine quotidiana e la necessità di guadagnarsi la
vita le impedirono di abbandonare tutto. Ogni cosa concernente la religione le
pareva egualmente sprovvisto d’interesse. Per alcune settimane, continuò
frequentando la Santa Messa ogni giorno, provò a dire le sue preghiere come al
solito, però alla fine cedette al dispiacere che sperimentava. Assisteva
comunque alla Messa la domenica, perché rimaneva teoricamente convinta della
verità cattolica e voleva compiere, senza nulla di più, ciò che le era
comandato. Eppure, la chiesa non era più un luogo in cui si sentiva bene, in
cui cercare, dove incontrare come in precedenza l’equilibrio mentale quando
qualche esperienza sgradevole l’avesse disturbata. Nulla le sembrava avesse ancora
un senso: né l’amicizia, né il dovere, né la religione, né la musica che aveva
amato appassionatamente. Gli uomini, la natura, l’arte, la lettura, tutto era
sprovvisto d’interesse. Per quanto sapesse che in questo mondo si trovava la
bellezza, la grandezza, ecc., ella aveva perduto – diceva – la strada che
conduceva sin lì. Ciononostante, non si riteneva inferma, ma pensava invece di
aver scoperto la inanità delle cose umane e perso allo stesso tempo il gusto
per il soprannaturale. In principio aveva considerato questo stato come una
prova, e sembrava che il suo direttore avesse condiviso quest’idea, tanto da
vedere in essa una specie di “Notte”. Continuò convinta di questo fino a che si
aggiunsero altri sintomi. Sperimentò tentazioni sessuali di un’intensità
sconosciuta fino a quel momento, al meno da quando aveva deciso di condurre una
vita religiosa. Prima di ciò che lei chiamava la sua conversione, era stata
soggetta ad eccitazioni sessuali e si era dedicata ad atti di autoerotismo.
Tutto questo era terminato di colpo dopo la sua “conversione”. A mano a mano
che gli interessi per il mondo esteriore diminuivano, le tentazioni aumentavano
e, trasformatesi in “irresistibili”, sfociarono di nuovo in atti di
autoerotismo. Finì per cercare le sensazioni sessuali che in origine aveva
rifiutato come tentazioni. Definendole irresistibili, senza dubbio le pativa e
non poteva evitare di considerarle come peccati, al contrario del suo direttore
che, nello stesso periodo, aveva concluso giudicando che si trattava di uno
stato patologico. Non solo il suo comportamento sessuale, ma anche tutte le
altre azioni ed attitudini le sembravano soggette a colpa. Si vedeva presa dal
demonio, si credeva perduta per tutta l’eternità: un’anima condannata senza più
diritto alla speranza. Conseguenza logica di quest’idea: cominciò ad
abbandonare il suo lavoro, a chiudersi in se stessa e a trascorrere ore in uno
stato quasi-onirico, perdendosi in fantasie di tipo quasi esclusivamente
erotico. Durante questi periodi, stava molto tranquilla, quasi insensibile a
ciò che la circondava. Questo stato si alternava ad una eccitazione ansiosa
durante la quale si lamentava della sua sorte, si diceva condannata, la
figliuola più infelice e più scellerata del mondo, una peccatrice inaudita, ecc.
Alla fine, l’amica che viveva con lei la obbligò a ricorrere ad un medico,
benché l’inferma non credesse più nella necessità delle cure né nella
possibilità di rincontrare ormai l’antica pace.
Lo sviluppo successivo non ci
interessa. Non discuteremo delle ragioni che contribuirono al sorgere di questa
melanconia – se fosse melanconia, nel senso stretto del termine. Ciò che ci
interessa è solamente il cambiamento di attitudine religiosa che accompagna
questa sindrome di cui fa parte. Non è necessario dire di più, perché non c’è
dubbio sulla natura patologica di tutti questi disturbi e perché lo stato di
aridità-sintomo è sufficientemente chiaro.
Ho
collocato questa osservazione all’inizio perché presenta l’aridità-sintomo come
elemento di una totalità indubitabilmente patologica e perché così richiama la
nostra attenzione sulla possibilità che uno stato simile sorga anche senza
essere accompagnato da sintomi tanto univoci.
II. - Augusto P., ventisei anni,
funzionario della magistratura comunale, aveva terminato il baccellierato e si
era iscritto come studente di teologia. Fu allora che lo conobbi. Aveva
ventidue anni e soffriva di una instabilità emozionale, di frequenti attacchi
di sconforto e di dubbi ed incertezze che avevano soprattutto le caratteristiche
di una ossessione. Questa mentalità, e l'impossibilità da lui accampata di
vincere le abitudini di autoerotismo lo fecero lasciare il seminario alla fine
dello stesso anno. Trascorse sei mesi con la sua famiglia, senza far nulla, e
fu ammesso nella primavera seguente in un ordine religioso. Non poté
permanervi, mostrandosi incapace di conformarsi alla vita comunitaria. Senza
dubbio, la sua decisione di abbandonare definitivamente la teologia ebbe
inoltre un altro motivo. La famiglia e gli amici, considerandolo troppo
sensibile, troppo goffo, troppo ignorante delle cose di questo mondo, gli
diedero il consiglio di permanere, nonostante tutto, nel convento. È così che,
toccato nella piaga della sua ambizione e vanità, decise di dimostrare che
l'idea che si facevano del suo carattere era totalmente falsa. Al principio,
tutto sembrava andare bene; seguì un corso per prepararsi alla carriera di
funzionario, passò l'esame con un esito notevole e, per la mediazione di certi
protettori, trovò presto un luogo – modesto, in verità – però che prometteva un
sicuro progresso. Si iscrisse di nuovo all'università, alla facoltà di diritto.
Lavorò in un dispaccio per sei mesi, più o meno quando lo vidi di nuovo. Due
difficoltà lo incitarono a consultarmi. Si sentiva, diceva, troppo lontano
dagli altri, non sapeva entrare in contatto con i suoi compagni di studio né
rinnovare le relazioni con i suoi vecchi amici. Si trovava isolato, come
rinchiuso in qualcosa che non conosceva, e non comprendendo gli altri, si
sentiva compreso da loro. Inoltre, si lamentava di un indolenzimento emozionale
– per usare le sue stesse parole – di una incapacità a parlare, di una aridità
assoluta per ciò che concerne la vita religiosa. Diceva di aver perso ogni
interesse per la religione e per qualsiasi altra cosa intellettuale o estetica.
