Pubblichiamo un contributo di Stefano Parenti sulla teoria dello stress di Hans Selye. L'articolo viene originariamente ospitato sul numero 14 della rivista dell'Emcapp, il Journal dell'European Moviment for Christian Anthropology, Psychology and Psychotherapy che è interamente dedicato al tema dello stress, ed è liberamente accessibile a questo indirizzo: https://emcapp.ignis.de/14/.
Coping the Selye’s Stress Theory with a
Thomistic Approach
Lo psicoterapeuta Rudolf Allers
in una storica lettera inviata ad Agostino Gemelli nel 1936 scrisse: “Una
psicologia medica cattolica deve essere una vera sintesi delle verità contenute
nei sistemi già esistenti - e inaccettabili visto il loro spirito di
materialismo puro - e le verità della filosofia e della teologia cattolica.
Questo lavoro di sintesi non può essere compiuto che da persone istruite nella
medicina o psicologia e nella filosofia, e che possiedono una esperienza
pratica e personale assai grande: cioè questo lavoro deve essere fatto da
medici, specialisti di psichiatria, dunque da scienziati cattolici laici”[1].
Allers sostiene che una teoria della psicoterapia, per essere pienamente
cattolica, deve contenere due elementi: 1. le verità poste in evidenza dalle
impostazioni contemporanee e 2. quelle presenti nella tradizione, ovvero nel
Magistero della Chiesa. Tra queste il cattolico è chiamato a compiere una
sintesi: una integrazione che premi ciò che c’è di vero nelle teorie
contemporanee ma allo stesso tempo che ne rigetti l’impostazione di fondo,
poiché edificata su fondamenti filosofici distanti dalle concezioni
tradizionali.
Svolgeremo un confronto tra la
teoria dello stress e l’antropologia cristiana. Ci riferiremo alle concezioni
di Hans Selye per la prima, ed alle formulazioni di Tommaso d’Aquino per la
seconda. L’intento è di giungere ad una sintesi, che faccia progredire la
psicologia tradizionale in dialogo con le impostazioni contemporanee.
A. Hans Selye
Proprio come Rudolf Allers anche
Hans Hugo Bruno Selye (1907-1982) è originario della medesima Vienna in cui
sono sorte molte delle psicoterapie contemporanee: la psicoanalisi di Sigmund
Freud, la psicologia individuale di Alfred Adler e la logoterapia di Viktor
Frankl. Come molti di loro, e come suo padre, anche Hans era un medico. Da lui
prese l’ammonimento di non diventare mai un perdente[2].
La madre, che amministrava la clinica chirurgica di famiglia, esercitò una
costante pressione affinché suo figlio “ricercasse l’eccellenza e la
raffinatezza intellettuale”[3].
Da lei prese l’ammirazione per la grandezza: “Questo sentimento è diventato la
caratteristica più intima della mia natura”[4].
A quattro anni parlava già quattro lingue e per tutta la vita lavorò a ritmi
forsennati[5],
tanto da essere ritenuto un “lavoratore compulsivo”[6]
(scrisse più di 40 libri e centinaia di articoli). Dopo aver ricevuto la prima
educazione in un monastero Benedettino, da cui apprese i fondamenti del
cristianesimo che in seguito ripudiò, a 17 anni frequentò l’università di
medicina a Praga e, una volta laureatosi, intraprese la carriera di
ricercatore. Si dottorò in filosofia della chimica, una branca della filosofia
della scienza che ha origine dal filosofo Friedrich von Schelling il quale
sosteneva che la natura (sia fisica che spirituale) fosse un gioco tra forze in
cerca di equilibrio, le stesse dinamiche studiate della fisica e della chimica.
Dopo essersi aggiudicato una borsa di ricerca alla Johns Hopkins University,
finanziata dalla Rockefeller Foundation, si trasferì alla McGill University a
Montreal, dove risiedette per il resto della vita, ricoprendo la carica di
direttore dell’Istituto di Medicina Sperimentale e di Chirurgia della stessa
università. La vita personale di Selye fu un “tumulto”: si sposò tre volte ed
ebbe cinque figli dalle prime due mogli. La terza divenne sua consorte in tarda
età: era la sua segretaria storica. “Nella mia vita – scrive Selye - ho portato
a termine solo una cosa: una migliore comprensione dello stress”[7].
Nella sua ultima opera scrive una lettera ad un amico immaginario, dicendo di
non avere nessuno con cui condividere il senso della vita[8].
La teoria dello stress[9]
Nel 1926, durante il secondo anno
di studi, Selye ipotizzò l’esistenza di una reazione universale dell’organismo
alle patologie: “ogni volta che dal corpo si esige una prestazione molto
impegnativa, esso reagisce nello stesso modo”[10].
Laddove vi è una risposta specifica del malato ad una specifica malattia, vi è
anche una reazione aspecifica ed universale: “Che uno soffra per una grave emorragia,
o per una malattia infettiva, o per una forma di cancro in stato avanzato,
sempre perde l’appetito, la forza muscolare e la volontà di agire; di solito
diminuisce anche di peso e mostra persino nell’espressione del volto di essere
malato”. Nel 1936, esattamente dieci anni più tardi, “nel corso di esperimenti
in cui si iniettavano ai topi vari preparati ghiandolari impuri e tossici,
osservai che le iniezioni, indipendentemente dal tessuto da cui provenivano e
dal loro contenuto ormonico, provocavano una sindrome stereotipa (una serie di
mutamenti avveniva simultaneamente in determinati organi)”[11].
Lo stesso tipo di alterazione era indotto da molti altri fattori: “freddo,
caldo, infezioni, traumi, emorragie, irritazione nervosa e molti altri
stimoli”. Selye chiamò questa reazione aspecifica “sindrome generale di
adattamento” (GAS) o sindrome di stress biologico. La GAS venne teorizzata come
un processo in tre stadi: a. reazione d’allarme; b. fase di resistenza; c. fase
di esaurimento[12]. Selye
definì lo stress come “la reazione aspecifica del corpo a qualunque esigenza
gli venga imposta”[13]
e ne parlò in termini di “mutamenti biochimici” che sono “tendenti
sostanzialmente a tener testa a qualsiasi maggiore esigenza che venga imposta
alla macchina umana”[14].
Lo stress “non si può evitare” e “la mancanza assoluta di stress significa
morte”[15].
Lo stress si riscontra anche “negli animali inferiori” e “perfino nelle piante”[16].
Dunque, per Selye, non va confuso con la sensazione di spiacevolezza o
“angoscia”: l’effetto dannoso “dipende soltanto dall’intensità dell’esigenza
imposta alle capacità di adattamento del corpo”[17].
Gli antecedenti
La teoria dello stress non fu un
fulmine a ciel sereno. Selye
riconobbe che tra i primi che anticiparono le sue concezioni vi furono Claude
Bernard (1813-1878) e soprattutto Walter B. Cannon (1871-1945) (“He had the
greatest influence on me, and throughout my life I always felt very close to
him”[18]). “Il grande fisiologo
francese Claude Bernard fu il primo a rilevare chiaramente, durante la seconda
metà dell’Ottocento – molto prima che si parlasse di «stress» - che l’ambiente interiore
(il milieu intèrieur) di un organismo vivente deve rimanere il più
possibile costante, nonostante i mutamenti del suo ambiente esterno. (…). Una
cinquantina d’anni dopo Walter B. Cannon, illustre fisiologo americano, propose
di chiamare «omeostasi» quei «processi fisiologici coordinati che conservano la
maggioranza degli stati costanti nell’organismo»”[19].
Da entrambi gli autori Selye riprese gli studi sull’adrenalina e sul sistema
nervoso simpatico che portarono alla formulazione delle due leggi
dell’omeostasi e dell’adattamento. Ma soprattutto Cannon fornì a Selye l’idea
centrale della teoria dello stress, ovvero che dalla fisiologia del corpo umano
si ricava la filosofia della condotta umana. Nell’epilogo del suo libro Wisdom
of the body, Cannon “espresse la convinzione che il comportamento e la
filosofia dell’uomo potessero essere guidati, in grande misura, dalla ricerca
biologica. «Non potrebbe essere utile», si domandava, «prendere in esame altre
forme di organizzazione – industriale, domestica o sociale – alla luce
dell’organizzazione del corpo?»”[20].
Selye fa propria l’idea di Cannon: “Gli stessi principi (specificità degli
organi, messaggeri chimici e meccanismi di feedback) dovrebbero governare la
cooperazione fra nazioni: come la salute di una persona dipende dall’armonico
comportamento degli organi dentro il suo corpo, così i rapporti fra le persone
e, per estensione, fra i membri di famiglie, tribù e nazioni, dovrebbero venire
armonizzati da sentimenti e impulsi di egotismo altruistico, capaci di
garantire automaticamente una cooperazione pacifica e di eliminare ogni motivo
di rivoluzione e di guerra”[21].
