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mercoledì 3 aprile 2013

IL RELATIVISMO NELLA PSICOLOGIA E PSICOTERAPIA CONTEMPORANEA - M. F. ECHAVARRIA

Martin F. Echavarria
«Per supposizione, se 99,9% dell’umanità fosse malato di tubercolosi, l’uomo medio sarebbe evidentemente tubercolotico; non di meno il piccolo gruppo degli individui non infettati rappresenterebbe l’anormale. L’infezione tubercolosa obbedisce tuttavia senza alcun dubbio alle leggi della natura; essa non è, dal punto di vista di queste leggi, più «anormale» di quanto non lo sia la salute». Con queste parole Rudolf Allers evidenziava la profonda contraddizione che, già ai suoi tempi, emergeva dalle filosofie dominanti la medicina e più in generale la cultura. Secondo Allers, queste contraddizioni fanno trasparire proprio ciò che i loro promotori cercano di nascondere: l'esistenza di una realtà "data", donata. «Utilizzando qui la nozione di normalità, la medicina riconosce senza accorgersene delle categorie che appartengono ad un altro ordine rispetto a quello della scienza naturale». Si è soliti chiamare "relativismo" l'opzione secondo cui non esiste ontologicamente la verità. Papa Benedetto XVI, nel celebre discorso che ha anticipato la sua elezione a Pontefice, diceva: «Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie» (J. Ratzinger, Missa pro eligendo pontefice, Omelia, lunedì 18 Aprile 2005). Il filosofo Robert Spearmann ha dimostrato, in un interessante ed approfondito saggio (Fini naturali, Ares, 2013), che non si possa sostenere una posizione relativista senza incorrere nell'errore di disconoscere il relativismo stesso. La natura si presenta intrisecamente ordinata, da qualsiasi prospettiva. Recentemente, anche Papa Francesco è tornato alle parole del predecessore sulla "dittatura del relativismo" (Discorso al corpo diplomatico presso la Santa Sede, 21 Marzo 2013). Il professor Martin F. Echavarria, responsabile del dipartimento di Psicologia presso l'Università Abat Oliba di Barcellona, ed importante punto di riferimento per la psicologia aristotelico-tomista, entra nel campo della psicologia e psicoterapia per portare alla luce il relativismo di cui sembra essere impregnata la mentalità clinica e scientifica contemporanea. L'obiettivo è di ripartire dal lascito del Magistero per costruire una psicologia e psicoterapia ancorate alla realtà ed alla verità. Ringrazio personalmente l'autore per aver rivisto la traduzione e dato il benestare alla pubblicazione su questo blog.

 

Il relativismo nella psicologia e psicoterapia contemporanea

Martin F. Echavarria


1. Il relativismo nella psicologia

Che le basi teoriche della psicologia contemporanea, almeno nelle sue scuole e negli autori più divulgati, soffrano di molteplici difetti teorici, è qualcosa di ben noto. La si è accusata, con ragione, di riduzionismo, determinismo[1], scientismo, materialismo, naturalismo[2], ecc.  La presente comunicazione si focalizza su di un altro dei suoi problemi: il relativismo[3].  Esso compare in moltissimi autori di diversi settori  della psicologia. Nell’ambito della psicoterapia, Fromm segnala il relativismo morale di Freud[4]; Carl R. Rogers si dichiara apertamente relativista[5], come la maggior parte degli autori della corrente umanista[6], e delle altre molteplici correnti oggi in voga, come la sistemica[7]. Nella psicologia della personalità e nella psicologia sociale, il relativismo si è manifestato nella corrente chiamata “culturalismo”[8]. Un ambito particolare in cui il relativismo, caratteristico della cultura dominante, ha influito in modo consistente è stato nella teoria psicopatologica, specialmente per ciò che concerne i concetti di normalità ed anormalità. A questo ambito è dedicata questa comunicazione, che non pretendere di essere uno studio esaustivo, ma di delineare alcune rapide pennellate su questa problematica.
                E’ certo che, generalmente, dietro ad ogni relativismo, c’è la sostituzione dell’assoluto vero con altri assoluti, come la libertà dell’uomo, i meccanismi dell’evoluzione della materia, il mondo materiale come un insieme chiuso ed autoesplicativo, e simili. Però allo stesso tempo, per quanto siano gli sforzi e nonostante le sue dichiarazioni di principio, la psicopatologia ha enorme difficoltà a liberarsi dal concetto di disordine in riferimento ad un ordine naturale, come cercherò di dimostrare.

