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venerdì 10 marzo 2017

Fondamenti per una psicoterapia della virtù - Craig Titus & Frank Moncher

Con il seguente articolo, concludiamo l'approfondimento sul modello dell'Institute for Psychological Science di Arlinghton, negli Stati Uniti. Anche se, ora, sarebbe più preciso chiamarlo il modello della Divine Mercy University, dal momento che l'istituto si è riorganizzato diventando parte di un'università più ampia, sempre di stampo Cattolico. Abbiamo constatato che l'impegno di questi ricercatori, tra di loro eterogenei, è rivolto ad una sintesi tra l'eredità filosofica e teologica della Chiesa, da una parte, e le prospettive della psicoterapia contemporanea, dall'altra. L'elemento unificatore da loro scelto è il pensiero di San Tommaso d'Aquino. Possiamo dunque ben "classificare" la loro proposta come "integrazionista" e non "assimilazionista", cioè fondata sui contenuti del Magistero più che sull'adesione ad una scuola psicologica contemporanea. Mentre l'assimilazionismo implica una fusione a freddo tra due concezioni fondamentalmente distanti, a discapito delle differenze reciproche, l'integrazionismo è l'incontro dell'antropologia cristiana con gli aspetti di verità contenuti nei sistemi di pensiero contemporanei, all'interno di un riconoscimento delle differenze - di storia, di obiettivi, di presupposti.
Nel modello dell'IPS emerge chiaramente la consapevolezza dell'esistenza di una psicologia tomista tout-court, in grado di dialogare con le impostazioni novecentesche ma anche di esserne indipendente e, persino, fondante. E' un approccio diverso da quello della "scuola argentina", ma che punta verso la stessa direzione - una psicoterapia pienamente cristiana - attraverso il medesimo strumento - il tomismo. Il seguente articolo raccoglie in sé gli aspetti caratterizzanti del modello dell'IPS: dialogo con la psicologia positiva di Martin Seligman, radicamento in un'antropologia ben definita (tomismo) e focus sull'emotività, ricorso all'educazione delle virtù come strumento della psicoterapia. Inoltre, il testo descrive il percorso terapeutico di una paziente, permettendo così un'esemplificazione clinica oltre che un'approfondimento teorico. Si ringraziano gli autori per la concessione. 


Fondamenti per una psicoterapia della virtù: una prospettiva Cattolica integrata.

Craig Steven Titus & Frank J. Moncher


Frank J. Moncher
Alcuni recenti lavori hanno esplicitato i fondamenti antropologici Cattolici per la psicologia clinica (Brugger & la facoltà dell’Institute for the Psychological Sciences, 2008), enucleando un paradigma di psicologia dello sviluppo e di terapia secondo tre livelli: le virtù di base, le forze del carattere e le pratiche (Titus & Moncher, in press). In questo articolo, consideriamo la psicologia della virtù che sorge dalla tradizione e dai suoi seguiti nella psicologia filosofica e teoretica (si veda, ad. es., Aristotele; Tommaso d’Aquino, 1270; Hauerwas, 1981; Giovanni Paolo II, 1998; McIntyre, 1981; Pinchaers, 1995, 2005; Titus, 2006). All’interno di questa tradizione, abbiamo identificato alcuni principi antropologici rilevanti per la psicoterapia che emergono dalle fonti teologiche e filosofiche (Moncher, 2001).
Craig S. Titus
Poiché assumiamo una prospettiva esplicitamente Cristiano-Cattolica, differiamo da altri tentativi recenti di riappropriazione della virtù in psicologia, sia da quelli che sostengono una concezione non-normativa, sia da quelli che propongono un approccio relativistico alle norme morali. Da una parte, il paradigma della psicologia positiva delle forze del carattere e della virtù ha tentato di compendiare in se stessa non solo una tradizione religiosa particolare, ma anche le norme morali come tali (ad es., Seligman, 2002; Peterson & Seligman, 2004; Joseph & Linley, 2006; Snyder & Loperz, 2007). Per esempio, Peterson e Seligman (2004) dicono che “un più ricco contenuto psicologico ed un più grande potere esplicativo” (p. 88) è descrittivo delle forze del carattere, ma senza un riferimento normativo. Mentre ricercano i riferimenti morali per il buon carattere in un’antropologia morale pre-empirica (attraverso il costrutto di natura della virtù e la nozione di natura umana positiva), essi distanziano la motivazione interiore per le virtù dalle considerazioni morali (leggi e principi) e dalla normatività della natura umana. Una tale separazione della virtù e delle fonti etiche (inclinazioni morali, sentimenti, legge e principi) rende la norma psicologica e l’agentività morale inincidenti. Mentre questo approccio può fornire alcuni suggerimenti per una crescita positiva, troviamo che esso non abbia avuto successo nel comprendere il ruolo della virtù nella psicoterapia (Titus & Moncher, in press; Titus, 2008). D’altra parte altri vedono la psicoterapia come un discorso morale (ad es., Cushman 1990, 1993) ed affermano la necessità di confini morali. Cushman (1993) vede lo psicoterapeuta come una risorsa per il discernimento da parte del paziente dei problemi morali (si veda anche Tjeltveit, 1999), e dice che “è il lavoro di uno psicoterapeuta dimostrare l’esistenza di un mondo costituito da differenti regole ed incoraggiare i pazienti ad essere consapevoli dell’accessibilità delle tradizioni morali che contrastano la cornice morale su cui attualmente essi danno forma alle loro vite” (p. 109). Inoltre, egli postula un sé vuoto, che è riempito dall’ambiente storico, culturale e dai contesti morali, ma solo con riferimenti relativistici.
Quello che l’antropologia Cattolica esprime di questo tentativo, al contrario, è una umile fiducia in una cornice morale che sia sufficientemente sicura da offrire una guida chiara ed ampia abbastanza da includere spazi per un’accurata creatività e le differenze culturali. Primo, in quanto parte di uno sforzo filosofico, la comprensione della persona umana è raggiunta attraverso l’uso di un’osservazione ragionata della natura umana in quanto incarnata nella cultura e nelle comunità particolari, ma anche in un mondo che mostra un ordine più profondo che soggiace al disordine relativo e alle particolarità della storia. Questo lavoro di psicologia teorica (o di antropologia filosofica) identifica la persona umana in quanto incarnata, relazionale, razionale e volitiva. Secondo, gli aspetti teologici attingono alla comprensione della persona umana basata sulla fede, radicata nella rivelazione come espressa nella Scrittura Giudeo-Cristiana e nella tradizione, particolarmente in una prospettiva Romano-Cattolica. Questa rivelazione dell’origine e della finalità delle persone umane aiuta nel distinguere gli strumenti ben ordinati al perseguimento dei fini ultimi fra i vari strumenti simili ma disordinati.
Non è insignificante se i testi di psicologia Cattolica e di psicologia secolare differiscono nel contenuto, nella categorizzazione e nella gerarchia delle qualità virtuose. Però, tali formulazioni religiose e secolari non sono necessariamente in completo disaccordo riguardo i temi della giustizia, del rispetto, della dignità di base, e via dicendo; ed in vari domini psicosociali c’è la possibilità di un aiuto reciproco e di una mutua comprensione. Il contenuto delle virtù viene agito in vari modi nelle culture, con accenti differenti. Sebbene le aree di base della virtù siano operative in tutte le culture, le forze e le pratiche associate alla virtù vengono necessariamente espresse con accenti personali e variazioni culturali.
            Nel pensiero contemporaneo, le classiche nozioni di sviluppo originale e di costanza normativa della virtù sono spesso travisate. La teoria della virtù è comunemente percepita alla luce di uno dei due estremi più comuni. Da una parte, ogni virtù è percepita come una norma “ideale” che debba essere rappresentata nello stesso modo o non essere considerata per nulla una virtù. Dall’altra, sussiste la nozione secondo cui la teoria della virtù schematizzi un percorso di sviluppo che è assolutamente unico per ogni persona, quindi, senza un fondamento o un fine normativo ultimo. Al contrario, nella prospettiva Cristiana della virtù di Tommaso d’Aquino, entrambi gli elementi (la normatività e lo sviluppo) sono tenuti in un’unità mutualmente dipendente, fatto che offre una base stabile ed anche dinamica per la psicoterapia.
            Un’importante caratteristica della tradizione Cattolica sulla virtù è che essa riconosce la potenzialità umana e lo sviluppo naturale che sono centrali nel processo della psicoterapia. In particolare, noi suggeriamo che la psicoterapia debba ricercare non solamente la riduzione dei sintomi, ma anche la maturazione delle capacità umane positive, a tre livelli (virtù maggiori, virtù associate e forze del carattere, pratiche particolari) – infatti, sosteniamo che ci sia un movimento concomitante nella riduzione del sintomo e nelle pratiche virtuose e di sviluppo. Con la dovuta considerazione delle sue basi neuro-biologiche, la salute psicologica è ultimamente connessa all’essere in grado di “scegliere” i beni che sono oggettivamente adeguati alla prosperità umana e di agire conseguentemente; a questo livello, c’è una convergenza tra la psicologia e quella che è stata classicamente chiamata la virtù naturalmente acquisita. Quando i pazienti iniziano sempre più liberamente ad agire ed a compiere scelte nelle proprie vite, l’incoraggiamento dell’esercizio delle virtù e delle pratiche correlate può avere un impatto drammatico sulla loro salute mentale nei termini di auto-conoscenza ed auto-padronanza, ma anche di auto-accettazione e di fiducia di essere degni d’amore (Moncher, 2001). Inoltre, affinché il terapista fornisca questo incoraggiamento in modo coerente ed efficace, è anche importante che egli sia focalizzato nella propria vita sul vivere ed apprendere le strade di sviluppo dei differenti gruppi di virtù.
            All’interno di questa comprensione della virtù, ci orienteremo ora su specifiche applicazioni cliniche focalizzandoci sulle emozioni nella psicoterapia. Molti clienti che cercano un aiuto psicologico soffrono secondo modalità che richiedono un’attenzione immediata e compassionevole ai livelli preliminari del benessere emotivo, relazionale e motivazionale. Questi aspetti devono essere risolti al fine di preparare al meglio la persona a perseguire una crescita più piena nella virtù e nelle pratiche connesse. In più, ad un livello esplicitamente spirituale, considereremo brevemente come le virtù teologali della carità (ad. es., l’amore), della fede e della speranza possano operare nel processo della terapia e fornire una cornice concettuale per la comprensione della sofferenza e della guarigione.


