Il libro del professor Ermanno Pavesi, psichiatra e docente universitario in Svizzera, è uno di quei testi che uno psicologo cattolico non può esimersi dal leggere e dal custodire gelosamente nella propria libreria. Poco meno di un angelo - L'uomo soltanto una particella della natura? (Edizioni D'Ettoris, Crotone 2016, 312 pp., 20,90 euro) ripercorre le vicende storico-filosofiche della medicina, ed in particolare di quella parte della medicina che s'interessa della psiche, la psicoterapia/psichiatria o cura dell'anima, sin dalle origini fino al tempo presente. Evidenziando le riletture storiche fallaci, specialmente degli autori dell'Umanesimo e della Riforma Protestante - Pavesi evidenzia una linea di pensiero della modernità che, attraverso gli autori del rinascimento prima e della modernità poi, conduce al determinismo biologista della contemporaneità. Si tratta di un determinismo che a volte è dichiaratamente materialista (si pensi all'estremizzazione dell'importanza del cervello - neuroni e neurotrasmettitori - a discapito della mente - intelletto e volontà) altre volte è spiritualista (l'inconscio, l'occultismo, ma anche l'astrologia - nel libro è sorprendente scoprire come quest'ultima non abbia mai smesso di esercitare una forte influenza sui teorici della medicina).
Ne pubblichiamo la Prefazione, scritta dal professore Mauro Ronco.
Ne pubblichiamo la Prefazione, scritta dal professore Mauro Ronco.
Poco meno di un angelo
Prefazione di Mauro Ronco
Ermanno Pavesi |
Formatosi scientificamente in Italia nella nobile Università
di Modena, ove si laureò in Medicina nel 1973 e si specializzò in Psichiatria
nel 1977, egli è stato tra i fondatori, alla fine degli anni ’60, di Alleanza
Cattolica, formandosi alla sequela di Giovanni Cantoni, che predicava ai
giovani la conversione spirituale insieme con l’approfondimento culturale come
via maestra per riguadagnare i fondamenti della civiltà cristiana.
Pavesi, senza mai dimenticare questa lezione, si è trasferito
in seguito nella Svizzera di espressione linguistica tedesca, al fine di
svolgere attività professionale e scientifica nelle cliniche psichiatriche
delle Università di Basilea e di Zurigo. E’ stato anche docente in Antropologia
psicologica e in Psicologia della Religione all’Università germanica
Gustav-Siewerth-Akademie di Weilheim-Bierbronnen, nonché in Psicologia alla
Theologische Hochschule Chur presso la Facoltà di Teologia della Diocesi di
Coira. Egli mai ha abbandonato l’impegno pubblico per la promozione e la difesa
dei princìpi umanistici nella medicina e nel diritto. Per vent’anni (dal 1988
al 2008) è stato Segretario dell’Associazione dei Medici Cattolici Svizzeri,
nonché, dal 1992 al 1996, Segretario della Federazione Europea delle
Associazioni dei Medici Cattolici e, dal 2010, Segretario generale della Federazione
Internazionale delle Associazioni dei Medici Cattolici (FIAMC). Ha altresì
profuso con generosità le sue conoscenze scientifiche per la difesa della
verità del diritto e della medicina nell’ambito della militanza di Alleanza
Cattolica.
2.
Il titolo dell’opera di Ermanno Pavesi (“Poco meno di un angelo. L’uomo:
soltanto una particella della natura?”) costituisce una guida precisa alla
lettura. Nei ventitré capitoli dello studio, infatti, l’Autore, percorrendo gli
itinerari della scienza psicologica lungo il corso del tempo, dalla Grecia
classica alla contemporaneità, coglie l’irriducibile conflitto tra due opposte
concezioni dell’uomo: quella di coloro che vedono in esso la creatura fatta da
Dio a sua immagine e somiglianza e quella di coloro che lo riducono a un grumo
di materia, prodotto casuale dell’evoluzione.