2. Normalità ed anormalità statistica

Nella psicopatologia contemporanea è molto comune parlare del carattere relativo dei concetti di normalità ed anormalità. Frequentemente, quindi, la definizione di normalità è confusa ed eclettica[9].
                Accade frequentemente di criticare un concetto forte di normalità, come quello basato sulla natura umana (nel senso tomista del termine), come ideologico[10] e, di conseguenza, come negativo, a causa del supposto carattere “soggettivo” delle concezioni sull’essere umano e sul “dover essere”. A questo riguardo, dice Kurt Schneider:
Ci sono due classi di concetti di normalità, a seconda del fatto che si adotti la norma della media o la norma del valore. Normale, nel senso della norma della media, è, precisamente, la media. Normale, nel senso della norma del valore, è ciò che corrisponde all’ideale soggettivo personale; per qualcuno l’uomo normale è Goethe; per qualcun altro Bismarck; per un terzo, San Francesco. Nel senso della norma della media, puramente quantitativa, è anormale ciò che si discosta da questa media, dall’ordinario, da ciò che è frequente. […] Nel senso della norma del valore, è anormale ciò che si oppone all’immagine ideale. Questa è determinata dalla gerarchia ideologica e personale dei valori. Con la norma del valore, il cui contenuto si sottrae alla discussione scientifica, non può lavorare, naturalmente, la Psichiatria. Ci atteniamo, per questo, alla norma della media[11].
Queste parole suppongono l’accettazione tacita dell’impossibilità di una valutazione che penetri la realtà delle cose, quindi del presupposto scientista latente secondo cui una scienza non può funzionare a partire da principi che ella stessa non si dà. Le sue conclusioni sono molto forti: “Partendo da questa anormalità media, è esattamente tanto anormale il santo o il poeta proprio come il criminale senza scrupoli: tutti e tre cadono fuori dalla media delle personalità”[12]. Quali conseguenze pratiche dobbiamo trarre? La psichiatria e la psicoterapia sono discipline pratiche e tecniche. Bisognerebbe adeguare, ad esempio, Madre Teresa di Calcutta al modo di essere del borghese medio di New York o di Londra[13]? D’altro lato, questa posizione, pretestuosamente non giudicante, implica in modo nascosto un giudizio non esplicito: che bisogna essere come la media statistica o sociologica[14]. A causa delle sue evidenti mancanze, questa posizione relativista è stata criticata da molteplici punti di vista[15]. Tra di essi spicca quello della corrente antipsichiatrica e di autori come Michel Foucault che, prendendo piede da questa origine sociale del concetto di normalità, lo convertono in un concetto puramente relativo. Come ho detto in un altro lavoro[16], per questi autori “la malattia mentale è una costruzione storica e culturale destinata a tenere separati e controllati le cose che sono ‘distinte’, non volendo riconoscere che la ragione e l’assenza di ragione sono costitutivi della stessa realtà”[17]. Da questa prospettiva i malati non sono gli individui, ma le società e le culture. In entrambi i casi, si stabilisce un relativismo culturalista, che in fondo pone il culturale ed il sociale come criterio assoluto, poiché il relativismo non può fuggire dall’affermazione di qualcosa non relativo.