Il caso di suor Lydia: breve storia e contesto familiare[1]

Al fine di rendere concreta l’applicazione clinica di questa teoria, presenteremo la storia di un caso verso cui ci rifaremo per tutto l’articolo.
            Lydia, un membro consacrato di una congregazione religiosa Cattolica, è la sorella maggiore di diversi fratelli nati in una famiglia intatta. Proviene da una classe sociale media, con un retroterra medio-occidentale, con un’organizzazione familiare di tipo tradizionale di un padre che lavora fuori casa ed una madre che sta a casa coi bambini. La famiglia è cresciuta nella Chiesa Cattolica ma non è stata attiva al di fuori degli obblighi domenicali. Lydia spesso aveva preso il ruolo della protettrice e della guida per le sue sorelle più piccole che erano talvolta fisicamente abusate dal padre. La mamma scompariva quando il padre scoppiava dalla rabbia, e probabilmente talvolta diceva al padre delle cose che avrebbero prevedibilmente causato violenza ai bambini. Uno degli aspetti importanti della vita di famiglia è che i suoi genitori erano cordiali e gentili con le altre persone, ma rabbiosi e critici all’interno della famiglia. Suor Lydia ha imparato che è pericoloso rilassarsi, credere nella buona volontà degli altri, e così ha sviluppato uno stile indipendente ed un’auto-sicurezza assertiva, saturando le proprie emozioni con risposte abituali che la tengono emozionalmente al sicuro. All’interno dell’attuale ‘famiglia’ del convento, invece, lei è circondata da persone che non sono pericolose né fisicamente né emozionalmente, ma lei ha ancora difficoltà a cambiare la propria posizione all’interno di queste relazioni, al fine di permettersi un modo di legare intimamente che sia più appropriato alle circostanze. Nella vita della comunità, la suora e le sue superiori hanno realizzato che sussiste qualcosa di sbagliato nel modo in cui sta perseguendo la santità. In qualche modo, le virtù umane che stava cercando di mettere in atto non stavano generando i frutti attesi.