Non negava l'esistenza dei valori di ordine morale, intellettuale o estetico
però questi valori “non esistevano più per lui”; aveva di essi una coscienza
teorica, senza conseguire che gli interessassero. Ogni volta che mi veniva a
vedere, il giovane si lamentava di questa frigidezza morale, come egli la
chiamava, e da cui restava quasi affascinato. Secondo lui, l'uomo normale
viveva in uno stato sentimentale continuo ed egli era privo di ogni sentimento.
Si “sentiva freddo” quando si alzava al mattino, non sentiva nulla mentre
leggeva il suo diario, copiava senza interessi la cancelleria del suo ufficio,
ecc.
Da
tutte queste lagnanze emerse l’impressione che il paziente si fosse formato
delle idee molto false circa la vita emotiva normale e che si aspettava da ogni
momento un’esperienza sensazionale. Chi ha mai letto il diario con entusiasmo o
sperimentando al mattino – eccetto alcuni giorni – uno stato emotivo
particolare?
Potremmo
domandarci se, in quest’uomo, ci sia veramente un’assenza di emozioni o se viva
nell’illusione di una tale mancanza, perché crede di aver diritto ad una vita
piena di sensazioni. Non emergendo queste sensazioni, data la sua vita
semplice, senza avventure, borghese, per nulla eroica, vorrebbe procurarsele
almeno nella propria interiorità. Questa interpretazione è probabilmente falsa,
poiché il paziente in passato aveva sperimentato emozioni molto più intense. La
sua vita religiosa, in particolare, era molto più viva e reale. Talvolta, senza
dubbio, si tratta di una illusione della memoria. Però avendo conosciuto questo
paziente in un tempo in cui non lamentava per nulla di questo sintomo, credo
che abbia ragione nel constatare una differenza tra il suo stato presente e
quello precedente.
È
difficile e, quindi, poco interessante ubicare questo caso in uno dei quadri
nosologici. La questione eziologica, ovvero come e perché questo stato si
sviluppò, ha molta importanza. Si potrebbe considerare che questo
indolenzimento emozionale fu la conseguenza dell’abbandono di una vocazione
forse chiara. Non si può attribuire la responsabilità a questo infermo della
decisione di lasciare il seminario, poiché non fece altro che seguire i
consigli dei propri superiori. Però fu una sua decisione l’abbandonare gli
studi intrapresi e scegliere definitivamente una carriera secolare, cosa che
non era per nulla il punto di vista del maestro dei novizi. Si tratta di una
semplice nevrosi, di una reazione psicopatologica, spiegabili per ragioni
puramente naturali, o di una specie di caduta nel nulla religioso per aver
resistito alla chiamata della grazia divina? Le due spiegazioni paiono
possibili; probabilmente c’è qui, come è solito accadere, un intreccio di cause
la cui analisi forse non è impraticabile.
Però,
questa assenza di emozioni, è ciò che si chiama aridità? Non c’è nulla di
strano nel fatto che la frigidità e l’apatia non si limitino alla sfera
religiosa. Si sa che tali stati si possono estendere a parti della vita mentale
molto differenti dal punto di partenza originario. La parola irradiazione, se
non dipinge totalmente il fenomeno, è comunque molto significativa.
L’imbottigliamento potrebbe stabilirsi in un’altra regione ed estendersi alla
vita religiosa. Si tratta di domandarsi se si deve applicare qui la parola
aridità. Nel caso della Sig.ra A., l'aridità – se c’è – sembra risultare da una
depressione che al principio aveva lasciato intatte le emozioni di natura
religiosa. Nel caso del Sig. P., il problema primitivo era localizzato, al
contrario, nella sfera religiosa; lui si sentiva disturbato già da diversi
anni. Si pone una domanda. Se il Sig. P. non si sbaglia sull’origine della
sindrome accusata, dobbiamo domandarci se bisogna intraprendere un
“trattamento” che miri primariamente alla vita interiore.
La
natura inferma di questo stato è fuori di dubbio. D’altronde, questo caso tanto
semplice dà luogo a riflessioni che non mancano d’interesse.
Ciò
che richiama l’attenzione su questo caso, per quanto banale sia, è il problema
dell’eziologia. Se si ammette che l’infedeltà alla vocazione fu la causa
determinante dello schiudersi della nevrosi, ci saranno due spiegazioni
possibili. La prima si appellerà alle leggi – se ci possiamo permettere questo
termine – della vita soprannaturale: l’imbottigliamento emozionale, il
disinteresse per la vita religiosa, si dovrebbero interpretare come una
punizione o almeno come un movimento che allontana progressivamente il soggetto
dalla fede. Però poiché lui non ha ragioni sufficienti, e neanche forza per
diventare un senza fede, rimane unito alla religione senza avere il sentimento
per partecipare ad essa.
La
seconda spiegazione sarebbe, secondo varie forme, puramente psicologica. È
possibile che il momento patogenico si trovi nei rimorsi causati dall’abbandono
di una vocazione; è facile immaginare che tali rimorsi producano una fuga
istintiva, un allontanamento dall’oggetto abbandonato, cosa che, in una natura
abbastanza debole, culminerà in un disinteresse tale come lo descrive il nostro
paziente. Però è possibile anche che il giovane sia stato posseduto da
un’ambizione esagerata e che abbia voluto raggiungere istantaneamente un grado
più elevato della vita interiore, (per caso si era proposto, in seminario, di
arrivare ad essere uguale a san Luigi Gonzaga?) e che, disilluso, aveva
adottato la condotta della volpe che trovava troppo verde l’uva che non poteva
raggiungere.
Senza
continuare oltre questi tentativi di analisi, sottolineiamo che questo caso,
come tanti altri, ci permette di affrontare una domanda molto secca. Il
soggetto è responsabile in qualche modo del suo stato mentale? Una psicologia
strettamente medica può passare oltre, e forse non le è necessario trovare una
risposta per condurre il trattamento a buon fine. Però una psicologia che
contempla la totalità della personalità – che potremmo chiamare psicologia
“antropologica” – deve aver coscienza di questo problema. Personalmente, sono
convinto che non saremo mai capaci di formarci una opinione esatta sulla natura
dei disturbi nevrotici se intendiamo eludere questa questione, limitandoci a
considerazioni psicologiche. Il problema della responsabilità è un problema di
ordine morale. Però non si può comprendere la struttura di una condotta,
qualunque sia, senza considerare i fini perseguiti dal soggetto, i valori che
vuole realizzare attraverso i suoi atti, ossia, la posizione assunta da lui di
fronte alle leggi e ai fatti morali.
