Il contributo di Paul Vitz alla psicologia cattolica ha destato l'interesse di diversi studiosi, anche italiani. Nel 2012 la rivista Tredimensioni ha pubblica la traduzione di un'intervista a Vitz, apparsa precedentemente in lingua originale su Edification, primo giornale della Society for Christian Psychology. Si tratta di un testo semplice e ad ampio raggio, che ben ci permette di approfondire ulteriormente il pensiero di questo autore e, quindi, dell'indirizzo dell'Institute for the Psychological Science (IPS). Ringrazio Alessandro Manenti, direttore di Tredimensioni, per la concessione.
Presente e futuro della psicologia cristiana.
Intervista a Paul C. Vitz[1]
Nota introduttiva
Paul C.
Vitz è docente
di psicologia presso
l’Institute for the
Psychological Sciences di Arlington
(USA) e professore
emerito di psicologia
presso la New York University.
È autore di numerosi
saggi sul rapporto
tra religione (in
particolare l’antropologia della
fede cristiana) e le psicologie contemporanee. Sebbene
poco conosciuto in
Italia, su questo
tema è un
riferimento d’obbligo nella letteratura anglofona. Di particolare
rilievo i suoi studi sulla psicologia umanista o della realizzazione di sé, di
cui fu dapprima estimatore e poi lettore critico, in quanto da lui ritenuto un modello che
implicitamente mette la
psicologia nella posizione
che una volta
era occupata dalla religione e propone un percorso di
identità orientato al culto di se stessi (P. C. Vitz, Psicologia e culto di sé.
Studio critico, EDB, Bologna 1992). Attento lettore della società postmoderna
ne propone un ricupero in chiave «transmoderna», con un’interessante proposta
già presentata in «Tredimensioni», VII
(2010), pp. 133-144
(Identità di Sé:
la nuova proposta
transmoderna). Di interesse
più direttamente
psicoanalitico il suo
libro sull’inconscio cristiano
di Freud e
gli scritti sulla rilevanza psicologica del concetto di padre.
Lei è uno degli
psicologi più noti degli ultimi trent’anni per aver proposto una critica
cristiana della psicologia
secolare. Eppure, all’inizio
dei suoi studi lei non era credente. Che ruolo ha giocato la psicologia
nella sua conversione al cristianesimo e cattolicesimo? Può raccontarci il suo
percorso di fede?
Per molti versi la mia conversione è stata un ritorno al
cristianesimo… per esclusione. Dopo essermi sposato ed esser divenuto padre, ho
iniziato a chiedermi seriamente in cosa credessi, che padre volessi essere per
la mia famiglia e chi io fossi. A quel
tempo avevo presente
solo quattro possibili
visioni del mondo:
la politica liberale, la
religione orientale (e
la relativa spiritualità), il
modello psicologico del culto
di sé (con
l’ambizione professionale per
il successo personale) e la
religione tradizionale (che per me equivaleva al cristianesimo). Negli
anni ‘60, a
Standford (California) e al Greenwich
Village di New York,
mi interessavo di
politica liberale di
stampo marxista-socialista e
della spiritualità New Age.
Nei due campi
ho conosciuto autorevoli
esponenti ma nessuno mi
colpì veramente. La
spiritualità New Age
mi sembrava una
sorta di turismo religioso, dove
ciascuno attinge a piacere dalla spiritualità orientale fino a ridurla a un
insieme di credenze più convenienti e popolari. La politica di sinistra mi
sembrava troppo piena di violenza, chiusure mentali e cliché. D’altronde, la
vita mi aveva già
vaccinato dalla promessa
di un’utopia sponsorizzata
dal potere politico. La cultura
che teorizza il
culto di sé
mi attraeva molto
di più. Nel
mio ambito professionale questo era un concetto assodato e, per molti
versi, lo è tuttora. Tuttavia ho iniziato a nutrire il sospetto che chi idolatrava
se stesso venerava in realtà uno stupido.
