Con il seguente articolo, concludiamo l'approfondimento sul modello dell'Institute for Psychological Science di Arlinghton, negli Stati Uniti. Anche se, ora, sarebbe più preciso chiamarlo il modello della Divine Mercy University, dal momento che l'istituto si è riorganizzato diventando parte di un'università più ampia, sempre di stampo Cattolico. Abbiamo constatato che l'impegno di questi ricercatori, tra di loro eterogenei, è rivolto ad una sintesi tra l'eredità filosofica e teologica della Chiesa, da una parte, e le prospettive della psicoterapia contemporanea, dall'altra. L'elemento unificatore da loro scelto è il pensiero di San Tommaso d'Aquino. Possiamo dunque ben "classificare" la loro proposta come "integrazionista" e non "assimilazionista", cioè fondata sui contenuti del Magistero più che sull'adesione ad una scuola psicologica contemporanea. Mentre l'assimilazionismo implica una fusione a freddo tra due concezioni fondamentalmente distanti, a discapito delle differenze reciproche, l'integrazionismo è l'incontro dell'antropologia cristiana con gli aspetti di verità contenuti nei sistemi di pensiero contemporanei, all'interno di un riconoscimento delle differenze - di storia, di obiettivi, di presupposti.
Nel modello dell'IPS emerge chiaramente la consapevolezza dell'esistenza di una psicologia tomista tout-court, in grado di dialogare con le impostazioni novecentesche ma anche di esserne indipendente e, persino, fondante. E' un approccio diverso da quello della "scuola argentina", ma che punta verso la stessa direzione - una psicoterapia pienamente cristiana - attraverso il medesimo strumento - il tomismo. Il seguente articolo raccoglie in sé gli aspetti caratterizzanti del modello dell'IPS: dialogo con la psicologia positiva di Martin Seligman, radicamento in un'antropologia ben definita (tomismo) e focus sull'emotività, ricorso all'educazione delle virtù come strumento della psicoterapia. Inoltre, il testo descrive il percorso terapeutico di una paziente, permettendo così un'esemplificazione clinica oltre che un'approfondimento teorico. Si ringraziano gli autori per la concessione.
Nel modello dell'IPS emerge chiaramente la consapevolezza dell'esistenza di una psicologia tomista tout-court, in grado di dialogare con le impostazioni novecentesche ma anche di esserne indipendente e, persino, fondante. E' un approccio diverso da quello della "scuola argentina", ma che punta verso la stessa direzione - una psicoterapia pienamente cristiana - attraverso il medesimo strumento - il tomismo. Il seguente articolo raccoglie in sé gli aspetti caratterizzanti del modello dell'IPS: dialogo con la psicologia positiva di Martin Seligman, radicamento in un'antropologia ben definita (tomismo) e focus sull'emotività, ricorso all'educazione delle virtù come strumento della psicoterapia. Inoltre, il testo descrive il percorso terapeutico di una paziente, permettendo così un'esemplificazione clinica oltre che un'approfondimento teorico. Si ringraziano gli autori per la concessione.
Fondamenti per una psicoterapia della virtù: una prospettiva Cattolica
integrata.
Craig Steven Titus & Frank J. Moncher
Frank J. Moncher |
Craig S. Titus |
Quello che
l’antropologia Cattolica esprime di questo tentativo, al contrario, è una umile
fiducia in una cornice morale che sia sufficientemente sicura da offrire una
guida chiara ed ampia abbastanza da includere spazi per un’accurata creatività
e le differenze culturali. Primo, in quanto parte di uno sforzo filosofico, la
comprensione della persona umana è raggiunta attraverso l’uso di
un’osservazione ragionata della natura umana in quanto incarnata nella cultura
e nelle comunità particolari, ma anche in un mondo che mostra un ordine più
profondo che soggiace al disordine relativo e alle particolarità della storia.
Questo lavoro di psicologia teorica (o di antropologia filosofica) identifica
la persona umana in quanto incarnata, relazionale, razionale e volitiva.
Secondo, gli aspetti teologici attingono alla comprensione della persona umana
basata sulla fede, radicata nella rivelazione come espressa nella Scrittura
Giudeo-Cristiana e nella tradizione, particolarmente in una prospettiva
Romano-Cattolica. Questa rivelazione dell’origine e della finalità delle
persone umane aiuta nel distinguere gli strumenti ben ordinati al perseguimento
dei fini ultimi fra i vari strumenti simili ma disordinati.
Non è
insignificante se i testi di psicologia Cattolica e di psicologia secolare
differiscono nel contenuto, nella categorizzazione e nella gerarchia delle
qualità virtuose. Però, tali formulazioni religiose e secolari non sono
necessariamente in completo disaccordo riguardo i temi della giustizia, del
rispetto, della dignità di base, e via dicendo; ed in vari domini psicosociali
c’è la possibilità di un aiuto reciproco e di una mutua comprensione. Il
contenuto delle virtù viene agito in vari modi nelle culture, con accenti
differenti. Sebbene le aree di base della virtù siano operative in tutte le
culture, le forze e le pratiche associate alla virtù vengono necessariamente espresse
con accenti personali e variazioni culturali.
Nel pensiero contemporaneo, le
classiche nozioni di sviluppo originale e di costanza normativa della virtù
sono spesso travisate. La teoria della virtù è comunemente percepita alla luce
di uno dei due estremi più comuni. Da una parte, ogni virtù è percepita come
una norma “ideale” che debba essere rappresentata nello stesso modo o non
essere considerata per nulla una virtù. Dall’altra, sussiste la nozione secondo
cui la teoria della virtù schematizzi un percorso di sviluppo che è
assolutamente unico per ogni persona, quindi, senza un fondamento o un fine
normativo ultimo. Al contrario, nella prospettiva Cristiana della virtù di
Tommaso d’Aquino, entrambi gli elementi (la normatività e lo sviluppo) sono tenuti
in un’unità mutualmente dipendente, fatto che offre una base stabile ed anche
dinamica per la psicoterapia.
Un’importante caratteristica della
tradizione Cattolica sulla virtù è che essa riconosce la potenzialità umana e
lo sviluppo naturale che sono centrali nel processo della psicoterapia. In
particolare, noi suggeriamo che la psicoterapia debba ricercare non solamente
la riduzione dei sintomi, ma anche la maturazione delle capacità umane
positive, a tre livelli (virtù maggiori, virtù associate e forze del carattere,
pratiche particolari) – infatti, sosteniamo che ci sia un movimento
concomitante nella riduzione del sintomo e nelle pratiche virtuose e di
sviluppo. Con la dovuta considerazione delle sue basi neuro-biologiche, la
salute psicologica è ultimamente connessa all’essere in grado di “scegliere” i
beni che sono oggettivamente adeguati alla prosperità umana e di agire
conseguentemente; a questo livello, c’è una convergenza tra la psicologia e
quella che è stata classicamente chiamata la virtù naturalmente acquisita.
Quando i pazienti iniziano sempre più liberamente ad agire ed a compiere scelte
nelle proprie vite, l’incoraggiamento dell’esercizio delle virtù e delle
pratiche correlate può avere un impatto drammatico sulla loro salute mentale nei
termini di auto-conoscenza ed auto-padronanza, ma anche di auto-accettazione e
di fiducia di essere degni d’amore (Moncher, 2001). Inoltre, affinché il
terapista fornisca questo incoraggiamento in modo coerente ed efficace, è anche
importante che egli sia focalizzato nella propria vita sul vivere ed apprendere
le strade di sviluppo dei differenti gruppi di virtù.
