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"Una psicologia medica cattolica deve essere una vera sintesi delle verità contenute nei sistemi già esistenti e inaccettabili visto il loro spirito di materialismo puro e le verità della filosofia e la teologia cattolica. Questo lavoro di sintesi non può essere compiuto che da persone istruite e nella medicina o psicologia e nella filosofia, e che possiedono una esperienza pratica e personale assai grande: cioè questo lavoro deve essere fatto da medici, specialisti di psichiatria, dunque da scienziati cattolici laici. (Rudolf Allers, 1936, lettera a P. Agostino Gemelli).

mercoledì 30 aprile 2014

LA CONOSCENZA INTELLETTIVA DEI PARTICOLARI - RUDOLF ALLERS

Rudolf Allers
La conoscenza intellettiva dei particolari conclude il percorso in tre parti iniziato con La vis cogitativa e la valutazione e proseguito con L'aspetto cognitivo delle emozioni. Una trilogia di Rudolf Allers (a cui seguirà un articolo del professor Martin F. Echavarria sulla conoscenza vera in psicologia, che ne rappresenta la continuazione) che testimonia l'importanza della filosofia tomista, se non l'imprescindibilità, per una psicologia non solo pienamente cattolica, ma compiutamente laica e razionale.
Ogni psicologia si fonda su di una antropologia e, di conseguenza, su di una filosofia che la sostiene (e, più ancora, anche su di una teologia o cosmogonia). Il professor Allers è persuaso che la filosofia tomista rappresenti la base migliore su cui poter edificare una psicologia non riduttiva, in grado di dare ragione di ogni esperienza umana, come ebbe modo di testimoniare in più occasioni: "Nel corso della guerra del 1914-18, nei lunghi periodi di relativa inerzia all'ospedaletto da campo, crebbe in me la persuasione che la filosofia tomista offrisse in realtà la base più adatta per lo sviluppo di un sistema di «antropologia filosofica» quale fondamento di una teoria della psiche sia normale che anormale" (in Titone R., Rudolf Allers psicologo del carattere, La Scuola, Brescia, 1957, pag. 27).
La conoscenza intellettiva dei particolari comparve sulla rivista The Thomist nel 1941 (January, pag. 95-163), un periodo in cui la psicologia filosofica veniva definitivamente soppiantata dalla psicologia sperimentale, da una parte, e dalla psicoanalisi, dall'altra. Come ogni rivoluzione, anche la rivoluzione scientifica nell'ambito della psicologia aveva la pretesa di radere al suolo ogni costruzione a sé precedente, per edificare nuove fondamenta che si contrapponessero alle vecchie. L'impeto rivoluzionario, accecato dall'ideologia, omette di verificare gli aspetti positivi del passato: una costruzione che ha perdurato centinaia d'anni ha molto da dire sulla validità delle fondamenta. Ignorando questo buon senso i nuovi edifici risultano meno resistenti dei vecchi. Così, la riflessione filosofica sull'anima era stata soppiantata dalla psicologia sperimentale dei laboratori e dalla psicoanalisi. Entrambe queste nuove psicologie, come Allers stesso le definì nel suo celebre saggio The new psychologies (tr. it. Psicologia e Cattolicesimo, D'Ettoris, Crotone, 2009), procedevano autonome e senza legami con le psicologie dei secoli precedenti (la filosofia tomista, la pratica del discernimento degli spiriti, la direzione spirituale, la medicina medievale e rinascimentale, la demonologia, ecc.). La pretesa autonomia ed autosufficienza nascondeva, però, una filosofia implicita, spesso celata agli stessi sperimentalisti e psicoanalisti: il positivismo scientista per gli sperimentalisti, la filosofia di Nietzsche ed il materialismo Herbartiano per la psicoanalisi di Freud. Non è difficile immaginare, anche se non se ne conoscono i contenuti, che da tali fragili sostegni emergevano numerose contraddizioni ed aporie. In questo lungo articolo, i cui contenuti si inscrivono all'interno della psicologia generale piuttosto che nella clinica, Allers dimostra come la filosofia tomista sia in grado di rispondere alle difficoltà della psicologia del tempo, ed anche alle obiezioni che le posizioni scientiste, rappresentate dallo sperimentalismo e dalle teorie comportamentiste ed associazioniste, sollevavano contro la prospettiva filosofica.
