Giovanni Cucci, L'arte di vivere. Educare alla felicità, Ancora, Roma 2019, 220 pp., 18 euro.
L’ultimo libro di Padre Giovanni
Cucci - gesuita e docente di filosofia e psicologia all’Università Gregoriana
di Roma – tratta apertamente quello che dovrebbe essere il tema più importante
nell’ambito delle discipline umane e della salute mentale: la felicità.
Finalmente! Verrebbe proprio da dire. Perché sulla felicità è sceso un silenzio
assordante, laddove invece impazzano studi e pubblicazioni sul benessere, la
serenità, l’equilibrio. La felicità è ben altra cosa: è un gradino superiore a
qualsiasi dieta psicobiologica. Solo che se ne è perso il senso. Questo è il
motivo per cui molti ne sono interessati: a Yale “il corso più seguito in
assoluto è quello sulla felicità” (p. 5). Ma che cos’è la felicità? Padre Cucci
lo spiega con un testo discorsivo, semplice e molto godibile, eppure allo
stesso tempo manualistico. Attraverso il ricorso alla filosofia, agli autori
della psicoterapia e della psichiatria, alle ricerche di psicologia delinea un
percorso di allontanamento e di riavvicinamento (exitus-reditus potremmo dire) al cuore stesso del desiderio più
profondo dell’uomo. Una lettura imperdibile. Ma procediamo con ordine.
Bisogna allora immergersi nelle
concezioni perdute. Si tratta di un viaggio entusiasmante poiché gli antichi si
sono interrogati sulla felicità in modo davvero approfondito. Platone osserva
che“nell’uomo è presente un frammento del divino, che parla all’anima di una
pienezza senza averla tuttavia mai sperimentata adeguatamente nelle fugaci
esperienze del vissuto; è una scintilla di eternità, e dunque anche di
sofferenza per ciò che si desidera senza mai raggiungerlo” (p. 25). Aristotele parla
di “bene perfetto” riferendosi ad una condizione in cui non c’è più bisogno
d’altro: “Una vita di questo tipo – scrive nell’Etica Nicomachea – sarà troppo
elevata per l’uomo: infatti non vivrà così in quanto è uomo, bensì in quanto
c’è in lui qualcosa di divino” (p. 26). È sempre lo Stagirita a coniarne una
definizione sintetica e precisa: “Possiamo definire la felicità come la
prosperità unita alla virtù”. Vediamo dunque che per la filosofia antica essere
felici significa “partecipare di qualcosa di più grande (che) è anche
riconoscere nell’uomo la presenza del divino” (p. 28). Il termine che i greci
prediligevano è “eudaimonia (Il dono
di un buon demone), qualcosa che non è adisposizione dell’uomo ma che nello
stesso tempo egli non può fare a meno di desiderare” (p. 12).
Con questi accenti religiosi già
esplicitati nel paganesimo, la Cristianità ha elevato la felicità (o
beatitudine) a fine della vita umana. Ma in cosa consiste? E specialmente, è
umanamente sperimentabile? “È soprattutto Tommaso a sviluppare questo aspetto
della felicità” (p. 37) identificando il fine ultimo dell’uomo con la
conoscenza di Dio. È ciò che si chiama contemplazione, come attesta la Summa contro i gentili: “Il nostro
intelletto nell’intendere si estende all’infinito: ne è un segno il fatto che,
data una qualsiasi estensione finita, il nostro intelletto è in grado di
pensarne una più grande. Ora, questa apertura della nostra intelligenza
all’infinito sarebbe vana se non esistesse una realtà infinita da conoscere”
(p. 38). Le beatitudini sono la “carta della felicità”. Perché “«Felice» o
«beato» è sinonimo di «santo»”, come attesta Papa Francesco (p. 43). “I santi sono
infinitamente felici, nota Tommaso, proprio perché godono della gioia infinita
di un altro, cioè di Dio” (p. 40). Povertà di spirito, afflizione, mitezza e
fame di giustizia, misericordia, purezza, pace, persecuzione a causa della
giustizia e di Cristo sono i tratti principali dell’uomo felice.
Con la modernità questa visione
della felicità si smarrisce: “L’epoca moderna presenta una grande differenza
rispetto al passato nella maniera di considerare la felicità. Per gli antichi,
a anche nel cristianesimo, essa era il premio dell’uomo virtuoso, strettamente
connessa all’agire buono, frutto di fatica ed educazione. Inoltre era legata a
una dimensione religiosa, era un dono di Dio. Nell’epoca moderna la felicità
tende a diventare sinonimo di emozione, di un soggettivo «sentirsi bene», un
sentire che può essere reso possibile non tanto dall’«essere buono», dalla
condotta buona (che anzi presenta non di rado smentite) ma da un calcolo, una
tecnica, o dall’aiuto di sostanze in grado di suscitare sensazioni di
benessere” (p. 65). Ecco che attraverso la riforma protestante,
l’individualismo, l’illuminismo “la felicità viene ridotta a un calcolo o, più
radicalmente, se ne dichiara l’incompatibilità con la virtù” (p. 71). Per il
medico illuminista La Mettrie “La felicità è individuale e particolare, e si
può trovare in assenza di virtù e persino nel delitto. Crogiolati nel fango
come un maiale, e sarai felice come loro” (p. 77). Non c’è poi molta distanza,
se non nell’eleganza con cui viene esposta, dalla concezione di Freud ne Il disagio della civiltà: “Potremmo dire
che nel piano della Creazione è incluso l’intento che l’uomo sia felice. Quello
che nell’accezione più stretta si chiama felicità scaturisce dal
soddisfacimento, per lo più improvviso, di bisogni fortemente compressi e per
sua natura è possibile solo in quanto fenomeno episodico” (p. 72).