La persona umana e la prospettiva della virtù

            Ogni psicoterapia che cerca di avere una stabile posizione antropologica deve rispondere ad alcune domande cruciali: come una nozione generale (quale la virtù) accoglie diversi tempi e diverse culture, diverse età della vita, e la distinzione biologica dei sessi? Inoltre, come ci spieghiamo le capacità umane per l’eccellenza, la continuità e la creatività, assieme alle espressioni umane contrarie della mediocrità, dell’instabilità e della coazione a ripetere? L’antropologia basata sulla virtù tenta di dare ragione riconoscendo che la persona umana possiede un origine ed un fine, proprio come un bisogno per lo sviluppo personale, senza negare una certa diversità nel definire le virtù associate. Per prima cosa, sebbene non in modo incontrovertibile, accetta dalla riflessione filosofica (ad. Es., D. McInerny, 2006) e dalle scoperte empiriche (ad. Es., Ekman, 1992, 2003) che la persona umana possiede una natura, una struttura ricevuta che specifica le specie non solamente con i tratti fisiologici ma anche con le inclinazioni naturali verso le finalità di vita, parlando a grandi linee. Secondo, riconosce una prospettiva di sviluppo che distingue le varie aree in cui gli esseri umani necessitano di crescere, con l’obiettivo, terzo, di raggiungere il fine della prosperità matura, diventando agenti liberi e responsabili. Ovvero, la visione antropologica identifica una struttura delle origini umane, delle vie per lo sviluppo, e delle espressioni di maturità (Schmitz, 2009).
            Nella psicoterapia, la difficoltà di Lydia fu concettualizzata come il risultato di virtù non interiormente formate, ma piuttosto eseguite soprattutto per dovere ad una legge esterna; così, lei è stata inquadrata come l’espressione di un profilo emotivo e di virtù bloccato ad uno stadio iniziale (dipendente dal dovere e dalle regole esterne), con difficoltà incombenti, aridità e mancanza di spontaneità. Tale concettualizzazione è stata avanzata dal terapeuta nel contesto della loro fede condivisa, attraverso una pacata ma significativa rivelazione delle proprie esperienze. Questo intervento ha normalizzato le esperienze della Suora e le ha permesso di comprendere perché fosse esausta quando compiva la routine quotidiana al convento tentando di fare le cose giuste; lei ha riflessivamente ed abitualmente saturato le proprie reazioni emotive sul nascere al fine di non essere sopraffatta da esse e di comportarsi così inappropriatamente. Come esito, ha tentato di resistere a tutte le emozioni anche se conseguenti a dei beni che aveva cercato di raggiungere.
La persona a livello naturale: incarnata, relazionale, razionale e volitiva
Sosterremo che le qualità determinanti della vita umana, dell’intera persona, possono essere specificate nei termini di quattro aree antropologico-filosofiche: incarnazione, relazionalità, razionalità e volizione, espresse in una modalità unificata di sviluppo (Brugger & la facoltà dell’Institute for the Psychological Sciences, 2008).
            Primo, ‘incarnazione’ include non solo l’aspetto motorio, percettivo e del sesso biologico delle persone, ma anche il substrato neuro-biologico della vita umana che è espresso nella malleabile conoscenza sensoriale e nell’emozione (si veda Lakoff & Johnson, 1999). A livello della cognizione incarnata, possediamo non solo i sensi esterni, ma anche quelli interni; poiché generiamo pensieri preconsci (come i giudizi di attrazione e di repulsione) e pensieri consci (come le memorie e le fantasie). A livello dell’affettività incarnata, possediamo delle emozioni che riferiscono di un’attrazione: amore, desiderio, piacere e gioia, e all’opposto odio, repulsione, dolore e tristezza; inoltre ci sono le emozioni collegate ai beni che sono difficili da raggiungere, ovvero la paura, l’audacia, la disperazione, la speranza e la rabbia (Titus, 2006; sulle diverse classificazioni dell’emozione, si veda Ekman, 1992, 2003; Evanza & Cruse, 2004; Griffiths, 1997).
            Secondo, ‘relazionalità’ include le dimensioni socio-culturali che sono necessarie per un corretto sviluppo e per la prosperità umana, ma che possono anche essere all’origine di alcuni disordini e patologie. La persona umana possiede una natura specie-specifica, che necessita di essere nutrita interpersonalmente al fine, non solo di sopravvivere semplicemente, ma anche di conseguire delle capacità e di prosperare in forme differenti di eccellenza. Tale nutrimento inizia nella famiglia ed include le pratiche socio-culturali e le interazioni con gli altri. La rete relazionale incide sul benessere o il malessere della persona sin dagli inizi, già nel ventre della mamma, sino al letto di morte.
            Poi, le altre capacità cognitive ed affettive sono proprie della ‘intelligenza’ umana; ovvero della ragione e della volontà. Esse riguardano le qualità intuitive e discorsive che sviluppano completamente la vita della persona. L’intelligenza – nelle sue varie forme di ragione e di volontà – è il regno della saggezza, della comprensione e dell’impegno, la forma più profonda dell’amore e del dono di sé. Abbastanza spesso, l’intelligenza specificatamente umana viene definita con espressioni dell’analisi concettuale e della linguistica, come strumenti ed utilizzi, leggi complesse e relazioni sociali, ecc. Mentre la capacità dell’intelligenza è condivisa dalle specie, le sue applicazioni di ragione e di libera volontà sono così individuali che le strade per un lavoro costruttivo e per la risoluzione dei problemi sono molteplici, spesso marcate da inclinazioni culturali e da limitazioni personali. L’appetito intellettivo (volontà) può essere distinto dagli appetiti sensoriali (emozioni) poiché la volontà collabora con la ragione in modo maggiormente diretto; posso volere direttamente che la mia mano destra si sollevi. Il tipo di collaborazione tra la ragione, la volontà e le emozioni è maggiormente indiretto anche se comunque reale; mentre non posso volere così facilmente di provare rabbia (sebbene gli attori possiedano delle modalità per farlo), quando mi sento arrabbiato sussistono delle ragioni ed anche dei modi ragionati di averci a che fare.


La virtù: una disposizione, un atto o una norma?

La nozione di virtù è stata spesso ridotta dai pensatori moderni ad un concetto statico che si riferisce semplicemente ad un atto (una singola scelta o atto) o ad una norma morale per l’azione. Invece, la base dell’approccio classico Aristotelico-Tomista è la concezione della virtù intesa come maturazione, in quanto disposizione acquisita ad agire (a livello emotivo, cognitivo e volitivo) in un modo che contribuisce alla prosperità umana a lungo termine.
            Aristotele dice che la virtù include un preciso “stato del carattere che rende un uomo buono e che gli permette di fare bene il proprio lavoro” (n. 1106-23). L’Aquinate (S. Th. I-II q. 55 a. 4) sviluppa una definizione Agostiniana che include non solo le virtù acquisite ma anche quelle infuse; egli dice: “la virtù è una qualità buona della mente, attraverso cui viviamo in modo retto, di cui nessuno può far cattivo uso”. Riguardo la potenzialità interna e le cause della virtù che sussistono nell’agente morale, l’Aquinate (S. Th. I-II q. 63 a. 3) sostiene anche che tutte le virtù acquisite (intellettive e morali) “provengono da alcuni principi naturali in noi pre-esistenti”. Questa visione della virtù, come di una disposizione, contrasta l’identificazione con una tendenza alla ripetizione statica e meccanica. Essa riguarda piuttosto l’apprendimento di capacità lungo tutta la vita che inclinano verso tipologie generali di atti buoni. Attraverso l’opera della ragione pratica, le persone danno forma alle proprie inclinazioni. Nel tempo, gli atti ben ordinati creano le disposizioni emotive, relazionali, razionali e volitive che trovano armonia quando presentano un duplice ordine: le disposizioni che sono ordinate tra loro, e ordinate rispetto al fine ultimo della persona (D. McInerny, 2006). Così, attraverso le disposizioni virtuose la persona cerca di utilizzare il suo intero apparato di forze per il fine della prosperità personale, il bene della comunità e la gloria di Dio (un triplice amore). Una tale visione maturativa della virtù è coerente con i modelli psicologici che sono sensibili alla potenzialità di cambiamento del paziente sia verso il meglio, nel caso di una crescita positiva, sia verso il peggio, nel caso di disturbi psicologici, ed è altrettanto coerente con i modelli di sviluppo Cristiano-Cattolici (Sweeney, Titus & Nordling, in stampa).
            Bisogna notare che un approccio pratico alle virtù include un lavoro sulle materie particolari (ovvero le emozioni, le relazioni, la volontà e il ragionamento – e le loro interazioni) tanto quanto sui contenuti formali. Parlare della virtù, però, significa soprattutto utilizzare un linguaggio pratico che riguarda la descrizione dell’evolversi di una forza o di una difficoltà: crescere o decadere nella vita emozionale come la paura e l’amore; le pretese e le potenzialità nelle relazioni interpersonali; e nel tipo di scelte e di ragioni che perseguiamo o evitiamo. Ogni tipo di materia possiede tipologie multiple di direzionalità e di conseguenze, proprio come di correlazioni con le altre materie. Per esempio, le emozioni incarnano diverse manifestazioni: da attimi esagerati, ad espressioni timide, a disposizioni ben gestite. Però, ogni espressione d’emozione riguarda alcune interazioni passate o presenti con ragioni, scelte e relazioni interpersonali.
            La tempistica attraverso cui un terapeuta introduce il linguaggio della virtù è importante e deve considerare diversi fattori. Primo, devono essere valutati il livello di stress del paziente e la salute emotiva generale. Mentre si rivela necessaria una descrizione dell’essenza della virtù, un linguaggio esplicitamente normativo è molto spesso non consigliato nei momenti di crisi poiché potrebbe essere difficile per il paziente processare le informazioni discusse. Secondo, deve essere valutata l’abilità di un paziente ad esplicitare le proprie intenzioni, poiché una certa quantità di auto-controllo (salute volitiva) è necessaria, così che nella terapia i primi successi possano essere raggiunti e sia possibile edificarci sopra. Terzo, dovrebbero essere tenute da conto le aspettative culturali che hanno influenzato la comprensione del paziente delle espressioni di cura, di affezione, di rabbia, di paura, di mascolinità, di femminilità e via dicendo. Infine, dovrebbe anche essere valutata la storia di direzione e di esperienza spirituale del paziente, poiché alcune persone sono state problematicamente (benché forse inavvertitamente) umiliate da altre che hanno voluto incoraggiare la loro crescita religiosa e morale sfidandoli a superare la debolezza attraverso i significati spirituali, quando invece era una privazione a livello naturale o sociale a costituire una barriera in grado di farlo.