Si
è ritenuto opportuno svolgere qui queste segnalazioni perché esse sembrano
mostrare che le questioni, per così dire, transpsicologiche, si mescolano nella
discussione di certi casi che si presentano a
priori come pure nevrosi.
III. – Juana M., venticinque
anni, laureata in Filosofia, viene a consultarmi perché sentiva diminuire la
propria capacità di lavoro intellettuale ed era, inoltre, ossessionata da
un’angoscia generalizzata, senza oggetto definito, che compariva
improvvisamente e senza motivo a metà della notte, durante il lavoro, la
lettura di un libro o l’inattività. A volte, questi attacchi assumevano una
forma più definita: in questi casi aveva timore della vita, del futuro, della
morte, del giudizio. Però generalmente, non era altro che un timore impreciso,
una apprensione di qualche catastrofe, una pressione insopportabile. Durante
questi attacchi, non pensava a nulla, né immaginava alcunché, diventava la preda
assolutamente passiva dell’angoscia che la ossessionava e che – le sembrava –
dormiva nelle profondità dell’io, pronta a risvegliarsi in qualunque momento.
All’inizio, la Sig.ra M. non mi parlò per nulla della sua vita religiosa;
interrogata su di essa, mostrò una reticenza marcata, considerando che su
questa materia solo il sacerdote poteva giudicare e fare domande relative alla
vita interiore. Solo dopo aver chiesto il permesso, su mia richiesta, al suo
confessione, e aver ricevuto da lui la sicurezza del fatto che il suo dovere
era di parlare, ella si decise a raccontarmi alcuni dettagli della sua vita
religiosa. Forse dovrei giustificare questa mia insistenza che potrebbe
sembrare indiscreta per alcuni. La motivavano tre ragioni. Sappiamo per
esperienza che le cose di cui un paziente si rifiuta di parlare hanno molte
volte un’importanza estrema: c’è sempre spazio per supporre che lì si trovi la
chiave della situazione. Inoltre, la vita religiosa è una regione in cui alcune
strutture della personalità si rendono molte volte più visibili che in altre.
Infine, avevo l’intuizione che l’origine dei disturbi della Sig.ra M. si
trovasse precisamente nella vita religiosa.
Dopo
aver superato le sue prime reticenze, la paziente mi confidò dunque che
l’angoscia di cui soffriva tanto si collegava ai problemi religiosi, uno
generale e teorico, e gli altri di ordine personale. Il suo stato anemico, tale
come lei lo descriveva, assomigliava molto all’aridità. Ella aveva goduto durante
tutta l’adolescenza e fino al suo ventiquattresimo compleanno di una grande
pace interiore: si sentiva – affermazione che fece arrossendo e non senza
alcuni dubbi molto evidenti – come “avvolta dall’amore di Dio”, sostenuta dalla
grazia divina, sicura delle sue decisioni, perché non doveva far altro che
interrogare la propria coscienza o raccogliersi in preghiera per sapere che
cosa dovesse fare. Tutto questo edificio di sicurezza si era distrutto in un
giorno. Ella non poteva dire come fosse giunta allo stato presente. Era come un
freddo che invadeva sempre più la sua anima, una inerzia che paralizzava i suoi
movimenti. A volte, credeva di sperimentare nelle profondità dell’ “io” come
una lancia, una spina che cercava di rompere la pace che racchiudeva. Però
questo impulso, appena percepito, terminava in una sorta di contorsione
interiore; aveva la sensazione di uno sforzo inaudito che senza dubbio non
portava a nulla (queste sono le espressioni utilizzate dalla paziente stessa).
Nonostante i suoi sentimenti, era tormentata dall’idea che di questo
inasprimento della sua vita interiore, di questa sensazione di essere rinchiusa
in una cupola di cristallo, trasparente però impossibile da rompere, (ancora
secondo le sue proprie parole) ella era responsabile. Per errori che avrebbe
commesso, era giunta a questo stato deplorevole. È solo quando tentò di
descrivermi la sua situazione – non senza aver cominciato a compiere molti giri
a vuoto – che tutta la disperazione che si era impadronita di lei si rese
visibile. Distrutta, eppure continuava con i suoi lavori, non negando nessuno
dei suoi doveri, occultando il suo stato in modo che nessuno di chi le stava
attorno potesse sospettare alcunché.
Il
suo racconto la sollevò anche se per poco; indirizzata da alcune domande, ella
poté descrivere la sua situazione in un modo molto più dettagliato di quello
che aveva osato presentare al suo confessore. Anche se parlava con un’amica,
non aveva mai raccontato tutte le sue sofferenze. Il suo confessore si era interessato
quasi unicamente alla questione della responsabilità; le aveva detto che
probabilmente non si trattava d’altro che di una idea illusoria nata dal suo
stato generale, che giudicava patologico.
La
Sig.ra M. sapeva perfettamente che i sentimenti e le emozioni non giocano che
un ruolo accidentale nella vita religiosa. Non desiderando cadere negli errori
descritti tanto magistralmente da san Giovanni della Croce; si era accontentata
dal poter glorificare Dio con umiltà, però giustamente non si sentiva ancora
capace. Avrebbe sacrificato con gioia ogni emozione durante la Comunione e
avrebbe saputo consolarsi con la convinzione dell’efficacia della grazia
divina, però questa convinzione sembrava carente di ogni forza, non penetrava
più nell’anima, permaneva un pensiero astratto, teorico, inerte. “Guardi, mi
diceva la ragazza, non ho nulla d’altro che ciò che il Cardinal Newman chiamava
‘notional assent’, non dispongo
d’altro che di concetti razionali, ho perso il “real assent”; è solo la mia ragione che sa, però lì non c’è
nessuno. Ed io so perfettamente perché è così: non è una prova inviata
dall’Alto, ma un castigo e il risultato di qualche errore che ho commesso, sono
giustamente io la prima che è scappata ed è una conseguenza di questo che Dio
mi abbandona”.
Questo
caso fa sorgere vari interrogativi: 1) Lei peccò realmente, così che questo
stato sarebbe il risultato, sia come castigo, sia come conseguenza psicologica?
2) Qual è l’importanza degli attacchi di angoscia? 3) È o no un caso di
nevrosi?
1)
Non ho dubbi nell’affermare che, in accordo con ciò che si sa, non si può
trattare di un peccato, nel senso proprio del termine. La stessa malata non
dice di aver peccato, benché creda o sia convinta di aver commesso un errore.