3. Criteri relativisti delle classificazioni internazionali

                Le classificazioni di quadri psicopatologici più utilizzate internazionalmente, il DSM-IV-TR (della American Psychiatric Association) e l’ICD-10 (dell’OMS), non solo non sfuggono al relativismo, ma, essendo frutto del consenso di professionisti molto diversi negli orientamenti teorici e della pressione di diverse lobbys, assumono un pragmatismo eclettico di base relativista. Per quello che concerne il criterio di anormalità o di patologia non si assume un principio unico, ma vari, a volte contraddittori, a volte neppure rispettati nello sviluppo degli stessi quadri.
                Uno dei criteri è, ovviamente, il relativismo socioculturale. Lo si vede riflesso in molti lati. Per esempio, nella definizione di Disturbo di Personalità: “Un disturbo di personalità è un esempio permanente ed inflessibile di esperienza interna e di comportamento che si distanzia notevolmente dalle aspettative della cultura del soggetto, ha il suo inizio nell’adolescenza o al principio dell’età adulta, è stabile nel tempo e comporta malessere o difficoltà al soggetto”[18]. Però questo criterio socioculturale (distanziarsi dalle aspettative della cultura del soggetto), non svolge un ruolo centrale (e a volte persino alcuno) nella descrizione della maggioranza dei disturbi di personalità lì riportati, per es., antisociale, narcisista o borderline. Si tratta di una dichiarazione di principio che è molto vicina al politicamente corretto, però che serve a ben poco nella descrizione generale della maggior parte di questi disturbi.
                E’ certo che nella definizione menzionata prima si riportano altri criteri, oltre al sociale: il malessere o danno per il soggetto. Il primo di questi, è ciò che di solito si chiama “ego-distonia”: ci sono disordini che queste classificazioni considerano come psicopatologici (o semplicemente come disturbi) solo se la persona si sente male. Nel ICD-10, all’inizio della classificazione dei “Disturbi psicologici e del comportamento dello sviluppo e degli orientamenti sessuali” (F66) c’è una Nota, che dice: “L’orientamento sessuale in se stesso non è considerato un disturbo”[19]. Il punto F66.x0 è per contrassegnare quando il problema è “l’Omosessualità”. Nel F66.1 si trova “l’Orientamento sessuale ego distonico”. La distinzione tra sesso e genere è rigida[20]. Su queste basi si fonda l’eliminazione dell’omosessualità dal gruppo delle parafilie e come disturbo di per se. In quanto ai “danni per il soggetto” si pensa generalmente a ciò che si è soliti chiamare “degrado sociale e del lavoro”, ossia, di nuovo criteri sociali.
                Bisogna sottolineare che in base a questi concetti oscuri si diagnosticano oggi i disturbi mentali nei centri sanitari di quasi tutto il mondo.

4. La concezione dimensionale della malattia

                Nella terminologia psicopatologica attuale è frequente la distinzione tra una prospettiva categoriale ed una dimensionale. Semplificando, per motivi di spazio, secondo la prima prospettiva i quadri psicopatologici avrebbero limiti determinati, distinguendosi nettamente l’uno dall’altro, così come dalla normalità. La “concezione dimensionale” della malattia psichica, al contrario, tesi sostenuta dai classici della psicoterapia e della psichiatria (come S. Freud ed E. Kretschmer), consiste nella negazione di una differenza qualitativa tra il normale ed il patologico, così come tra distinte patologie. Il malato sarebbe solamente lo sviluppo esagerato di quello che si osserva guarito nelle persone chiamate normali. Addirittura, per esempio in autori come Freud, sembrerebbe che il normale sia una rara variante dell’anormale, che abbonda in misura maggiore, o anche una pura utopia. In questo modo, normalità e anormalità si differenzierebbero solamente quantitativamente, come gradi di un continuo la cui distinzione non si può stabilire con certezza. Questo è uno dei motivi (anche se non l’unico) per cui si incominciarono a formulare in categorie mediche i problemi morali e del carattere che di per sé non sono malattie. In questo modo, il timido ha una “fobia sociale”, l’immaturo la “sindrome di Peter Pan”, il testardo è “ossessivo”, ecc[21].
                Non pretendo qui prendere parte per la concezione categoriale, poiché entrambe le posizioni soffrono di difetti epistemologici, insostenibili di fronte al tomismo, che dipendono da una concezione della scienza secondo cui non è possibile raggiungere la realtà delle cose, più in là dei nostri “costrutti”. Solamente mi interessa la critica dell’annullamento della differenza tra il normale ed il patologico, che ha conseguenze pratiche tremendamente negative[22]. Lo psicologo belga J. Nuttin sostiene con giustezza che “la confusione tra il patologico e la normalità è una tendenza contro la quale non si potrà fare prevenzione a sufficienza per tutti coloro che studiano la psicologia profonda con una finalità di azione sociale in un ambito di persone normali”[23]. Benché si potrebbe mettere in dubbio il fatto che esistano uomini che siano completamente normali in tutti i loro aspetti, non c’è alcun dubbio sul fatto che la normalità e il patologico siano differenti[24]. Che nel normale e nell’anormale appaiano fenomeni analoghi è indice solamente dell’unità della natura umana[25]. La malattia ed il disturbo, come ogni male, sono privazioni. La privazione ha come soggetto qualcos’altro, che è entitativamente buono[26]. La differenza tra normale ed anormale è come quella tra l’abitudine e la privazione. Entrambe si collocano sullo stesso soggetto, però la prima perfezionandolo e la seconda deprivandolo. L’essere umano è molto complesso e può essere normale secondo un aspetto ed anormale secondo un altro; però il normale e l’anormale si differenziano. Il normale, quindi, deve essere in qualche misura possibile da raggiungere, altrimenti non può essere la meta di una azione psicoterapeutica realista[27].