All’interno di questa comprensione
della virtù, ci orienteremo ora su specifiche applicazioni cliniche
focalizzandoci sulle emozioni nella psicoterapia. Molti clienti che cercano un
aiuto psicologico soffrono secondo modalità che richiedono un’attenzione
immediata e compassionevole ai livelli preliminari del benessere emotivo,
relazionale e motivazionale. Questi aspetti devono essere risolti al fine di
preparare al meglio la persona a perseguire una crescita più piena nella virtù
e nelle pratiche connesse. In più, ad un livello esplicitamente spirituale,
considereremo brevemente come le virtù teologali della carità (ad. es.,
l’amore), della fede e della speranza possano operare nel processo della
terapia e fornire una cornice concettuale per la comprensione della sofferenza
e della guarigione.
Il caso di suor Lydia: breve storia e contesto familiare[1]
Al fine di
rendere concreta l’applicazione clinica di questa teoria, presenteremo la
storia di un caso verso cui ci rifaremo per tutto l’articolo.
Lydia, un membro consacrato di una
congregazione religiosa Cattolica, è la sorella maggiore di diversi fratelli
nati in una famiglia intatta. Proviene da una classe sociale media, con un
retroterra medio-occidentale, con un’organizzazione familiare di tipo
tradizionale di un padre che lavora fuori casa ed una madre che sta a casa coi
bambini. La famiglia è cresciuta nella Chiesa Cattolica ma non è stata attiva
al di fuori degli obblighi domenicali. Lydia spesso aveva preso il ruolo della
protettrice e della guida per le sue sorelle più piccole che erano talvolta
fisicamente abusate dal padre. La mamma scompariva quando il padre scoppiava
dalla rabbia, e probabilmente talvolta diceva al padre delle cose che avrebbero
prevedibilmente causato violenza ai bambini. Uno degli aspetti importanti della
vita di famiglia è che i suoi genitori erano cordiali e gentili con le altre
persone, ma rabbiosi e critici all’interno della famiglia. Suor Lydia ha
imparato che è pericoloso rilassarsi, credere nella buona volontà degli altri,
e così ha sviluppato uno stile indipendente ed un’auto-sicurezza assertiva,
saturando le proprie emozioni con risposte abituali che la tengono emozionalmente
al sicuro. All’interno dell’attuale ‘famiglia’ del convento, invece, lei è
circondata da persone che non sono pericolose né fisicamente né emozionalmente,
ma lei ha ancora difficoltà a cambiare la propria posizione all’interno di
queste relazioni, al fine di permettersi un modo di legare intimamente che sia
più appropriato alle circostanze. Nella vita della comunità, la suora e le sue
superiori hanno realizzato che sussiste qualcosa di sbagliato nel modo in cui
sta perseguendo la santità. In qualche modo, le virtù umane che stava cercando
di mettere in atto non stavano generando i frutti attesi.
La persona umana e la prospettiva della virtù
Ogni psicoterapia che cerca di avere
una stabile posizione antropologica deve rispondere ad alcune domande cruciali:
come una nozione generale (quale la virtù) accoglie diversi tempi e diverse
culture, diverse età della vita, e la distinzione biologica dei sessi? Inoltre,
come ci spieghiamo le capacità umane per l’eccellenza, la continuità e la
creatività, assieme alle espressioni umane contrarie della mediocrità,
dell’instabilità e della coazione a ripetere? L’antropologia basata sulla virtù
tenta di dare ragione riconoscendo che la persona umana possiede un origine ed
un fine, proprio come un bisogno per lo sviluppo personale, senza negare una
certa diversità nel definire le virtù associate. Per prima cosa, sebbene non in
modo incontrovertibile, accetta dalla riflessione filosofica (ad. Es., D.
McInerny, 2006) e dalle scoperte empiriche (ad. Es., Ekman, 1992, 2003) che la
persona umana possiede una natura, una struttura ricevuta che specifica le
specie non solamente con i tratti fisiologici ma anche con le inclinazioni
naturali verso le finalità di vita, parlando a grandi linee. Secondo, riconosce
una prospettiva di sviluppo che distingue le varie aree in cui gli esseri umani
necessitano di crescere, con l’obiettivo, terzo, di raggiungere il fine della
prosperità matura, diventando agenti liberi e responsabili. Ovvero, la visione
antropologica identifica una struttura delle origini umane, delle vie per lo
sviluppo, e delle espressioni di maturità (Schmitz, 2009).
Nella psicoterapia, la difficoltà di
Lydia fu concettualizzata come il risultato di virtù non interiormente formate,
ma piuttosto eseguite soprattutto per dovere ad una legge esterna; così, lei è
stata inquadrata come l’espressione di un profilo emotivo e di virtù bloccato
ad uno stadio iniziale (dipendente dal dovere e dalle regole esterne), con
difficoltà incombenti, aridità e mancanza di spontaneità. Tale
concettualizzazione è stata avanzata dal terapeuta nel contesto della loro fede
condivisa, attraverso una pacata ma significativa rivelazione delle proprie
esperienze. Questo intervento ha normalizzato le esperienze della Suora e le ha
permesso di comprendere perché fosse esausta quando compiva la routine
quotidiana al convento tentando di fare le cose giuste; lei ha riflessivamente
ed abitualmente saturato le proprie reazioni emotive sul nascere al fine di non
essere sopraffatta da esse e di comportarsi così inappropriatamente. Come
esito, ha tentato di resistere a tutte le emozioni anche se conseguenti a dei
beni che aveva cercato di raggiungere.
La persona a livello
naturale: incarnata, relazionale, razionale e volitiva
Sosterremo
che le qualità determinanti della vita umana, dell’intera persona, possono
essere specificate nei termini di quattro aree antropologico-filosofiche:
incarnazione, relazionalità, razionalità e volizione, espresse in una modalità
unificata di sviluppo (Brugger & la facoltà dell’Institute for the Psychological Sciences, 2008).
Primo, ‘incarnazione’ include non
solo l’aspetto motorio, percettivo e del sesso biologico delle persone, ma
anche il substrato neuro-biologico della vita umana che è espresso nella
malleabile conoscenza sensoriale e nell’emozione (si veda Lakoff & Johnson,
1999). A livello della cognizione incarnata, possediamo non solo i sensi
esterni, ma anche quelli interni; poiché generiamo pensieri preconsci (come i
giudizi di attrazione e di repulsione) e pensieri consci (come le memorie e le
fantasie). A livello dell’affettività incarnata, possediamo delle emozioni che
riferiscono di un’attrazione: amore, desiderio, piacere e gioia, e all’opposto
odio, repulsione, dolore e tristezza; inoltre ci sono le emozioni collegate ai
beni che sono difficili da raggiungere, ovvero la paura, l’audacia, la
disperazione, la speranza e la rabbia (Titus, 2006; sulle diverse
classificazioni dell’emozione, si veda Ekman, 1992, 2003; Evanza & Cruse,
2004; Griffiths, 1997).
Secondo, ‘relazionalità’ include le
dimensioni socio-culturali che sono necessarie per un corretto sviluppo e per
la prosperità umana, ma che possono anche essere all’origine di alcuni
disordini e patologie. La persona umana possiede una natura specie-specifica, che
necessita di essere nutrita interpersonalmente al fine, non solo di
sopravvivere semplicemente, ma anche di conseguire delle capacità e di
prosperare in forme differenti di eccellenza. Tale nutrimento inizia nella
famiglia ed include le pratiche socio-culturali e le interazioni con gli altri.