Ella non giunse mai, nonostante i suoi sforzi, a rintracciare la ragione
dell’inquietudine che disturbava la sua coscienza. Una ricapitolazione
minuziosa della sua vita durante l’ultimo anno non raggiunse un risultato
migliore quando la realizzammo assieme. Anche se facessimo ricorso alla
repressione, secondo la teoria freudiana, non potremmo supporre che la giovane
sia stata colpevole di un errore così grave da giustificare la sua cattiva
coscienza e il suo stato generale. Ci sono azioni “incoscienti” al fondo della
cattiva coscienza che si osservano nella nevrosi? (Una teoria soddisfacente
della nevrosi dovrà, in effetti, aver presente che ogni nevrotico soffre di
angoscia e cattiva coscienza). È sufficiente richiamare l’attenzione su questo
fatto. Concludiamo: nell’ambito in cui lo si può constatare, la ragione della
cattiva coscienza nella Sig.ra M. non è un peccato reale, commesso con pieno
consenso.
2)
La Sig.ra M. soffre di attacchi di angoscia. Questo fatto in sé non implica la
diagnosi di nevrosi. Certe persone, soffrendo di angoscia, non sono nevrotiche,
né alienate, ma semplicemente affette da qualche disturbo organico
(tubercolosi, disturbi endocrini, infermità del cuore). In altri casi,
l’angoscia è pienamente motivata senza che ci sia nevrosi. Un uomo compromesso
in qualche situazione pericolosa sperimenterà facilmente angoscia, anche quando
non considererà in assoluto quel pericolo come imminente. Dirà quindi che non
c’è motivo per angustiarsi perché distoglie lo sguardo volontariamente dalla
causa reale di questa angoscia. Infine, una certa evoluzione della vita
religiosa conduce, in dipendenza da essa, ad un’angoscia di cui torneremo a
parlare durante la discussione sulla diagnosi differenziale.
3)
D’altra parte, la diminuzione della capacità di lavoro di cui si lamenta la
Sig.ra M. non prova neanch’essa la natura nevrotica dell’angoscia; gli stati di
ansia che risultano da cause molto reali possono avere lo stesso effetto.
Segnaliamo senza dubbio che non ci imbattiamo in queste cause reali nel caso
della nostra paziente. Nessun pericolo la minacciava, né di natura economica,
né di natura emozionale. Ella diceva di avere timore della vita, però poteva
ritenere la sua situazione come molto buona: proveniente da una famiglia di un
certo rango sociale, con una posizione soddisfacente e sicura, giovane,
abbastanza bella, intelligente, brillante negli esami, libera di scegliere il
proprio lavoro, colta, ricercata dagli amici – non si vede che cosa abbia da
temere. La morte che credeva – però solamente a volte – essere l’oggetto del
suo timore? Il giudizio? Non si sa.
La
angoscia in se stessa non può servire come unica base per la diagnosi di
nevrosi, proprio come qualsiasi altro sintomo. Lo abbiamo già detto: è
necessario sempre tener presente la personalità totale. Forse la Sig.ra M.
aveva mostrato in gioventù una certa inclinazione all’ansietà. Fu una bambina
timida, che si impauriva facilmente, priva di coraggio. Però verso i dieci
anni, sembrò cambiare di carattere, diventò più energica, si liberò della paura
durante un esame; dette l’impressione di essere una bimba sana, normale, che
compiva il proprio dovere, seria nelle cose importanti senza perdere di
ingenuità e con un umore allegro. Più tardi, essendo diventata naturalmente più
seria, conservò senza dubbio molti tratti della sua infanzia. La rottura tra la
sua vita precedente e la sua vita presente era stata quindi totale. Non
comprendeva né quella che era oggi, ne quella che era stata realmente ieri. La
sua vecchia personalità le era tanto estranea quanto la personalità presente.
Senza dubbio, non aveva perduto il sentimento di sé e si trovava lontana da
qualsiasi “depersonalizzazione”.
Certe
cose le sembravano come cambiate e trasformate in estranee, quello che tentava
di precisare dicendo che non percepiva più il loro significato. Forse questa
definizione non esprimeva esattamente quello che la paziente sperimentava. Non
dimentichiamo che aveva studiato filosofia ed aveva ragionato parecchio sul suo
caso. Quando io le espressi questa segnalazione, ella ammise favorevolmente che
forse io avessi ragione, giudicando tuttavia esatta la spiegazione che mi aveva
dato. Non vedeva ormai nulla “dietro” le cose, queste erano solo ciò che
apparivano, il loro carattere simbolico era sparito.
Quando
era in salute, la Sig.ra M. aveva probabilmente esagerato l’abitudine di
guardare ogni cosa come un simbolo (intendiamo questa parola nel suo senso vero
e non secondo l’interpretazione freudiana). Si potrebbe dire che accettava
integralmente la sentenza di sant’Ireneo: nihil
vacuum neque sine signo apud Deum, credendosi capace di giungervi e
volendo, con una logica eccessiva, impadronirsi delle “cose stesse”, tentando
di vederle quasi come le vede Dio. È qui che lei si è bloccata, dopo il
cambiamento della sua vita interiore. Non si tratta quindi di una perdita del
“pensiero simbolico” come si osserva in certi casi di disturbo cerebrale
organico e tal volta anche in rari stati mentali di origine psicogena, ma di
una incapacità a continuare l’interpretazione particolare del mondo sensibile.
La
paziente sperimentava un “senso di vuoto”, però questo non era il sintomo più
frequente della nevrosi o della psicastenia. In verità, era privata di una
quantità di esperienze di cui godeva in precedenza, però non era la sua persona
quella che sentiva il vuoto. Neppure le mancavano le emozioni, perché ne aveva
in quantità maggiore di quante ne avesse desiderate, perché erano quasi tutte
spiacevoli o anche dolorose. Il processo di svuotamento non si estendeva se non
su di un aspetto della realtà precedentemente superato da un altro più reale,
più importante e che la giovane credeva di indovinare o di intravvedere “dietro”
l'apparenza delle cose. Aveva perso questa facoltà, però non pretendeva per
nulla, come invece fanno tante persone depresse o nevrotiche, che il mondo o le
proprie azioni non avessero più senso. Continuava convinta che nessun
cambiamento fosse sopravvenuto nel mondo dei valori tanto da aderire alle cose
ed alle azioni umane. Però sentiva, nonostante tutto, che una percezione era
evaporata o era stata ridotta a zero.