Conclusioni

                Credo che ciò che ho detto basti per dimostrare la presenza estesa di concezioni relativiste non solo nella psicologia in generale, ma in particolare nella psicopatologia più diffusa, in particolare nella teorizzazione di concetti  chiave come quelli di normalità ed anormalità. Evidentemente, tale relativismo ed ecclettismo suppongono, dal punto di vista filosofico, la dimenticanza o il rifiuto della capacità dell’intelligenza di penetrare nella natura delle cose. Persa di vista la natura come punto di riferimento, cade la possibilità di fondare i concetti di normalità e di anormalità in una “norma” insieme oggettiva e non semplice frutto di consenso, di fattori sociali o di “sentimenti” di benessere di persone che, per quanto si riferiscano alla loro natura autentica, stanno molto male. D’altra parte, è stato comprovato come, dietro al relativismo, si incontra generalmente, insieme ad una negazione dell’assoluto, una assolutizzazione del relativo, che a volte si vuole fondamentare (coscientemente o no) in una filosofia del puro divenire. Però, nello stesso tempo in cui si affermano questi deboli principi per l’organizzazione epistemologica e pratica della psichiatria e della psicoterapia, si constata che i riferimenti involontari a ciò che è naturale sono impossibili da evitare se non si vuole diluire il contenuto della scienza ad uno pseudo-discorso assolutamente inintelligibile.
                Così salvando la giusta autonomia dei saperi naturali, non posso evitare di pensare che tale disorientamento filosofico abbia un cuore teologico, o meglio, teologale. Perso il senso soprannaturale dell’uomo, l’intelligenza, spinta forzatamente dalle realtà spirituali a quelle mondane, non solo cade nel pragmatismo e nell’eclettismo, ma anche perde il senso ultimo della normalità umana, alla quale le normalità parziali (biologiche e psicologiche) si ordinano. La norma ultima dell’uomo è il suo fine ultimo, che si realizza in Cristo, al quale lo ordina l’amore della carità. Per questo vorrei terminare questo breve contributo con le parole di Giovanni Paolo II nella Veritatis Splendor (n. 112):
Infatti, mentre le scienze umane, come tutte le scienze sperimentali, sviluppano un concetto empirico e statistico di «normalità», la fede insegna che una simile normalità porta in sé le tracce di una caduta dell'uomo dalla sua situazione originaria, ossia è intaccata dal peccato. Solo la fede cristiana indica all'uomo la via del ritorno al «principio» (cf Mt 19,8), una via che spesso è ben diversa da quella della normalità empirica.
La normalità sociale e statistica è “con frequenza” molto diversa dalla normalità secondo il Vangelo. Considerare quest’ultima costituirà sicuramente un aiuto per collocare tutte le altre “normalità” al posto giusto. Per questo, il ricorso all’antropologia teologica e filosofica di san Tommaso è a mio giudizio un cammino ineludibile ed urgente.