La rete relazionale incide sul benessere o il malessere della persona sin dagli
inizi, già nel ventre della mamma, sino al letto di morte.
Poi, le altre capacità cognitive ed
affettive sono proprie della ‘intelligenza’ umana; ovvero della ragione e della
volontà. Esse riguardano le qualità intuitive e discorsive che sviluppano
completamente la vita della persona. L’intelligenza – nelle sue varie forme di
ragione e di volontà – è il regno della saggezza, della comprensione e
dell’impegno, la forma più profonda dell’amore e del dono di sé. Abbastanza
spesso, l’intelligenza specificatamente umana viene definita con espressioni
dell’analisi concettuale e della linguistica, come strumenti ed utilizzi, leggi
complesse e relazioni sociali, ecc. Mentre la capacità dell’intelligenza è
condivisa dalle specie, le sue applicazioni di ragione e di libera volontà sono
così individuali che le strade per un lavoro costruttivo e per la risoluzione
dei problemi sono molteplici, spesso marcate da inclinazioni culturali e da
limitazioni personali. L’appetito intellettivo (volontà) può essere distinto
dagli appetiti sensoriali (emozioni) poiché la volontà collabora con la ragione
in modo maggiormente diretto; posso volere direttamente che la mia mano destra
si sollevi. Il tipo di collaborazione tra la ragione, la volontà e le emozioni
è maggiormente indiretto anche se comunque reale; mentre non posso volere così
facilmente di provare rabbia (sebbene gli attori possiedano delle modalità per
farlo), quando mi sento arrabbiato sussistono delle ragioni ed anche dei modi
ragionati di averci a che fare.
La virtù: una disposizione, un atto o una norma?
La nozione di virtù è stata spesso ridotta dai pensatori
moderni ad un concetto statico che si riferisce semplicemente ad un atto (una
singola scelta o atto) o ad una norma morale per l’azione. Invece, la base
dell’approccio classico Aristotelico-Tomista è la concezione della virtù intesa
come maturazione, in quanto disposizione acquisita ad agire (a livello emotivo,
cognitivo e volitivo) in un modo che contribuisce alla prosperità umana a lungo
termine.
Aristotele dice che la virtù include
un preciso “stato del carattere che rende un uomo buono e che gli permette di
fare bene il proprio lavoro” (n. 1106-23). L’Aquinate (S. Th. I-II q. 55 a. 4)
sviluppa una definizione Agostiniana che include non solo le virtù acquisite ma
anche quelle infuse; egli dice: “la virtù è una qualità buona della mente,
attraverso cui viviamo in modo retto, di cui nessuno può far cattivo uso”.
Riguardo la potenzialità interna e le cause della virtù che sussistono
nell’agente morale, l’Aquinate (S. Th. I-II q. 63 a. 3) sostiene anche che
tutte le virtù acquisite (intellettive e morali) “provengono da alcuni principi
naturali in noi pre-esistenti”. Questa visione della virtù, come di una
disposizione, contrasta l’identificazione con una tendenza alla ripetizione
statica e meccanica. Essa riguarda piuttosto l’apprendimento di capacità lungo
tutta la vita che inclinano verso tipologie generali di atti buoni. Attraverso
l’opera della ragione pratica, le persone danno forma alle proprie
inclinazioni. Nel tempo, gli atti ben ordinati creano le disposizioni emotive,
relazionali, razionali e volitive che trovano armonia quando presentano un
duplice ordine: le disposizioni che sono ordinate tra loro, e ordinate rispetto
al fine ultimo della persona (D. McInerny, 2006). Così, attraverso le
disposizioni virtuose la persona cerca di utilizzare il suo intero apparato di
forze per il fine della prosperità personale, il bene della comunità e la
gloria di Dio (un triplice amore). Una tale visione maturativa della virtù è
coerente con i modelli psicologici che sono sensibili alla potenzialità di
cambiamento del paziente sia verso il meglio, nel caso di una crescita
positiva, sia verso il peggio, nel caso di disturbi psicologici, ed è
altrettanto coerente con i modelli di sviluppo Cristiano-Cattolici (Sweeney,
Titus & Nordling, in stampa).
Bisogna notare che un approccio
pratico alle virtù include un lavoro sulle materie particolari (ovvero le
emozioni, le relazioni, la volontà e il ragionamento – e le loro interazioni)
tanto quanto sui contenuti formali. Parlare della virtù, però, significa
soprattutto utilizzare un linguaggio pratico che riguarda la descrizione
dell’evolversi di una forza o di una difficoltà: crescere o decadere nella vita
emozionale come la paura e l’amore; le pretese e le potenzialità nelle
relazioni interpersonali; e nel tipo di scelte e di ragioni che perseguiamo o
evitiamo. Ogni tipo di materia possiede tipologie multiple di direzionalità e
di conseguenze, proprio come di correlazioni con le altre materie. Per esempio,
le emozioni incarnano diverse manifestazioni: da attimi esagerati, ad
espressioni timide, a disposizioni ben gestite. Però, ogni espressione
d’emozione riguarda alcune interazioni passate o presenti con ragioni, scelte e
relazioni interpersonali.
La tempistica attraverso cui un
terapeuta introduce il linguaggio della virtù è importante e deve considerare
diversi fattori. Primo, devono essere valutati il livello di stress del
paziente e la salute emotiva generale. Mentre si rivela necessaria una
descrizione dell’essenza della virtù, un linguaggio esplicitamente normativo è
molto spesso non consigliato nei momenti di crisi poiché potrebbe essere
difficile per il paziente processare le informazioni discusse. Secondo, deve
essere valutata l’abilità di un paziente ad esplicitare le proprie intenzioni,
poiché una certa quantità di auto-controllo (salute volitiva) è necessaria,
così che nella terapia i primi successi possano essere raggiunti e sia
possibile edificarci sopra. Terzo, dovrebbero essere tenute da conto le
aspettative culturali che hanno influenzato la comprensione del paziente delle
espressioni di cura, di affezione, di rabbia, di paura, di mascolinità, di
femminilità e via dicendo. Infine, dovrebbe anche essere valutata la storia di
direzione e di esperienza spirituale del paziente, poiché alcune persone sono
state problematicamente (benché forse inavvertitamente) umiliate da altre che
hanno voluto incoraggiare la loro crescita religiosa e morale sfidandoli a
superare la debolezza attraverso i significati spirituali, quando invece era
una privazione a livello naturale o sociale a costituire una barriera in grado di
farlo.
La virtù di Suor Lydia: istintiva, perseguita, ma imperfetta
Poiché
Lydia non aveva acquisito una disposizione verso la virtù in senso completo,
non fu in grado di operare facilmente (ovvero, con prontezza, tranquillità e
gioia) nella sua comunità religiosa. Ma, in quanto giovane, al di là di una
formazione lacunosa, Lydia possedeva una inclinazione alle scelte virtuose in
quanto atto o norma. Le sue inclinazioni naturali sono evidenti in un esempio
tratto dalla sua adolescenza: Lydia si era svegliata presto una mattina per
pulire la casa prima di andare ad allenarsi a basket, frequentare un'intera
giornata di scuola, ed eseguire i compiti a casa durante il tempo per lo
studio, quando molti suoi pari erano improduttivi. Seguendo il suo schema,
aiutò a pulire l’autobus, lasciando accidentalmente i suoi libri durante
l’attività. Una volta giunta a casa, chiamò il deposito degli autobus,
apprendendo che non avrebbe potuto recuperare i suoi libri fino alla fine del
giorno successivo, e così di non essere in grado di finire i propri compiti.