La psicologia dello stress
La teoria biologica dello stress
implica, dunque per Selye, una vera e propria filosofia. L’introduzione di Stress
senza paura, il suo testo più divulgativo, inizia con le seguenti
dichiarazioni: “Dopo circa quarant’anni di ricerche in laboratorio sui
meccanismi dell’adattamento allo stress del vivere, sono convinto che gli
stessi principi fondamentali di difesa che entrano in funzione per le cellule
sono ampiamente validi anche per gli esseri umani, e addirittura per intere
società umane”[22]. Selye
parla di una “filosofia naturale del vivere” che si declina in “un codice di
comportamento basato su principi scientifici, piuttosto che sulla
superstizione, la tradizione o la cieca obbedienza agli ordini di una qualsiasi
«autorità
indiscussa»”[23].
Questa morale è ciò che chiama “the philosophy of gratitude”[24] o
“egoismo altruistico”, la spiegazione delle cui “radici biologiche” costituisce
“lo scopo principale” dei suoi scritti[25].
Selye inizia la sua argomentazione dichiarando che: “I due grandi problemi
della vita sono, in realtà, la conservazione della specie e la conservazione
dell’individuo”[26].
“Dopo che un nuovo essere vivente è apparso nel mondo (…) da quel momento in
poi, per tutta la vita, il suo problema principale sarà l’adattamento, cioè la
conservazione dell’omeostasi”[27].
“Se volete tracciarvi uno schema di filosofia naturale del comportamento,
dovete innanzi tutto domandarvi: «Qual è, o dovrebbe essere, la ragione della
mia condotta?» e «Qual è lo scopo della vita?». Infatti, la vita ha forse altro
«scopo» oltre a quello di continuare?”[28].
A questa domanda retorica Selye aggiunge che la minaccia principale alla
sopravvivenza è il desiderio di sopravvivenza degli altri uomini[29],
ovvero l’“impulso egoistico”[30]
che costituisce l’atto pratico dell’“istinto di autoconservazione”[31].
Tuttavia l’egoismo “è anche pericoloso per la società e ne abbiamo paura,
perché contiene i germi della lotta e della vendetta”[32].
Come poter prosperare senza dar sfogo alla lotta per la vita (l’aggressione, la
supremazia, la guerra)? Con la cooperazione, dice Selye. Ancora una volta è la
biologia a fornirgli l’idea: “È probabile che gli esseri viventi, lungo le fasi
dell’evoluzione, abbiano imparato a difendersi da ogni tipo di aggressione (sia
dentro il loro corpo che proveniente dall’esterno) mediante due meccanismi di
base: sintossici, che aiutano ad accordarsi con l’aggressore, e catatossici,
che aiutano a distruggerlo”[33].
Per accordarsi, cioè per cooperare con un possibile nemico, è necessario
sostituire l’egoismo con l’altruismo. Questo, però, oltre ad avere dei limiti
di attuazione[34],
deve essere condiviso, come avviene - a suo dire - per le altre forme di vita[35].
La legge morale dell’individuo, allora, non può declinarsi nel precetto
evangelico “ama il prossimo tuo come te stesso”[36],
bensì in un codice più “conforme alle leggi della biologia”[37]:
“Guadagnati l’amore del tuo prossimo”[38].
“Il risvegliare nel maggior numero possibile di persone sentimenti positivi
verso di noi è la migliore garanzia per la nostra solidità omeostatica nella
società, perché nessuno può avere un motivo personale per attaccare un altro,
se lo ama, lo rispetta e ne ha fiducia, se gli è grato o se gli riconosce in un
qualsiasi campo una tale bravura che il suo operato merita di continuare a
ripetere i successi già ottenuti”[39].
Per Selye l’altruismo vero e proprio è “una forma corretta di egotismo, una
sorta di egoismo collettivo, che giova alla comunità, in quanto genera
gratitudine”[40].
Chiama questo codice di comportamento “egoismo altruistico”: “aiutare gli altri
per l’egoistica ragione di ottenere, a propria volta, l’aiuto e la cooperazione”[41].
“Ebbene, la mia tesi è che l’uomo, con il suo sviluppatissimo sistema nervoso
centrale, può consapevolmente usare la propria mente per guidare le proprie
azioni rispettando le leggi della Natura; e se capisce pienamente la filosofia
dell’egotismo altruistico, non si vergogna più di essere un egoista. Riconosce
allora di essere egocentrico e agisce innanzi tutto per il proprio bene; mette
avidamente insieme una fortuna per garantirsi la libertà personale e la
possibilità di sopravvivere nelle condizioni migliori, ma lo fa raccogliendosi
un esercito di amici”[42].
Per agire in tal modo Selye sostiene che sia necessario “adattare il nostro
codice morale e i nostri valori alle esigenze dei tempi futuri”[43]:
“conquistarsi la buona volontà altrui e l’apprezzamento per il nostro operato”,
ovvero raggiungere una “buona reputazione” da parte degli altri[44].
“Il vostro valore e la vostra sicurezza saranno quali vi avranno fatto il
lavoro passato e le capacità presenti; in altre parole, voi valete quanto la
vostra capacità di guadagnarvi l’amore del prossimo”[45].
Riferimenti filosofici
Nei suoi testi Selye fa
riferimento a numerosi autori, da Aristotele a Bertrand Russell, ma non iscrive
la sua teoria in alcuna corrente filosofica[46],
benché riconosca che vi siano delle “implicazioni filosofiche contenute nelle
ricerche sullo stress”[47].
Tocca dunque a noi coglierne gli assunti principali.
La “risposta aspecifica di
adattamento”, che Selye studia nei topi quando vengono invasi da sostanze
aliene (organi di altri animali), nocive (veleni) o fortemente perturbanti
(caldo, freddo) viene ipotizzata anche negli esseri umani, ed in particolare
nei malati. La patologia costituirebbe la risposta (specifica) di un
adattamento (aspecifico) del corpo umano ad un virus o un batterio o un trauma.
Selye applica i concetti di “fattori stressanti”, “omeostasi” e “adattamento” non
solo alla biologia dell’essere umano, ma anche alla sua psicologia, ritenendo
che le leggi osservate nei corpi valgano anche per le anime[48].
Segue, in questo, i due maestri Bernard e Cannon che avevano solcato la
medesima strada prima di lui, quella dello scientismo.
“Questa concezione filosofica si rifiuta di ammettere come valide forme di
conoscenza diverse da quelle che sono proprie delle scienze positive, relegando
nei confini della mera immaginazione sia la conoscenza religiosa e teologica,
sia il sapere etico ed estetico”[49].
Per Selye la saggezza della religione e della tradizione va sostituita con la
conoscenza scientifica: oggi, grazie agli studi sulla fisiologia dello stress,
anche la morale può avere delle basi certe per le sue leggi[50].
Lo scientismo di Selye presuppone due altre concezioni: il positivismo e
l’utilitarismo. Se le sole scienze “positive” portano alla conoscenza
certa – ovvero le discipline sperimentali, in opposizione alla filosofia ed in
particolare alla metafisica – è verità solo ciò che si può misurare e
dimostrare. Solo la realtà fisica è assolutamente vera, mentre la metafisica
perde di valore e di consistenza, riducendosi a semplice epifenomeno della
materialità[51]. Da una
prospettiva ontologica, difatti, il positivismo è espressione del materialismo,
l’idea secondo cui l’uomo è fatto unicamente di materia, anche nei suoi aspetti
spirituali. Questi ultimi, che non possono però essere pienamente evasi, rientrano
in gioco sotto forma di idealismo[52]
e, soprattutto, nel meccanicismo evoluzionistico che permea l’intera
produzione di Selye[53].
Negli Stati Uniti il positivismo assume una forma originale nei primi decenni
del XX secolo, il pragmatismo, che vede negli atti del pensiero, in
particolare le credenze e le convinzioni, solamente uno strumento utile ad
orientare la vita pratica. Una ulteriore declinazione di tale concezione è l’utilitarismo,
secondo cui le scelte della volontà non sono né giuste né sbagliate - dal momento
che viene negata l’esistenza del bene e del male universali (metafisici) - ma
utili o inutili nel raggiungimento di un fine. È questa l’argomentazione con
cui Selye propone il suo “egoismo utilitaristico”: “è facile perseguire
quell’egoismo altruistico che apertamente cerca di aiutare gli altri per
l’egoistica ragione di ottenere, a propria volta, l’aiuto e la cooperazione”[54].