La virtù di Suor Lydia: istintiva, perseguita, ma imperfetta

Poiché Lydia non aveva acquisito una disposizione verso la virtù in senso completo, non fu in grado di operare facilmente (ovvero, con prontezza, tranquillità e gioia) nella sua comunità religiosa. Ma, in quanto giovane, al di là di una formazione lacunosa, Lydia possedeva una inclinazione alle scelte virtuose in quanto atto o norma. Le sue inclinazioni naturali sono evidenti in un esempio tratto dalla sua adolescenza: Lydia si era svegliata presto una mattina per pulire la casa prima di andare ad allenarsi a basket, frequentare un'intera giornata di scuola, ed eseguire i compiti a casa durante il tempo per lo studio, quando molti suoi pari erano improduttivi. Seguendo il suo schema, aiutò a pulire l’autobus, lasciando accidentalmente i suoi libri durante l’attività. Una volta giunta a casa, chiamò il deposito degli autobus, apprendendo che non avrebbe potuto recuperare i suoi libri fino alla fine del giorno successivo, e così di non essere in grado di finire i propri compiti. Mise le sorelle più giovani a letto, e fece altri lavoretti in casa. Il giorno dopo, l’insegnante la rimproverò davanti alla classe di non aver eseguito i compiti, di essere irresponsabile, un esempio di “quello che non va nei giovani d’oggi”. In modo calmo ma fermo, Lydia replicò che non era appropriato parlarle in quel modo e lasciò la classe, riflettendo su come non fosse stata affatto irresponsabile il giorno prima, ma avesse semplicemente compiuto un errore. A causa della violenza e del caos presente in casa sua, Lydia ha sviluppato uno stile che non s’interessa del proprio stato emotivo, che non si riempie di sentimenti e si focalizza sulle azioni. Così ella seppe, intellettualmente, che non aveva commesso l’errore di cui era accusata, e compì le azioni più ragionevoli per fuggire da un’accusa ingiusta. Quindi non processò l’evento da un punto di vista emotivo né ottenne piena soddisfazione, ma piuttosto rimase disorientata nei casi migliori, e crebbe nel cinismo verso gli adulti nei casi peggiori.


Antropologia teologica cattolica e prospettiva della virtù

Un fondamento teologico Cristiano-Cattolico per una psicoterapia della virtù identifica un concetto particolare della forma generale e filosofica delle virtù, in quanto incarnate, relazionali, razionali e agenti. Ovvero, la differenza che la Cristianità fa per la comprensione dell’origine, dei fini, e dei percorsi di sviluppo di una psicoterapia della virtù si trova nel concetto di virtù correlate, che costituisce il carattere autentico della persona umana visto nella prospettiva di Cristo, il quale “rivela pienamente l’uomo all’uomo stesso e rende chiara la nostra chiamata suprema”, come ricorda il Concilio Vaticano II (Baum, 1965; Gaudium et spes, n° 22). Questa prospettiva non è un tipo di modernismo, né di essenzialismo, né di individualismo; se è qualcosa, essa richiede un dialogo con le scienze e la cultura contemporanea. Sebbene alcuni pensatori Cristiani abbiano preferito porre una frattura netta tra le fonti Bibliche e non Bibliche (Tertulliano, Lutero, Kierkegaard), altri hanno notato le somiglianze nelle diverse tradizioni e il potenziale che le fonti umaniste (non-Bibliche) possiedono nell’aiutare la comprensione Cristiana della persona umana e della società (Giustino, Tommaso d'Aquino). La nostra posizione è che fonti differenti (scientifiche e sapienziali) debbano essere integrate in un’antropologia in accordo con le loro competenze proprie, distinguendo le espressioni umane, le descrizioni scientifiche, le norme filosofiche e l’autorità religiosa (Ashley 2006; Giovanni Paolo II, 1998).


La Persona a livello trascendente: creata, caduta e redenta

Una variante Cattolica ed un completamento dell’antropologia basata sulla virtù ritiene appropriate le dottrine teologiche che concepiscono la persona umana come: (1) creata ad immagine di Dio, (2) segnata dagli effetti del peccato, e (3) redenta dall’iniziativa di Dio in Gesù Cristo. Primo, un assunto di base per comprendere l’antropologia cattolica è la dottrina della persona umana in quanto creata ad immagine e poi a somiglianza di Dio (Gn 1:26-27; 1 Cor 11:7; Ef 4:24; Col 3:10). Le persone umane, essendo di natura umana, sono un’immagine imperfetta, o anche creata “nei confronti” dell’immagine di Dio. Ciononostante, questo tipo d’immagine tende dinamicamente verso la perfezione, che è Dio (Mt 5:48). Questa tendenza non viene automaticamente auto-compiuta o imposta da Dio; in cooperazione con la grazia di Dio e nell’imitazione della bontà di Dio, essa richiede che in quanto creature agenti noi ci muoviamo e maturiamo verso l’immagine di Dio, esercitando la nostra intelligenza, la libera volontà, e l’auto-determinazione nel dirigerci verso la maturità personale e sociale in Cristo (cf. Tommaso d’Aquino, S. Th. I q. 35 a. 2; S. Th. II-II q. 23 a. 1).
Poi, dal primo peccato in avanti, gli esseri umani hanno sfigurato se stessi e l’immagine sopra menzionata. Le strutture rimanenti del peccato consistono in molti e differenti tipologie di disordine personale e relazionale. Ma nella persona umana queste restano comunque secondarie alla bontà della creazione di Dio. Grazie alla bontà di Dio, la Sua immagine dinamica e la dignità umana sussistono ancora dopo il peccato. Per comprendere questa potenzialità per il bene e per il male, per la salute e per la malattia, per la virtù o il vizio, abbiamo bisogno di comprendere l’intera persona umana alla luce di come la Lieta Novella di Cristo influenza le nostre prassi legate alla nostra incarnazione, relazionalità, ragione e volontà.
Infine, comprendiamo che attraverso la redenzione in Cristo, gli esseri umani vengono ristorati ad una giusta relazione con Dio. Invece di annullare la natura umana, Cristo
“restaura la somiglianza divina che è stata sfigurata dal primo peccato…Egli che è ‘l’immagine del Dio invisibile’ (Col 1:15; 2 Cor 4:4), è Egli stesso l’uomo perfetto… Dal momento che la natura umana che Lui ha assunto non fu annullata, ma dal fatto che è stata innalzata a dignità divina anche nel nostro rispetto” (Baum 1965; Gaudium et spes, n° 22).
Cristo offre una strada per la figliolanza adottiva, santità nello Spirito, e una promessa di beatitudine. Riguardo a quest’ultima, come attestato dai poeti e dai filosofi, gli umani cercano la prosperità, specialmente la beatitudine ultima, come fine primario delle loro vite. Sebbene le comprensioni di quello che ci rende felice differiscano, la visione Cristiana Cattolica compie la beatitudine che viene generata dalla fede, dalla speranza e dalla carità e che è fondata sull’insegnamento di Cristo delle Beatitudini (Mt 5; Lc 6).
In sintesi, quando l’antropologia teologica Cattolica parla di sviluppo, essa non può negare né la natura umana né la grazia divina né le differenze umane nel loro sviluppo. Piuttosto essa costruisce una crescita potenziale nelle capacità umane che viene resa sicura dalla grazia, che vi costruisce sopra le capacità umane naturali e i processi di sviluppo, invece di distruggerli o rimpiazzarli (Baum, 1965; Gaudium et spes, n° 22). Con un volenteroso cliente Cristiano, un richiamo consapevole alla propria fede, alla speranza ed alla carità può aiutare il processo terapeutico attraverso supporti cognitivi e motivazionali. La conoscenza e l’abilità nell’utilizzare queste risorse da parte del terapeuta dipenderà dall’ampiezza della propria formazione, e dalla volontà e dal desiderio di riflettere sulla virtù nel proprio percorso di vita. Queste virtù servono a fornire una cornice concettuale per la comprensione della sofferenza, della speranza di un recupero, e una motivazione per una vita migliore, anche quando l’enfasi principale è posta sulla prospettiva eterna che non offre soluzioni pronte per i problemi e le patologie.