Mise le sorelle più giovani a letto, e fece altri lavoretti in casa. Il giorno
dopo, l’insegnante la rimproverò davanti alla classe di non aver eseguito i
compiti, di essere irresponsabile, un esempio di “quello che non va nei giovani
d’oggi”. In modo calmo ma fermo, Lydia replicò che non era appropriato parlarle
in quel modo e lasciò la classe, riflettendo su come non fosse stata affatto
irresponsabile il giorno prima, ma avesse semplicemente compiuto un errore. A
causa della violenza e del caos presente in casa sua, Lydia ha sviluppato uno
stile che non s’interessa del proprio stato emotivo, che non si riempie di
sentimenti e si focalizza sulle azioni. Così ella seppe, intellettualmente, che
non aveva commesso l’errore di cui era accusata, e compì le azioni più
ragionevoli per fuggire da un’accusa ingiusta. Quindi non processò l’evento da
un punto di vista emotivo né ottenne piena soddisfazione, ma piuttosto rimase
disorientata nei casi migliori, e crebbe nel cinismo verso gli adulti nei casi
peggiori.
Antropologia teologica cattolica e prospettiva della virtù
Un
fondamento teologico Cristiano-Cattolico per una psicoterapia della virtù
identifica un concetto particolare della forma generale e filosofica delle virtù,
in quanto incarnate, relazionali, razionali e agenti. Ovvero, la differenza che
la Cristianità fa per la comprensione dell’origine, dei fini, e dei percorsi di
sviluppo di una psicoterapia della virtù si trova nel concetto di virtù
correlate, che costituisce il carattere autentico della persona umana visto
nella prospettiva di Cristo, il quale “rivela pienamente l’uomo all’uomo stesso
e rende chiara la nostra chiamata suprema”, come ricorda il Concilio Vaticano
II (Baum, 1965; Gaudium et spes, n° 22). Questa prospettiva non è un tipo di
modernismo, né di essenzialismo, né di individualismo; se è qualcosa, essa
richiede un dialogo con le scienze e la cultura contemporanea. Sebbene alcuni
pensatori Cristiani abbiano preferito porre una frattura netta tra le fonti
Bibliche e non Bibliche (Tertulliano, Lutero, Kierkegaard), altri hanno notato
le somiglianze nelle diverse tradizioni e il potenziale che le fonti umaniste
(non-Bibliche) possiedono nell’aiutare la comprensione Cristiana della persona
umana e della società (Giustino, Tommaso d'Aquino). La nostra posizione è che
fonti differenti (scientifiche e sapienziali) debbano essere integrate in
un’antropologia in accordo con le loro competenze proprie, distinguendo le
espressioni umane, le descrizioni scientifiche, le norme filosofiche e
l’autorità religiosa (Ashley 2006; Giovanni Paolo II, 1998).
La Persona a livello trascendente: creata, caduta e redenta
Una
variante Cattolica ed un completamento dell’antropologia basata sulla virtù
ritiene appropriate le dottrine teologiche che concepiscono la persona umana
come: (1) creata ad immagine di Dio, (2) segnata dagli effetti del peccato, e
(3) redenta dall’iniziativa di Dio in Gesù Cristo. Primo, un assunto di base
per comprendere l’antropologia cattolica è la dottrina della persona umana in
quanto creata ad immagine e poi a somiglianza di Dio (Gn 1:26-27; 1 Cor 11:7;
Ef 4:24; Col 3:10). Le persone umane, essendo di natura umana, sono un’immagine
imperfetta, o anche creata “nei confronti” dell’immagine di Dio. Ciononostante,
questo tipo d’immagine tende dinamicamente verso la perfezione, che è Dio (Mt
5:48). Questa tendenza non viene automaticamente auto-compiuta o imposta da
Dio; in cooperazione con la grazia di Dio e nell’imitazione della bontà di Dio,
essa richiede che in quanto creature agenti noi ci muoviamo e maturiamo verso
l’immagine di Dio, esercitando la nostra intelligenza, la libera volontà, e
l’auto-determinazione nel dirigerci verso la maturità personale e sociale in
Cristo (cf. Tommaso d’Aquino, S. Th. I q. 35 a. 2; S. Th. II-II q. 23 a. 1).
Poi, dal
primo peccato in avanti, gli esseri umani hanno sfigurato se stessi e
l’immagine sopra menzionata. Le strutture rimanenti del peccato consistono in
molti e differenti tipologie di disordine personale e relazionale. Ma nella
persona umana queste restano comunque secondarie alla bontà della creazione di
Dio. Grazie alla bontà di Dio, la Sua immagine dinamica e la dignità umana
sussistono ancora dopo il peccato. Per comprendere questa potenzialità per il
bene e per il male, per la salute e per la malattia, per la virtù o il vizio,
abbiamo bisogno di comprendere l’intera persona umana alla luce di come la
Lieta Novella di Cristo influenza le nostre prassi legate alla nostra
incarnazione, relazionalità, ragione e volontà.
Infine,
comprendiamo che attraverso la redenzione in Cristo, gli esseri umani vengono
ristorati ad una giusta relazione con Dio. Invece di annullare la natura umana,
Cristo
“restaura la somiglianza divina che è stata sfigurata dal
primo peccato…Egli che è ‘l’immagine del Dio invisibile’ (Col 1:15; 2 Cor 4:4),
è Egli stesso l’uomo perfetto… Dal momento che la natura umana che Lui ha
assunto non fu annullata, ma dal fatto che è stata innalzata a dignità divina
anche nel nostro rispetto” (Baum 1965; Gaudium et spes, n° 22).
Cristo
offre una strada per la figliolanza adottiva, santità nello Spirito, e una
promessa di beatitudine. Riguardo a quest’ultima, come attestato dai poeti e
dai filosofi, gli umani cercano la prosperità, specialmente la beatitudine
ultima, come fine primario delle loro vite. Sebbene le comprensioni di quello
che ci rende felice differiscano, la visione Cristiana Cattolica compie la
beatitudine che viene generata dalla fede, dalla speranza e dalla carità e che
è fondata sull’insegnamento di Cristo delle Beatitudini (Mt 5; Lc 6).
In sintesi,
quando l’antropologia teologica Cattolica parla di sviluppo, essa non può
negare né la natura umana né la grazia divina né le differenze umane nel loro
sviluppo. Piuttosto essa costruisce una crescita potenziale nelle capacità
umane che viene resa sicura dalla grazia, che vi costruisce sopra le capacità
umane naturali e i processi di sviluppo, invece di distruggerli o rimpiazzarli
(Baum, 1965; Gaudium et spes, n° 22). Con un volenteroso cliente Cristiano, un richiamo consapevole alla
propria fede, alla speranza ed alla carità può aiutare il processo terapeutico
attraverso supporti cognitivi e motivazionali. La conoscenza e l’abilità
nell’utilizzare queste risorse da parte del terapeuta dipenderà dall’ampiezza
della propria formazione, e dalla volontà e dal desiderio di riflettere sulla
virtù nel proprio percorso di vita. Queste virtù servono a fornire una
cornice concettuale per la comprensione della sofferenza, della speranza di un
recupero, e una motivazione per una vita migliore, anche quando l’enfasi
principale è posta sulla prospettiva eterna che non offre soluzioni pronte per
i problemi e le patologie.