Il filo rosso dello studio è la certezza metafisica
dell’Autore in ordine all’unità della persona umana, composta dall’unione
indissolubile dell’anima e del corpo. Tale unità metafisica fonda
epistemologicamente la stretta connessione tra la conoscenza universale e
filosofica dell’anima e la sua conoscenza sperimentale e fisiologica. La
rottura dell’unità dell’anima e il disprezzo per la sua conoscenza filosofica
costituiscono i punti dolenti della psicologia materialistica, che riduce
l’uomo, pur sotto vesti diverse, a una particella della natura. Pavesi,
consapevole dell’insegnamento del Concilio Vaticano II in Gaudium et Spes,
ove è detto che l’uomo «[...] non sbaglia a riconoscersi superiore alle cose
corporali e a considerarsi più che soltanto una particella della natura o un
elemento anonimo della città umana»[1],
conferma le parole conciliari con la sua esperienza scientifica, passando in
rassegna le varie visioni naturalistiche che, spesso in contraddizione tra
loro, cercano vanamente di spiegare l’attività psichica dell’uomo senza il
ricorso all’anima spirituale.
3.
Nel primo capitolo dell’opera Pavesi focalizza la crisi della civiltà come
crisi della concezione dell’uomo. Vero è che, per comprendere tale crisi,
occorre appuntare l’attenzione, oltre che sui fatti e sulle idee, soprattutto
sulle tendenze[2]. Alla
base delle tendenze, però, vi è un’opzione fondamentale, più o meno chiara
alla grandissima parte degli uomini, circa il significato del proprio stare
nel mondo, a seconda che ci si consideri creature volute da Dio in un disegno
d’amore, ovvero se ci si consideri un mero prodotto della natura. Dalla prima
visione scaturisce lo stupore per l’incommensurabile grandezza di Dio, nonché
il rispetto per se stessi e per gli altri; dalla seconda germina l’invidia
verso Dio, la sfiducia verso se stessi e il sospetto verso gli altri.
Il tema relativo alla concezione circa l’uomo, la questione
antropologica, in altri termini, riveste importanza cruciale, come ci ricorda
san Tommaso d’Aquino nella Summa contra Gentiles sostenendo che l’errore
sulle creature «[...] porta falsità nella scienza intorno a Dio, svia le
menti degli uomini da Dio, verso il quale si sforza invece di indirizzare la
fede, mentre esso le assoggetta a certe altre cause […]»[3].
Pavesi, in tale spirito, si interroga sulle ricadute, in filosofia e in
psicologia, del rifiuto dell’insegnamento biblico in ordine alla creazione di
Dio e al particolare ruolo che Egli ha riservato agli uomini, a ogni uomo in
particolare, nell’universo creato.
4.
I quattro capitoli seguenti sono dedicati alla scoperta dell’anima nella
filosofia e nella medicina dell’antica Grecia. Non è possibile qui addentrarsi
nell’esposizione del pensiero dei grandi filosofi e terapeuti dell’antichità,
che Pavesi tratta perspicuamente, anche se sinteticamente, alla luce
soprattutto degli studi di Giovanni Reale[4].
Decisiva è la riflessione di Socrate, riferita da Platone nel Fedone[5],
che distingue tra la causa materiale di un’azione e le ragioni per le quali
essa è compiuta. Con ciò è superata, una volta per tutte, la visione
deterministica dell’uomo. Una cosa sono i nervi e le ossa. Se fosse per essi
Socrate sarebbe già fuggito lontano dai suoi carnefici. Ma un conto sono i mezzi,
altra e diversa cosa è la causa, che è la ragione per cui agisco, grazie
all’intelligenza che mi guida alla decisione libera in virtù della scelta del
meglio. L’uomo non è un semplice esecutore di istinti o impulsi naturali, né è
schiavo di influssi astrali o di stimoli rivenienti da entità sopraterrene, ma
è padrone di sé stesso, delle proprie azioni grazie alla sua anima, principio
spirituale incorruttibile e inconcutibile, che è il suo vero tesoro.
Platone arricchisce il patrimonio della cultura con due
ulteriori riflessioni. La prima concerne lo scopo dell’educazione, che deve
formare l’anima dei giovani alla temperanza, al pudore e alla fortezza,
distogliendoli dalle tendenze alla sopraffazione, all’anarchia, alle dissolutezze
e all’imprudenza[6]. La
seconda concerne la scoperta della parte irrazionale dell’anima, in cui si
muovono passioni e istinti primitivi che, privi di un principio intrinseco di
autoregolazione, debbono essere dominati dalla ragione.