Suor Lydia: le virtù teologali

Perché questa giovane donna, non formata ad essere virtuosa né dai genitori né dal gruppo dei pari, dovrebbe essere dell’idea di rispettare i principi? Sappiamo che anche prima di sperimentare la chiamata alla sua vocazione religiosa, Lydia non aveva attribuito alla famiglia lo schema del trattarsi male l’un l’altro. Lei invece aveva speso i suoi giorni e le sue notti nel tentativo di tenere in ordine la casa. Questo potrebbe essere il risultato non solo di una naturale inclinazione alla bontà, ma anche la virtù sovrannaturale ed infusa della speranza. Certamente lei mostra carità nel senso che offre un dono gratuito agli altri [ad es., assicurandosi che le sorelle più piccole siano curate quando la madre è “troppo impegnata” per farlo]. Quando lei riporta di pregare Dio affinché la sua vita e la sua morte siano utilizzate per la conversione della sua famiglia [prima di sapere esattamente cosa questo possa dire], lei mostra di possedere la virtù della fede. Se queste virtù soprannaturali sono operative, possiamo ipotizzare l’influenza della compagnia che la circonda, attraverso cui fu esposta alla scrittura, alle preghiere della liturgia, e fu istruita realmente al modello di Cristo del dono e della speranza. Teologicamente possiamo anche parlare degli effetti del battesimo con le sue grazie che sono come dei semi e si sviluppano nel tempo sotto la guida divina.


Processi psicoterapeutici, emozioni e un’antropologia della virtù cristiana
Emozioni e virtù

Alcuni filosofi e teologici sono fortemente sospettosi riguardo le emozioni, in quanto talvolta compiacenti ma in genere inaffidabili (Bonaventura, Kant), o fortemente distruttive o maligne (Stoici). Invece, Aristotele, l’Aquinate e la tradizione Cattolica (Catechismo della Chiesa Cattolica, 2003, n° 1767) affermano che le emozioni sono energie potenzialmente positive, che sono soggette ai processi di sviluppo. Da una parte, esse esprimono dei giudizi pre-razionali o istintivi che provengono dalla conoscenza sensoriale. Le emozioni offrono così dei segni d’intelligibilità (tra gli esseri, le interazioni e gli eventi) attraverso le attrazioni e le repulsioni, le paure e le speranze, la rabbia e l’amore, e così via. D’altra parte, l’approccio Aristotelico-Tomista alle emozioni – che costituisce il fondamento della tradizione Cattolica – correla l’espressione e lo sviluppo emozionale anche con il ragionamento, la volontà e le relazioni interpersonali.
L’Aquinate ritiene che le emozioni siano un bene in due modi (cf. S. Th. I-II q. 58-60; q. 24 a. 3). Primo, in quanto formano virtuosamente le capacità emotive, le emozioni esprimono delle ragioni oltre se stesse e possono orientarci ad agire in modi che sono coerenti con le finalità che abbiamo scelto nel passato. Esse esprimono intelligibilità ad un livello pre-razionale o istintivo. Cioè, l’emozioni sono buone quando, in quanto reazioni antecedenti il ragionamento, esse tendono a risposte appropriatamente focalizzate; per esempio, quando abbiamo una giusta reazione di compassione per chi soffre. Secondo, le emozioni sono buone in quanto reazioni conseguenti una valutazione intellettiva di una situazione, dove le emozioni possono ergersi sopra delle decisioni razionali, o almeno essere frenate dal raggiungere gli estremi che accecano e inabilitano l’azione. Per esempio, le emozioni conseguenti alla scelta di correggere un’ingiustizia, possono farci propendere emozionalmente verso una rabbia (1) che viene trattenuta, per paura di commettere un errore aggiuntivo o (2) che è giusta, e che può motivarci ad agire in modo deciso. Questo tipo consapevole di emozione esemplifica l’importanza di essere in grado di leggere l’intelligibilità delle emozioni e di controllare il focus dell’energia emozionale, anche se le emozioni sono solamente in modo indiretto e dialogico sotto l’influenza della ragione, della volontà e delle influenze sociali.
Negli studi psicologici contemporanei, l’emozione è ritenuta parte di un sistema di senso e di azione che informa gli individui del significato degli eventi per il loro ben-essere. La funzionalità di un’emozione dipende da molteplici fattori che sono associati sia con la valutazione (appraisal) che fa scaturire l’emozione (ad es., la sua precisione) sia con la risposta che essa genera (ad es., il modo in cui è modulata). Sebbene le emozioni non siano sempre funzionali, i loro benefici eccedono mediamente i costi (Parrott, 2001). L’antropologia che presentiamo qui è coerente con le teorie dell’emozione che incorporano la ragione e la volontà (si veda, ad es., Frijda, 1986; Lazarus, 1991; Levenson, 1999), dal momento che l’emozione dipende dalla percezione e dalla valutazione (appraisal) all’interno di una visione integrata della persona in grado di azioni responsabili.


Il caso di Lydia: a proposito di giustizia

La sfida di riconoscere le ragioni tra le emozioni e di integrarle col giudizio razionale giunse quando Lydia iniziò il suo primo lavoro dopo il college. Le capitò un acquirente irascibile che urlava ad una giovane commessa sopraffatta ed apparentemente spaventata. Lydia affrontò l’acquirente in modo calmo, dicendo che “non permettiamo a nessuno di parlare con quel tono, qui”, seguito da: “forse posso accompagnarla fuori”. Essendo questa, nella sua mente, una posizione di giustizia o “come le persone dovrebbero trattarsi l’un l’altra”. Nella crisi, Lydia ha agito ragionevolmente, prendendo delle scelte basate su di un discernimento logico delle circostanze. Tuttavia, lei non riporta di aver provato le emozioni che naturalmente avrebbe provato né riconosce che al di sotto della rabbia espressa dell’acquirente potrebbe esserci un bisogno ancora più pressante di giustizia. Lydia sembra omettere i segnali sia delle proprie emozioni che di quelle degli altri, probabilmente perché ha imparato a non prestare attenzione a queste sensazioni e sentimenti; perché nella sua esperienza familiare, le emozioni non sarebbero state esplorate, curate o comprese, ma piuttosto sarebbero state interpretate come una vulnerabilità e, come minimo, ridicolizzate, se non utilizzate contro di lei.