Anche l’amore, come quello per un figlio, è in realtà per Selye un gesto
egoistico: “Non è per questo che si adottano i bambini? La grande gioia
dell’adozione nasce dal fatto che ci offre lo scopo di guadagnarcene l’amore”[55].
Nella teoria dello stress l’uomo
è dunque poco più che un animale evoluto, e come tale si deve comportare: homo
hominis lupus. Lo può fare con astuzia, usando gli altri per il proprio
tornaconto, secondo una modalità di relazione do ut des[56].
L’intelligenza non è espressione di una dimensione spirituale autonoma, ma un
processo derivato dalla sensitività[57].
Queste concezioni richiamano molte filosofie moderne ed anche le impostazioni
dei primi psicoterapeuti viennesi, come l’antinomia di eros e thanatos
descritta da Freud o l’equilibrio ricercato da Adler tra volontà di potenza
e sentimento di comunità. Per Selye, inoltre, Dio se c’è non c’entra con
i dinamismi umani (posizione ateistica); l’unica forza di cui si ha esperienza
è “la Natura”[58], le cui
leggi sono conoscibili attraverso la scienza. La religione è una credenza
imposta dall’autorità, sovente in conflitto con altre convinzioni, i cui codici
morali possono essere seguiti solo volontaristicamente[59].
Questi accenti pragmatisti, antireligiosi e scientisti denotano la teoria dello
stress di Selye delle caratteristiche tipiche dell’umanismo: la corrente
filosofico-religiosa che eleva il selfismo – o culto di sé o
egocentrismo[60] – a
valore fondamentale. Secondo gli autori umanisti, eterogenei tra loro, l’uomo
non ha bisogno di Dio perché può darsi da sé stesso la felicità (Selye riassume
la sua proposta in questo modo: “la ricetta per una vita piena e felice”[61]).
L’umanismo è a tutti gli effetti una vera e propria religione: l’idolatria
dell’uomo[62].
Alcune contraddizioni
La lettura dei testi divulgativi
di Selye presenta alcune affermazioni contraddittorie.
1. Selye
definisce lo stress come una “reazione aspecifica del corpo”. Tuttavia, dedica
l’ultimo paragrafo del capitolo sulla fisiologia a spiegare che “niente è
completamente aspecifico” perché “occorre avere ben chiaro il principio che
specificità e aspecificità, sia nella malattia che nella terapia, sono concetti
relativi”[63]. Non
vengono precisati, però, i termini di questa relatività.
2. Una
medesima ambiguità la riscontriamo nella posizione che prende nei confronti dei
codici morali antecedenti la sua proposta. Se in alcuni passaggi non solo li
rispetta, ma anche li riconosce come strade alternative alla sua[64],
in altri li delegittima[65],
poiché infondati sulle leggi biologiche[66]
e poiché impraticabili per la sua esperienza[67].
3. Anche
il continuo richiamo ai principi scientifici stona con gli argomenti trattati:
Selye si riferisce alle ricerche della biologia del regno animale ma
ascrivendole alla psicologia ed alla filosofia dell’uomo.
4. È
contraddittorio nei confronti del cuore della sua proposta, l’egoismo
altruistico, descritto come una “salda legge biologica”[68]
ma smentito dall’esperienza: “Nel caso di un giovane laureato preoccupato di
risolvere un problema, anche sapendo la semplice risposta che gli ci vorrebbe,
gli lascio la soddisfazione, di solto, di dimostrare che sa cavarsela da solo,
ma in un confronto con i miei pari temo che il desiderio di esibire la mia
superiorità avrebbe sempre la meglio su di me”[69].
5. Un
ultimo aspetto riguarda la sincerità di Selye. Dal momento che il fine ultimo,
per lui, è il guadagnarsi l’amore degli altri, ovvero l’ammirazione, viene da
chiedersi quali strumenti siano leciti per ottenerlo. Anche la truffa,
l’inganno, la menzogna? Selye dice apertamente di no. Sorge però il sospetto che, per
utilitarismo, le maschere siano inevitabili: “L’idea di scienza che uno prende
dai libri di testo – l’immagine dello scienziato, come viene rappresentata
dalle sue lezioni o dalla sua biografia – è molto lontana dalla realtà. Lo
sospettavo allora tanto quanto lo so ora”[70].
“The fact is that we are vain, very vain”[71].
B. Un giudizio cristiano
Confrontiamo ora la teoria dello
stress di Selye con l’antropologia cristiana. Il termine di paragone si fonderà
sulle formulazioni di Tommaso d’Aquino (1225-1275). I motivi di tale scelta
sono molteplici. Prima di tutto perché la Chiesa Cattolica nel corso dei secoli
si è ampiamente servita dell’impostazione tomista[72]
e tutt’ora ne prescrive l’insegnamento nelle Università Pontificie[73].
Tommaso d’Aquino è Dottore della Chiesa, in quanto la sua dottrina è eminente,
ed in particolare è dottore di umanità (doctor humanitatis), come
scrisse Giovanni Paolo II[74].
In secondo luogo poiché tra i pensatori della cristianità è un autore
particolarmente “laico”: ricorre alla Sacra Scrittura (la Bibbia dice che…)
solo laddove la ragione naturale è incapace di illuminare la verità. La sua
prospettiva rappresenta, infatti, la sintesi tra le concezioni antecedenti – in
particolare il platonismo e l’aristotelismo (ma anche lo stoicismo,
l’epicureismo, lo scetticismo ecc.) – e tra queste e la Rivelazione. Infine,
larga parte dell’impostazione tomista è dedicata all’uomo, tanto che è
possibile rinvenirvi una vera e propria psicologia, compiuta e fondata, come
attestò anche un inaspettato Erich Fromm: “In Tommaso d’Aquino si incontra un
sistema psicologico da cui si può probabilmente apprendere di più che dalla
gran parte degli attuali manuali di tale disciplina: si incontrano in esso
trattati interessantissimi e molto profondi di temi come il narcisismo, la
superbia, l’umiltà, la modestia, i sentimenti d’inferiorità, e molti altri”[75].
La filosofia
La prospettiva filosofica
dell’Aquinate viene definita realista: la verità è la corrispondenza tra
il mondo oggettivo e la percezione soggettiva[76].
Tommaso riconosce l’esistenza di una realtà metafisica che ha delle peculiarità
differenti dalla materialità, come già Aristotele distingueva la materia dalla
forma. Gli strumenti d’indagine della metafisica, di conseguenza, sono diversi
da quelli della fisica: la prima si applica agli enti spirituali (l’ente in
quanto ente), la seconda a quelli materiali. Tommaso individua come ente
spirituale per eccellenza Dio[77].
Anche gli angeli, e la loro controparte i demoni, sono “sostanze separate”,
ovvero senza materia[78].
Al contrario il mondo inanimato è materia, non informe, però, ma segnata[79].
Quelli che secondo la terminologia contemporanea sono gli “esseri viventi”, e
quindi i vegetali, gli animali e l’uomo, rappresentano un caso particolare di
materia e forma. Essendo vivi possiedono un principio che li anima, di tipo
spirituale che appunto chiamiamo anima. Solo l’uomo, però, è un composto di
anima e corpo: “sinolo” secondo un’espressione aristotelica[80].
L’anima dell’uomo dà vita e rende umana la vita, anche la sua parte materiale
cioè il corpo. Seguendo Aristotele anche Tommaso identifica tre principi
dell’anima umana, con relative funzioni: un principio vegetativo, deputato alle
funzioni organiche (biologiche), un principio sensitivo, comune all’uomo ed
agli animali, ed un principio razionale proprio solo degli esseri umani.
L’antropologia tomista si presenta allora come un quadro preciso ed articolato
di facoltà[81].
L’antropologia
Le funzioni corporali, di cui
parla Selye quando si riferisce alla biologia, corrispondono alle potenze
vegetative dell’anima umana: alterazioni, reazioni chimiche ed altre dinamiche
che non implicano una conoscenza. Gli aspetti più psicologici della teoria
dello stress, invece, si riferiscono alle potenze dell’anima sensitiva, ovvero
ai sensi ed agli appetiti. I sensi sono sia esterni (vista, tatto, gusto,
olfatto, udito) che interni: il senso comune, la fantasia, la memoria e la
cogitativa[82]. Gli
appetiti[83] sono
invece le passioni, che oggi chiamiamo sentimenti o emozioni. Vediamo
brevemente la loro dinamica. I sensi esterni vengono irritati dalla presenza di
un oggetto che stimola la loro funzionalità. Prendiamo come esempio una mela.
Il colore stimola il senso della vista, il profumo l’olfatto, la superficie
della buccia il tatto, la consistenza il gusto ecc. Le informazioni riguardo
queste caratteristiche vengono assemblate dal senso interno chiamato “senso
comune”, mentre l’immaginazione (o fantasia) produce una immagine mentale
dell’oggetto percepito (il fantasma della mela). La memoria segnala con una
percezione particolare se quella mela è già stata conosciuta nel passato.