Un tema a parte riguarda il nesso
tra la felicità e la tristezza. La modernità, ed in particolare la psichiatria,
ha ridotto la tristezza a malattia psichica (depressione): “Nel manuale [dei
disturbi psichici, il DSM-5], la tendenza a cancellare la distinzione tra
tristezza e depressione porta a misconoscere una vasta gamma di situazioni
nelle quali è invece giusto e sano avvertirla. Si pensi alla reazione per la
perdita di una persona cara, o per un vento tragico: sentirsi tristi è segno di
una personalità sana, capace di esprimere affetto” (p. 98). “La scomparsa della
tristezza, della tristezza cum fundamento
in re, come direbbe san Tommaso, o confusa con la depressione, non ha di
certo migliorato la qualità della vita, ma ne ha esasperato il disagio e la
sofferenza” (p. 109). Sono esplose, infatti, le compensazioni artificiali:
l’abuso di farmaci, del virtuale, del divertissement. C’è invece un
“insegnamento della tristezza” che non solo san Tommaso ma anche sant’Ignazio
di Loyola, ad esempio, hanno esplorato e che va ripreso.
Nell’ultima parte del libro,
Cucci affronta tre ambiti in cui la felicità sembra rinascere. La prima è la
psicologia positiva, ovvero la corrente psicologica iniziata da Martin
Seligmann, che dà ampio spazio al tema, al contrario della quasi totalità delle
altre impostazioni. La seconda è il “capitale sociale” ovvero l’interesse per
la comunitarietà: “L’uomo è un essere politico, dicevano gli antichi: la
dimensione comunitaria costituisce una delle principali forme di protezione”
(p. 129). Laddove l’individualismo attacca la felicità, le amicizie profonde,
lo sport, il rapporto con i genitori (in particolare la presenza del padre)
aprono le porte alla resilienza ed alla gratitudine, elementi costitutivi di
una vita felice. Il terzo approfondimento è dedicato al rapporto complesso tra felicità
ed economia. Cucci rileva che la società dei consumi si basa su di un
materialismo diffuso: è l’accumulo dei beni che sembra rendere felici. In
realtà: “Quando la persona tende a concentrarsi sui beni materiali lo fa a
scapito di altri beni che vengono in tal modo disattesi, lasciando una
frustrazione interiore che si cerca a sua volta di compensare con altri beni
proposti dal mercato: l’insoddisfazione è una cospicua fonte di lucro. (…)
L’accumulo di beni materiali, di fatto un tentativo di affrontare l’insicurezza
psicologica, tende così a esacerbarla” (p. 155). Come uscire dal problema? Con
la vecchia – o meglio, evangelica – consapevolezza che “C’è più gioia nel dare
che nel ricevere”. “Donare rende felici. (…) Eppure quando si chiede a cosa sia
associata la felicità, la maggior parte delle persone risponde: quando si
ricevono soldi e li si spende per sé. Due presupposti entrambi errati, eppure
presenti in ciascuno” (p. 163). La saggezza medievale è ancora una volta di
aiuto: “In realtà si è felici solo quando ci si propone di fare felici altri” (felix felicitans).
Il libro si chiude con l’apertura
alla dimensione spirituale. Laddove uno dei presidenti dell’American Psychological Association aveva
detto che “La psicologia e la psichiatria…non solo descrive l’uomo come
egoisticamente motivato, ma implicitamente o esplicitamente insegna che egli
deve essere così” (p. 183) padre Cucci motiva invece come la domanda di
felicità sia a tutti gli effetti una richiesta religiosa e, citando Frankl, un’esigenza
di senso per la propria esistenza. Secondo una felice espressione dell’autore,
già presente in altri suo lavori, l’uomo è “l’unico animale malato di assoluto”
(p. 19). La consapevolezza della presenza di Dio nella
vita dà senso anche alle esperienze dolorose e difficili, e sviluppa quella che
Cucci chiama il senso della gratitudine: “Di fronte a eventi stressanti o
difficili, chi ha coltivato uno spirito di gratitudine trova maggiore forza
interiore per poterli affrontare, perché lo sguardo è teso fuori da sé, attento
alle difficoltà altrui, sperimentando la sensazione di essere utile a qualcuno;
questo modo di porsi protegge maggiormente dall’invidia,
dall’autocommiserazione e dal ripiegamento su di sé tipici della depressione”
(p. 205).
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