Suor Lydia: le virtù teologali
Perché
questa giovane donna, non formata ad essere virtuosa né dai genitori né dal
gruppo dei pari, dovrebbe essere dell’idea di rispettare i principi? Sappiamo
che anche prima di sperimentare la chiamata alla sua vocazione religiosa, Lydia
non aveva attribuito alla famiglia lo schema del trattarsi male l’un l’altro.
Lei invece aveva speso i suoi giorni e le sue notti nel tentativo di tenere in
ordine la casa. Questo potrebbe essere il risultato non solo di una naturale
inclinazione alla bontà, ma anche la virtù sovrannaturale ed infusa della
speranza. Certamente lei mostra carità nel senso che offre un dono gratuito
agli altri [ad es., assicurandosi che le sorelle più piccole siano curate
quando la madre è “troppo impegnata” per farlo]. Quando lei riporta di pregare
Dio affinché la sua vita e la sua morte siano utilizzate per la conversione
della sua famiglia [prima di sapere esattamente cosa questo possa dire], lei
mostra di possedere la virtù della fede. Se queste virtù soprannaturali sono
operative, possiamo ipotizzare l’influenza della compagnia che la circonda, attraverso
cui fu esposta alla scrittura, alle preghiere della liturgia, e fu istruita
realmente al modello di Cristo del dono e della speranza. Teologicamente
possiamo anche parlare degli effetti del battesimo con le sue grazie che sono
come dei semi e si sviluppano nel tempo sotto la guida divina.
Processi
psicoterapeutici, emozioni e un’antropologia della virtù cristiana
Emozioni e virtù
Alcuni
filosofi e teologici sono fortemente sospettosi riguardo le emozioni, in quanto
talvolta compiacenti ma in genere inaffidabili (Bonaventura, Kant), o
fortemente distruttive o maligne (Stoici). Invece, Aristotele, l’Aquinate e la
tradizione Cattolica (Catechismo della Chiesa Cattolica, 2003, n° 1767)
affermano che le emozioni sono energie potenzialmente positive, che sono
soggette ai processi di sviluppo. Da una parte, esse esprimono dei giudizi
pre-razionali o istintivi che provengono dalla conoscenza sensoriale. Le
emozioni offrono così dei segni d’intelligibilità (tra gli esseri, le
interazioni e gli eventi) attraverso le attrazioni e le repulsioni, le paure e
le speranze, la rabbia e l’amore, e così via. D’altra parte, l’approccio
Aristotelico-Tomista alle emozioni – che costituisce il fondamento della
tradizione Cattolica – correla l’espressione e lo sviluppo emozionale anche con
il ragionamento, la volontà e le relazioni interpersonali.
L’Aquinate
ritiene che le emozioni siano un bene in due modi (cf. S. Th. I-II q. 58-60; q.
24 a. 3). Primo, in quanto formano virtuosamente le capacità emotive, le
emozioni esprimono delle ragioni oltre se stesse e possono orientarci ad agire
in modi che sono coerenti con le finalità che abbiamo scelto nel passato. Esse
esprimono intelligibilità ad un livello pre-razionale o istintivo. Cioè,
l’emozioni sono buone quando, in quanto reazioni antecedenti il ragionamento,
esse tendono a risposte appropriatamente focalizzate; per esempio, quando
abbiamo una giusta reazione di compassione per chi soffre. Secondo, le emozioni
sono buone in quanto reazioni conseguenti una valutazione intellettiva di una
situazione, dove le emozioni possono ergersi sopra delle decisioni razionali, o
almeno essere frenate dal raggiungere gli estremi che accecano e inabilitano
l’azione. Per esempio, le emozioni conseguenti alla scelta di correggere
un’ingiustizia, possono farci propendere emozionalmente verso una rabbia (1)
che viene trattenuta, per paura di commettere un errore aggiuntivo o (2) che è
giusta, e che può motivarci ad agire in modo deciso. Questo tipo consapevole di
emozione esemplifica l’importanza di essere in grado di leggere
l’intelligibilità delle emozioni e di controllare il focus dell’energia
emozionale, anche se le emozioni sono solamente in modo indiretto e dialogico
sotto l’influenza della ragione, della volontà e delle influenze sociali.
Negli studi
psicologici contemporanei, l’emozione è ritenuta parte di un sistema di senso e
di azione che informa gli individui del significato degli eventi per il loro
ben-essere. La funzionalità di un’emozione dipende da molteplici fattori che
sono associati sia con la valutazione (appraisal) che fa scaturire l’emozione
(ad es., la sua precisione) sia con la risposta che essa genera (ad es., il
modo in cui è modulata). Sebbene le emozioni non siano sempre funzionali, i
loro benefici eccedono mediamente i costi (Parrott, 2001). L’antropologia che
presentiamo qui è coerente con le teorie dell’emozione che incorporano la
ragione e la volontà (si veda, ad es., Frijda, 1986; Lazarus, 1991; Levenson,
1999), dal momento che l’emozione dipende dalla percezione e dalla valutazione
(appraisal) all’interno di una visione integrata della persona in grado di
azioni responsabili.
Il caso di Lydia: a proposito di giustizia
La sfida di
riconoscere le ragioni tra le emozioni e di integrarle col giudizio razionale
giunse quando Lydia iniziò il suo primo lavoro dopo il college. Le capitò un
acquirente irascibile che urlava ad una giovane commessa sopraffatta ed
apparentemente spaventata. Lydia affrontò l’acquirente in modo calmo, dicendo
che “non permettiamo a nessuno di parlare con quel tono, qui”, seguito da:
“forse posso accompagnarla fuori”. Essendo questa, nella sua mente, una
posizione di giustizia o “come le persone dovrebbero trattarsi l’un l’altra”.
Nella crisi, Lydia ha agito ragionevolmente, prendendo delle scelte basate su
di un discernimento logico delle circostanze. Tuttavia, lei non riporta di aver
provato le emozioni che naturalmente avrebbe provato né riconosce che al di
sotto della rabbia espressa dell’acquirente potrebbe esserci un bisogno ancora
più pressante di giustizia. Lydia sembra omettere i segnali sia delle proprie
emozioni che di quelle degli altri, probabilmente perché ha imparato a non
prestare attenzione a queste sensazioni e sentimenti; perché nella sua
esperienza familiare, le emozioni non sarebbero state esplorate, curate o
comprese, ma piuttosto sarebbero state interpretate come una vulnerabilità e,
come minimo, ridicolizzate, se non utilizzate contro di lei.
Le emozioni in psicoterapia
La recente
letteratura psicologica fornisce una base per la nostra tesi secondo cui a
volte è fondamentale dare priorità alla cura emotiva per il successo di una
terapia della virtù. Alcuni fattori sono stati evidenziati in quanto elementi
importanti per la riuscita del trattamento: l’alleanza di lavoro, la profondità
dell’esperienza, le differenze nella capacità degli individui di impegnarsi nel
trattamento, e l’elaborazione emotiva, che include sia l’esperienza emotiva che
il lavoro con il significato emotivo delle cose nella terapia (Pos, Greenberg,
Goldman & Korman, 2003). Quest’ultimo fattore ha guadagnato sempre più
attenzione da quando i ricercatori dei processi delle emozioni di base sembrano
aver ottenuto un consenso sul fatto che le emozioni siano adattive,
enfatizzando l’utilità delle emozioni nei termini di risposte agli eventi ed
alle circostanze. Le emozioni sono viste come informatori delle preoccupazioni
e delle attenzioni delle persone; esse preparano il corpo all’azione, poiché
dirigono la cognizione verso modalità di operazione che sono ottimali per le
circostanze; e segnalano e manipolano gli altri in modi che soddisfino i
bisogni emotivi delle persone (Parrott, 2001). Essere disconnessi
dall’esperienza emozionale, quindi, significa essere tagliati fuori dalle
informazioni adattive (Pos et al. 2003).