Infine la potenza cogitativa dà un giudizio di valore: se è presente o assente,
se è un bene per il soggetto o un male, se è facile da raggiungere o difficile
da evitare. In contemporanea a questo processo conoscitivo, e specialmente
all’opera della cogitativa, si attiva anche la parte appetitiva dell’anima
sensitiva, che reagisce alla conoscenza. La conoscenza in se stessa è già una
reazione alla presenza dell’oggetto, l’appetizione è la conseguenza di questa
conoscenza (è una reazione secondaria, se così possiamo dire). Se l’oggetto
viene valutato come un bene, presente e raggiungibile, l’appetito sarà il
desiderio, cioè una tendenza all’azione che mira a possedere quel bene
particolare (nel nostro esempio la mela). Se invece l’oggetto viene valutato
come un male, presente ed evitabile, la reazione sarà il disgusto (se la mela,
ad esempio, è marcia). Vi sono poi delle passioni specifiche per un oggetto che
è arduo da raggiungere o da evitare: esse sono la speranza e la disperazione,
il timore e l’audacia, l’ira. È il caso in cui la mela, ad esempio, si trova al
supermercato: per raggiungerla è necessario vestirsi, prendere l’auto,
affrontare il traffico, sopravvivere alla coda delle casse, ecc. Allora il
desiderio (appetito concupiscibile) sarà potenziato dall’emozione della
speranza (appetito irascibile).
L’aspetto specifico degli esseri
umani
Tutto questo procedimento è
comune all’uomo ed agli altri animali, ma non alle piante, che sono mancanti di
conoscenza ed appetizione. Vediamo già come una teoria ricalcata sul mondo
della biologia rischi di essere ben poco adeguata per descrivere la psicologia
di un animale ed ancor meno delle dinamiche umane. L’uomo, infatti, oltre a
questo procedimento psicologico dell’anima sensitiva, possiede due facoltà
specifiche dell’anima razionale sua propria, ovvero l’intelligenza e la
volontà. Si tratta di due vis dalle molteplici potenzialità[84].
Qui si dirà solamente che l’intelligenza astrae dall’oggetto particolare (la
mela) l’essenza o l’universale (la ‘melità’, si potrebbe dire, l’idea della
mela) che corrisponde alla forma o sostanza. L’intelligenza mette a confronto
il concetto di mela con gli altri universali, ad esempio il tempo, lo spazio,
il soggetto stesso ecc., ed attiva la volontà che è un tipo di appetito
superiore alle emozioni, poiché si trova sul livello della razionalità. La
volontà dunque sceglie come comportarsi nei confronti non solo di quel
particolare (quella mela in particolare) ma di tutte le mele e della mela in
rapporto al soggetto stesso. Se, ad esempio, soffro di iperglicemia la mela,
per quanto desiderabile, può non essere voluta, in virtù del fatto che risulta
inappropriata alla dieta.
Critica allo stress
Secondo l’antropologia tomista
l’individuo reagisce sempre agli stimoli che rientrano nel campo d’azione dei
sensi, se non altro con la loro irritazione e la conoscenza che ne ricava.
Questo è il motivo per cui parlare di stress come perturbazione aspecifica
dell’omeostasi, come fa Selye, è fuorviante. Lo attesta elegantemente la psicologa (tomista) Magda Arnold: “Obviously,
the notion of stress, at first applied to extreme disturbances, has come to be
used for conditions encountered by any living organism in its everyday
existence. Such usage (…) is too wide to be useful”[85].
Bisogna riconoscere che il termine “stress” deriva dalla fisica[86]
e che quando viene applicato ad una disciplina propriamente umana, quale la
psicologia, può avere solamente un significato analogico. Proprio un altro
grande psicologo tomista, Rudolf Allers, ha autorevolmente denunciato che: “la
nozione di analogia si è praticamente persa. Mente e materia stanno l’un
l’altra in una relazione di analogia, proprio come tutti i vari strati di
realtà che si possono distinguere. Le categorie che descrivono o determinano le
relazioni che si hanno tra i singoli fenomeni dei differenti strati sono
anch’esse analogiche l’un l’altra”[87].
Anche l’idea di omeostasi è mutuata dalla fisica. Abbiamo le prove che gli
esseri viventi siano omeostatici? Sembra proprio di no: in virtù del principio
antropologico secondo cui le azioni propriamente umane[88]
non sono causate da altro, ma libere (causa sui[89]).
Nessun equilibrio omeostatico è il responsabile delle parole, dei gesti,
dei movimenti volontari delle persone. Citiamo a tal proposito lo psicologo (anch’egli
un tomista) John Gasson: “L’omeostasi riduce tutte le attività umane ad un
sistema passivo di reazione (…) Le dinamiche psicologiche richiederebbero un
cambiamento auto-indotto nell’equilibrio del sistema; l’introduzione di
tensioni non è sufficiente per dare al sistema il carattere attivo-attivatore
che richiedono gli stati psicologici”[90].
Dunque una prima critica alla teoria di Selye ne colpisce uno dei fondamenti:
non è possibile parlare di stress in assoluto né di omeostasi, poiché le azioni
specificatamente umane sono attive e non reattive all’ambiente.
Una seconda critica attacca
l’aspecificità dello stimolo. Uno dei principali divulgatori della teoria dello
stress in psicologia, Richard Lazarus, dopo decenni di ricerche sperimentali,
si rende conto che le persone reagiscono in modo molto differente agli stressor:
“We concluded that to understand what was happening we had to take into account
individual differences in motivational and cognitive variables, which
intervened between the stressor and the reaction”[91].
Lazarus riprende la teoria delle emozioni di Magda Arnold e verifica che il
tipo di risposta dell’individuo ai fattori stressanti (che lui chiama coping[92])
dipende dall’appraisal, cioè dalla valutazione sensitiva della bontà o
cattiveria dell’oggetto stressante, della sua presenza o assenza, della
facilità o difficoltà a raggiungerlo o evitarlo. L’appraisal non è nient’altro
che la parola con cui Magda Arnold ha esplicitamente voluto tradurre nel
linguaggio contemporaneo l’azione del senso interno della cogitativa della
psicologia tomista[93].
Dunque la reazione aspecifica la si può teorizzare per gli esseri inferiori,
come le piante o i microrganismi, mentre diviene sempre più specifica quando si
sale nella scala degli esseri – secondo la classificazione tomista – in
particolare con le creature dotate di conoscenza. In virtù proprio di tale
conoscenza la reazione si specifica.
Aggiungiamo una terza critica.
Selye edifica la morale sulle leggi della biologia. Lo stress produce angoscia,
l’angoscia fa soffrire, dunque bisogna vivere riducendo al minimo lo stress. Se
l’uomo fosse animato solo dalle funzioni sensitive, come lo sono gli animali,
Selye probabilmente avrebbe ragione. Minimo sforzo, massimo risultato. L’uomo però
è un essere razionale, ciò significa che ha nell’intelligenza e nella volontà
le sue facoltà più significative. Una corretta “ecologia umana” prevede che
siano le potenze superiori ad ordinare a sé quelle inferiori[94].
Dunque un’azione, come ad esempio quella di lottare contro un male, può
produrre un forte stress – una reazione a livello dell’anima sensitiva, degli
appetiti – ma essere comunque la scelta giusta da opzionare. Una decisione
della volontà può implicare fatica e sofferenza, eppure appagare pienamente chi
la compie. I santi e gli eroi ne sono un esempio. È curioso che anche Selye si
accorga di tale dinamica: “Nell’eventualità, remotissima, di dover decidere tra
la vita del mio prossimo e la mia, sceglierei la mia. Esistono eccezioni a
questo (un genitore non esita a morire per salvare un figlio dalla casa in
fiamme), ma sono rare, riconosciamolo, e non giustificano la scelta di questo
comportamento come schema generale di condotta”[95].
Siamo sicuri che siano così rare?
Possiamo concludere con una
considerazione riassuntiva. Il problema della teoria di Selye risiede nell’aver
voluto descrivere l’uomo prendendo a modello la vita vegetale e animale. Come
altre impostazioni[96],
anche il suo è uno “sguardo dal basso”[97],
che quindi non è in grado di cogliere appieno le dinamiche specificatamente umane,
risultando, nei fatti, disumana.
Verso l’integrazione: come
concepire lo stress
Il concetto di stress, così come
formulato da Selye, non può trovare spazio in un’antropologia realista.