Le emozioni in psicoterapia

La recente letteratura psicologica fornisce una base per la nostra tesi secondo cui a volte è fondamentale dare priorità alla cura emotiva per il successo di una terapia della virtù. Alcuni fattori sono stati evidenziati in quanto elementi importanti per la riuscita del trattamento: l’alleanza di lavoro, la profondità dell’esperienza, le differenze nella capacità degli individui di impegnarsi nel trattamento, e l’elaborazione emotiva, che include sia l’esperienza emotiva che il lavoro con il significato emotivo delle cose nella terapia (Pos, Greenberg, Goldman & Korman, 2003). Quest’ultimo fattore ha guadagnato sempre più attenzione da quando i ricercatori dei processi delle emozioni di base sembrano aver ottenuto un consenso sul fatto che le emozioni siano adattive, enfatizzando l’utilità delle emozioni nei termini di risposte agli eventi ed alle circostanze. Le emozioni sono viste come informatori delle preoccupazioni e delle attenzioni delle persone; esse preparano il corpo all’azione, poiché dirigono la cognizione verso modalità di operazione che sono ottimali per le circostanze; e segnalano e manipolano gli altri in modi che soddisfino i bisogni emotivi delle persone (Parrott, 2001). Essere disconnessi dall’esperienza emozionale, quindi, significa essere tagliati fuori dalle informazioni adattive (Pos et al. 2003).
Inoltre, virtualmente tutte le teorie delle psicoterapia attribuiscono un’importanza centrale all’avere a che fare con le emozioni dei clienti: da una parte, gli approcci cognitivi e comportamentali si focalizzano sul controllo o sull’eliminazione dell’ansia o su di altre emozioni indesiderate; in modo alternativo, gli approcci psicodinamici, interpersonali ed esperienziali spesso implicano l’annullamento dell’emozione dolorosa nell’eziologia e nel mantenimento del disordine psicologico (Mackay, Barkham, Stiles & Goldfried, 2002). Inoltre, diverse scuole di pensiero hanno trovato un sostegno empirico sul fatto che la facilitazione dell’esperienza emozionale nella terapia sia tanto potente quanto efficace (Wiser & Goldfried 1998). Per esempio, le tradizionali reviews sugli esiti della terapia umanistica e psicodinamica (ad es., Orlinsky, Ronnestad & Willutzy, 2004) suggeriscono una forte relazione tra l’esperienza emozionale nella sessione di trattamento ed un esito terapeutico positivo. In modo simile, l’esito positivo nella terapia cognitiva si è rivelato essere correlato con l’avere esperienza dell’emozione (Castonguay, Goldfried, Wiser, Raue & Hayes, 1996; Wiser & Goldfried, 1998).


Relazione tra riduzione del sintomo e capacità per la virtù

Le finalità del trattamento in una psicoterapia della virtù sono state descritte genericamente come gestione della vita emotiva, così che uno possa vivere meglio le relazioni con gli altri, muovendosi verso lo sviluppo delle virtù razionali e volitive (Moncher, 2001). Il fine è l’abilità a vivere una vita responsabile, felice, soddisfacente, il che vorrebbe dire, una vita moralmente buona. Al contrario, i sintomi psicologici: inibiscono la libertà, fin tanto che essi promuovono compulsivamente (dis)funzioni; sono motivati dalla paura eccessiva, dall’ansia, o da altre emozioni disfunzionali simili; o, impediscono di risolvere un problema razionalmente o di promuovere le relazioni sociali. In più, i sintomi possono essere concretamente efficaci nel diminuire la percezione dei bisogni psicologici, ed una volta che diventano abituali, riducono l’opportunità di praticare e di godere dei comportamenti virtuosi.
Poiché i sintomi psicologici di un individuo forniscono una soluzione apparente, sebbene temporanea e disfunzionale, alle difficoltà (e distorcono la percezione), è importante che i pazienti siano prima di tutto indirizzati a considerare come l’individuo possa esplicitamente crescere nella virtù. Inoltre, mentre la virtù (a livello più basilare) come definita nell’antropologia Cattolica possiede un carattere oggettivo che non può essere cambiato né dal terapeuta né dal paziente, l’espressione della virtù (le forze e le pratiche della virtù ad essa associate) varieranno a seconda delle culture. Quindi, il terapeuta deve essere consapevole della propria formazione e delle proprie visioni culturali su come le virtù possano esprimersi. Questo include non solo le considerazioni etniche o raziali, ma anche della differenza sessuale, poiché l’espressione delle forze e delle pratiche della virtù accettate o tollerate dai maschi e dalle femmine varierà a seconda della cultura (si veda Ashley, 2006; Dueck & Parsons, 2004). Curare i sintomi e crescere nelle virtù sono un continuum correlato: una persona non può essere curata in una dimensione senza in qualche modo maturare nella crescita in un'altra. Quindi, è utile concettualmente, per il terapeuta e per il cliente, realizzare che il fallimento nell’orientare le barriere psicologiche crea un’ostruzione reale ad un lavoro genuino sulla maturazione nelle forze della virtù. In altre parole, non solo è importante ed utile assistere il cliente a ridurre lo stress emotivo ed i sintomi ad esso correlato, è anche necessario aiutarlo a comprendere (virtù razionale) e gestire (virtù volitiva e sociale) la sua vita emozionale (virtù emotive) al fine di liberarlo verso una maturazione delle forze del carattere che possono essere sottosviluppate o disordinate.


Perché e quando la priorità alla cura emotiva?