Aristotele è il fondatore della psicologia per aver
affrontato alla luce dell’esperienza il tema del rapporto tra il corpo e
l’anima. La sua lezione è ancora oggi attuale. Egli intende l’anima come il
principio vitale di ogni essere vivente: «[...] quindi l’anima è
l’entelechia prima di un corpo naturale che ha la vita in potenza»[7],
ove l’entelechia è la potenzialità di ogni essere vivente diretta verso
un fine preciso. Pavesi mette in luce la fondamentale importanza di Aristotele
per gli sviluppi successivi del pensiero occidentale in ordine all’uomo. Segnala,
però, oltre alla sua incommensurabile profondità filosofica, altresì i problemi
da lui lasciati aperti, in particolare quelli sulla separabilità dell’anima
razionale dal corpo e, conseguentemente, sull’immortalità dell’anima.
Nelle pagine dedicate a Ippocrate e a Galeno Pavesi individua
la dialettica tra una medicina integralmente umanistica, espressa soprattutto
nel Corpus Hippocraticum, tesa a favorire il rapporto armonico dell’uomo
con la natura, tenendo conto dei vari fattori che caratterizzano la sua
complessione fisica e psichica, e una medicina, che si riscontra in particolare
nel medico e filosofo greco Claudio Galeno, che, radicalizzando la teoria
umorale e mettendo in relazione gli umori con le influenze astrali inaugura un
filone naturalistico, che svaluta la dimensione spirituale dell’uomo, destinato
ad avere un notevole rilievo agli inizi dell’epoca moderna.
5.
Nei capitoli 6 (“La svolta cristiana”), 7 (“La penetrazione dell’aristotelismo
nell’Occidente latino e le reazioni della Chiesa”) e 8 (“S. Tommaso e la
crisi della cultura nel XIII secolo”), l’Autore esamina alcuni tra i problemi
concettuali più importanti dell’opera. Per un verso egli mette in luce che,
grazie all’apertura della ragione alla fede, la filosofia è pervenuta nel XIII
secolo a uno dei punti più alti di comprensione della natura dell’uomo. La
definizione di san Severino Boezio del concetto di persona è, nella sua
profondità e concisione, una conquista permanente della mente umana, che
difficilmente potrebbe essere superata[8].
Per un altro verso, però, Pavesi mette in luce che anche le verità più
importanti guadagnate con la ragione non restano a lungo incontrastate. Invero,
non appena la sintesi veritativa sulla natura dell’uomo è raggiunta,
immediatamente essa è contestata e messa in discussione. Pavesi dischiude in
tal modo il profilo di lotta per e contro la verità sull’uomo che segna ogni
epoca storica. Poiché la mente umana, creata da Dio, ha in se stessa un lume di
vero che viene dal suo Creatore, l’uomo non può perdere del tutto e
definitivamente la nozione della sua origine divina[9].
Tuttavia, questa conquista è sempre in pericolo.
Pavesi coglie le tracce di questa lotta soprattutto durante
la crisi del XIII secolo. Il secolo vede con san Tommaso d’Aquino il sublime
inveramento del pensiero classico nella filosofia cristiana; tuttavia
dall’interpretazione materialistica di Aristotele vengono gli attacchi più
sottili e insidiosi alla visione cristiana dell’uomo come persona libera e
responsabile.
L’Autore si sofferma al riguardo sul tema concernente la
minaccia alla visione cristiana dell’uomo proveniente dai commenti ad Aristotele
dei filosofi arabo-mussulmani Avicenna e Averroè, che mettevano in crisi
l’individualità e l’immortalità dell’anima, ponevano limiti alla Provvidenza;
negavano il libero arbitrio, contraddicendo alcuni insegnamenti fondamentali
del Cristianesimo.
Nel descrivere la “crisi della cultura nel XIII secolo”,
l’Autore rileva la problematicità dell’incontro di Aristotele con la cultura
cristiana richiamando il memorabile discorso di Benedetto XVI alla Curia
romana del 22 dicembre 2005: «[...] fu soprattutto san Tommaso d’Aquino a
mediare il nuovo incontro tra fede e filosofia aristotelica, mettendo così la
fede in una relazione positiva con la forma di ragione dominante nel suo tempo»[10].