Oggi ci troviamo in una realtà in cui lo scientismo si è diffuso sino al substrato culturale della società, e permea pressocché ogni ambito del sapere. Lo descrive con estrema lucidità il magistrale saggio L'uomo scientifico (EDB, Bologna, 1988) di Enrico Cantore, scomparso poco più di un mese fa (a lui rivolgo la preghiera, a nome di tutti, perché continui dall'alto ad aiutarci). Ma è sufficiente gettare uno sguardo al mondo della psicologia per accorgersene: gli autori di spicco della neuropsicologia sperano di dimostrare l'inesistenza della coscienza, ossia della persona. I manuali più divulgati propongono lo scientismo e lo sperimentalismo come unica fonte di conoscenza vera, e disprezzano la filosofia. Restano indelebili nella mia memoria le affermazioni del testo principale adottato all'università, a tuttoggi il più divulgato: "Questa impossibilità affermata di studiare l'uomo è tipica del pensiero cristiano medievale. [...] Il pensiero medievale è infatti del tutto alieno dallo studio dell'uomo, di cui nega addirittura la possibilità" (Luccio, in Legrenzi P., Psicologia generale, Il Mulino, Bologna, 1996). La posizione di Rudolf Allers risulta essere interessante tutt'oggi, perché egli ha affrontato le stesse riduzioni e le stesse sfide della psicologia contemporanea quando ancora erano alla radice, e ne ha colto l'essenza, le oscurità, le contraddizioni. I suoi scritti sono di aiuto allo psicologo del ventunesimo secolo.
Ne La conoscenza intellettiva dei particolari Allers si addentra in un problema di sconcertante attualità: il modello di mente. La psicologia sperimentale di quegli anni aveva riportato interessanti scoperte nell'ambito della percezione e del ragionamento; scoperte che venivano contrapposte alle teorie filosofiche, in particolare alla concezione tomista. Allers dimostra, invece, che le novità della psicologia sperimentale non solo non contraddicono il modello di mente - e quindi di uomo - sostenuto dalla filosofia tomista, ma ne avvalorano persino alcuni aspetti. Dal momento che Allers si riferisce a quello che ho chiamato il "modello di mente" della filosofia tomista come se fosse una conoscenza comunemente nota, ritengo opportuno riassumerlo brevemente, poiché sono consapevole che le nozioni che sino a quegli anni venivano padroneggiate da ogni psicologo, oggi sono ignorate pressocché dalla totalità. Ricordo chiaramente la cena con un caro amico, professore di psicologia al liceo, il quale sosteneva che le topiche freudiane avessero avuto grande divulgazione grazie alla loro immediatezza, e mi chiedeva quale fosse il modello di mente della filosofia cristiana. Quella sera mi accorsi che era necessario ripartire dall'antropologia e divulgare le concezioni della filosofia tomista ad un mondo contemporaneo popolato da tablet e smartphones, eppure molto più buio di quei secoli che i moderni qualificano erroneamente come bui. Il modello di mente a cui Allers allude lungo l'articolo deriva dall'antropologia tomista, ossia dalla concezione dell'uomo come di un'anima incarnata in un corpo (anima forma corporis), e quindi, di una sostanza individuale di natura razionale (sustantia individua rationalis naturae). Ognuna di queste parole meriterebbe una spiegazione; mi limito a dire che l'essenza dell'uomo, ossia ciò che è nascosto sotto l'apparenza, cioè la sostanza (sub-stare) è una unità autonoma (individua) di natura razionale. Tale razionalità è la specificità dell'umano, punto d'incontro tra l'immaterialità e la materia o, per dirla con Aristotele, il composto umano (sinolo). L'intelligenza umana, dunque, è l'espressione di una natura spirituale (l'intelletto o mente) e di una natura materiale (il cervello). Il rapporto che lega le due nature in una unità è metaforicamente lo stesso che lega la visione all'occhio: perché la visione si attui c'è bisogno dell'organo che compia l'azione, ma la visione in sé non si identifica con l'occhio. L'uomo ha dunque numerose facoltà che gli sono proprie in quanto composto di anima e corpo. Eppure alcune di esse sono proprie della materia, ossia derivano dalla materialità, mentre altre dell'anima. Sulla scia di Aristotele, san Tommaso identifica tre tipologie, o livelli, dell'anima: 1. l'anima vegetativa, che svolge le funzioni atte a vivere, 2. l'anima sensitiva, le cui facoltà sono osservabili negli animali, come la conoscenza sensoriale (i cinque sensi esterni ed i sensi interni) e l'appetito sensoriale, e 3. l'anima razionale. Quest'ultima è propria solo degli uomini ed esprime due facoltà: l'intelligenza e la volontà. L'anima, dunque, non solo informa il corpo, cioè da una forma alla materia, ma anche dispone il corpo materiale alle operazioni di conoscenza e di appetizione.