Col tempo, il
culto di sé
si frantuma contro
una realtà inesorabile. Scartati questi
tre riferimenti, non mi rimaneva
che la possibilità
del cristianesimo, e la
cosa non mi
entusiasmava per nulla.
Leggevo sul New
York Times dichiarazioni di
Billy Graham (n.d.t.:
uno dei predicatori
protestanti più popolari negli
USA) o del Papa. Ne intuivo la portata, ma non riuscivo a credervi. Mi trovavo
nella strana situazione di sapere che, lì, qualcosa era vero, ma di non essere capace
di crederci. Nonostante i
nuclei di verità
che coglievo nelle
fonti cristiane, l’idea di
accettare l’intero sistema
era più di
quanto potessi tollerare. Malgrado ciò,
dal 1973 ho
iniziato ad approfondire
il cristianesimo. All’inizio avevo molti
dubbi sui fondamenti
razionali della fede
cristiana; condividevo l’atteggiamento
scettico tipico di molti accademici. Poi ho iniziato a leggere autori come C.S.
Lewis e G.K.
Chesterton. E con
mia sorpresa, mi
è apparso subito evidente che il cristianesimo
possedeva delle risposte: era un quadro di riferimento profondo, solido, una
visione del mondo davvero coerente. Al confronto, le deboli ideologie secolari
apparivano decisamente limitate. Il vero
problema che restava era la volontà. Dovevo cambiare stile di vita e ciò diede
inizio a un
lungo combattimento che
è ancora ben
lungi dall’essere risolto. Buona
parte dei miei
passi sono stati
in realtà esigui,
con solo alcuni momenti di grande cambiamento[2].
Potrebbe richiamare
alcune idee della sua critica alla psicologia secolare?
Negli anni ’60
e ‘80 ho
avuto a che
fare con la
psicologia umanista dell’autorealizzazione.
Non riuscivo a credere come potesse esser presa seriamente. Dal punto
di vista intellettuale
mi sembrava una
prospettiva ingenua. Dava importanza al narcisismo e cercava di
sostenere che la realizzazione di se stessi è lo scopo ultimo della vita. Mi
pareva di assistere alla reincarnazione dell’eresia più antica –
«sarete come dei» – anche
se espressa in
termini di scientificità. Nella visione
cristiana, la realizzazione
del Sé è
la conseguenza della
sequela e dell’obbedienza a
Cristo. Per la psicologia umanistica, la realizzazione del Sé è il risultato dell’obbedienza al
proprio volere. Proprio
quel Sé che
Gesù chiede di rinnegare. Sono stato e rimango molto
critico nei confronti della psicologia umanista, a differenza della psicologia
sperimentale-cognitivista o della psicoanalisi. Anche su queste ultime si
potrebbero dire molte cose sui loro assunti di base ma sono seri tentativi
intellettuali. La psicologia umanista possedeva ben poco delle solide basi scientifiche
della psicologia sperimentale-cognitivista e mancava della profondità, della complessità e della coscienza della
dimensione tragica della vita e del male, proprie della psicoanalisi. Prendo
atto che le espressioni estreme della psicologia del culto del sé in voga tra
il 1955 e
il 1985 sono
ormai storia passata.
Anche se la
«cultura del narcisismo» permane
come dato di
fatto, la sua
legittimità intellettuale si è considerevolmente
affievolita.
Oggi lei nutre una
maggiore speranza nei confronti della psicologia? E in tal caso, per quali
ragioni?
Effettivamente è così
e – devo
ammetterlo – con
mia grande sorpresa.
A partire dagli anni ‘90 ho notato cambiamenti importanti e positivi
all’interno della disciplina psicologica. Sono state pubblicate e ampiamente
accolte varie evidenze in favore del ruolo positivo della religione nella vita
delle persone. Il divorzio è stato
chiaramente riconosciuto nei
suoi effetti nocivi
sulla prole. Ad
esempio, il lavoro di R. Enright
e E. Worthington[3]
ha messo
le basi di una psicologia
del perdono; M. Seligman
e altri ricercatori[4]
hanno promosso lo
sviluppo di una psicologia positiva
basata sul riconoscimento dell’importanza delle
virtù; a mia volta sono entrato in contatto con molti
psicologi cristiani (per lo più protestanti evangelici) che mi hanno
incoraggiato nel mio lavoro di integrazione tra psicologia e cristianesimo. Ritengo
che oggi la psicologia sia una disciplina molto più realistica e che, di conseguenza,
proponga conclusioni più
valide e corrette.