Inoltre,
virtualmente tutte le teorie delle psicoterapia attribuiscono un’importanza
centrale all’avere a che fare con le emozioni dei clienti: da una parte, gli
approcci cognitivi e comportamentali si focalizzano sul controllo o
sull’eliminazione dell’ansia o su di altre emozioni indesiderate; in modo
alternativo, gli approcci psicodinamici, interpersonali ed esperienziali spesso
implicano l’annullamento dell’emozione dolorosa nell’eziologia e nel
mantenimento del disordine psicologico (Mackay, Barkham, Stiles &
Goldfried, 2002). Inoltre, diverse scuole di pensiero hanno trovato un sostegno
empirico sul fatto che la facilitazione dell’esperienza emozionale nella
terapia sia tanto potente quanto efficace (Wiser & Goldfried 1998). Per
esempio, le tradizionali reviews sugli esiti della terapia umanistica e
psicodinamica (ad es., Orlinsky, Ronnestad & Willutzy, 2004) suggeriscono
una forte relazione tra l’esperienza emozionale nella sessione di trattamento
ed un esito terapeutico positivo. In modo simile, l’esito positivo nella
terapia cognitiva si è rivelato essere correlato con l’avere esperienza
dell’emozione (Castonguay, Goldfried, Wiser, Raue & Hayes, 1996; Wiser
& Goldfried, 1998).
Relazione tra riduzione del sintomo e capacità per la virtù
Le finalità
del trattamento in una psicoterapia della virtù sono state descritte
genericamente come gestione della vita emotiva, così che uno possa vivere
meglio le relazioni con gli altri, muovendosi verso lo sviluppo delle virtù
razionali e volitive (Moncher, 2001). Il fine è l’abilità a vivere una vita
responsabile, felice, soddisfacente, il che vorrebbe dire, una vita moralmente
buona. Al contrario, i sintomi psicologici: inibiscono la libertà, fin tanto
che essi promuovono compulsivamente (dis)funzioni; sono motivati dalla paura
eccessiva, dall’ansia, o da altre emozioni disfunzionali simili; o, impediscono
di risolvere un problema razionalmente o di promuovere le relazioni sociali. In
più, i sintomi possono essere concretamente efficaci nel diminuire la
percezione dei bisogni psicologici, ed una volta che diventano abituali,
riducono l’opportunità di praticare e di godere dei comportamenti virtuosi.
Poiché i
sintomi psicologici di un individuo forniscono una soluzione apparente, sebbene
temporanea e disfunzionale, alle difficoltà (e distorcono la percezione), è
importante che i pazienti siano prima di tutto indirizzati a considerare come
l’individuo possa esplicitamente crescere nella virtù. Inoltre, mentre la virtù
(a livello più basilare) come definita nell’antropologia Cattolica possiede un
carattere oggettivo che non può essere cambiato né dal terapeuta né dal
paziente, l’espressione della virtù (le forze e le pratiche della virtù ad essa
associate) varieranno a seconda delle culture. Quindi, il terapeuta deve essere
consapevole della propria formazione e delle proprie visioni culturali su come
le virtù possano esprimersi. Questo include non solo le considerazioni etniche
o raziali, ma anche della differenza sessuale, poiché l’espressione delle forze
e delle pratiche della virtù accettate o tollerate dai maschi e dalle femmine
varierà a seconda della cultura (si veda Ashley, 2006; Dueck & Parsons,
2004). Curare
i sintomi e crescere nelle virtù sono un continuum correlato: una persona non
può essere curata in una dimensione senza in qualche modo maturare nella
crescita in un'altra. Quindi, è utile concettualmente, per il terapeuta
e per il cliente, realizzare che il fallimento nell’orientare le barriere
psicologiche crea un’ostruzione reale ad un lavoro genuino sulla maturazione
nelle forze della virtù. In altre parole, non solo è importante ed utile
assistere il cliente a ridurre lo stress emotivo ed i sintomi ad esso
correlato, è anche necessario aiutarlo a comprendere (virtù razionale) e
gestire (virtù volitiva e sociale) la sua vita emozionale (virtù emotive) al
fine di liberarlo verso una maturazione delle forze del carattere che possono
essere sottosviluppate o disordinate.
Perché e quando la priorità alla cura emotiva?
All’interno
dell’interesse per la salute psicologica complessiva, che include i domini
relazionali, cognitivi e volitivi, la psicoterapia spesso necessita di
attribuire una priorità alla cura emotiva per un certo numero di ragioni.
Primo, a livello antropologico, l’incorporazione biologica della cognizione e
dell’affezione influenza la ragione, la volontà e tutta l’attività pratica. Di
particolare interesse per le nostre finalità sono sia le emozioni che le
funzioni biocognitive (chiamate classicamente i sensi interni); queste ultime
includono l’immaginazione, la memoria, il senso comune, e il senso valutativo
che soggiace alla nostra attrazione o repulsione pre-razionale (e pre-conscia)
per qualcosa o qualcuno. La mancanza di sviluppo o la psicopatologia, a questo
livello, influenza negativamente la capacità umana di leggere le emozioni e di
attuare i piani razionali ed i desideri con la prontezza, l’agilità ed il
piacere adeguato. È difficile per alcuni ed impossibile per altri accedere
completamente a questa capacità di ragionare responsabilmente e di scegliere
liberamente senza un’attenzione specifica alla propria vita emozionale. “Allenare le nostre
emozioni a rispondere alla direzione della ragione è un compito molto
difficile, ed il suo raggiungimento è chiamato virtù” (R. McInerny, 1999),
che, potremmo sottolineare, è un processo in continuo sviluppo. Ancora una
volta, però, questo non vuol dire che le emozioni non portino il loro
contributo specifico e positivo alla comprensione ed alla prosperità umana.
Secondo, a
livello clinico, questa antropologia porta ad una sequenza d’intervento
preferenziale. Poiché siamo corporei-emotivi e relazionali dal momento del
concepimento (prima dello sviluppo successivo degli aspetti razionali e
volitivi), spesso le ferite più serie di una persona avvengono a livello
emotivo e relazionale. In altre parole, per un processo terapeutico che porti a
compimento, bisogna che esso miri ai processi di sviluppo naturali e alla
guarigione delle ferite emotive, al fine di porre una solida base per
l’obiettivo della crescita nell’utilizzo libero e responsabile della
razionalità e della volontà. I clinici osservano che i clienti che soffrono di
disturbi mentali (ad es., dipendenze, fobie, comportamento compulsivo)
riportano abitudinariamente un divario tra le proprie comprensioni
intellettuali degli oggetti e degli eventi circostanti e le loro abituali
reazioni emotive a questi oggetti ed eventi. Un componente importante della
psicoterapia è lo sviluppo dell’abilità del cliente di distanziarsi dalle
associazioni rapide pre-consce (che si trovano nel suo corpo e che si esprimono
nelle emozioni) e di considerare le proprie percezioni da una prospettiva
maggiormente oggettiva e sofisticata. Tuttavia, questo non può essere ottenuto
con delle procedure strettamente razionali e discorsive. La modalità automatica
ed abituale della vita emozionale del cliente deve essere sperimentata e
ricompresa da lui stesso prima che possa diventare maggiormente intuitiva nei
propri confronti (Palmer, 2005).