[1] Un autore che critica soventemente il riduzionismo e il determinismo particolarmente nel campo della psicoterapia è Frankl; cf. V. E. Frankl, Ärztliche Seelesorge, trad. it. Logoterapia ed analisi esistenziale, ed. Morcelliana, Brescia, 2005.
[2] Cf. I. Andereggen – Z. Seligmann, La Psicologia ante la Gracia, EDUCA, Buenos Aires, 1997.
[3] Il Dizionario della Accademia Reale Spagnola, distingue due accezioni di questo termine, una gnoseologica e una ontologica: “1. m. Fil. Dottrina secondo cui la conoscenza umana ha per oggetto le relazioni, senza arrivare mai all’assoluto. 2. m. Fil. Dottrina secondo cui la realtà manca di un sostrato permanente e consiste nella relazione tra i fenomeni”. E’ indicativo che non si menzioni il relativismo morale.
[4] Cf. E. Fromm, Man for himself. An inquiry into the psychology of ethics, trad. it: Dalla parte dell'uomo. Indagine sulla psicologia della morale, Roma, Astrolabio, 1971. Senza dubbio, Fromm “relativizza” notevolmente il relativismo di Freud, ed egli stesso in fondo aderisce al relativismo, nell’opporsi ad una morale “assoluta” (che per lui è teocentrica e, per questo, autoritaria) e proporre un’etica che dipende dalla psicologia come scienza sempre soggetta a revisione.
[5] Per esempio, cf. C. R. Rogers, On becoming a person, parzialmente contenuto in La terapia centrata-sul-cliente, Martinelli, Firenze 1970. Nell’edizione spagnola, El proceso de convertirse en persona, Paidos, Barcelona, 2002, a pag. 35: “Quando mi lascio trasportare dall’impulso della mia esperienza in una direzione che sembra essere diretta verso obiettivi che non avverto con chiarezza, ottengo le mie migliori realizzazioni. Nell’abbandonarmi alla corrente della mia esperienza e nel cercare di comprendere la sua complessità sempre mutevole, comprendo che nella vita non esiste niente di immobile o di congelato. Quando mi vedo come parte di un processo, avverto che non si può avere un sistema chiuso di credenze e neppure un insieme di principi inamovibili a cui attenersi. La vita è orientata da una comprensione e da una interpretazione della mia esperienza costantemente mutevole. Sempre si incontra in un processo di divenire”.
[6] Una critica a questa corrente si può trovare in P. C. Vitz, Psicologia e culto di sé, ed. EDB, Bologna, 1987.
[7] Autori fortemente relativisti sono coloro che si basano sulla visione sistemica. In questa cosmovisione, nell’essere tutto connesso con tutto, nulla causa realmente nulla. Cf. J. Kriz, Corrientes fundamentales de psicoterapia, Amorrortu, Buenos Aires, 1997, pag. 284: “[…] una delle concezioni di cui si è discusso, e certamente centrale, è la ‘causalità’ lineale (ordinaria) di forma “A-B” (per es. Stimolo-Reazione); cioè, l’ipotesi di base che tutto abbia una causa (o varie cause) e che di conseguenza riveste un’importanza particolare verificare “il perché”. Il punto di vista sistemico oppone la “causalità circolare” o, semplicemente, la ‘circolarità’, in cui A e B si influenzano in se stessi secondo un complesso processo in rete (in generale, attraverso la mediazione di altri elementi, C, D, ecc.). Questi sistemi vengono concepiti quasi sempre in modo dinamico, cioè si tratta di un cambiamento nel tempo, nei quali tutto l’influsso di A su altri elementi ritorna su di A; questa prospettiva riceve il nome di ‘autoreferenza’”. E’ chiaro che la conseguenza di una visione simile è, non solo la dissoluzione delle sostanze, ma anche, di tutta la trascendenza. Il mondo e la vita umana sono un tutto chiuso in se stesso, senza niente di esterno, e perciò senza causa e senza spiegazione. Così dice Watzlawick, appoggiandosi al Tractatus Logico-Philosophicus  di Wittgenstein: “Forse, come deve già essere evidente, niente all’interno di una cornice può affermare, o neppure domandare, nulla sulla cornice stessa. Di conseguenza, la soluzione non consiste nell’incontrare una risposta all’enigma dell’esistenza, ma nel comprendere che non esiste un tale enigma” (P. Watzlawick, J. Beavin, D. Jackson, Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma, 