Dalla lettura immanentistica di Aristotele germina una linea di pensiero
caratterizzata da una particolare «vivacità materialista», che «non
porta a Tommaso e allo spirito dell’Aldilà, ma a Giordano Bruno e alla materia
universale vivente»[11].
È merito di Pavesi attirare l’attenzione sull’influenza che
la «sinistra aristotelica» ebbe nella storia del pensiero occidentale. L’idea,
tratta dall’interpretazione arabo-mussulmana di Aristotele, che la sostanza
dell’anima razionale o intellettiva non è veramente la forma del corpo umano,
ma che essa è mortale o unica per tutti gli uomini, è il fomite di varie forme
di materialismo e sta all’origine della decadenza del concetto di persona come
ente spirituale e libero[12].
6.
I capitoli 9 (“L’Umanesimo”), 10 (“Francesco Petrarca e la nascita
dell’Umanesimo”) e 11 (“Umanisti cristiani”) sono dedicati all’esame
di un fenomeno culturale, spesso equivocato o, almeno, letto impropriamente
con gli occhiali deformanti dell’illuminismo agnostico e dello storicismo
tedesco del XIX secolo. L’esame, nelle sue varie sfaccettature, di quel
complesso movimento di pensiero che va sotto il nome di Umanesimo consente
infatti a Pavesi di porre in luce le aporie e le deficienze della lettura
consueta, che vede nell’Umanesimo la discontinuità radicale con la tradizione
cristiana, quasi che il movimento fosse un’anticipazione dell’illuminismo
deistico ormai distaccato dalle fonti cristiane. Jacob Burckhardt esprime
paradigmaticamente il pregiudizio fallace circa l’orientamento globalmente
anticristiano dell’Umanesimo[13].
Pavesi, riproponendo la lettura accurata delle fonti, in modo particolare dei
tre umanisti italiani Francesco Petrarca, Coluccio Salutati e Giovanni Pico
della Mirandola, spiega che la loro attenzione per i classici latini e greci
non è frutto di un mero interesse filologico, ma, soprattutto, dell’amore per
il contenuto morale e formativo delle opere antiche. La critica alla cultura
accademica dominante, tanto medica quanto giuridica, non si rivolge contro la
sintesi tomistica di teologia e filosofia, ma si oppone all’interpretazione
materialistica di Aristotele e all’infiltrazione nell’insegnamento
universitario di concezioni naturalistiche e deterministiche.
In questi capitoli Pavesi approfondisce il tema della lotta
permanente, viva in ogni epoca storica e in tutti i settori della cultura, tra
il determinismo e il libero arbitrio e, prima ancora, tra la concezione del Dio
trinitario e personale e il «deus sive natura». Pavesi dedica un esame
puntuale allo scritto di Petrarca Invective contra medicum[14], ove
sono contestate le influenze averroistiche delle teorie mediche del tempo ed è
affermato che la conoscenza raggiunge la sua pienezza con l’aiuto della Grazia[15].
Anche Coluccio Salutati, cancelliere di Firenze dal 1375 fino
alla morte nel 1406, combatte per il libero arbitrio ed esalta il primato della
giurisprudenza sulla medicina, perché alla legge spetta definire positivamente
il comportamento retto alla luce del fine dell’uomo: «[...] per il bene
perseguito, il diritto è superiore alla medicina, che si occupa e preoccupa
della salute, cioè di un bene naturale»[16].
Pavesi riscatta infine il pensiero di Giovanni Pico della Mirandola dall’accusa
di antropocentrismo, mettendo in luce la profondità teologica del Discorso
sulla dignità dell’uomo, imperniata sull’immagine e somiglianza di Dio[17].
Per questo l’uomo è persona, dotato di intelletto e di libero arbitrio, da cui
sgorga la responsabilità per le proprie azioni, tanto che l’uomo può degradarsi
al livello delle bestie, ovvero di ascendere con la grazia di Dio fin verso le
creature divine.
7.