Sin qui la descrizione strutturale. Ora addentriamoci nella dinamica, riferendoci principalmente alla conoscenza ed omettendo l'appetizione o appetito, ossia l'inclinazione, il desiderio, il movimento verso un oggetto (appetere nihil aliud est quam aliquid petere, quasi tendere ad aliquid ad ipsum ordinatum). Aiutiamoci con esempio: Antonio vede di fronte a sè una mela. Come fa a sapere che è una mela? Come fa a vederla? I sensi vengono colpiti dalla mela (il senso è una potenza "passiva", che rimane in potenza fin quando non è eccitato). I sensi sono attivati da un oggetto (una res) che è materiale; nel linguaggio tomista un oggetto specifico si dice singolare o particolare. Una mela specifica, un cane specifico, una persona specifica è un particolare. Una res è tale perché la sua esistenza è segnata dalle categorie aristoteliche: ubi (quella melà è lì e non là), quando (in un certo momento), cur, cui, quomodo, ecc. Infatti i sensi registrano le qualità o aspetti (o categorie) dell'oggetto: il colore della mela, la posizione, la conformazione, ecc. I sensi esterni sono i noti cinque sensi, i sensi interni sono il senso comune, che mette assieme i dati riferiti dai cinque sensi, la memoria, che permette di utilizzare le immagini immagazzinate in precedenza per capire meglio quella attuale, e l'immaginazione, che combina assieme alla memoria tutti questi dati costruendo una immagine o fantasma dell'oggetto. Antonio vede solo metà della mela, ma grazie all'immaginazione può "vedere" o "immaginare" anche la metà che non è rivolta verso di lui, e capire così che è una mela intera quella che sta guardando, non metà mela. C'è poi un'altra facoltà, sempre legata alla parte sensitiva dell'anima umana, che è la vis cogitativa o ragione particolare, che permette la percezione del valore di ciò che si sta osservando. Il valore è in relazione ai bisogni della persona: se Antonio ha fame, o non mangia da diverse ore, o è goloso di frutta, allora quella mela avrà un valore alto per lui. La vis cogitativa co-agita, cioè agita, le altre facoltà, in particolare quelle appetitive (cioè il desiderio). La vis cogitativa corrisponde in parte ad alcuni concetti di mente moderni, ma è più simile, a mio modo di vedere, all'idea di istinto o a quello di pulsione, così come formulato da Freud. Sin'ora abbiamo parlato di sensi, ed infatti questo tipo di conoscenza è una conoscenza sensoriale o del processo della sensazione. Quale effetto produce la mela sui sensi di Antonio? Le categorie della mela modellano i sensi, cioè i sensi ricevono l'azione dell'oggetto secondo la natura dell'oggetto stesso. L'immaginazione, comunicando con il senso comune e la memoria (in cui ci sono archiviate le mele che Antonio ha già visto) formula una rappresentazione dell'oggetto, ossia una sua immagine: il fantasma. Questo fantasma è una rappresentazione sensoriale dell'oggetto, come una riproduzione o fotografia della mela. E' lo strumento attraverso cui l'anima sensitiva conosce gli oggetti (id quo obiectum cognoscitur): come un segno che indica più in là, cioè come le lettere m-e-l-a indicano l'immagine della mela, o, la freccia sul cartello azzurro ai lati della strada indica che poco dopo c'è una strada. Il fantasma (che viene anche definito species, ma qui si utilizzerà tale termine solo quando entrerà in gioco l'intelletto, come vedremo dopo) è uno strumento per la conoscenza degli oggetti, perché permette all'oggetto, che è lontano, di entrare nel soggetto. Questa è una delle intuizioni più belle dell'antropologia aristotelico-tomista: è il conoscente che assume la forma del conosciuto (cognitum est in cognoscente ad modum cognoscentis), come a dire: la mente di Antonio si modella a seconda della forma che riceve dalla mela. In questo modo "si ha cognizione perché l'oggetto conosciuto viene a trovarsi nel conoscente" (Summa Theol. I, q. 50, a. 2). E' il processo di assimilazione: "ogni conoscenza avviene mediante l'assimilazione del conoscente al conosciuto" (Summa contra gent., I, 65, n. 537). Il fantasma o immagine permette all'oggetto che è esterno di entrare dentro il soggetto. Quanto più soggetto ed oggetto si identificano, tanto più si conosce la verità, che è infatti un adeguamento, o identificazione, dell'oggetto con l'intelletto (adequatio rei et intellectus).