Il suo ambito esplicativo è stato ridimensionato ed
è diventata molto più umile. Le scoperte della biologia hanno ridotto lo
spettro dei comportamenti mentali in precedenza appaltati alla spiegazione
psicologica (come il
disturbo ossessivo-compulsivo). Si
è anche sempre più consapevoli
dell’importanza della religione (intesa quanto meno come spiritualità) per il
benessere dell’individuo. Alcuni decenni fa, chi aveva bisogno di significato e
di un senso
della vita si
sarebbe rivolto soprattutto
alla psicologia. Oggi molti
riconoscono che - a differenza della religione o della spiritualità - la psicologia non è in grado di soddisfare
queste domande.
Come psicologia e
teologia cristiana possono dialogare in modo costruttivo? La psicologia cosa
può aggiungere alla visione cristiana del mondo?
La psicologia ci aiuta a comprendere i diversi
condizionamenti della libertà umana,
gli ostacoli alla
fede, ma può
anche essere uno
strumento che facilita
il cammino di fede:
Giovanni Battista potrebbe
essere il patrono
di una visione cristiana della psicologia. Nel mio
libro Faith of the
Fatherless[5]
ho fatto
vedere che la
psicologia favorisce molto la comprensione di Dio in quanto Padre. Le
stesse teorie di Freud possono dare un contributo alla teologia. Per Freud il
complesso di Edipo marca la struttura
fondamentale di ciascun
individuo; ogni persona
possiede istinti aggressivi e
sessuali, ciascun uomo desidera uccidere il padre (e ogni altra figura d’autorità) e
possedere sessualmente la
madre (e ogni
altra figura materna). Dal punto
di vista cristiano,
l’antropologia freudiana può
essere interpretata come un’elaborazione concettuale dell’uomo
vecchio (tale infatti è la depravazione del
peccato originale). La
psicoanalisi offre una
comprensione profonda della
natura finita e ferita dell’uomo.
E che contributo può
dare alla psicologia la tradizione intellettuale cristiana?
Il contributo più
evidente della teologia
cristiana alla psicologia
è la comprensione della natura
fondamentale del soggetto, una visione di cosa significa essere una persona
umana. Ma fornisce
anche altri apporti.
È in grado
di rispondere ai
dilemmi intrinseci alle teorie psicologiche. Ad esempio, è in grado di
risolvere il dilemma edipico descritto dalla teoria freudiana tradizionale[6].
Gesù è l’anti-Edipo, il solo in grado
di modificare il
Super-Io. Cristo può,
ad esempio, anche
risolvere un dilemma insito
nella teoria junghiana.
Jung, a fondamento
della psicologia maschile, aveva
proposto quattro archetipi di base: il Re, il Combattente, l’Amante e il
Saggio/Mago. Ma la
teoria junghiana è
priva di uno
schema di riferimento morale che
indichi come vivere
questi archetipi secondo
una modalità positiva invece che distruttiva e come
integrarli, equilibrarli fra loro. Le persone divine del Padre e del Figlio
possono essere prese come modelli che unificano gli archetipi junghiani nella
comune matrice del
servizio agli altri.
L’immagine del Padre rappresenta la mascolinità come esempio
di generosità e dono di sé che unifica i quattro archetipi.
L’archetipo di Cristo
rappresenta la forma
più elevata della mascolinità etica: Cristo il Re, Cristo
l’Amante, Cristo il Combattente (nella lotta spirituale) e Cristo il Sapiente
(l’operatore di miracoli). Ma ci sono tante altre teorie psicologiche con
dilemmi risolvibili mediante
il ricorso a
risposte teologiche piuttosto che
a elaborazioni solamente psicologiche.