Il capitolo 12 (“Martin Lutero e la Riforma protestante”) è cruciale
nell’economia dell’opera. Pavesi ricorda che il cuore della riforma luterana
risiede nel pessimismo antropologico, che scuote tanto l’edificio dell’uomo
quanto quello della società. Citando la risposta di Lutero a Erasmo da
Rotterdam sul tema del libero arbitrio, Pavesi osserva che il riformatore
tedesco, scagliandosi contro le tesi di Erasmo a favore della libertà
dell’uomo, riconosce tuttavia a quest’ultimo il merito di aver capito il nucleo
essenziale della sua rivolta, che si annida nella negazione della volontà e
della libertà umana. Il De servo arbitrio – sottolinea Pavesi – è un
testo fondamentale nella storia del cristianesimo e della civiltà europea. Per
Lutero affermare la libertà della volontà umana sarebbe empietà, perché ciò
implicherebbe la pretesa di porre limiti alla volontà divina[18].
Il determinismo teologico conduce Lutero a svalutare tanto la ragione quanto la
volontà umana: la prima incapace di distinguere il bene dal male; la seconda,
schiava della concupiscenza della carne: «[...] non una parte soltanto
dell’uomo, sia essa la migliore o la principale, è carne, ma [...] tutto
l’uomo è carne; e, come se non bastasse: [...] tutto il genere umano è
carne»[19]. Richiamandoci
a una lettura realistica di Lutero, che ne mette a fuoco il determinismo e il
pessimismo antropologico, Pavesi riannoda i fili di una storia ininterrotta di
empietà, che si distende dai tempi antichi alla postmodernità, storia in cui si
consuma, a causa della negazione della libertà, lo sfiguramento dell’uomo.
Lutero non rappresenta soltanto un evento interno alla storia della Chiesa,
bensì anche un evento della storia dell’umanità in cui si concretizza quella
sfiducia nell’uomo, siccome sarebbe totalmente compromesso dal peccato originale,
che è germe di allontanamento da Dio, nonché di solitudine e di disperazione.
8.
Nei capitoli 13 (“Dall’astrologia alla concezione meccanicistica
dell’universo”), 14 (“L’affermazione del modello meccanicistico”),
15 (“Sviluppi del dualismo cartesiano”) e 16 (“Thomas Hobbes, teorico
dell’Assolutismo”), Pavesi si addentra nell’esame del determinismo moderno
che si sviluppa all’interno della concezione meccanicista dell’universo.
I temi trattati sono molteplici. Tra i tanti mi preme
metterne in evidenza almeno tre. Il primo riguarda la persistenza agli inizi
dell’era moderna di concezioni astrologiche, magiche ed ermetiche. Esse, lungi
dallo scomparire rapidamente con l’avanzare dei «lumi», costituiranno dapprima
il veicolo verso la nuova scienza empirica e, successivamente, andranno a
rappresentare il volto «caldo», nascosto, esoterico, irrazionalistico
della modernità.
Il secondo tema, più noto, concerne la definitiva frattura,
avvenuta con Cartesio, all’interno dell’uomo, diviso in due sostanze differenti,
l’una completamente soggetta alle leggi della natura materiale (res extensa),
l’altra (res cogitans), immateriale e libera. Le ricadute contraddittorie
della concezione cartesiana sulla psicologia sono evidenti. Le funzioni
psichiche apparterrebbero in parte alla macchina del corpo e in parte
all’anima razionale. Separata così l’unità psicosomatica dell’uomo, il dialogo
tra le due parti dell’anima diventa impossibile.
Pavesi mette in luce le problematiche che scaturiscono nella
filosofia moderna dal dualismo cartesiano, che oscilla dagli occasionalismi che
cercano di far coincidere l’attività della mente con quella del corpo,
all’armonia prestabilita di Leibniz fino all’opzione ateista e materialistica
di Spinoza e di La Mettrie. Spetta a quest’ultimo il passo conclusivo, che
Pavesi così stigmatizza: «Se Descartes aveva parlato della macchina del
corpo, La Mettrie fa un passo ulteriore e considera non solo il corpo ma tutto
l’uomo, quindi anche le funzioni psichiche, come una macchina con una
concezione materialista senza più alcun riferimento a Dio»[20].