Fino a questo punto il procedimento è più o meno uguale a quello che avviene negli animali (la differenza consiste nel fatto che ogni attività umana è l'attività di un composto di anima e corpo, in cui l'intelligenza interviene ed è chiamata in causa sempre, anche se minimamente). Nell'uomo il processo di conoscenza non si ferma alla sensazione. Procede sino all'apprensione, e poi al giudizio ed al ragionamento. I sensi comunicano all'intelletto le proprie sensazioni, e l'intelletto si riempie di esse (nihil est in intellectu quod non prius fuerit in sensu). L'intelletto, però, non ha a che fare con i particolari, ma con gli universali. L'universale è il concetto, la sostanza, l'essenza di una res. L'essenza di quella mela lì che è di fronte ad Antonio è il suo essere una mela e non una pera o una banana, cioè, per usare un gioco di parole, la melità. Così come, citando un esempio di Aristotele, guardando un cavallo particolare l'intelletto percepisce l'essenza universale del cavallo, ossia la cavallinità. Il processo tale per cui nel particolare l'intelletto coglie l'essenza (quidditas rei materialis), ossia l'universale, è l'astrazione. Come avviene? Com'è che Antonio vedendo un colore giallognolo, una conformazione tonda, immaginando il contenuto polposo, ricordando un'altra configurazione simile, ecc., può conoscere "la" mela? L'opera della conoscenza sensoriale stimola l'intelletto agente (intellectus agens), ossia una parte dell'intelletto che è attiva, che interviene attivamente. L'intelletto agente svela l'essenza che è contenuta nell'oggetto ma che i sensi non riescono a percepire (in linguaggio tomista si dice che attualizza l'intelligibile). Coglie l'universale che è dentro il particolare. Il risultato di questo suo svelare l'universale è la species, ossia una rappresentazione che si basa sul fantasma, poiché utilizza il fantasma per conoscere l'oggetto, ma che include la percezione dell'essenza. A sua volta, proprio come una reazione a cascata, la species, che viene definita impressa poiché è impressa dall'oggetto sui sensi e sull'intelletto, stimola l'intelletto passivo (intellectus possibilis), detto così perché agisce dopo che viene impressionato, il quale formula la species expressa, ossia il concetto, l'idea (verbum mentis). Più sinteticamente il processo può riassumersi in due passaggi: prima l'oggetto stimola i sensi che lo conoscono tramite il fantasma, poi l'intelletto astrae dall'oggetto l'essenza, e la rappresentazione diventa la species, che è l'idea di mela attraverso cui il soggetto conosce l'essenza della mela. Abbiamo descritto quel processo che si chiama apprensione, cioè la conoscenza o consapevolezza intellettuale di una essenza "dentro" un particolare materiale esterno a sé. Si tratta di una conoscenza intenzionale, ossia la conoscenza degli oggetti esterni a se stessi ("intenzionalità, come indica lo stesso nome, significa tendere verso l'altro" - Summa Theol. I-II, q. 12, a. 5). L'intelletto umano, poi, è in grado di compiere una operazione strepitosa che è la possibilità di conoscere se stesso, grazie ad un movimento di riflessione, ossia ad un rivolgere la sua attenzione verso i suoi stessi processi ed alle species. La conoscenza riflessa è la possibilità per l'uomo di avere auto-coscienza di sé, cioè di sapere non solo che cosa è, ma chi è.