Questa
seconda realtà era vera, in qualche modo almeno, o totalmente illusoria? La
catastrofe sopravvenuta era la dissoluzione di una realtà o di un mondo
fittizio? Dotata di una viva immaginazione, la Sig.ra M. aveva assimilato
alcune idee filosofiche o teologiche, aveva quindi, facilitato la costruzione
di simboli sensibili al pensiero astratto. Forse credeva vera una realtà,
stando di fronte alle proprie immaginazioni? Tutto questo mondo “trascendente”
non era probabilmente che il prodotto di una specie di trasognatezza, veramente
molto curiosa, però della stessa natura di ogni altro contenuto di uno stato
onirico.
Differenti
in quanto al contenuto, questi trasognamenti avevano per la Sig.ra M.
l'importanza che rivestono in tanti casi di nevrosi. La giovane conduceva una
doppia vita: in realtà faceva finta di stare con tutti gli altri e, allo stesso
tempo, era in un mondo a cui nessuno aveva accesso. In stato di veglia, tutti
gli uomini possiedono un mondo solo, identico per tutti; il sognatore possiede
un mondo solo per sé, diceva Eraclito. Lo sdoppiamento della realtà e della
vita ricorda molto quello che si osserva in molti casi di nevrosi. Senza
dubbio, non si può fare una diagnosi di nevrosi con certezza totale.
Questo
sdoppiamento della vita o illusione di una seconda realtà più reale, sembra
poter portare un po' più in là l'analisi. Oltre che procurarsi l'illusione di
una realtà inaccessibile agli altri, la Sig.ra M. avrebbe dovuto dichiararsi
impotente a penetrare più profondamente la realtà data e accontentarsi del
mondo che, dopotutto, deve bastare a tutti noi. In questo momento ci domandiamo
se la Sig.ra M. fosse stata, in qualche momento, colpevole. È qui, forse, che
incontriamo la causa della cattiva coscienza e percepiamo la mancanza commessa.
La Sig.ra M. era, per ciò che ci sembra, colpevole di aver aspirato ad
intuizioni più che umane, di aver desiderato, senza moderazione né discrezione,
la rivelazione di un mondo occulto ai nostri occhi, di aver desiderato di porsi
al posto di Dio stesso, se non in quanto alla sua onnipotenza, almeno in quanto
alla sua onniscienza. Era caduta nell'antica e sempre nuova seduzione: eritis
sicut Dii.
Si
sa che Alfred Adler vedeva nell'illusione di essere uguale a Dio un tratto
fondamentale del carattere dei nevrotici. Questa osservazione mi sembra molto
giusta. Però questo non esclude l'esistenza della stessa attitudine al di fuori
della nevrosi. I nevrotici, è vero, non hanno coscienza dei propri intenti che
sono necessariamente infruttuosi; non sanno che desiderano raggiungere una
posizione a cui nessun uomo può accedere. Però non è del tutto sicuro che
questa particolarità basti per costituire una nevrosi. Forse ci sono altri
stadi in cui l'uomo rimane incosciente di “desiderare di essere come Dio”.
Dall'età
della riflessione, la Sig.ra M. era stata ossessionata dal desiderio di
conoscere, di vedere, di comprendere: in questo è evidente la sua passione come
maestra. Al principio avevo avuto l'impressione che il motivo per cui la giovane
soffriva particolarmente era a causa della perdita di questo calore di cui si
sentiva circondata in precedenza. Più tardi, mi divenne manifesto che questa
sofferenza, benché acuta, occupava un posto secondario: il fatto centrale
doveva essere il dissolvimento della “seconda realtà”. Tutta l’ambizione di cui
l’anima della Sig.ra M. era piena si dirigeva verso una conoscenza più
profonda, a volte più ampia, ed è qui che lei era fracassata completamente. La
batosta fu così dura che non solo aveva aspirato ad una visione per così dire
metafisica, ma anche aveva desiderato raggiungerla direttamente. Pensava di
aver ottenuto il suo obiettivo senza dover essere passata attraverso tutti i
gradi che forse le avrebbero potuto portare un qualche aspetto, però non la
conoscenza come lei la sognava, se avesse saputo aspettare con pazienza ed
umiltà.
Si
comprende ora, mi sembra, il luogo che occupa l’angoscia in tutta questa
sindrome. È sorta quando l’edificio delle illusioni metafisiche è crollato. La
questione dell’angoscia è stata molto studiata in questi ultimi anni, tanto
nella psicologia descrittiva come nella filosofia chiamata esistenziale. Per
quanto divergenti possano essere le opinioni sull’angoscia, senza dubbio sono
d’accordo su di un punto: tutti gli autori dichiarano che l’angoscia è legata
intimamente all’esperienza dell’ignoto, e che essa è imparentata a quella del
nulla. Tutti questi contributi sulla psicologia dell’angoscia sono fortemente
influenzati dalla filosofia di S. Kierkegaard che è anche il padre della
“filosofia dell’esistenza”. L’angoscia pone l’uomo di fronte all’ignoto e al
nulla, o meglio è la reazione dell’uomo quando si vede fronteggiato dal nulla o
dall’ignoto.
Non
possiamo analizzare qui né l’angoscia, né le relazioni con il nulla e l’ignoto,
cosa che abbiamo già fatto altrove. Però ci sembra chiaro, sebbene senza
analisi, che le due condizioni dell’angoscia sono riunite nel caso della Sig.ra
M. La paziente credeva di possedere la conoscenza di un mondo “sopra la realtà”
che le rappresentava l’essenza stessa delle cose. Ridotto questo mondo al
nulla, la giovane si scontra con un mondo trasformato in estraneo e quasi
sconosciuto perché tutto ciò che aveva un senso era sparito. Solamente
rimanevano i segni, però erano privi del loro senso. La situazione può essere
paragonata a quella di un uomo che repentinamente aveva perso la facoltà di
comprendere le parole, o di un altro uomo che pativa di agnosia. K. Goldstein
descrisse molto luminosamente l’angoscia come “reazione di catastrofe”; ogni
volta che l’uomo fronteggia una situazione di catastrofe, l’angoscia compare.
La situazione della Sig.ra M. era assolutamente tale: un mondo soprareale
abbattuto, di fronte un nulla impenetrabile, senza alcun significato. In mezzo
ad un mondo divenuto incomprensibile senza il sostegno dell’amore di Dio di cui
era stata tanto sicura, la giovane, come conseguenza di una fatalità
inesorabile, cadde preda dell’angoscia.