Il terzo tema concerne i risvolti sociali e politici del
determinismo antropologico, particolarmente chiari in Hobbes. Come l’individuo
così la società è sottoposta alle leggi ferree della natura. La lotta contro
la dignità della persona, la negazione della peculiarità dell’attività mentale
umana rispetto a quella degli animali, il rifiuto del libero arbitrio e la
cancellazione della differenza tra il giusto e l’ingiusto vanno a costituire i
pilastri della vita sociale e politica dominata dall’ingiusto potere
dell’orrendo Leviatano[21].
Pavesi mostra, per un verso, le analogie tra Hobbes e Lutero
sul «servo arbitrio», sul pessimismo antropologico e sulla natura a-morale =
immorale del potere politico. Per un altro verso, egli osserva lucidamente che
in Hobbes si annidano i germi anticipatori delle varie psicologie contemporanee
del profondo, in cui le forze istintive cavalcano la ragione e la volontà come
se esse fossero le loro bestie da soma. Hobbes costituisce, secondo Pavesi, il
ponte tra le tendenze deterministiche antiche, di tipo superstizioso, e quelle
immanentistiche caratteristiche della modernità.
9.
L’ultima parte dello studio, dal capitolo 17, sul sorgere di una nuova
religiosità tra il ‘700 e l’ ‘800 nell’opera di Schleiermacher, al capitolo 23
sulla “Crisi della modernità”, presenta una diagnosi della condizione
attuale dell’antropologia, stretta tra determinismo biologico, psicologico e
sociologico. L’Autore accompagna l’esame del pensiero dei «maestri del
sospetto», tra cui spicca l’approfondimento condotto su Nietzsche e Freud,
alla speranza del ritorno a una concezione dignitaria della persona.
In questa prospettiva, alla desertificazione dell’umano
conseguente alla «morte di Dio» e all’ «eclissi del padre», Pavesi oppone che
l’abbandono di Dio e l’esautorazione dei genitori dal profilo educativo dei
figli non hanno affatto liberato l’uomo, ma l’hanno vieppiù schiavizzato,
lasciandolo in balìa di istinti e di forze irrazionali. Alle pretese
dell’evoluzionismo radicale e dell’eugenismo materialistico, Pavesi risponde
mostrando l’irriducibilità delle azioni umane al dato meramente materiale. Il
riferimento scientifico è all’opera Persona e atto di Karol Wojtyla – il
futuro Papa san Giovanni Paolo II – che, richiamandosi alla tradizione
filosofica di Aristotele e di san Tommaso, valorizza l’atto umano come «[...] concretizzazione
del dinamismo proprio della persona umana»[22],
caratterizzato dal libero arbitrio, in cui le dimensioni somatiche e
psichiche sono trascese nella dimensione spirituale della persona, tesa nel suo
compimento in Dio[23].Al
determinismo della psicologia del profondo, al riduzionismo del
comportamentismo e alle correnti materialistiche presenti nelle neuroscienze e
nella contemporanea filosofia della mente, Pavesi contesta l’arbitrarietà
delle ipotesi esplicative alla base delle varie concezioni; la loro
contraddittorietà intrinseca; la loro inconciliabilità reciproca e la loro
incapacità di dar conto della complessità dell’umano.
L’Autore rileva, sulla scorta delle lezioni tenute da Romano
Guardini negli anni 1947-1948 all’Università di Tübingen (raccolte nel volume
“La fine dell’epoca moderna”)[24],
che il riduzionismo materialistico e antidignitario dell’uomo si accompagna
invariabilmente all’elaborazione di una cultura non cristiana, che caccia Dio
fuori dal mondo o addirittura lo rifiuta in modo implacabile. Per molti secoli
la cultura moderna ha convissuto con i valori umani illuminati dalla Rivelazione
cristiana, ritenendo che essi potessero sussistere anche autonomamente da essa.
Senonché, come rileva Guardini: «[...] questi valori ... sono legati alla
Rivelazione, la quale si trova in un particolare rapporto riguardo a ciò che è
immediatamente-umano. […] Il carattere di persona è essenziale
all’uomo, ma esso diviene visibile allo sguardo ed accettabile alla volontà,
quando, in grazia della adozione a figli di Dio e della Provvidenza, la
Rivelazione schiude il rapporto col Dio vivo e personale»[25].