Desidero allora avanzare un modo diverso di concepire lo stress - un termine
che ormai è entrato a far parte del linguaggio comune – integrandolo nelle
dinamiche delle facoltà umane così come descritte dalla psicologia
tradizionale.
In quanto reazione ad un evento, lo
stress coincide con l’attività dell’anima sensitiva o sensibilità. La mela che
mi trovo dinanzi irrita i sensi esterni, attiva quelli interni e produce una
tendenza all’azione che si chiama emozione (oltre a chiamare in causa
l’intelligenza e la volontà). Come dice Magda Arnold[98],
però, parlarne in questo modo è inutile e, aggiungo io, fuorviante: la vita
stessa sarebbe uno stress in quanto incontro continuo tra l’io ed il non-io. Lo
stress, così come viene concepito dalla psicologia contemporanea che lo ha
eletto a male universale (si pensi ad esempio ai tanti manuali contro lo
stress), può invece essere meglio inteso come un certo tipo di risposta
ad un certo tipo di stimolo: una risposta stra-ordinaria ad uno
stimolo che inclina ad un’azione stra-ordinaria. Un capo che prescrive
l’esecuzione di un compito ad un suo sottoposto, compie un’azione di routine
che non turba il “normale funzionamento”. Se però quel giorno il dipendente
accusa influenza o malessere, anche eseguire un ordine viene percepito come
gravoso o stressante. L’idea di cucinarsi un uovo alla coque può non suscitare
particolare stress, ma se l’uovo è da comperare, e fuori piove a dirotto, il
pensiero di dover trafficare per raggiungere il proposito culinario può
richiedere uno slancio straordinario. Il tragitto di ritorno dal lavoro a casa
rappresenta normalmente un’azione semplice, scontata, comune. Lo stesso percorso
durante le ore di traffico richiede ben altre energie. Si potrebbero aggiungere
molti altri esempi in cui gli stimoli che richiedono un surplus di attività
come risposta sono quelli che, nella tradizione aristotelico-tomista, si
chiamano ardui[99].
Un bene arduo è un oggetto che presuppone forza, energia, slancio per essere
raggiunto e posseduto. Un male arduo è un ente che domanda forza, energia e
slancio per essere evitato e combattuto. Abbiamo visto in precedenza che nella
psicologia tradizionale – secondo una terminologia tomista – gli appetiti
attivati dall’arduo sono detti irascibili: speranza e disperazione,
timore e audacia, ira[100].
Queste reazioni corrispondono allo stress: un movimento della sensibilità che
richiede uno slancio energetico stra-ordinario. Troviamo una correlazione di
queste dinamiche nell’antica dottrina dei quattro temperamenti, assunta da San
Tommaso[101]
ecorrelata anatomicamente al “sistema dello stress”: “Il temperamento dipende
in particolare dalla secrezione pituitaria (dall’ipofisi), dalla tiroide e dei
surrenali – in quanto tale secrezione determina la preponderanza dell’impulso
alla lotta o ai piaceri”[102].
Possiamo parlare di stress
all’interno di una cornice concettuale tomista anche da una seconda
prospettiva. Si potrebbe infatti obiettare che anche gli appetiti irascibili
corrispondono ad un “normale funzionamento”. Questo non è universalmente vero,
poiché molte persone mancano di coraggio, di speranza e di capacità di
arrabbiarsi (le terapie con al centro il risveglio della virilità puntano
proprio all’educazione di tali dimensioni[103]).
È però una obiezione corretta, a mio avviso, per due motivi. Primo, perché le
emozioni ripetute tendono a diventare attitudini, secondo il linguaggio della
Arnold, o abitudini, secondo la dizione classica di Tommaso. Uno studente in
difficoltà con la scuola può provare disperazione nel sedersi di fronte ai
libri. Se si allena a diventare coraggioso, ad affrontare la fatica, a
combattere la noia e la pigrizia, è possibile che provi a poco a poco speranza.
Se poi persevera nel tempo, è possibile che la speranza di riuscire nello
studio divenga la sua emozione abituale. C’è poi un secondo motivo, che chiama
in causa le facoltà superiori dell’essere umano. Quando parliamo di sensi ed
appetiti dobbiamo ricordarci che siamo solamente al primo piano dell’edificio
dell’anima umana: al piano terra - se così possiamo dire - ci sono le facoltà
dell’anima vegetativa, mentre al secondo piano ci sono l’intelligenza e la
volontà. L’esercizio finalizzato della volontà, cioè la scelta del bene a
discapito del male, costruisce una disposizione nelle facoltà inferiori: i
sensi e gli appetiti si dispongono ad operare al meglio e per il meglio. È il
concetto tradizionale di virtù o habitus[104].
Uno studente virtuoso, ad esempio, è colui che di fronte ad una mole di compiti
da svolgere esercita la virtù della studiositas: una “forte applicazione
dell’anima a qualche cosa”[105].
Questo habitus fa parte della grande virtù della temperanza che “ritrae dalle
cose che attraggono l’appetito contro la ragione”[106].
Difatti ogni studente si allena ad essere temprato: sa che un pomeriggio
trascorso davanti alla playstation è più appetibile che speso sui libri di
scuola, ma sa anche che la prima opzione non è ragionevole, poiché studiare è
il suo vero bene. Il pigro, al contrario, elige l’opzione comoda alla scelta
giusta (la pigrizia è infatti un vizio, una disposizione contraria alla virtù).
Dunque il possesso delle virtù dispone gli appetiti ad un funzionamento in
sintonia con la volontà, il vizio al contrario porta al conflitto tra le
facoltà. Lo stress, secondo questa seconda prospettiva, corrisponde non solo al
moto degli appetiti irascibili, ma ad un’azione contraria alle abitudini ed
agli habiti acquisiti. Per uno scolaro pigro dover studiare un capitolo di
storia si rivela un’azione stressante. Per un alunno dotato di studiositas,
invece, no. Il primo vive una percezione soggettiva di stress superiore
rispetto al secondo. Lo stress, però, potrà cambiare allorquando da vizioso
diverrà a poco a poco virtuoso.
In conclusione, da una
prospettiva tomista possiamo intendere lo stress in due modi. A livello
generale è stressante ogni azione che richiede l’intervento degli appetiti
irascibili. In modo specifico è stress l’impegno necessario a contrastare il
vizio ed incardinare una virtù.
Conclusioni: implicazioni per la
clinica
Un impiegato di banca lamenta nervosismo,
tedio e una totale mancanza di voglia di lavorare. La ritmicità della giornata,
l’impiegarsi sulle solite pratiche, i colloqui monotoni coi colleghi di sempre
lo atterrano e lo spengono. L’unica attività che gli sorge spontanea è il
lamento, che colora di fatica ogni movimento. Il paziente si dice stressato;
forse per descriverlo potremmo azzardare l’utilizzo di un termine che deriva
proprio dagli studi dello stress applicati al lavoro, il burnout. Per
aiutare questa persona in evidente difficoltà, il clinico può percorrere
diverse strade. Se concepisce lo stress come Selye tenderà a collocare il
paziente nella terza fase della sindrome generale di adattamento:
l’esaurimento. Si muoverà dunque perché trovi un nuovo adattamento: “Per
evitare uno stress dannoso il modo migliore consiste nello scegliersi un
ambiente (moglie, padrone, amici) in accordo con le nostre preferenze istintiva
– trovare un’attività che piace e che si rispetta”[107].
Del resto, una delle tre opzioni dei microrganismi di fronte ad un’aggressione
è la fuga (le altre sono l’indifferenza o lo scontro). Ma come intervenire se,
invece, c’è un accordo da onorare, come nel caso di un matrimonio, o non c’è
alternativa possibile, come nella ricerca di un nuovo lavoro in tarda età? In Stress
senza paura Selye coglie il punto parlando di motivazione, ma non è in
grado di svilupparlo: “Non tocca a me dirvi quale dovrebbe essere la vostra
motivazione, e non ve la dirò. Sta a voi decidere se volete servire Dio, il re,
la patria, la famiglia, il partito politico, o prodigarvi per una buona causa,
o compiere il vostro dovere”[108].
Parlare di motivazione significa avere a che fare con i motivi, cioè le
ragioni, il perché - in una parola - il senso per cui valga la pena lavorare.