Le informazioni brevemente riassunte in questo sommario sul "modello aristotelico-tomista di mente" sono state tratte dai seguenti testi, che consiglio per ulteriori approfondimenti: Vernaux R., Psicologia, Paideia, Brescia, 1966; Joliviet R., Traité de philosophie - II. Psychologie, Emmanuel Vitte Editeur, Lyon-Paris (ed. it. a cura di Totus Tuus Network, 2010); B. Mondin, Manuale di filosofia sistematica, vol. 1 logica semantica gnoseologia, ESD, Bologna, 1999.


 

La consapevolezza intellettiva dei particolari

Rudolf Allers


San Tommaso d'Aquino
Ogni sistema filosofico ha dei problemi che appartengono solo a sé e che sono inesistenti o periferici in altri sistemi. L’Idealismo assoluto, ad esempio, non deve spiegare la “affinità” che le categorie possiedono per la realtà trascendente, una questione di importanza centrale nella critica Kantiana della conoscenza. Similmente, il problema dell’individuazione non esiste all’interno di una filosofia nominalistica dal momento che essa considera i particolari l’unica realtà e gli universali puri prodotti della mente o come indicatori “operazionali”. In modo simile, il Tomismo ha alcuni problemi che hanno senso solo all’interno della totalità delle concezioni Tomiste. Uno di questi problemi riguarda il modo in cui l’intelletto umano diviene consapevole dei particolari.
            Questo problema è di somma importanza. Sebbene, a prima vista, possa sembrare che la consapevolezza intellettiva dei particolari rappresenti solamente un dettaglio di minore importanza – uno di quelli che merita attenzione solo per amore di completezza della psicologia Tomista – esso è invece un problema che deve essere analizzato e risolto affinché non diventi un serio ostacolo per la filosofia Tomista. Questo pericolo diviene evidente quando si considerano i principi coinvolti: il principio di individuazione della materia, l’immaterialità dell’intelletto, e l’origine della conoscenza nella consapevolezza sensoriale. Nessuno può negare che questi principi siano fondamentali per la filosofia Tomista. Se li riteniamo tali, è doveroso spiegare in modo più chiaro come ha luogo la consapevolezza dei particolari. A questa delucidazione aspirano a contribuire le pagine seguenti.
            Durante gli ultimi trent’anni la psicologia sperimentale ha accumulato un numero di fatti apparentemente inconciliabili con i principi Tomisti della consapevolezza intellettuale. Certamente, ci sono fatti di cui San Tommaso fu assolutamente all’oscuro – essi sono stati scoperti solamente molti secoli dopo il suo tempo – e alcuni di essi presentano dei problemi per la filosofia Tomista. Si può provare ad applicare i principi della sua filosofia ed ideare una teoria dei fatti basata sui suoi principi, ma non ci si può aspettare di trovare una soluzione già pronta negli scritti dell’Aquinate. Ci sono altri problemi, tuttavia, di cui San Tommaso fu perfettamente consapevole, ma che hanno assunto un aspetto diverso dai suoi tempi a causa delle scoperte recenti. In questi casi ci si deve chiedere se le idee di San Tommaso possano essere preservate senza modifica, o se esse devono essere adattate ai fatti nuovi – senza però abbandonare i principi di base –. Infine, ci sono problemi che sorgono all’interno del sistema Tomistico in sé. Alcuni di questi problemi derivano da alcune oscurità nei testi, oppure le loro caratteristiche problematiche possono essere dovute ad alcune incompletezze ed indecisioni dell’autore. Il problema di come l’intelletto giunga a conoscere la materia particolare sembra essere uno di questi problemi di cui San Tommaso stesso non scoprì una soluzione completamente soddisfacente. Che questo possa essere il caso sembra essere indicato da una significativa modalità di espressione: parlando dell’intelletto che raggiunge la conoscenza delle singolarità attraverso quello che chiama “la riflessione nel o sopra il fantasma” (reflexio in vel super phantasma), San Tommaso non omette mai di qualificare la sua espressione chiamandola un “tipo di” (quaedam) riflessione, mentre menziona altre idee strettamente collegate a questa senza alcuna restrizione; tant’è che parla del ritorno “completo” (reditio completa) dell’intelletto su di sé. Sembra come se l’Aquinate stesso non fosse troppo soddisfatto della soluzione che proponeva e che aggiungendo la qualificazione, “un tipo di”, intendesse indicare la necessità di una ulteriore delucidazione.