Ma questa credenza sta svanendo. E alla «morte di Dio»,
consumata «idealmente» nelle teoriche ultimative della modernità, si accompagna
il tentativo post-moderno di distruggere concretamente «l’umano nell’uomo».
In questo frangente così drammatico per il destino
dell’umanità la lezione di Ermanno Pavesi si rivela preziosa.
I cattolici impegnati nello studio delle scienze hanno il
compito arduo, ma entusiasmante, di ricostruire, sulle rovine dello scientismo
riduzionistico, e con i frammenti di verità via via guadagnati nel corso del
tempo, l’edificio grande di una scienza che riconosca l’unità della persona in
cui si integrano indissolubilmente anima e corpo, alla luce della verità
luminosa che l’unità costituisce l’impronta nell’uomo dell’immagine e
somiglianza del Dio creatore. Quell’unità infranta che, dopo, la caduta nel
peccato, Dio ha voluto restaurare facendo prendere per mano gli uomini dal suo
Figlio unigenito e inviando loro a sostegno e consolazione il suo Santo
Spirito. Per l’avvenuta redenzione e per la vittoria definitiva di Gesù Cristo
sul «mondo», come insegna Pavesi, non v’è ragione di lasciarsi prendere dalla
disperazione neppure nell’ora oscura della post-modernità in apparenza
trionfante.
[1] Concilio
Vaticano II, Costituzione pastorale sul mondo contemporaneo, Gaudium et
Spes, n. 14, 7 dicembre 1965.
[2] Come
insegna magistralmente la scuola di pensiero contro-rivoluzionaria. Cfr. in
particolare Plinio Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione,
con lettere di encomio di S. E. Mons. Romolo Carboni, arcivescovo titolare di
Sidone e nunzio apostolico, e con L’Italia tra Rivoluzione e
Contro-Rivoluzione, saggio introduttivo di Giovanni Cantoni, 3a ed. it.
accresciuta, Sugarco, Milano 1977.
[3] S.
Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles ossia La verità della fede
Cattolica, Società Editrice Internazionale, Torino 1930, vol. I, L. II,
cap. II, p. 191.
[4] Cfr. in
particolare Giovanni Reale, Radici culturali e spirituali dell’Europa. Per
una rinascita dell’“uomo europeo”, Raffaello Cortina, Milano 2003.
[5] Platone,
Fedone, 98 C-99 B, in Idem, Tutti gli scritti, a cura di Giovanni
Reale, Rusconi, Milano 1997, pp. 76-130.
[6] Platone,
Repubblica, in Idem, Tutti gli scritti, cit., 559 A - 560 D, pp.
1067-1346 (p. 277).
[7] Aristotele,
De anima, II (B), 1, 412 A, p. 128, in Opere, v. IV, Della
generazione e della corruzione, Dell’anima, Piccoli trattati di storia
naturale, Laterza, Roma-Bari 1973.16
[8] Severino Boezio, “[...] Personae
est definitio: naturae rationabilis individua substantia”, Idem, Contra
Eutychen, III, in The theological tractates, Harvard University
Press, Cambridge, Massachusetts 1997, p. 84.
[9] Giambattista
Vico, De universi iuris uno principio et fine uno, in Opere giuridiche.
Il diritto universale, a cura di P. Cristofolini, Sansoni, Firenze 1974,
cap. XXXIV, pp. 17-343 (52): «Laonde, nell’uomo corrotto non sono del tutto
spenti i semi della verità, e questi coll’aiuto d’Iddio, valgono a fargli
dispiegare una forza che contrasta alla corruzione della natura».
[10] Benedetto
XVI, Discorso alla Curia Romana in occasione della presentazione degli
auguri natalizi, giovedì, 22 dicembre 2005.
[11] Cfr.