All’interno dell’interesse per la salute psicologica complessiva, che include i domini relazionali, cognitivi e volitivi, la psicoterapia spesso necessita di attribuire una priorità alla cura emotiva per un certo numero di ragioni. Primo, a livello antropologico, l’incorporazione biologica della cognizione e dell’affezione influenza la ragione, la volontà e tutta l’attività pratica. Di particolare interesse per le nostre finalità sono sia le emozioni che le funzioni biocognitive (chiamate classicamente i sensi interni); queste ultime includono l’immaginazione, la memoria, il senso comune, e il senso valutativo che soggiace alla nostra attrazione o repulsione pre-razionale (e pre-conscia) per qualcosa o qualcuno. La mancanza di sviluppo o la psicopatologia, a questo livello, influenza negativamente la capacità umana di leggere le emozioni e di attuare i piani razionali ed i desideri con la prontezza, l’agilità ed il piacere adeguato. È difficile per alcuni ed impossibile per altri accedere completamente a questa capacità di ragionare responsabilmente e di scegliere liberamente senza un’attenzione specifica alla propria vita emozionale. “Allenare le nostre emozioni a rispondere alla direzione della ragione è un compito molto difficile, ed il suo raggiungimento è chiamato virtù” (R. McInerny, 1999), che, potremmo sottolineare, è un processo in continuo sviluppo. Ancora una volta, però, questo non vuol dire che le emozioni non portino il loro contributo specifico e positivo alla comprensione ed alla prosperità umana.
Secondo, a livello clinico, questa antropologia porta ad una sequenza d’intervento preferenziale. Poiché siamo corporei-emotivi e relazionali dal momento del concepimento (prima dello sviluppo successivo degli aspetti razionali e volitivi), spesso le ferite più serie di una persona avvengono a livello emotivo e relazionale. In altre parole, per un processo terapeutico che porti a compimento, bisogna che esso miri ai processi di sviluppo naturali e alla guarigione delle ferite emotive, al fine di porre una solida base per l’obiettivo della crescita nell’utilizzo libero e responsabile della razionalità e della volontà. I clinici osservano che i clienti che soffrono di disturbi mentali (ad es., dipendenze, fobie, comportamento compulsivo) riportano abitudinariamente un divario tra le proprie comprensioni intellettuali degli oggetti e degli eventi circostanti e le loro abituali reazioni emotive a questi oggetti ed eventi. Un componente importante della psicoterapia è lo sviluppo dell’abilità del cliente di distanziarsi dalle associazioni rapide pre-consce (che si trovano nel suo corpo e che si esprimono nelle emozioni) e di considerare le proprie percezioni da una prospettiva maggiormente oggettiva e sofisticata. Tuttavia, questo non può essere ottenuto con delle procedure strettamente razionali e discorsive. La modalità automatica ed abituale della vita emozionale del cliente deve essere sperimentata e ricompresa da lui stesso prima che possa diventare maggiormente intuitiva nei propri confronti (Palmer, 2005).
I lavori teorici nella terapia umanistico-esperienziale sottolineano due modi in cui le emozioni diventano rilevanti nel trattamento. Primo, il fornire una valida relazione empatica ed un’alleanza collaborativa crea il sano contesto in cui i clienti possono sperimentare le proprie emozioni. Secondo, l'attivazione di riflessioni evocative, esplorative e portatrici di significato, proprio come la stimolazione emotiva degli obiettivi, fornisce ai clienti un contatto profondo ed immediato con le emozioni e li aiuta ad attribuire loro un senso. Un’alleanza terapeutica empatica e forte è necessaria per creare una sana atmosfera che renda possibile raggiungere un focus specifico nell’opera clinica di comprensione, accettazione e cura delle ferite emotive che vincolano le persone al passato ed impediscono un libero esercizio della volontà nel presente e nel futuro. Quindi, non è accidentale che la “cura della parola” che si sviluppa nella psicoterapia sia da persona-a-persona, relazionale, e che l’alleanza terapeutica venga frequentemente identificata come uno dei fattori comuni nell’esito positivo della terapia (Lambert & Ogles, 2004). L’alleanza terapeutica include non solo un legame personale tra il terapeuta ed il cliente in cui il cliente vede il terapeuta come qualcuno che si prende cura, che comprende e che è esperto, ma anche un consenso in riferimento alle finalità del trattamento ed ai significati attraverso cui queste finalità vengono raggiunte, che dovrebbero essere appropriati per la dignità della persona umana (Goldfried & Davila, 2005). L’efficacia della terapia dipende grandemente dalla fiducia che il paziente ripone nel terapeuta e dal suo carattere e dalle motivazioni. A questo riguardo, la formazione del carattere del terapeuta è un problema, in quanto il paziente deve fidarsi del fatto che il terapista non solo conosca la psicologia ma anche che sia una guida appropriata quando il procedimento si muove verso la maturazione. Possedere una prospettiva di fede condivisa con il paziente (o anche un più generale riconoscimento delle fonti spirituali) può facilitare questo processo ed accelerare la prontezza del paziente (come nel caso di Suor Lydia) ad assumersi i rischi emotivi ed interpersonali necessari per la guarigione.
Mentre l’approccio terapeutico discusso qui può essere efficace con i non-Cristiani se modificato per essere coerente con la visione del mondo del paziente, la comprensione e l’attenzione del terapeuta alla formazione della virtù nella sua vita personale sarebbe necessaria per mantenere quanto più oggettiva possibile la visione del soggetto, dato l’impatto del peccato e le conseguenti fragilità personali e le ingiustizie sociali che sono presenti. Radicati nell’antropologia cristiana discussa qui, i clinici dovrebbero giungere a comprendere essi stessi tanto quanto i loro pazienti nei termini del tipo di completa prosperità e libertà che sono necessarie per perseguire attivamente una vita buona. Sweeney et al. (in press) evidenziano l’importanza della persona per il terapeuta alla luce dell’insegnamento Cattolico tradizionale sulla vocazione. Oltre a riferirsi alla chiamata universale alla santità (Baum, 1965, Lumen Gentium) e dello stato di vita (come coniugato, consacrato o ordinato), la vocazione riflette anche il lavoro unico e personale a cui Dio chiama ogni persona. Per esempio, i clinici possono amare e servire Dio ed i fratelli attraverso il dono profondo e le responsabilità che il diventare un professionista della salute mentale comporta:
“I terapeuti comprendono che il loro incontro col cliente è provvidenziale e non casuale… Tale senso della vocazione e del servizio motiva i terapeuti non solo ad osservare i principi etici che esistono nelle professioni della salute mentale, ma anche a mettere in pratica l’amore Cristiano ed il dono di sé per il bene del cliente. Così, i terapeuti Cattolici possiedono un senso di responsabilità verso il cliente ed una sacra responsabilità verso Dio per il servizio reso o negato alla persona nel bisogno (Matteo 25:31)” (Sweeney et al., in press, p. 6).
In questo modo, l’orientamento del paziente verso la crescita e lo sviluppo è significativo nel processo di trattamento.


Suor Lydia: finalità del trattamento

Le finalità del trattamento di Suor Lydia includevano l’aiuto ad integrare la sua vita emotiva con gli atti esterni coscientemente voluti ma “virtuosamente” forzati che divenivano un costo per se stessa; questo costo è nato a causa del fatto che gli atti non erano supportati dalle emozioni che sperimentava, che erano primariamente residui di conflitti irrisolti del passato e paure, ma anche il risultato di virtù sottosviluppate. Raggiungere tale obiettivo richiede: (a) la cura delle ferite emotive attraverso una più accurata riflessione sulla realtà di ciò che sta vivendo, assieme (b) al perdono emotivo/psicologico dei genitori [che erano già stati spiritualmente perdonati], e quindi (c) la chiara distinzione di quello che era il passato e di ciò che è il presente, rispettando il senso delle emozioni che percepisce. Nel breve periodo, ha avuto bisogno di accedere, di permettersi di sperimentare, e di esprimere in modo appropriato i propri sentimenti nel contesto di una relazione terapeutica di fiducia che l’ha preparata ad elaborare più chiaramente le sue emozioni al di fuori della sessione terapeutica (come vedremo dopo). Nel lungo periodo, ha potuto raggiungere un ideale più temperato di quello che ci si aspettava da lei nel convento; ma, al fine di facilitare la sua crescita, prima avrà bisogno di esperire, di riflettere e di curare nel presente il dolore proveniente dal passato. (Questo è un processo tipicamente lungo, di cui solo i punti più importanti della sua trasformazione vengono annotati qui).
Durante una visita a casa, Suor Lydia ha sperimentato un momento difficile con la sua famiglia. Lei era soprattutto interessata ad interagire con la sorella più piccola, ora un’adolescente il cui solo interesse sembrava fosse lo shopping, e che solo raramente esprimeva qualche grado di modestia. Questa uscita è diventata una questione di famiglia, con la solita critica, ostilità e rabbia espressa dai vari membri. Inoltre, è avvenuto un incidente alla sorella che è stata maltrattata da un uomo. A quel punto Lydia ha scelto di ritornare alla macchina e di aspettare gli altri al fine di processare le proprie emozioni, permettendo a se stessa di identificare la frustrazione provata nel non essere stata in grado di trascorrere del tempo da sola con la sorella – tempo che avrebbe permesso una più intima e seria condivisione tra le due - tanto quanto la frustrazione per la mancanza di protezione da parte del padre in uno scandalo quale quello di essere insultata da un uomo. Processando questo, Suor Lydia è diventata consapevole che la sua “frustrazione” era in effetti una ferita ed una tristezza camuffata. Ha realizzato che lo scandalo e l’ingiustizia che aveva provato provenivano dal di fuori, ovvero, dai membri della propria famiglia. Dopodiché, è diventata più attenta alla tristezza per la sua amata sorella che doveva soffrire enormemente in se stessa per essere stata trattata in quel modo, quindi è stata in grado di lasciar andare il suo disturbo. In questo modo, la sua iniziale attenzione ristretta alle pratiche di fede e di protezione della castità si è trasformata in una espressione più fondamentale dell’amore che lei nutre per la famiglia.