            Il problema e la soluzione proposta da San Tommaso sono ben note. Sarà sufficiente una breve ricapitolazione. L’intelletto ha una conoscenza dei particolari materiali. Questo è evidente, dal momento che il giudizio è un’azione dell’intelletto e dal momento che tra i giudizi ce ne sono alcuni il cui oggetto è un particolare ed il cui predicato è un universale: Socrate è un uomo. Inoltre ci sono sillogismi in cui la premessa minore concerne un particolare, come nel classico esempio del modo barbara: Tutti gli uomini sono mortali, Caio è un uomo, Caio è mortale. A questi esempi, citati frequentemente, si possono aggiungere altri casi. Il semplice riconoscimento di una cosa come questa qui implica una conoscenza intellettiva del particolare. È vero, il semplice riconoscimento, ossia, la semplice conoscenza che io ho già visto questo oggetto in precedenza, non necessariamente comporta la cooperazione dell’intelletto; ma il preciso momento in cui io do un nome alla cosa, chiamandola un uomo, un cane, un tavolo, connetto un concetto universale con l’evidenza sensoriale della cosa, mettendo quindi in qualche modo assieme l’intelletto ed il particolare.
            Un altro gruppo di fatti che rende necessaria una conoscenza intellettiva del particolare ha a che fare con l’azione. Ogni azione ultimamente riguarda le cose e le situazioni particolari. Noi ci muoviamo verso di esse in accordo con i nostri principi e con le decisioni della nostra volontà. La volontà, però, è una facoltà intellettiva.
            E ancora, c’è il fatto che l’intelletto conosce le facoltà sensoriali che sono esse stesse materiali. Inoltre, l’intelletto sa che la sua nozione universale si applica ai particolari materiali – è naturale per l’universale essere il predicato di molti (universale natum est de pluribus predicari)[1]. L’intelletto sa, anche, da quale tipo di particolare la sua nozione è stata astratta attraverso il fantasma.
            Infine, abbiamo detto che l’intelletto necessita di ritornare al fantasma al fine di rendere chiaro a se stesso i concetti che ha formato. Quando abbiamo in mente una nozione generale e vogliamo fornire un'illustrazione di essa, ci rivolgiamo al fantasma. Questo può essere fatto solo se l’intelletto conosce in qualche modo il fantasma di cui abbisogna, altrimenti non potrebbe comandare l’immaginazione di produrre il fantasma giusto. Il fantasma stesso, però, è materiale.
            La risposta data da San Tommaso è ben nota. L'intelletto, ci dice, è incapace di una conoscenza diretta del particolare materiale perché l'intelletto è immateriale. Ogni conoscenza che l'intelletto ha del particolare è indiretta o accidentale. Questa conoscenza è ottenuta da un certo ripiegamento sul fantasma (quaedam reflexio ad phantasma), ossia, dall'intelletto che rintraccia i passi che conducono dal fantasma alle species intelligibili (species intelligibilis) e al concetto (verbum mentis) stesso.