Si tratta di un livello in cui la psicobiologia non ha nulla da insegnare, dal
momento che è il terreno proprio dell’intelligenza e della volontà che, come
abbiamo appurato, obbediscono a leggi differenti. Chi soffre di burnout è
innanzitutto chiamato a riscoprire il valore del lavoro, il senso che esso ricopre
nella sua vita. Solo così potrà onorarlo ed aderirvi volontariamente,
sopportando la fatica e persino gioendo per essa, poiché diventa strumento di
virtù (come insegna San Tommaso). I valori non sono soggettivi, ma oggettivi,
anche se è necessario che siano riconosciuti dal soggetto[109]:
da quelli più economici (come lo stipendio), a quelli relazionali (pensiamo ad
un padre che si sacrifica per la famiglia), al proprio rapporto con Dio. Una
terapia che voglia promuovere uno “sguardo dall’alto” ed essere pienamente
cristiana è chiamata ad entrare nel campo educativo[110]
per aiutare il paziente a salire lungo la scala dei valori sino al vertice supremo
(che poi costituisce anche la base della vita, come attestano i santi). Per
farlo, però, dovrà disfarsi di un’antropologia materialista e biologicista, ed
assumere un’adeguata visione dell’uomo, libero e capax Dei.
[1] Rudolf
Allers lettera a padre Agostino Gemelli
del 29 Settembre 1936; cfr. Jore Olaechea Catter, Rudolf Allers psichiatra dell’umano, D’Ettoris, Crotone 2013, p.
90.
[2] The stress of my life, p. 11: “Nel caso
di una sconfitta, non essere un perdente. Altrimenti diventa un’abitudine ad
arrendersi nella vita, e tu devi essere preparato a superare molte sconfitte
prima di diventare un uomo”.
[3] Siang Yong Tan & A Yip, Hans
Selye (1907-1982): Founder of the stress theory, Singapore Med. J. 2018
Apr. 59 (4), pp. 170-171.
[4] The stress of my life, p. 22: “Mia madre
restava sempre in una silenziosa ammirazione di fronte a qualsiasi cosa di
veramente unico e grande. Probabilmente mi ha influenzato sin da piccolo più di
qualsiasi altro”. Selye è cresciuto probabilmente privo dell’affetto materno,
p. 8: “Retrospettivamente, sono sconcertato dalla consapevolezza che è stata la
mia insegnante a svolgere il tradizionale ruolo materno, mentre la mia vera
mamma è stata senza alcun dubbio la mia insegnante più importante. (…) Penso a
lei riguardo all’educazione ed alla
cultura, alle questioni della testa ma non quelle del cuore. Non ha mai pianto
(…) e non ha mai potuto tollerare i ragazzini con le lacrime agli occhi. Ma i
bambini non possono fare a meno di piangere di tanto in tanto, e quindi ho
trascorso molto più tempo in compagnia della mia governante che con mia mamma”.
[5]
“Quando a diciotto anni cominciai a studiare medicina (…) presi l’abitudine di
alzarmi alle quattro di mattina e studiare, in giardino, fino alle sei di sera,
con qualche breve intervallo. (…) Oggi ho sessantasette anni e ancora mi alzo
alle quattro o alle cinque di mattina, e ancora lavoro fino alle sei di sera
con poche interruzioni”, Stress senza paura, p. 97.
[6] John Simmons, The scientific
100. A Ranking of the Most Influential Scientists, Past and Present, Citadel
Press, Kensington USA 1996, p. 405.
[7] The stress of my life, p. 22.
[8] From dream to discovery, p. XIII.
[9]
Utilizzeremo soprattutto l’opera in cui Selye si espone nel campo della
psicologia e della morale, Stress without distress, J. B. Lippincott
Company, Philadelphia & New York 1974. Faremo però ricorso anche
alla suo libro più famoso, The stress of life, McGraw Hill, USA 1956, e
ad altri due testi in particolare, il monumentale Textbook of endocrinology,
Acta Endocrinologica, Montreal 1947; The story of the adaptation syndrome, 1954.
[10]
Stress senza paura, p. 35.
[11]
Ibidem, p. 36.
[12] La
sindrome di adattamento, Istituto sieroterapico Milanese Belfanti, 1955, p.
20 [op. orig. The story of the adaptation yndrome, 1952].
[13]
Ibidem, p. 27. “La parola «stress» entrata nella lingua inglese attuale dal francese antico
e dall’inglese medievale come derivazione della parola «distress». La prima
sillaba è caduta, col passar del tempo, nel pronunciare il vocabolo e, con il
progredire degli studi e delle ricerche, le due parole hanno assunto
significati completamente diversi nonostante l’origine comune. L’attività
collegata con lo stress può essere piacevole e spiacevole; il «distress»
(l’angoscia) è sempre spiacevole”, p. 31.
[18] From dream to discovery, p. 16.
[28]
Ibidem, p. 58.
[29]
Ibidem, p. 66: “Lo stress del vivere l’uno con l’altro costituisce tuttora una
delle principali cause di angoscia”.
[30]
Ibidem, p. 59: “Gli impulsi che danno una motivazione agli esseri viventi sono
molti e vari e fra di essi uno dei principali è l’egoistica volontà di
conservarsi, di restare vivi e felici”.
[31]
Ibidem, p. 60: “L’egotismo, o egoismo, è il più antico carattere distintivo
della vita: dal più elementare microrganismo fino all’uomo, tutti gli esseri
viventi devono innanzitutto proteggere sé e i propri interessi. Non si può
pretendere che altri prendano cura di noi più scrupolosamente che di se stessi.
L’egoismo è un fatto naturale (…)”.
[32]
Ibidem.
[33]
Ibidem, p. 47.
[34]
Ibidem, p. 75: “Le leggi biologiche imperative dell’autodifesa cibernetica rendono
difficile conquistarsi l’amore scegliendo costantemente soluzioni
esclusivamente altruistiche”.
[35]
Ibidem, p. 131: “Gli organismi unicellulari cominciarono ad aggregarsi e a
formare individui multicellulari più robusti e più complessi; entro il loro
ambito, alcune cellule dovettero rinunciare in parte alla loro indipendenza per
specializzarsi nella nutrizione, nella difesa o nella locomozione, ma la
sicurezza e la sopravvivenza di ogni individuo risultarono accresciute”.
[36]
Ibidem, p. 19: “La mia convinzione, fondata su leggi biologiche, è che per la
grande maggioranza della gente, e certo per la società nel suo complesso, il
principio migliore non è «ama il prossimo tuo come te stesso» (cosa
impossibile), ma «guadagnati l’amore
del tuo prossimo». È un principio che permette di manifestare le nostre doti
con i mezzi più efficaci per conservare la sicurezza e la pace dello spirito,
mediante una specie di egotismo altruistico che esprime l’egoismo innato della
materia vivente senza provocare senso di colpa, e che non può trovarsi di
fronte ad aggressioni od ostilità, perché è utile a tutti”. P. 122: “Più di
ogni altro principio, probabilmente, l’«Ama il prossimo tuo come te stesso» ha
contribuito a fare del bene e rendere la vita migliore. L’unico problema è che
il rispetto assoluto di un simile comportamento è incompatibile con le leggi
della biologia”.
[37]
Ibidem, p. 124: “Sono certo che, senza rigettare il principio dell’«Ama il
prossimo tuo», possiamo modificarlo perché si conformi alle leggi biologiche
che abbiamo imparato (…). Modificandolo, tale principio non presuppone né
esclude l’esistenza di un potere infallibile, i cui ordini vadano seguiti
ciecamente, né, punto di massimo rilievo, esso nega la natura essenzialmente
egoistica delle creature viventi. Basta semplicemente enunciarlo con parole
nuove”.
[38]
Ibidem, p. 125: “Esprimendolo così, non dobbiamo offrire amore, su comando, a
individui che è impossibile amare; non dobbiamo amare gli altri come noi
stessi, che sarebbe contrario alle leggi della biologia. Il risultato è nelle
nostre mani”.
[39]
Ibidem, p. 74.
[40]
Ibidem, p. 60. Selye offre numerosi esempi tratti dalla biologia di “aiuto fra
le componenti di un organismo” che “ne riduce al minimo lo stress interno”:
licheni, le radici dei piselli, i polipi del corallo, alcuni paguri, ecc. p.
65.
[44]
Ibidem, p. 128: “Ricordate che il massimo grado che possiate raggiungere,
indipendentemente da ogni qualifica o titolo, è la buona reputazione”.
[46] Anche se dà giudizi netti su alcune
di esse, come “the sterile dialecticism of the medieval scholastics who were so
interested in mental gymnastics that they never bothered to verify the
workability of their ideas”, From dream to discovery, p. 278.
[47]
Ibidem, p. 20. Inoltre, p. 119: “Tutto quel che ho detto, comunque, non è
totalmente nuovo; è stato alla base di quasi tutte le religioni e le filosofie
etiche per secoli e secoli – è stato espresso in forme diverse da un’infinità
di santi, profeti e saggi (…)”.
[48]
Ibidem, p. 71: “Le leggi che regolano le reazioni biochimiche involontarie
dell’organismo durante lo stress sono praticamente identiche a quelle che
governano il comportamento interpersonale, volontario”.