1971; nell’ed. spagnola a pag. 248). Queste tesi radicalmente immanentiste sono state professate quasi un secolo prima da F. Nietzsche con l’intenzione di redimere l’uomo dalla necessità di essere redento: “Quale può essere la nostra unica dottrina? – Che all’essere umano nessuno gli dà le sue proprietà, né Dio, né la società, ne i suoi padri, né i suoi avi, né se stesso […]. Nessuno è responsabile di esistere, di esser fatto in questo o in quel modo, di essere posto in queste circostanze, in questo ambiente. La fatalità del suo essere non può essere slegata dalla fatalità di tutto ciò che fu e che sarà. Egli non è la conseguenza di una intenzione propria, di una volontà, di una finalità, con lui non si fa la prova di raggiungere un “ideale dell’uomo” o un “ideale di felicità” o un “ideale di moralità” […] Se è necessario, se è un frammento di fatalità, si forma parte del tutto, se è, nel tutto, non c’è nulla che possa giudicare, misurare, paragonare, condannare il nostro essere, forse questo significherebbe giudicare, misurare, paragonare, condannare il tutto… Però non c’è nulla al di fuori del tutto! – Che non diventi già responsabile di nessuno questa sola è la grande liberazione del divenire… Il concetto di ‘Dio” è stato fino ad ora la grande obiezione contro l’esistenza… Noi neghiamo Dio, neghiamo la responsabilità in Dio: solo così redimeremo il mondo” (F. Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli, Carocci, Milano, 2012; nell’edizione spagnola pag. 69-70).
[8] Cf. J. C. Filloux, La personalidad, EudeBA, Buenos Aires, 1987, pag. 55-56: “I lavori di Sullivan, Fromm, Karen Horney e Kardiner, unanimamente, conferiscono già una primaria importanza alla determinante sociale […] / In verità, questa evoluzione dentro alla psicoanalisi si deve in gran parte alla comparsa del ramo ‘culturalista’ della sociologia generale. Le indagini delle società primitive, realizzate da Ruth Benedict, Margaret Mead, Linton, Lévi-Strauss, attrassero l’attenzione sulle correlazioni che esistono tra il tipo di cultura e il tipo di personalità”.
[9] Un esempio di questo eclettismo si vede in J. Vallejo, “Introducciòn (II)”, in J. Vallejo Ruiloba (Dir.), Introducciòn a la Psicopatologia y a la Psiquiatria, Masson, Barcellona, 2005, pag. 33-36, dove senza optare chiaramente per alcuna di esse, enumera le seguenti concezioni di normalità: “normalità come salute” (assenza di sintomi), “normalità come media”, “normalità utopica”, “normalità soggettiva”, “normalità come processo”, “normalità forense”. Per diverse ragioni, è confusa anche la definizione della differenza tra normalità ed anormalità nel classico di H. Ey – P. Bernard – Ch. Brisset, Manuel de Psychiatrie, trad. it. Manuale di psichiatria, IV ed., Masson, 1998, dove praticamente si lascia tale determinazione all’arbitrio del singolo psichiatra, quindi con una certa tendenza a mettere come criterio centrale l’utilizzo della libertà.
[10] J. Vallejo, op. cit., pag. 33: “Questo tema è veramente delicato, visto che, dice Tizon (1978), ‘è difficile, in ultima istanza, parlare di ciò che è normale e della norma senza cadere sul terreno dell’ideologia’.”
[11] K. Schneider, Die Psychopatischen Personlichkteiten, tr. It. Le Personalità Psicopatiche, 2008, Giovanni Fioriti Editore, Roma (nell’edizione spagnola, a pag. 26).
[12] Ibidem, pag. 27.
[13] R. Allers, El amor y el instinto. Estudio psicologico”, in I. Andereggen – Z. Seligmann, La psicologia ante la Gracia, EDUCA, Buenos Aires 1999, pag. 324 (originalmente pubblicato su Etudes Carmélitaines, 1936): “Supponiamo che in un paese ci siano 999 uomini affetti da tubercolosi ed uno solo che non sia infermo. Si potrebbe concludere che “l’uomo normale” sia quello i cui polmoni siano infetti dalla malattia? Il normale non si confonde con la media. Se dunque, secondo la media, l’uomo decide secondo l’istinto, questo non prova che non possa fare una cosa diversa, e neanche che i valori più alti siano per natura deboli”.