            Non si può negare che la spiegazione sia lontana all'essere soddisfacente o, almeno, dall'essere completa. Molte domande sorgono e devono trovare risposta prima che questa teoria possa diventare veramente accettabile. Queste domande sono a volte alluse dall'Aquinate; ma non sono discusse nel dettaglio e non trovano risposta.
            Il problema della consapevolezza intellettiva dei particolari materiali[2] è strettamente collegato con l'idea generale che l'Aquinate ha formulato del ruolo giocato dalla consapevolezza sensoriale nella formazione dei concetti. Una discussione del problema può essere portata avanti solo se la tesi generale viene in qualche modo ricapitolata. È opportuno considerare la relazione tra immagine o fantasma e concetto, dal momento che c'è una contraddizione apparente tra la visione Tomista e la concezione della psicologia sperimentale riguardante “il pensiero senza immagine”.
            Prima di riportare le idee di San Tommaso e di riassumere i passaggi principali che hanno a che fare con il problema della relazione immagine-concetto e la consapevolezza intellettiva dei particolari, un appunto metodologico sembra indicato. Molti autori riportano i vari lavori dell'Aquinate come se questi scritti facessero tutti parte dello stesso periodo. Ma bisogna considerare la possibilità di un cambiamento d'opinione o di uno sviluppo delle idee anche in San Tommaso. Se è vero che non c'è, nella sua filosofia, una divisione tale come quella che si trova tra la fase pre-critica e quella critica nelle idee di Kant, non c'è neppure uno sviluppo tale come quello che le idee di Aristotele subiscono dal Protreptikos al De Anima. Ciononostante è sconsigliato  mettere, per esempio, lo Scriptum super Libros Sententiarum o le Questiones Disputatae de Veritate allo stesso livello della Summa Theologica o dei Commentari sul Corpus Aristotelicum.
            La prima parte di questo articolo riassumerà brevemente le visioni di San Tommaso sulla relazione tra immagine e concetto, o tra l'immaginazione e l'intelletto. Avendo così ottenuto un'idea comprensiva del punto di vista Tomista sulla questione che ancora deve trovare risposta, procederemo quindi a studiare in modo sommario i dati della psicologia sperimentale per quanto essi abbiano un'attinenza immediata con il nostro problema. La parte successiva avrà a che fare con le visioni proposte da alcuni vecchi trattati Tomisti ed altri più recenti. Infine, tenteremo di rispondere alla domanda e di sviluppare una teoria della consapevolezza intellettiva.

I

            Il classico passaggio Tomista sull'immagine ed il pensiero è, certamente, quello che si trova nella Summa Theologica, Parte I, Questione 84, Articolo 7. La tesi principale è contenuta nel primo paragrafo del corpo dell'articolo:
                Rispondo che, è impossibile per il nostro intelletto, nel presente stato di vita in cui l'anima è unita ad un corpo passibile, comprendere qualcosa in atto, senza rivolgersi al fantasma.[3]
Questo è provato da due argomenti, o indicia, presi dall'osservazione: allorquando le potenze sensitive, l'immaginazione e la memoria, sono indebolite, il funzionamento intellettivo è danneggiato. L'intelletto, quindi, necessita delle potenze sensitive per realizzare il proprio funzionamento.
            Quindi è chiaro che l'intelletto per comprendere realmente, non solo quando raggiunge una conoscenza nuova, ma anche quando utilizza una conoscenza già acquisita, ha bisogno dell'atto dell'immaginazione e delle altre potenze[4].
            Secondariamente, ognuno lo può sperimentare personalmente, il fatto che quando tenta di comprendere qualcosa, forma alcuni fantasmi che gli servono come degli esempi, nei quali esamina quello che desidera comprendere. È per questa ragione che quando vogliamo aiutare qualcuno a comprendere qualcosa, esponiamo prima degli esempi, da cui egli forma i fantasmi, con l'obiettivo di comprendere[5].

La natura universale esiste solo nella cosa particolare. Ma questa natura è l'oggetto dell'intelletto. I particolari, però, vengono appresi dalla consapevolezza sensoriale e rappresentati dal fantasma. L'intelletto, quindi, al fine di comprendere il suo oggetto proprio, deve “convertire se stesso” verso il fantasma. Solamente così può concepire la natura universale che esiste nel particolare.