3)
La sindrome e la sua genesi potrebbero giustificare la diagnosi di nevrosi se
non si incontrassero certi tratti che sembrerebbero opporsi a tale ipotesi. Nonostante
la sua doppia vita e benché ella credesse di vivere, per cosi dire, in un altro
mondo, la Sig.ra M. non manifestava per nulla la ristrettezza egocentrica che
si incontra in quasi tutte le nevrosi. Benché in piena disperazione, non aveva
perso il contatto sociale, non si era ripiegata per nulla in se stessa, né
tentava di ottenere una posizione con l’impiego dei “mezzi della debolezza”
(formula molto conosciuta ed abbastanza caratteristica della psicologia
adleriana).
Ci
asterremo qui da ogni giudizio definitivo, tanto più perché – come già abbiamo
detto – non ci fu possibile continuare questa osservazione per un tempo
maggiore, avendo dovuto la Sig.ra M. abbandonare Vienna, per ordine dei suoi
genitori che la richiamarono a casa. Di conseguenza, non classificheremo questo
caso. Però ci sembra molto istruttivo perché dimostra la difficoltà, a volte
davvero grande, con cui si può incontrare la diagnosi differenziale. Esso merita
una speciale attenzione anche per un’altra ragione. Il “freddo”, la riduzione
emotiva, la perdita degli interessi per le cose religiose, il dispiacere per la
preghiera di cui la Sig.ra M. parlava quasi esclusivamente quando cominciò a
scoprire il suo stato interiore, apparvero come accidentali a fianco di altri
disturbi. Può essere, quindi, che uno stato di aridità – crediamo che si possa
usare questo termine – nella nostra paziente sia una cosa aggiunta a disturbi
più fondamentali. Non osiamo senza dubbio affermare che questo fatto possa
servire come base alla diagnosi differenziale. Non traiamo se non una sola
conclusione: in queste materie, ci sono complicazioni a cui talvolta non è
stata prestata tutta l’attenzione che meritano.
IV. Luis C., trentasei anni,
ingegnere in capo di uno stabilimento industriale. Nato come protestante, quasi
non aveva ricevuto formazione religiosa. A ventisette anni, decise di lasciare
la chiesa protestante, non volendo sembrare ciò che non era. In effetti, per
più o meno cinque anni, fu un “libero pensatore”, entusiasmato dalla scienza,
che egli credeva capace di rimpiazzare la religione e di offrire la base di una
vita felice per l’umanità. Si convertì in un socialista convinto, e consacrò
gran parte del suo tempo libero alla propaganda delle idee marxiste. Avido di
incontrare la verità, continuò studiando le scienze naturali; però a mano a
mano che le sue conoscenze si ampliavano e si facevano più profonde, cominciò a
scoprire che la fisica non bastava per spiegare il mondo. L’impossibilità, in
particolare, di incontrare in essa una base per una filosofia della storia,
spezzò la sua convinzione socialista, sembrandogli che il materialismo storico
fosse impossibile da giustificare. Al non poter più difendere con tutto il
cuore il sistema socialista, accettò di prendere parte attiva nei lavori del
partito. Due anni dopo, prese la decisione di separarsi dal socialismo.
Questa
decisione gli costò molto, perché dovette rinunciare ad alcune idee che amava e
che occupavano una gran parte della sua vita. Così aveva perso le sue
convinzioni precedenti senza poterle rimpiazzare. Sentì un vuoto abbastanza
penoso e tentò di dimenticarlo, lavorando accanitamente, divertendosi quanto
gli fosse possibile, leggendo molto, ad eccezione di qualsiasi opera di
filosofia, di religione o di politica. Senza possedere un’opinione ben
definita, senza dubbio non smise di essere un libero pensatore. Non dubitò nel
contrarre una “libera unione” con una giovane che condivideva le sue idee. Però
sua moglie dovette comprendere questa libertà in un senso più ampio: non gli fu
fedele e, dopo sei mesi di convivenza, abbandonò il focolare. Per riempiere il
vuoto della dipartita del suo antico amore, raddoppiò il lavoro e la
dissipatezza. Era giunto all’età di trentadue anni quando ricevette come
assistente un giovane che proveniva da alcuni esami di matematica. La
collaborazione quotidiana evolvette, dopo un certo tempo e nonostante una
reticenza molto pronunciata del Sig. C., in una sorta di amicizia. Seguirono
numerose discussioni. Il giovane era molto interessato ai fondamenti filosofici
delle scienze naturali. Per poter rispondere agli argomenti del suo amico, il
Sig. C. si vide obbligato a riprendere i suoi studi, da tanto tempo
abbandonati, sulla filosofia della natura. Insensibilmente la discussione si
intrufolò in un terreno metafisico.
Su
di esso, avendo il Sig. C. dovuto trascorrere un po’ di tempo nel demanio per
organizzare alcuni lavori, assistette per caso alla santa Messa, un giorno di
festa, in una chiesa del popolo. Benché non comprese quasi per niente le
cerimonie, il raccoglimento delle persone, la pace del loro volto, l’atmosfera
stessa lo impressionarono fortemente. Alcune settimane prima, un compagno del
suo amico, discutendo con lui su questioni di cosmologia, aveva citato alcune
frasi, prese, aveva detto, dalla filosofia scolastica, cosa che lo aveva
interessato molto. Questi due eventi destarono nel Sig. C. il desiderio di
informarsi un po’ sulla filosofia e la religione cattolica. Il matematico amante
della scolastica a cui si diresse per conoscere i libri che desiderava studiare
lo mise in contatto con un giovane sacerdote. Sei mesi dopo si faceva
cattolico.
Si
consegnò alla vita religiosa con lo stesso ardore che aveva dimostrato per il
socialismo. Senza cambiare eccessivamente la sua vita esteriore, si compromise
con impeto nella sua nuova via. Incoraggiato da quel giovane sacerdote al fatto
che gli mancavano senza dubbio un po’ d’esperienza e di discernimento, il Sig.
C. divenne avido di sensazioni, di emozioni, di progressi sensibili. La
filosofia cristiana gli sembrava eccessivamente sobria, preferiva leggere opere
di teologia mistica e, incapace di distinguere le opere maestre da una
letteratura ben più sentimentale, leggeva tutto ciò che gli cadeva tra le mani.