[14] Lo stesso Schneider lo ammette in un’altra delle sue opere, cf. K. Schneider, Klinische Psychopathologie, tr. It. Psicopatologia clinica, 2004, Giovanni Fioriti Editore, Roma, (nell’edizione spagnola a pag. 41-42): “Già il semplice fatto che la seconda parte della nostra definizione di psicopatico sia formata in accordo con un punto di vista (sociologicamente) valutativo, che è molto relativo, proibisce il suo impiego puramente psicologico”. Si riferisce alla sua definizione, già classica, di personalità psicopatica: “quelle personalità che soffrono a causa della loro anormalità o per la cui anormalità soffre la società” (ib., pag. 41).
[15] Cf. J. Vallejo, op. cit., pag. 33: “In qualche modo questa impostazione della normalità è collegata con il criterio sociologico secondo cui l’idea di salute si relaziona con l’adattamento sociale, il che equivale ad impostare la normalità in funzione del contesto sociale (normalità adattiva). I pericoli di questo concetto di normalità sono evidenti e su di essi si sono concentrati principalmente tutte le correnti contestatarie della psichiatria”.
[16] Cf. M. F. Echavarria, “Enfermedad mental y responsabilidad ético-juridica”, in Encuentro Internacional de Derecho Penal, UCA/AZ Editora, Buenos Aires, 2007, pag. 59.
[17] Cfr. M. Foucault, Maladie mentale et psychologie, Quadrige / Presses Universitaires de France, Parigi, 1997, pag. 71 [tr. It. Malattia mentale e psicologia, 1997, Raffaello Cortina Editore, Milano]: “Un fatto è diventato, dopo lungo tempo, luogo comune della sociologia e della patologia mentale: la malattia non ha la sua realtà ed il suo valore che dentro ad una cultura che la riconosce come tale”; ibidem, pag. 75: “Così Durkheim e gli psicologi americani hanno fatto della deviazione e dello scarto la natura stessa della malattia, questo è, senza dubbio, un’illusione culturale che è loro comune: la nostra società non vuole riconoscersi in questo malato che caccia o che rinchiude; nel momento in cui diagnostica il malato, esclude il malato. Le analisi dei nostri psicologi e dei nostri sociologi, che fanno del malato un deviante e che cercano l’origine del morbo nell’anormale, sono dunque prima di tutto, una proiezione dei temi culturali come tali”.
[18] Cf. DSM-IV-TR, Elsevier Masson, Barcellona, 2002, pag. 765 [tr. It. 2007, Elsevier, Milano].
[19] ICD-10. Disturbi Mentali e del Comportamento. Descrizioni cliniche ed esempi per la diagnosi, Meditor, Madrid, pag. 273 [tr. it. 1996-2003, ed. Elsevier, Milano].
[20] Per una visione critica d’insieme di quella che viene chiamata “ideologia di genere”, con molteplici riferimenti alle sue conseguenze in psicologia, cf. AA. VV., Mujer y Varon, Mistero o autocostruzione?, Madrid, 2008.
[21] Già da tempo, osservava con lucidità il filosofo Yves Simon: “[…] tra le materie normalmente studiate oggi sotto il titolo di psicologia, alcune corrispondono in realtà ad una conoscenza propriamente morale, e non possono essere comprese se non alla luce di principi morali. Tre quarti di secolo addietro, Ribot, i cui sforzi sono noti per aver assoggettato la vita affettiva ai procedimenti totalmente speculativi e positivi della psicologia moderna, scriveva che per la psicologia moderna non ci sono passioni buone né cattive, come per il botanico non ci sono piante utili o nocive, a differenza di quello che accade con il moralista e con il giardiniere; paragone affascinante, però sofista, poiché se è accidentale per una pianta soddisfare o contrariare lo sguardo dell’amante dei giardini, una passione, considerata nel suo agire concreto, cambia natura a seconda che favorisca o contrasti il libero agente. Orbene, la psicologia moderna della vita affettiva, sondando il mondo del vizio e della virtù proibendosi ogni giudizio di valore morale, ma trascinata dal gioco concreto della libertà in un ordine delle cose in cui la natura della realtà considerata varia con i motivi della scelta volontaria, presenta generalmente un penoso spettacolo di sistematica mancanza di intelligenza. Qui, come in sociologia, troviamo l’ultima parola dello scientismo. Dopo l’arrogante pretesa di sottomettere i problemi