Processi psicoterapeutici come preparazione per la crescita nella virtù

Abbiamo argomentato che il processo terapeutico deve talvolta avere come priorità le ferite emozionali, al fine di stabilizzare le fondamenta della persona per diventare un agente libero e responsabile. Per la loro abilità a motivare ed energizzare, la cura delle emozioni nello sviluppo della virtù è correlata in modo significativo con l’educazione della ragione e il rafforzamento della volontà. Anche se possiamo agire malamente sotto l’influenza delle emozioni disordinate, le emozioni stesse non sono disordinate in sé, ed importanti aspetti della virtù (come la perseveranza, la pazienza, il coraggio, la modestia, la speranza) sorgono dalla conoscenza ottenuta e dall’impiego deliberato dell’emozione. Inoltre, la semplice ripetizione di atti esterni non garantisce lo sviluppo della virtù: per esempio, un adulto che lavora con un bambino può controllare la sua rabbia la maggior parte delle volte, ma perderà spesso la sua calma almeno fin quando non ha imparato a comprendere le sue emozioni in modo differente ed a prendere una posizione emotiva costruttiva quando viene offeso dalle provocazioni del bambino. Una persona che improvvisamente sbaglia, dopo lunghi anni di comportamento apparentemente virtuoso, lo può fare per almeno due ragioni. Primo, perché non ha mai posseduto questi abiti e per anni il controllo di se stesso è dipeso da fattori esterni (Klubertanz, 1965). Secondo, può semplicemente sbagliare, fatto che significa che il suo sfogo emotivo disfunzionale o la sua brutta azione o l’errore non distrugge la disposizione ad agire bene né dimostra che essa non è mai esistita; l’evento atipico, invece, indica che le disposizioni virtuose non sono senza macchia e che le persone hanno bisogno continuamente di forgiarle in situazioni nuove e sfidanti, come momenti di distrazione, di fatica, ed altre prove a livello cognitivo, volitivo, relazionale ed emotivo, come vediamo negli ultimi eventi della terapia della Suora.
Suor Lydia era stata assegnata ad un’opera pastorale con adolescenti provenienti da famiglie svantaggiate, ed aveva osservato come fossero spontanei ed intensi nelle loro espressioni, sia di gioia che di altro tipo. Si era meravigliata della chiarezza con cui esprimevano le loro emozioni, riconoscendo la profonda conoscenza corporale delle emozioni espresse. Durante la terapia, lei ha riflettuto su come, nonostante queste capacità, i ragazzi non possedessero l’abilità di modulare le proprie emozioni, non essendo state coltivate in famiglia. Al contrario, Suor Lydia, in quanto adulta e con un’educazione ed una formazione religiosa, è stata in grado di apprendere ad identificare le risposte adeguate ed è capace di farlo spesso. Inoltre, avendo iniziato a discutere di questi temi nella terapia, durante la sua mansione è stata in grado di riconoscere più chiaramente le proprie emozioni interiori. Per esempio, lei ha riflettuto su come le Suore spesso vivano in alloggi chiusi l’uno all’altra. Ha riportato di sentirsi costantemente come se fosse un peso per le altre, non pensando per nulla che esse fossero un peso per lei quando erano nel suo spazio. Questa mancanza di attenzione per le proprie reazioni affettive naturali è stata in grado di riportarla al modo in cui, nella sua famiglia di origine, non si fosse mai sentita a suo agio nell’avvicinarsi agli altri, sempre percependosi come se fosse sul punto di essere attaccata o trattata in modo negativo. Queste due esperienze, il trovarsi con dei ragazzi emozionalmente intensi e spontanei e lo sperimentarsi come un peso senza il riconoscimento naturale del peso imposto corrispondente, condussero Suor Lydia a riflettere su come fosse tipico per lei sentirsi come si sentiva durante questi momenti di costrizione. Attraverso la riflessione, nelle sessioni della terapia, sulla sua espressione naturale delle emozioni, accettata e validata dal terapeuta, lei fu in grado di scoprire che non è vergognoso possedere questi sentimenti, ed anche che poteva permettersi dei rilasci emozionali privati [ad es., il piangere durante l’adorazione Eucaristica]. Avendo permesso a se stessa di pensare le emozioni naturali, sentiva di auto-autorizzarsi a procedere durante il giorno, senza negare la sua esperienza né agirla come era di norma nella sua famiglia di origine. Nell’identificare le sue emozioni più chiaramente, differenziandole quando sono appropriate ed utili da quando non lo sono, Lydia riesce anche riconoscere il modo in cui può interiorizzare le sue finalità di vita e progredire nel leggere le emozioni, dominarsi affettivamente, e nella spontaneità responsabile.


Conclusione

Un’antropologia Cristiano-Cattolica fornisce un approfondimento della psicoterapia in quanto strumento per: (a) assistere una crescita positiva nelle disposizioni, ovvero, sviluppare le virtù e le relative pratiche emozionali, relazionali, razionali e volitive; (b) comprendere il disordine e le espressioni negative della natura umana, ovvero, le pratiche destrutturanti ed il vizio; o, cosa che è più frequente, (c) integrare il composto di crescita positiva e debolezza (uno stato intermedio) in un percorso di vita punteggiato da periodi di pace ed altri di sofferenza. Una psicoterapia della virtù richiede un terapeuta che sia attento all’importanza della propria persona nella relazione terapeutica ed utilizzi le tecniche psicoterapeutiche più efficaci, ma anche che possieda la sensibilità per riconoscere il potenziale terapeutico delle risorse spirituali interne al cliente (nei termini di generosità e dono di sé, perdono e riconciliazione, coraggio ed audacia, pazienza e giustizia) nel mezzo delle debolezze e delle patologie umane.
Inoltre, lavorare su di un fondamento antropologico Cristiano-Cattolico per una psicoterapia della virtù dovrebbe aiutare il terapeuta ad assistere il cliente, da una parte, ad essere liberato dalle sue patologie psicologiche per una vita umana più salubre e, dall’altra, ad essere liberato al fine di essere in grado di partecipare più pienamente alla prosperità completa offerta solo da Dio. Anche se la parola “virtù” non viene mai menzionata, crediamo che la riduzione del sintomo sia facilitata almeno da una preparazione alla virtù, se non da una crescita piena nella virtù in quanto parte integrata della psicoterapia. Per il cliente che porta con sé un’intenzione ad utilizzare le risorse spirituali, questo include la trasformazione delle virtù umane e di quelle Cristiane.
Questo manoscritto si basa su di un articolo presentato inizialmente alla Conferenza della Society for Christian Psychology, a Chattanooga, TN, nell’Ottobre del 2006.


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[1] Il caso di studio è una paziente del primo dei due autori, che è stata vista in un percorso di psicoterapia di alcuni mesi. È stata indirizzata da una collega che ha risposto alla richiesta della paziente per un terapeuta che condividesse e comprendesse i suo impegni di fede. In accordo con la pratica etica, alcuni fatti e dettagli non essenziali vengono camuffati al fine di proteggere l’anonimato.

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  1. Lo psicologo Firenze è un professionista che ha conseguito una laurea di cinque anni in psicologia presso un’università italiana, un tirocinio dells durata di un anno con

    Psicologo Firenze

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