Può spiegare il
concetto di «realtà transmoderna» da lei recentemente proposto? Come vi colloca
la psicologia?
Quasi tutti i
teorici della cultura
concordano nel definire
il nostro tempo come un periodo di tardo modernismo
decadente; con un linguaggio più elegante, lo
chiamiamo tempo postmoderno.
Giovanni Paolo II
nell’Enciclica Evangelium Vitae l’ha
definito una «cultura
di morte». Di
certo, ha dei
tratti nichilisti e decostruttivisti; le arti e la cultura
popolare hanno varie tendenze che celebrano la morte; e i nemici dell’Occidente
sanno ben individuare le nostre debolezze. Con
il termine «transmoderno»[7]
intendo lo sforzo
culturale, che a mio parere
sta per iniziare, di prendere il meglio della modernità al fine di trasformarlo, trascenderlo e trasfigurarlo. Per trasformare la
modernità è necessario interpretarne e
contestualizzarne gli sviluppi
all’interno di uno
schema di riferimento più
ampio che non
rifiuta la modernità
ma cerca di
rimuoverne i pregiudizi antireligiosi
e conservarne le
scoperte oggettive. Il
transmoderno è in netto contrasto con il fondamentalismo. I
fondamentalisti – siano essi protestanti, cattolici, mussulmani o hindu – hanno
la pretesa di riportare il mondo a quello di 150, 200 o 500 anni or sono.
Trasformare la modernità non significa ritornare al passato, ma
vivere il presente
senza sbarazzarsi del passato. Per trascendere la modernità è necessaria una visione
religiosa (o spirituale) e un sistema morale e ideale. La
cultura transmoderna riconosce
che la persona
umana non è una semplice macchina,
ma una persona
chiamata a trascendere
se stessa. Grazie
a questa trasformazione e a
questa trascendenza, il postmoderno sarà trasfigurato
in modo da trasformare la forma attuale o l’ambiente fisico in cui viviamo.
Questa visione è implicita
nell’invito di Giovanni
Paolo II a
«varcare la soglia
della speranza» e ad immaginare una «nuova cultura dell’amore». Scorgo
molti segnali (sobri
ma importanti) che
indicano questo cambiamento già
in atto. Naturalmente, gli aspetti di morte sono davanti a tutti noi ma vi sono
buoni motivi per essere ottimisti. A mio parere, l’approccio cristiano alla
stessa psicologia, inclusa l’importanza terapeutica del perdono, è uno di
questi piccoli eppure significativi
esempi della cultura
transmoderna che avanza. Collocare la psicoterapia all’interno
di un quadro di riferimento cristiano è in grado di trasformare
gli aspetti migliori
degli approcci terapeutici
oggi esistenti. L’accettazione e
il rinforzo di
un’interpretazione teistica della
vita spirituale del paziente trascende la psicoterapia. Così,
la prassi della psicoterapia del futuro viene trasfigurata e collocata
all’interno di contesti ecclesiali, familiari e spirituali. Di lunedì, mercoledì e venerdì guardo con
ottimismo all’avanzare di questa nuova era culturale. Di martedì e sabato tendo
invece ad essere più pessimista sulle sue possibilità. Di domenica metto a
tacere tutte queste speculazioni teoriche!
Lei ha già accennato al
dialogo positivo tra psicologia e teologia cristiana e ai segni di un mondo
transmoderno che avanza. Guardando al secolo che viene, quali progressi e
cambiamenti prevede per la psicologia e per il suo ambito di studio?
Prevedo, in primo
luogo, un progressivo
sviluppo della psicologia
delle virtù. Questo sposta
l’attenzione della psicologia
dallo spiegare le
malattie in termini di causa e
traumi dal passato in termini più legati alla crescita umana anche grazie allo
sviluppo delle virtù, dentro e fuori il contesto psicoterapeutico. Del reso, questo significa
recuperare un’idea fondamentale
del patrimonio tradizione intellettuale dell’occidente e non
solo. A mio parere, questo può anche riscattare una mentalità
vittimistica oggi assai
diffusa in psicologia.