Una specie di vanità puerile lo rendeva orgoglioso per aver rinunciato alla sua
vita precedente. L’impressione ricavata durante la visita alla chiesa del
popolo gli sembrava un miracolo e come una grazia particolare. Forse era vero,
però egli non possedeva l’attitudine che occorreva, perché era più orgoglioso
che grato. Si credeva una specie di “eletto”, idea alimentata da certe parole
del suo direttore spirituale che considerava questo caso come molto
eccezionale.
C’è
qui allora il Sig. C., pieno di ambizione spirituale, di una sete di esperienze
interiori, convinto di una sorte totalmente unica, sicuro di poter compiere
progressi enormi, sperando di scalare la montagna della perfezione correndo.
Di
colpo, la scena cambiò. Le emozioni piacevoli che accompagnavano la preghiera
scomparvero; l’impulso verso Dio non si fece sentire più, la lucentezza delle
rivelazioni che aveva creduto di percepire si estinse. L’ascensione alla cima
non si presentò più come una meta facile, ma come uno sforzo penoso ed anche
impossibile. Non si sentiva più, a differenza di prima, come trascinato alla
preghiera, verso la chiesa; i suoi doveri religiosi gli inspiravano un vivo
dispiacere. Doveva sforzarsi dove prima aveva incontrato il culmine dell’allegria
e della soddisfazione. Il direttore spirituale, poco al corrente – per quanto
sembri – di queste cose, si impaurì dello stato del Sig. C.; credette che fosse
malato, nevrotico, forse melanconico e gli consigliò di chiedere consiglio ad
un medico.
Dopo
aver esaminato Luis e richiesto l’opinione di uno specialista in medicina
interna – per escludere ogni infermità organica – non avendo incontrato alcun
sintomo corporale né mentale che giustificasse una diagnosi di nevrosi,
conclusi che si trattava di quello che ho chiamato aridità-stadio. A partire da
questa opinione, non poteva essere più un caso da trattamento. Per mia
sicurezza, tornai a vedere il Sig. C. diverse volte, però tutte le nostre
conversazioni non fecero altro che confermare il mio giudizio. Tutto ciò che
credevo di dover fare quindi fu spiegare a Luis perché non lo potessi legare ad
una diagnosi di nevrosi e gli consigliai di chiedere aiuto ad un sacerdote
preparato. Comunque mi feci promettere dal mio cliente che lo sarei tornato a vedere
se tale sacerdote lo avesse considerato malato, o se avesse prodotto qualche
sintomo evidentemente patologico.
Non lo sono tornato a vedere.
Non
mi pare che questo caso necessiti di una discussione più estesa. Però ci
colloca di nuovo di fronte al problema della diagnosi differenziale. Mi si
permetta quindi di aggiungere alcune osservazioni su questo punto.
Le
somiglianze tra alcuni fenomeni della vita interiore ed alcuni sintomi psicogeni
sono state osservate da medici che, però, conclusero che questi fenomeni dovessero
essere considerati come morbosi. Questa teoria insostenibile non fu concepita
se non perché questi scienziati non conoscevano a fondo altro che i sintomi
patologici, mentre ignoravano totalmente il carattere della personalità
religiosa e – contrariamente al principio – giudicarono un sintomo senza tenere
in conto la personalità totale. Potrebbe esserci qualcosa di vero in questa
idea, per quanto falsa fosse. I fenomeni anormali o sopranormali della vita
religiosa non formano in assoluto un gruppo di fenomeni patologici o nevrotici,
però forse sarebbe difendibile la teoria inversa. Non avrà la nevrosi qualche
relazione benché sconosciuta con la vita interiore? Ho spiegato altrove che
considero come base di ogni disturbo nevrotico un “conflitto metafisico” e che
al fondo di ogni nevrosi c’è un falso atteggiamento dell’individuo verso
l’ordine dell’essere e l’ordine dei valori. Non conoscendo il posto che gli
appartiene nell’ordine dell’essere, il nevrotico cade presa dell’angoscia; non
conoscendo ciò che gli appartiene nell’ordine dei valori, ha la coscienza
turbata. Sono convinto che una teoria soddisfacente della nevrosi non possa
essere elaborata se non si risale, per dir così, ai principi stessi
dell’esistenza umana. (Il che non vuol dire che bisogna fare della filosofia
esistenziale come la intendono alcuni autori moderni!).
Ci
possiamo domandare se tra il nevrotico e l’uomo che partecipa a certe
esperienze sopranormali ci sia differenza essenziale o se non ci sia altro che
una differenza di grado. Ben inteso, non si può supporre che ci sia una
transizione graduale dalla nevrosi alla santità (per dirlo brevemente). La
prima è uno stato puramente naturale, la seconda dipende dall’influenza della
grazia divina. Però bisogna domandarsi se non esiste una relazione abbastanza
stretta tra la nevrosi ed il peccato. (Lascio a lato la questione molto
difficile, però molto interessante, delle relazioni tra i fenomeni di origine
demoniaca e certi sintomi di nevrosi). L’idea di una curiosa prossimità tra la
situazione del peccatore e quella del nevrotico si impone con una certa forza
di fronte all’atteggiamento di questi malati che, sapendo quello che devono
fare e sentendosi capaci di farlo, persistono comunque nei propri abiti
anormali o viziosi. Nel comportamento di questi esseri c’è qualcosa che ricorda
molto la condotta del peccatore incallito.
Tra
la nevrosi e i fenomeni della vita interiore ci sono, comunque, molte grandi
differenze. Le si scopre quando si considera, non solamente gli stati isolati,
ma il corso di tutta una vita. Nella nevrosi non c’è arricchimento, in se
stessa non è mai una tappa di un movimento progressivo, il tempo che perdura è
quasi totalmente perso. Nessuno trae vantaggio dal fatto di aver attraversato
una nevrosi; una volta curata, il soggetto forse ha acquisito alcune conoscenze
della natura umana ed avrà una nozione più esatta della propria personalità,
però avrebbe potuto acquisire tale conoscenza con più profitto senza passare attraverso
la nevrosi. Gli stadi della vita interiore, per anormali che possano sembrare,
esitano in un progresso reale.
Però,
si dirà, tutto questo non chiarisce la diagnosi differenziale, perché non si
tratta di una constatazione a parte post.
Comunque, il fatto che il ruolo degli stati di aridità-stadio, da una parte, e
gli stati di aridità-sintomo, dall’altra, è fondamentalmente differente
nell’evoluzione della personalità, sembra almeno lasciarci intravvedere una
differenziazione possibile tra queste due specie di stati.