Ernst Bloch, Das Materialismusproblem, seine Geschichte und Substanz, [Il
problema del materialismo, la sua storia e la sua sostanza], Suhrkamp,
Francoforte sul Meno 1985, pp. 480-481. È stato soprattutto il filosofo
marxista Ernst Bloch a individuare, accanto alla ricezione aristotelica di
Tommaso (che inaugurerebbe il sorgere di una «destra aristotelica»), la forte
presenza di una «sinistra aristotelica», che interpreta in modo materialistico
Aristotele, alla sequela di Avicenna e Averroè.
[12] Per due
secoli, ininterrottamente, il Magistero della Chiesa combatte questo pernicioso
errore, che erode la radice della dignità della persona e del libero arbitrio
dell’uomo. Pavesi riporta opportunamente nella sua opera i dettami del Concilio
di Vienne del 1312 e del Concilio Lateranense V del 1513, alla vigilia della
scissione luterana. Così recita il Lateranense V: «Ora … il seminatore di
zizzania, l’antico nemico del genere umano [cf. Mt 13,25], ha osato seminare e
moltiplicare nel campo del Signore alcuni errori estremamente perniciosi, che i
fedeli hanno sempre respinto, soprattutto sull’anima razionale, secondo cui
essa sarebbe mortale o unica in tutti gli uomini. Poiché alcuni, che si
dedicano alla filosofia con leggerezza, sostengono che questa proposizione è
vera, almeno secondo la filosofia, desiderando prendere gli opportuni
provvedimenti contro questo flagello, con il consenso di questo santo concilio,
condanniamo e riproviamo tutti quelli che affermano che l’anima intellettiva è
mortale o che è unica per tutti gli uomini, o quelli che avanzano dei dubbi a
questo proposito: essa infatti non solo è veramente, per sé ed essenzialmente,
la forma del corpo umano, come si legge in un canone del nostro predecessore
papa Clemente V [1305-1314], di felice memoria, pubblicato nel concilio
generale di Vienne, ma è anche immortale, e, data la moltitudine dei corpi nei
quali è infusa individualmente, essa può essere, deve essere ed è moltiplicata […]».
Concilio Lateranense V, sotto Leone X (1513-1521), Sessione 8a, 19 dicembre
1513: Bolla Apostolici regiminis, in Heinrich Denzinger, Enchiridion
symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, Edizioni
Dehoniane, Bologna 2001, nn. 1440-1441, p. 621.
[13] Jakob
Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, trad.it., Newton
Compton, Roma 2010.
[14] Francesco
Petrarca, Invective contra medicum, testo latino e volgarizzamento di
ser Domenico Silvestri [1335 ca. - 1411 ca.], Edizioni di Storia e Letteratura,
Roma 1950.
[15] Ibidem,
p. 71: «Infatti la perfetta conoscenza di Dio non è raggiungibile con gli
studi umani, ma è una grazia celeste».
[16] Coluccio
Salutati, Vom Vorrang der Jurisprudenz oder der Medizin. De nobilitate
legum et medicinae, edizione bilingue latino-tedesca, Fink, Monaco di
Baviera 1990, p. 100.
[17] Giovanni
Pico della Mirandola, Discorso sulla dignità dell’uomo. Oratio de hominis
dignitate, a cura di Francesco Bausi, 2a ed., Fondazione Pietro Bembo/Ugo
Guanda, Milano-Parma 2007.
[18] Martin
Lutero, Il servo arbitrio (1525), a cura di Fiorella de Michelis Pintacuda,
trad. it., Claudiana, Torino 1993.
[19] Ibidem,
p. 330.
[20] Ermanno
Pavesi, in questa opera, p. 194.
[21] Thomas
Hobbes, Leviatano, testo inglese del 1651 a fronte, testo latino del
1688 in nota, a cura di R. Santi, Bompiani, Milano 2001, II, XVII, 13, pp.
281-283. «[...] quel Dio mortale a cui dobbiamo la nostra pace e la nostra
difesa».
[22] Karol
Wojtyła, Persona e atto, trad. it., Libreria Editrice Vaticana, Città
del Vaticano 1982, pp. 45-46.
[23] Ibidem,
pp. 224-228.
[24] Romano
Guardini, La fine dell’epoca moderna, trad. it., in Idem, La fine
dell’epoca moderna. Il potere, Morcelliana, Brescia 2007.
[25] Ibid.,
pp. 98-100.
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