metafisici al giudizio della scienza positiva, era riservato al nostro tempo l’assistere alla fiscalizzazione delle cose morali. Molte persone allarmate per la devastazione che causa nelle giovani intelligenze la lettura dei sociologi, vogliono reagire reclamando semplicemente un utilizzo più libero e lungimirante dei principi metodologici considerati come intangibili, o come l’introduzione di riforme metodologiche discrete, lasciando da parte il carattere completamente positivo e speculativo delle scienze morali distinte dalla morale normativa. Noi crediamo che non si possa fare niente contro l’influenza tossica di una certa sociologia se non si comincia dal riconoscere che ogni scienza del comportamento umano, dell’essere morale, per comprendere il suo oggetto deve ricevere dalla filosofia morale la conoscenza dei valori morali” (Y. Simon, Critique de la connaissance morale, Desclée de Brouwer, Parigi, 1934, pag. 136-141). Deplorevolmente, questa critica raggiunge anche un altro amico di J. Maritain, R. Dalbiez, che nella sua opera El método psicoanalitico y la doctrina freudiana si comporta in modo simile a Ribot rispetto alla psicoanalisi.
[22] Questi argomenti li ho presentati in precedenza nel mio articolo “Enfermedad mental y responsabilidad ético-juridica”, pag. 59.
[23] J. Nuttin, El psicoanalisis y la conception espiritualista del hombre, Editorial Universitaria de Buenos Aires, Buenos Aires, 1979, pag. 177 [tr. it. Psicoanalisi e personalità, 1995, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo].
[24] Cfr. Ibidem, pag. 173: “Una cosa è, senza dubbio, distanziare questa interrelazione del normale e del patologico, ed un’altra è costruire una teoria della personalità normale alla luce, precisamente, dei dati patologici. […] lo sviluppo normale di uno stato di conflitto ed il suo ruolo dentro l’insieme del funzionamento psicologico differiscono dal processo patologico del conflitto, tanto quanto la crescita normale di un tessuto differisce dalla crescita di tipo cancerosa”; ib., pag. 177: “Sappiamo perfettamente che elementi patologici si mescolano allo sviluppo psichico di tutto l’uomo, come i microbi si mescolano all’aria che respiriamo. Però bisogna riconoscere che nell’uomo profondamente equilibrato certi germi di comportamenti e di sentimenti malati si curano di solito meglio grazie ad un’azione stimolante sui fattori costruttivi dello sviluppo che per mezzo di una concentrazione di attenzione sullo stesso elemento patologico. Come abbiamo già detto in precedenza, la distinzione tra il patologico e la normalità non è una questione di grado o di quantità; la differenza è qualitativa e concerne l’organizzazione e la struttura globale dei fattori ed il decorso dell’organismo”.
[25] Cf. J. Vallejo, op. cit., pag. 35: “Non siamo d’accordo con le correnti di orientamento dinamico e sociologico che vedono nella malattia una semplice variazione quantitativa della norma, sotto l’ipotesi che tutti abbiamo strutture psicotiche (corrente psicodinamica) o che la manifestazione personale dell’infermità è una prolungazione dell’alienazione collettiva (corrente sociologica). Da parte nostra, crediamo che i meccanismi psicotici presenti nella maggior parte dei ‘normali’ non permettano di stabilire un continuum di normalità-nevrosi-psicosi, poiché quest’ultima non rimane definita unicamente da questi meccanismi, ma piuttosto dalla struttura inflessibile degli stessi, che continua a sommergere l’individuo in uno stato caotico con un deterioramento totale del suo mondo intellettivo e delle relazioni interpersonali ed intrapersonali”. Se è così, allora è un errore chiamare questi “meccanismi” con il termine “psicotici”. La psicosi è una deformazione di questi meccanismi, che nei normali fanno parte di una vita psichica anche normale.
[26] Cfr. S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 48, a. 3.
[27] Giustamente su questa linea si muove la critica aristotelica alla “idea del Bene” di Platone, all’inizio dell’Etica Nicomachea.

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