In futuro, l’attenzione alla persona
che soffre di
disfunzioni dovute a
traumi del passato
o a deficit evolutivi, sarà soprattutto a ciò che
ella intende fare al riguardo. Ritengo poi
che il potere
esplicativo/interpretativo
della psicologia continuerà a
ridursi, fosse anche
in modo modesto.
Gli approcci biologici, neurologici e
genetici alla spiegazione
dei problemi mentali
continueranno a progredire, e
anche le risposte spirituali, religiose e morali alle patologie mentali guadagneranno ulteriore
consenso. Il mio
parere è che
in questo secolo
la psicologia avrà un ruolo meno importante nella comprensione della
persona umana rispetto a quello avuto nel secolo scorso. In terzo luogo, ritengo che entreranno sempre
di più a far parte della cultura corrente le pratiche, in positivo, della
salute mentale. Abbiamo scoperto le cause di molte malattie e abbiamo imparato
a prevenirle. Ma oggi stiamo scoprendo anche le
condizioni che promuovono
la salute stessa.
Stiamo ad esempio
imparando a conoscere l’importanza
delle madri e dei padri
per la salute
mentale dei figli, l’importanza delle
relazioni di attaccamento
madre-bambino per le
relazioni successive, l’importanza del ruolo dei padri. Grazie
a simili scoperte
della ricerca scientifica,
si può promuovere
una cultura della salute mentale
che cerchi di assicurare il miglior ambiente possibile per un sano sviluppo
dell’infanzia. In una cultura così, l’individualismo, l’egocentrismo e
l’edonismo tipici della cultura attuale sarebbero considerati segni di
inquinamento mentale. Realtà come
la pornografia e
il divorzio verrebbero
di conseguenza seriamente
disincentivate. Un’atmosfera che favorisca la salute mentale delle future generazioni può
divenire parte integrante
delle leggi, dei
costumi e delle preoccupazioni della nostra società.
[1] Intervista a cura di
E. Ch. Brugger,
professore associato di
teologia morale presso
il St. John Vianney
theological seminary di
Denver (USA), da
«Edification: Journal of the Society
for Christian Psychology», 1
(2009), pp. 83-86.
Traduzione a cura
di Giovanni Terenghi,
psicologo-psicoterapeuta, Verona.
[2] Ho
raccontato la storia della mia conversione al cristianesimo in A Christian
Odyssey, in R. Baram (a cura di), Spiritual Journey, St. Paul Books &
Media, Boston, MA 1988 pp. 375-394; The story of my life up to now, in D.J. Lee
(a cura di), Storying Ourselves, Baker Books, Grand Rapids, MI 1993, pp.
111-129.
[3] R.D. Enright
– R.L. Zell,
Problems encountered when
we forgive one
another, in «Journal
of Psychology and Christianity», 8 (1989), pp. 52-60; M. McCullough – E.
Worthingon, Encouraging clients to forgive people who have hurt them, in
«Journal of Psychology and Theology», 22 (1994), pp. 3-20; E. Worthington, Five
steps to forgiveness: the art and science of forgiveness, Crown, New York 2001.
[4] C. Peterson – M. Seligman,
Character strengths and virtues: a handbook of classification, Oxford University
Press, New York 2004.
[5] P. Vitz,
Faith of the fatherless: a psychology of atheism, Spence Publishing Company,
Dallas, TX 1991.
[6] Id., Sigmund Freud’s
Christian unconscious, Eerdmans Publishing Company, Grand Rapids, MI 1993.
[7] Cf P. Vitz – S.M. Felch, The
Self. Beyond the Postmodern Crisis, ISI Books, Wilmington 2006, presentato in
«Tredimensioni», 7 (2010),
pp. 133-144 (Identità di
Sé: la nuova
proposta transmoderna).
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