[49]
Giovanni Paolo II, Fides et ratio, LEV,
Città del Vaticano 14 Settembre 1998, n°88.
[50] Stress
senza paura p. 19: “Però la mia convinzione, fondata su leggi biologiche, è che
per la grande maggioranza della gente, e certo per la società nel suo
complesso, il principio migliore non è «ama il prossimo tuo come te stesso» (cosa
impossibile, ma «guadagnati l’amore del tuo prossimo»”. P. 129: “Un
codice etico secondo natura”. P. 124: “«Guadagnati l’amore del tuo prossimo».
Esprimendolo così, non dobbiamo offrire amore, su comando, a individui che è
impossibile amare; non dobbiamo amare gli altri come noi stessi, che sarebbe
contrario alle leggi della biologia. Il risultato è nelle nostre mani”.
[51]
Stress senza paura, p. 52: “Appare strano, a prima vista, che debbano
essere così sostanzialmente simili le leggi che governano le reazioni vitali a
livelli tanto differenti come quelli della cellula, dell’individuo e
addirittura delle nazioni. Eppure questo carattere di uniformità e di
semplicità appartiene a tutte le grandi leggi della Natura”.
[52] Curiosa a tal proposito
l’affermazione secondo cui: “In research, we soon learn that abstractions are
often just as, or even more, effective than tangible, individual facts”, From
dream to discovery, p. XIV. Soprattutto se confrontata con: “A hypothesis
is a guess; a theory is a partially proven guess; a “biologic truth” is an
unscientific exaggeration, for it implies a completely proven theory, and this
does non exist in biology” p. 279.
[53] Ad esempio: “In order to adjust or
repair a machine we first have to know how it works. This is of course also
true of the stress-machinery with which man combats the wear and tear of
whatever he does in this world”, Stress of life, p. 257. “Life is
largely a process of adaptation to the circumstances in which we exist”, ibidem,
p. vii.
[56] From dream to discovery, p. 147: “True fellowship is best established through the policy of
‘give and take’”.
[57]
Ibidem, p. 67: “Anche se le conclusioni fondate sulla logica sono più sicure, è
l’emozione, il sentimento, che spinge l’uomo a sacrificare la vita per il
proprio paese, a sposarsi per amore, a commettere delitti sadici, o a entrare
in un ordine religioso; la logica egli la adopera – se ma la adopera – solo in
un secondo tempo, per razionalizzare l’atto emozionale e raggiungere più
efficacemente il suo scopo”. P. 108: “Sono gli istinti e le emozioni che
determinano il corso della vita, ma la logica, guidata dall’intelligenza,
rappresenta l’unica maniera di sapere con certezza se, per seguire quel corso,
si stiano, o no, impiegando i mezzi migliori. Come ho già detto, ricorriamo
alla logica, pura e fredda, solo per determinare il modo migliore di dedicare la
vita ad un fine, scelto invece emotivamente. Anche le idee (scientifiche,
filosofiche, letterarie) nascono intuitivamente, senza la guida della logica.
Ci si presentano improvvise nei momenti più inattesi (…) ma se non prendiamo
nota e non diamo loro un’articolazione, svaniscono e non possiamo poi
elaborarle intellettualmente con l’aiuto della logica”. L’ultima opera di
Selye, From dream to discovery, sembra distaccarsi da questa concezione
riproponendo le facoltà tradizionali di intelletto e volontà come centro
dell’antropologia, cfr. p. 54 e 147.
[58] Citata
più e più volte proprio con la maiuscola, ad es. Stress senza paura p. 50.
[59] Stress
senza paura p. 19: “(…) il principio migliore non è «ama il prossimo tuo come te stesso»
(cosa impossibile)”. P. 124: “(…) non dobbiamo amare gli altri come noi stessi,
che sarebbe contrario alle leggi della biologia”. P. 123: “Io per primo, lo
dico francamente, non riesco ad accettarlo. Da giovane volli provare, e con
molta decisione, ma mi resi conto che, per quanto ci provassi, non riuscivo ad
amare il prossimo quanto me stesso, ance quando il riuscirci non dipendeva dal
carattere del mio prossimo. Con qualcuno – pochissimi – arrivai quasi a
rispettare il comandamento, ma cercare di convincermi che con uno sforzo maggiore
avrei potuto seguirlo come legge generale sarebbe stato un mentire a me
stesso”.
[60]
Cfr. Paul Vitz, Selfismo e culto di sé, EDB, Bologna 1987, in
particolare p. 99.
[61]
Ibidem, p. 137.
[62] Nel
primo Manifesto Umanista del 1933 si legge: “Gli umanisti religiosi considerano
l’universo come auto-esistente e non creato. L’Umanesimo crede che l’uomo è
parte della natura e che è emerso come risultato di un processo continuo”, cfr.
Roberto Marchesini, ONU e transgender, la carica degli umanisti, La
Nuova Bussola Quotidiana, 29-08-2019.
[63]
Ibidem, p. 57.
[64]
Ibidem, p. 18: “Vorrei cancellare fin dal principio anche la minima impressione
che il mio codice rappresenti per me l’unico modo di vivere capace di dare
felicità. Sono ben lontano da questa idea. Le persone differiscono grandemente
fra loro e non esiste una formula unica eguale per tutti”.
[65]
Ibidem, p. 122: “Sono ben lontano dal condannare la massima Ama il prossimo tuo
come te stesso, soprattutto essendo convinto, come sono, che sia stata per
secoli preziosa all’umanità, offrendole un fine da raggiungere e per cui
sforzarsi. Ma, poiché dai tempi della Bibbia l’orizzonte filosofico e il sapere
dell’uomo si sono evoluti e ampliati, in sempre maggior numero ci siamo
chiesti: come sappiamo da chi fu emanato questo comandamento? Ed è possibile
veramente obbedirgli?”.
[66]
Ibidem, p. 124: “Sono certo che, senza rigettare il principio de l’Ama il
prossimo tuo, possiamo modificarlo perché si conformi alle leggi biologiche che
abbiamo imparato (…) non dobbiamo amare gli altri come noi stessi, che sarebbe
contrario alle leggi della biologia”.
[67]
Ibidem, p. 123: “Io per primo, lo dico francamente, non riesco ad accettarlo.
Da giovane volli provare, e con molta decisione, ma mi resi conto che, per
quanto ci provassi, non riuscivo ad amare il mio prossimo quanto me stesso,
anche quando il riuscirci non dipendeva dal carattere del mio prossimo. Con
qualcuno – pochissimi – arrivai quasi a rispettare il comandamento, ma cercare
di convincermi che con uno sforzo maggiore avrei potuto seguirlo come legge
generale sarebbe stato un mentire a me stesso. Davanti a un nemico aggressivo e
odioso, che cerca in ogni modo di distruggere me e tutto ciò in cui credo, o
quando penso all’ubriacone ozioso che vive da parassita delle fatiche altrui, o
al criminale incorreggibile e a chi corrompe i giovani, sento che sarebbe per
me contro natura amarlo come me stesso o anche quanto amo i miei parenti e
amici, davvero degni di affetto. In verità nemmeno il mio prossimo più amabile
riesco ad amarlo come me stesso. Nell’eventualità, remotissima, di dover
decidere tra la vita del mio prossimo e la mia, sceglierei la mia”.
[71] From dream to discovery, p. 15: “Vanity becomes objectionable only when the legitimate
pride in a recognized accomplishment turns into an indiscriminate craving after
fame for its own sake”.
[72]
“Alla luce di queste riflessioni, ben si comprende perché il Magistero abbia
ripetutamente lodato i meriti del pensiero di san Tommaso e lo abbia posto come
guida e modello degli studi teologici. Ciò che interessava non era prendere
posizione su questioni propriamente filosofiche, né imporre l’adesione a tesi
particolari. L’intento del Magistero era, e continua ad essere, quello di
mostrare come san Tommaso sia un autentico modello di quanti ricercano la
verità. Nella sua riflessione, infatti, l’esigenza della ragione e la forza
della fede hanno trovato la sintesi più alta che il pensiero abbia mai
raggiunto, in quanto egli ha saputo difendere la radicale novità portata dalla
Rivelazione senza mai umiliare il cammino proprio della ragione”, in Giovanni
Paolo II, Fides et ratio, LEV, Città del Vaticano, 15 Ottobre 1998, n°
78.
[73]
“La ricerca e l’insegnamento della filosofia in una Facoltà ecclesiastica di
Filosofia devono essere radicati nel patrimonio filosofico perennemente valido
che si è sviluppato lungo la storia, tenendo conto particolarmente dell’opera
di san Tommaso d’Aquino”, Papa Francesco, Veritatis gaudium, LEV, Città
del Vticano, 29 Gennaio 2018, note applicative art. 61.