I lavori
teorici nella terapia umanistico-esperienziale sottolineano due modi in cui le
emozioni diventano rilevanti nel trattamento. Primo, il fornire una valida
relazione empatica ed un’alleanza collaborativa crea il sano contesto in cui i
clienti possono sperimentare le proprie emozioni. Secondo, l'attivazione di
riflessioni evocative, esplorative e portatrici di significato, proprio come la
stimolazione emotiva degli obiettivi, fornisce ai clienti un contatto profondo
ed immediato con le emozioni e li aiuta ad attribuire loro un senso.
Un’alleanza terapeutica empatica e forte è necessaria per creare una sana
atmosfera che renda possibile raggiungere un focus specifico nell’opera clinica
di comprensione, accettazione e cura delle ferite emotive che vincolano le
persone al passato ed impediscono un libero esercizio della volontà nel
presente e nel futuro. Quindi, non è accidentale che la “cura della parola” che
si sviluppa nella psicoterapia sia da persona-a-persona, relazionale, e che
l’alleanza terapeutica venga frequentemente identificata come uno dei fattori
comuni nell’esito positivo della terapia (Lambert & Ogles, 2004).
L’alleanza terapeutica include non solo un legame personale tra il terapeuta ed
il cliente in cui il cliente vede il terapeuta come qualcuno che si prende
cura, che comprende e che è esperto, ma anche un consenso in riferimento alle
finalità del trattamento ed ai significati attraverso cui queste finalità
vengono raggiunte, che dovrebbero essere appropriati per la dignità della
persona umana (Goldfried & Davila, 2005). L’efficacia della terapia dipende
grandemente dalla fiducia che il paziente ripone nel terapeuta e dal suo
carattere e dalle motivazioni. A questo riguardo, la formazione del carattere del terapeuta è un
problema, in quanto il paziente deve fidarsi del fatto che il terapista non
solo conosca la psicologia ma anche che sia una guida appropriata quando il
procedimento si muove verso la maturazione. Possedere una prospettiva di
fede condivisa con il paziente (o anche un più generale riconoscimento delle
fonti spirituali) può facilitare questo processo ed accelerare la prontezza del
paziente (come nel caso di Suor Lydia) ad assumersi i rischi emotivi ed
interpersonali necessari per la guarigione.
Mentre
l’approccio terapeutico discusso qui può essere efficace con i non-Cristiani se
modificato per essere coerente con la visione del mondo del paziente, la
comprensione e l’attenzione del terapeuta alla formazione della virtù nella sua
vita personale sarebbe necessaria per mantenere quanto più oggettiva possibile
la visione del soggetto, dato l’impatto del peccato e le conseguenti fragilità
personali e le ingiustizie sociali che sono presenti. Radicati
nell’antropologia cristiana discussa qui, i clinici dovrebbero giungere a
comprendere essi stessi tanto quanto i loro pazienti nei termini del tipo di
completa prosperità e libertà che sono necessarie per perseguire attivamente
una vita buona. Sweeney et al. (in press) evidenziano l’importanza della
persona per il terapeuta alla luce dell’insegnamento Cattolico tradizionale
sulla vocazione. Oltre a riferirsi alla chiamata universale alla santità (Baum,
1965, Lumen Gentium) e dello stato di vita (come coniugato, consacrato o
ordinato), la vocazione riflette anche il lavoro unico e personale a cui Dio
chiama ogni persona. Per esempio, i clinici possono amare e servire Dio ed i
fratelli attraverso il dono profondo e le responsabilità che il diventare un
professionista della salute mentale comporta:
“I terapeuti comprendono che il loro incontro col cliente è
provvidenziale e non casuale… Tale senso della vocazione e del servizio motiva
i terapeuti non solo ad osservare i principi etici che esistono nelle
professioni della salute mentale, ma anche a mettere in pratica l’amore
Cristiano ed il dono di sé per il bene del cliente. Così, i terapeuti Cattolici
possiedono un senso di responsabilità verso il cliente ed una sacra
responsabilità verso Dio per il servizio reso o negato alla persona nel bisogno
(Matteo 25:31)” (Sweeney et al., in press, p. 6).
In questo
modo, l’orientamento del paziente verso la crescita e lo sviluppo è
significativo nel processo di trattamento.
Suor Lydia: finalità del trattamento
Le finalità
del trattamento di Suor Lydia includevano l’aiuto ad integrare la sua vita
emotiva con gli atti esterni coscientemente voluti ma “virtuosamente” forzati
che divenivano un costo per se stessa; questo costo è nato a causa del fatto
che gli atti non erano supportati dalle emozioni che sperimentava, che erano
primariamente residui di conflitti irrisolti del passato e paure, ma anche il
risultato di virtù sottosviluppate. Raggiungere tale obiettivo richiede: (a) la
cura delle ferite emotive attraverso una più accurata riflessione sulla realtà
di ciò che sta vivendo, assieme (b) al perdono emotivo/psicologico dei genitori
[che erano già stati spiritualmente perdonati], e quindi (c) la chiara
distinzione di quello che era il passato e di ciò che è il presente,
rispettando il senso delle emozioni che percepisce. Nel breve periodo, ha avuto
bisogno di accedere, di permettersi di sperimentare, e di esprimere in modo
appropriato i propri sentimenti nel contesto di una relazione terapeutica di
fiducia che l’ha preparata ad elaborare più chiaramente le sue emozioni al di
fuori della sessione terapeutica (come vedremo dopo). Nel lungo periodo, ha
potuto raggiungere un ideale più temperato di quello che ci si aspettava da lei
nel convento; ma, al fine di facilitare la sua crescita, prima avrà bisogno di
esperire, di riflettere e di curare nel presente il dolore proveniente dal
passato. (Questo è un processo tipicamente lungo, di cui solo i punti più
importanti della sua trasformazione vengono annotati qui).
Durante una
visita a casa, Suor Lydia ha sperimentato un momento difficile con la sua
famiglia. Lei era soprattutto interessata ad interagire con la sorella più
piccola, ora un’adolescente il cui solo interesse sembrava fosse lo shopping, e
che solo raramente esprimeva qualche grado di modestia. Questa uscita è
diventata una questione di famiglia, con la solita critica, ostilità e rabbia
espressa dai vari membri. Inoltre, è avvenuto un incidente alla sorella che è
stata maltrattata da un uomo. A quel punto Lydia ha scelto di ritornare alla
macchina e di aspettare gli altri al fine di processare le proprie emozioni,
permettendo a se stessa di identificare la frustrazione provata nel non essere
stata in grado di trascorrere del tempo da sola con la sorella – tempo che
avrebbe permesso una più intima e seria condivisione tra le due - tanto quanto
la frustrazione per la mancanza di protezione da parte del padre in uno
scandalo quale quello di essere insultata da un uomo. Processando questo, Suor
Lydia è diventata consapevole che la sua “frustrazione” era in effetti una
ferita ed una tristezza camuffata. Ha realizzato che lo scandalo e
l’ingiustizia che aveva provato provenivano dal di fuori, ovvero, dai membri
della propria famiglia. Dopodiché, è diventata più attenta alla tristezza per
la sua amata sorella che doveva soffrire enormemente in se stessa per essere stata
trattata in quel modo, quindi è stata in grado di lasciar andare il suo
disturbo. In questo modo, la sua iniziale attenzione ristretta alle pratiche di
fede e di protezione della castità si è trasformata in una espressione più
fondamentale dell’amore che lei nutre per la famiglia.