La
personalità del nevrotico si caratterizza per ciò che gli psicologi tedeschi
hanno chiamato “Unechtheit”, termine
difficile da tradurre. (Approssimativamente: falsità, falsificazione). Con esso
si vuole designare la divergenza tra le attitudini fondamentali e reali della
personalità, da una parte, e il comportamento e modo di esprimersi, dall’altro.
È “unecht” (falsa, apocrifa, imitata,
falsificata) ogni condotta che ricorda il ruolo, la maschera, la posizione;
però la “Unechtheit” può andare
ancora più lontano ed è per questo che si trasforma in una caratteristica della
personalità nevrotica. Un uomo che occupa un ruolo, che porta una maschera, che
si pone per altro (tipo del quale l’impostore non è altro che un esempio)
rimane cosciente di essere un attore, di comportarsi in un modo che non gli è
“naturale”. Qui la “Unechtheit” può
essere definita come una mancanza di sincerità. Alcune persone sanno portare
una maschera per tutta la vita senza preoccuparsi; altri si rovinano per la
costrizione e la tensione tra la propria vera natura e il ruolo che occupano.
(È il caso del padre Cenabre di Bernanos, fatta distinzione delle cause
soprannaturali). Però ci sono certe persone – ed in gran numero – che non sono
coscienti, o non lo sono più, di occupare un ruolo. La falsificazione si
estende quindi sull’esperienze della stessa persona; occupa una parte non solo
davanti agli altri, ma anche davanti a se stessa.
Forse
non è stato osservato a sufficienza che la questione del ruolo occupato ci pone
di fronte ad un problema interessante, somigliante a quello della menzogna.
Come si può sostenere con certezza che una persona mente, che realmente e in
profondità non è ciò che sembra essere? Per quale dono misterioso riusciamo a
perforare la superficie, a scoprire dietro la maschera la realtà e a discernere
la divergenza tra una e l’altra? Tutto ciò che sappiamo è semplicemente che il
fatto esiste, però non sembra possibile spiegarlo. Grazie alla stessa facoltà,
siamo coscienti della mancanza di sincerità di un racconto che ci proporziona
ad un nevrotico, senza poter indicare gli elementi che ci danno questa
impressione.
Potremmo
equivocarci in un giudizio che si appoggia solo su tali impressioni. Però si
giunge, grazie ad una maggiore esperienza, a fidarsi di esse con una certa
sicurezza. A dir la verità, solo l’esperienza ci aiuta qui. Ho conosciuto
alcuni medici che, di fronte ad un malato e facendo una di quelle diagnosi che
li avevano resi famosi, si servivano come argomento decisivo di queste parole:
“Ricordo di aver visto un caso così”. A dispetto del progresso della scienza
medica, l’esperienza personale conserva un’importanza estrema. La medicina
continua ad essere un arte: ars medica.
Accade lo stesso con la diagnosi del carattere e con la diagnosi differenziale
degli stati mentali, tranne quando non si tratta di semplice alienazione
mentale.
Queste
osservazioni relative al problema della diagnosi differenziale tra
l’aridità-sintomo e l’aridità-stadio sono probabilmente poco soddisfacenti.
Però, dal momento che questo problema non è stato sufficientemente studiato –
intendo dire, dal punto di vista della psicologia medica – non è possibile dire
su di esso molto di più, per il momento. Per il resto, la mia intenzione non
era, e non poteva che essere altrimenti, di portare soluzioni definitive; tutto
ciò che ho creduto di poter fare, è di indicare le grandi linee e di richiamare
l’attenzione degli psicologi su fatti il cui studio forse hanno trascurato. Ciò
che volevo, quindi, era di avvertire coloro che si occupano della direzione delle
anime, i quali non saranno in grado di formarsi un giudizio valido su di uno
stato di aridità se non terranno in conto la personalità totale, a meno che
siano dotati di una perspicacia tale che, senza alcuna analisi, penetrino i
ripiegamenti segreti di un’anima. Però, di fatto, non si conosce mai a
sufficienza una personalità. Se dicessimo di qualcuno: “Impossibile che sia
nevrotico. Io l’ho conosciuto da piccolo e lo ho seguito sino ad oggi. No, no,
non è nevrotico!...”, ci fideremmo delle impressioni ricevute. Però queste
impressioni saranno forse differenti se avessimo ammesso dal principio la
possibilità di una futura nevrosi. Quindi, avremmo prestato attenzione a mille
piccoli tratti che abbiamo trascurato perché ci sembrava che non avessero alcuna
importanza. Ci sono modi molto diversi di conoscere un uomo. La sua famiglia lo
conosce in un modo, i suoi amici in un altro; la conoscenza di un medico
differisce da quella di un sacerdote, poiché vede lo stesso soggetto da punti
di vista differenti. Lo stesso accade con il direttore delle anime. Quella
persona, che credeva di conoscere perfettamente, può manifestare particolarità
di cui non sospettava la possibilità, semplicemente perché non possedeva alcuna
ragione per prestarvi attenzione. Avviene allora la possibilità di procedere ad
una revisione della nozione che abbiamo di una personalità, quando questa
comincia a mostrarsi sotto un aspetto sconosciuto sino a quel momento.
Sarebbe
desiderabile che il direttore spirituale potesse, in un caso che offra fenomeni
di dubbia interpretazione, chiedere il parere di uno psicologo medico, a
condizione però che sia capace di giudicare sulla materia. Per farlo, è
necessario che abbia qualche nozione di psicologia religiosa. Speriamo che, in
un futuro non troppo lontano, ci siano medici cattolici sufficientemente
formati per aiutare i sacerdoti. Fin quando non possederemo il dono del
discernimento degli spiriti, sarà necessario utilizzare i dati della scienza.
Però tale scienza deve prima di tutto studiare i fatti senza alcun pregiudizio.
Siamo lontani da una conoscenza soddisfacente di questa materia, però è già
qualcosa aver intravisto i problemi. Una psicologia medica che ignori
l'esistenza di questi problemi non può contribuire ad alcuna soluzione.
Senza
dubbio, considero importante ripetere ciò che ho detto già prima: il medico non
potrà né dovrà mai desiderare di rimpiazzare il direttore spirituale. Egli non
è più che un aiuto. Il suo compito, comunque, continua ad essere grande ed
importante, benché sia limitato. Si riassume con le parole del profeta: Parate
viam Domini, rectas facite semitas ejus.
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