[74] Cfr.
Giovanni Paolo II, Inter munera academiarum, LEV, Città del Vaticano, 28
Gennaio 1999: “Nelle condizioni culturali del nostro tempo sembra veramente
opportuno sviluppare sempre più questa parte della dottrina tomistica che
tratta dell’umanità, dato che le sue affermazioni sulla dignità della persona
umana e sull’uso della sua ragione, perfettamente consone alla fede, fanno di
san Tommaso un maestro per il nostro tempo. Gli uomini, soprattutto nel mondo
odierno, sono preoccupati da questo interrogativo: cosa è l’uomo?”.
[75] E.
Fromm, Psicologia per non psicologi, cit., p. 82, cit. in Echavarria M.
F., Da Aristotele a Freud, D’Ettoris,
Crotone, p. 41.
[76] “Veritas
est adequatio rei et intellectus”, cfr. Tommaso d’Aquino, Somma Teologica, I
q. 16 a. 1 co.
[77] Ibidem,
I q. 3 a. 7 co.
[78] Ibidem, I q. 50 a. 2 co.
[79] Ibidem, I q. 65 a. 4 co.
[80] Ibidem,
I q. 75 aa. 1-7.
[81] Ibidem,
I qq. 78-83.
[82] Ibidem, I q. 78 aa. 3-4.
[83] Ibidem, I q. 81.
[84] Ibidem, I q. 79-82.
[86] Richard Lazarus ne riscontra
l’utilizzo già nel XIV secolo e soprattutto nel 1600 per opera del fisico
Robert Hooke, cfr. Richard S. Lazarus, From psychological stress to the
emotions: a history of changing outlooks, Annu. Rev.
Psychol., 1993, 44, pp. 1-21. Anche Selye in alcune ricostruzioni riconosce la
derivazione del termine dalla fisica, cfr. La sindrome di adattamento, pp. 25-26: “Nella ricerca di tale nome mi
imbattei ancora nel termine “stress”, usato a lungo nell’inglese comune e
particolarmente nel campo della fisica per indicare la somma di tutte le forza
che agiscono contro una resistenza (non importa quali esse siano). Per esempio
i cambiamenti indotti in una striscia di gomma durante la trazione, od in una
molla durante la pressione, sono stati tutti descritti come fenomeni di stress.
In tal modo lo stress fisico deve certamente considerarsi come una reazione
aspecifica. Mi pareva che la manifestazione aspecifica della sindrome
d’adattamento fosse l’equivalente biologico di ciò che era stato chiamato
“stress” nella materia inanimata e da definirsi meglio, forse come “stress
biologico”.
[87] Rudolf Allers, The succesful
error, Sheed & Ward 1940, p. 1.
[88] San
Tommaso distingue tra azioni dell’uomo ed azioni umane. Le prime sono compiute
dagli uomini ma senza la piena elezione della volontà – sono le cosiddette
azioni involontarie, come il grattarsi la barba -; le seconde sono le azioni
propriamente umane, cioè quelle che appartengono solamente alla natura
razionale, cfr. Summa Teologica, I-II q. 1 a. 1 co.
[89] “Il
libero arbitrio è causa del suo operare; perché l’uomo muove se stesso
all’azione per mezzo del libero arbitrio”, Summa Theologiae, I q. 83 a.
1 ad 3.
[90] Magda B. Arnold & John A. Gasson, The
human person. An approach to an integral theory of personality, Ronald
Press Company, New York 1954, pp. 133-134. P. 135: “Quando consideriamo
delle attività complesse, che hanno una predominanza delle component
psicologiche, l’insufficienza del concetto di omeostasi è ancora più evidente.
Per esempio, una persona ansiosa può sperimentare una paura intensa – che
produce enormi effetti fisiologici. Anche se la situazione iniziale non è più
pericolosa, questi effetti fisiologici diventano produttori di paura (la
persona nota una tachicardia e sospetta di un malore); quando la paura aumenta
anche gli effetti fisiologici aumentano, fino a quando il nostro paziente non
sviluppa una vera e proprio nevrosi cardiaca. La semplice omeostasi non
descriverebbe mai la rottura di questa reazione circolare. Il paziente
potrebbe, durante la reazione circolare, decidere di rassegnarsi alla malattia
cardiaca, e smettere di preoccuparsi. Il circolo vizioso si fermerebbe, anche,
e la nevrosi non si svilupperebbe – ma l’omeostasi non potrebbe dare conto del
modo in cui si rompe il circolo vizioso. Oppure il cerchio può essere rotto con
la psicoterapia che riduce la paura, ma anche qui l’efficacia della terapia non
è il risultato del semplice riequilibrio di un sistema disequilibrato”.
[91] Richard S. Lazarus, From
psychological stress to the emotions: a history of changing outlooks, Annu.
Rev. Psychol., 1993, 44, pp. 1-21.
[92] “A person’s ongoing efforts in
thought and action to manage specific demands appraised as taxing or
overwhelming”, ibidem.
[93] Stefano
Parenti, Magda Arnold psicologa delle emozioni, D’Ettoris, Crotone 2017,
p. 116.
[94] Ad es. Somma
Teologica, I q. 81 a. 3 co.
[95]
Ibidem, p. 123.
[96]
Rudolf Allers definisce la psicoanalisi una “psicologia dal basso”. Più vicina
alla impostazione scientista di Selye, giudichiamo altrettanto severamente la
psicologia del matrimonio così come elaborata dall’entomologo Alfred Kinsey
cfr. Roberto Marchesini.
[97] Rudolf Allers, L’amour et
l’instict. Étude psychologique, Études carmelitaines, 1936, 21
pp. 90-124: “Questo modo di considerare la natura umana non è che una delle
numerose forme da cui si manifesta una tendenza generale che, dopo secoli, ha
pervertito la mentalità occidentale. Potrebbe chiamarsi: lo sguardo dal basso.
Tutto ciò che è inferiore, tutto ciò che si avvicina alla natura brutta o
perfino morta, è giudicato come più vero, più naturale, più importante. Se uno
getta lo sguardo su tante eresie, tante mode intellettuali, anche deviate,
tante pseudo-filosofie, tante idee sociali contemporanee: dappertutto
incontrerà questa idea funesta secondo cui l’inferiore costituisce il fondo e
il centro della realtà, ciò che realmente importa, che cercarlo, è fare un atto
di scienza, e ce viverla è conformarsi alle esigenze più vere della natura
umana”.
[98] Magda B. Arnold, Emotion
and personality vol. 2, op. cit., p. 240.
[99] Somma
teologica I q. 81 a. 2 co: “La seconda facoltà, che porta l’animale a
resistere agli attacchi di chi gli contrasta il possesso delle cose giovevoli,
o di chi lo molesta: e questa facoltà è chiamata irascibile. Per tale ragione
si dice ce il suo oggetto è l’arduo; appunto perché tende a vincere e a sopraffare
gli agenti contrari”.
[100]
Somma teologica I-II q. 23 a. 1 co: “L’anima però talora è costretta a
subire una difficoltà o un contrasto nel conseguire il bene, e nel fuggire il
male, in quanto esso si trova come al di sopra del potere ordinario
dell’animale. Perciò il male o il bene, in quanto si presenta arduo o
difficile, è oggetto dell’irascibile”.
[101]
Somma teologica II-II q. 126 a. 1 ad 3.
[102]
Felix O. Bednarski, L’educazione dell’affettività alla luce della psicologia
di S. Tommaso d’Aquino, Massimo, Milano 1986, p. 22.
[103]
Cfr. Roberto Marchesini, Quello che gli uomini non dicono, Sugarco,
Milano 2015.
[104]
Somma teologica, I-II q. 49 a. 3 co.
[105]
Tommaso d’Aquino, Summa theologica, II-II q. 166 a. 1 co.
[106]
Tommado d’Aquino, Summa theologica, II-II q. 141 a. 2 co.
[107]
Stress senza paura p. 100.
[108]
Ibidem, p. 82.
[109]
Rudolf Allers, Riflessioni sulla patologia del conflitto, Etude
carmelitaines, Aprile 1938: “Si sa dunque che l’uomo ha il potere di
ignorare le leggi assiologiche”.
[110]
Martin F. Echavarria, Sulla problematica epistemologica e pratica della
psicologia contemporanea nella sua relazione con la fede cristiana,
www.psicologiacattolicesimo.blogspot.it: “(…) la psicoterapia si converte, per
la sua finalità ultima e per il suo intervento principale, in una rieducazione
della vita emozionale della persona dalla ragione e dalla volontà, aperte
all’influenza della grazia; come dire in una forma di pedagogia morale
speciale”.
Nessun commento:
Posta un commento