Processi psicoterapeutici come preparazione per la crescita nella virtù
Abbiamo
argomentato che il processo terapeutico deve talvolta avere come priorità le
ferite emozionali, al fine di stabilizzare le fondamenta della persona per
diventare un agente libero e responsabile. Per la loro abilità a motivare ed
energizzare, la cura delle emozioni nello sviluppo della virtù è correlata in
modo significativo con l’educazione della ragione e il rafforzamento della
volontà. Anche se possiamo agire malamente sotto l’influenza delle emozioni
disordinate, le emozioni stesse non sono disordinate in sé, ed importanti
aspetti della virtù (come la perseveranza, la pazienza, il coraggio, la
modestia, la speranza) sorgono dalla conoscenza ottenuta e dall’impiego
deliberato dell’emozione. Inoltre, la semplice ripetizione di atti esterni non
garantisce lo sviluppo della virtù: per esempio, un adulto che lavora con un
bambino può controllare la sua rabbia la maggior parte delle volte, ma perderà
spesso la sua calma almeno fin quando non ha imparato a comprendere le sue
emozioni in modo differente ed a prendere una posizione emotiva costruttiva
quando viene offeso dalle provocazioni del bambino. Una persona che
improvvisamente sbaglia, dopo lunghi anni di comportamento apparentemente
virtuoso, lo può fare per almeno due ragioni. Primo, perché non ha mai
posseduto questi abiti e per anni il controllo di se stesso è dipeso da fattori
esterni (Klubertanz, 1965). Secondo, può semplicemente sbagliare, fatto che
significa che il suo sfogo emotivo disfunzionale o la sua brutta azione o
l’errore non distrugge la disposizione ad agire bene né dimostra che essa non è
mai esistita; l’evento atipico, invece, indica che le disposizioni virtuose non
sono senza macchia e che le persone hanno bisogno continuamente di forgiarle in
situazioni nuove e sfidanti, come momenti di distrazione, di fatica, ed altre
prove a livello cognitivo, volitivo, relazionale ed emotivo, come vediamo negli
ultimi eventi della terapia della Suora.
Suor Lydia
era stata assegnata ad un’opera pastorale con adolescenti provenienti da
famiglie svantaggiate, ed aveva osservato come fossero spontanei ed intensi
nelle loro espressioni, sia di gioia che di altro tipo. Si era meravigliata della
chiarezza con cui esprimevano le loro emozioni, riconoscendo la profonda
conoscenza corporale delle emozioni espresse. Durante la terapia, lei ha
riflettuto su come, nonostante queste capacità, i ragazzi non possedessero
l’abilità di modulare le proprie emozioni, non essendo state coltivate in
famiglia. Al contrario, Suor Lydia, in quanto adulta e con un’educazione ed una
formazione religiosa, è stata in grado di apprendere ad identificare le
risposte adeguate ed è capace di farlo spesso. Inoltre, avendo iniziato a
discutere di questi temi nella terapia, durante la sua mansione è stata in
grado di riconoscere più chiaramente le proprie emozioni interiori. Per
esempio, lei ha riflettuto su come le Suore spesso vivano in alloggi chiusi
l’uno all’altra. Ha riportato di sentirsi costantemente come se fosse un peso
per le altre, non pensando per nulla che esse fossero un peso per lei quando
erano nel suo spazio. Questa mancanza di attenzione per le proprie reazioni
affettive naturali è stata in grado di riportarla al modo in cui, nella sua
famiglia di origine, non si fosse mai sentita a suo agio nell’avvicinarsi agli
altri, sempre percependosi come se fosse sul punto di essere attaccata o
trattata in modo negativo. Queste due esperienze, il trovarsi con dei ragazzi
emozionalmente intensi e spontanei e lo sperimentarsi come un peso senza il
riconoscimento naturale del peso imposto corrispondente, condussero Suor Lydia
a riflettere su come fosse tipico per lei sentirsi come si sentiva durante
questi momenti di costrizione. Attraverso la riflessione, nelle sessioni della
terapia, sulla sua espressione naturale delle emozioni, accettata e validata
dal terapeuta, lei fu in grado di scoprire che non è vergognoso possedere
questi sentimenti, ed anche che poteva permettersi dei rilasci emozionali
privati [ad es., il piangere durante l’adorazione Eucaristica]. Avendo permesso
a se stessa di pensare le emozioni naturali, sentiva di auto-autorizzarsi a
procedere durante il giorno, senza negare la sua esperienza né agirla come era
di norma nella sua famiglia di origine. Nell’identificare le sue emozioni più
chiaramente, differenziandole quando sono appropriate ed utili da quando non lo
sono, Lydia riesce anche riconoscere il modo in cui può interiorizzare le sue
finalità di vita e progredire nel leggere le emozioni, dominarsi
affettivamente, e nella spontaneità responsabile.
Conclusione
Un’antropologia
Cristiano-Cattolica fornisce un approfondimento della psicoterapia in quanto
strumento per: (a) assistere una crescita positiva nelle disposizioni, ovvero,
sviluppare le virtù e le relative pratiche emozionali, relazionali, razionali e
volitive; (b) comprendere il disordine e le espressioni negative della natura
umana, ovvero, le pratiche destrutturanti ed il vizio; o, cosa che è più
frequente, (c) integrare il composto di crescita positiva e debolezza (uno
stato intermedio) in un percorso di vita punteggiato da periodi di pace ed
altri di sofferenza. Una psicoterapia della virtù richiede un terapeuta che sia
attento all’importanza della propria persona nella relazione terapeutica ed
utilizzi le tecniche psicoterapeutiche più efficaci, ma anche che possieda la
sensibilità per riconoscere il potenziale terapeutico delle risorse spirituali
interne al cliente (nei termini di generosità e dono di sé, perdono e
riconciliazione, coraggio ed audacia, pazienza e giustizia) nel mezzo delle
debolezze e delle patologie umane.
Inoltre,
lavorare su di un fondamento antropologico Cristiano-Cattolico per una
psicoterapia della virtù dovrebbe aiutare il terapeuta ad assistere il cliente,
da una parte, ad essere liberato dalle sue patologie psicologiche per una vita
umana più salubre e, dall’altra, ad essere liberato al fine di essere in grado
di partecipare più pienamente alla prosperità completa offerta solo da Dio. Anche se la parola
“virtù” non viene mai menzionata, crediamo che la riduzione del sintomo sia
facilitata almeno da una preparazione alla virtù, se non da una crescita piena
nella virtù in quanto parte integrata della psicoterapia. Per il cliente
che porta con sé un’intenzione ad utilizzare le risorse spirituali, questo
include la trasformazione delle virtù umane e di quelle Cristiane.
Questo
manoscritto si basa su di un articolo presentato inizialmente alla Conferenza della Society for Christian
Psychology, a Chattanooga, TN, nell’Ottobre del 2006.
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[1]
Il caso di studio è una paziente del primo dei due autori, che è stata vista in
un percorso di psicoterapia di alcuni mesi. È stata indirizzata da una collega
che ha risposto alla richiesta della paziente per un terapeuta che condividesse
e comprendesse i suo impegni di fede. In accordo con la pratica etica, alcuni
fatti e dettagli non essenziali vengono camuffati al fine di proteggere
l’anonimato.
Lo psicologo Firenze è un professionista che ha conseguito una laurea di cinque anni in psicologia presso un’università italiana, un tirocinio dells durata di un anno con
RispondiEliminaPsicologo Firenze