            Neppure le cose incorporee – di cui può non esserci un'immagine – vengono concepite senza i fantasmi:
Le cose incorporee, di cui non esistono i fantasmi, vengono conosciute dal paragone con i corpi sensibili di cui esistono i fantasmi... E, quindi, quando comprendiamo qualcosa di queste cose, abbiamo bisogno di volgerci al fantasma dei corpi, sebbene non ci siano i fantasmi delle cose stesse[6].

            Così sembra che secondo San Tommaso non ci sia né la conoscenza intellettiva né ogni operazione intellettiva senza che l'immaginazione prenda parte al processo. Anche i concetti già formati non possono essere realmente compresi senza la riproduzione del fantasma e senza che l'intelletto si rivolga nuovamente al fantasma. La questione, però, solleva la domanda se questo fantasma deve necessariamente essere lo stesso da cui il concetto fu originariamente astratto o se un altro fantasma possa prendere il posto del primo. Inoltre, sembra incerto se il fantasma usato dall'intelletto nel considerare le cose incorporee sia di una tipologia tale da permettere una comprensione sufficiente della cosa considerata.
            La conversione al fantasma possiede, chiaramente, un doppio significato. Essa significa il volgersi dell'intelletto verso un fantasma al fine di astrarre la nozione universale per la prima volta; e significa il “ritorno” al fantasma al fine di pensare di nuovo o di rendere chiaro – a sé o ad un altro – la nozione già astratta e conservata nell'intelletto possibile (intellectus possibilis)[7]. L'acquisizione della conoscenza è raggiunta da tale conversione al fantasma nelle facoltà sensitive, chiamate immaginazione, ragione particolare (vis cogitativa), e memoria[8].
            C'è un problema particolare implicato in questo passaggio, che può essere menzionato solo incidentalmente. Qual è il significato preciso dell'affermazione secondo cui il fantasma è in tutte e tre le potenze sensitive? È certamente nell'immaginazione; lo è anche, sebbene in modo diverso, nella memoria dal cui magazzino, per così dire, l'immaginazione estrae i suoi materiali. Ma è difficile capire come il fantasma possa essere nella vis cogitativa.
            Lo stesso passaggio contiene un'altra affermazione interessante. L’azione dell'operazione intellettiva nel ritornare al fantasma coinvolge non solamente l'intelletto, ma anche le potenze inferiori. Queste potenze acquisiscono così una certa attitudine (quaedam habilitas) ad assistere l'intelletto nel concepire con maggiore facilità la natura intelligibile nei fantasmi. Questo rilievo è importante. Grazie ad esso è evidente che l'operazione dell'intelletto è associata con un'operazione di accompagnamento delle facoltà sensoriali[9]. Dobbiamo quindi supporre che esista un qualche coordinamento tra la parte intellettiva e quella sensoriale dell'anima.
            Il duplice significato di conversione implica un duplice “movimento” tra le due parti delle potenze sensitive ed intellettive. Nella formazione originale di un concetto attraverso l'astrazione c'è un “movimento” dai sensi all'intelletto; nel “ritorno” dell'intelletto al fantasma c'è un movimento dalla mente al senso (motus ab anima ad sensum)[10].
            Non sfugge a San Tommaso che il fantasma a volte non è quello da cui la nozione è stata astratta. C'è un passaggio nelle Q. D. de Veritate che riporta:
Così nella visione intellettiva, si può vedere la vera essenza di una cosa senza guardare la rappresentazione della cosa stessa, sebbene qualche volta si vede questa essenza attraverso un'altra rappresentazione, come sappiamo dall'esperienza[11].

D'altra parte, uno stesso fantasma può servire come materiale per l'astrazione di diversi universali e, di conseguenza, essere utilizzato nel “ritorno” dell'intelletto come un esempio per differenti concetti[12].
             San Tommaso sembra anche ammettere che ci siano alcuni concetti a cui non corrisponde alcun fantasma come di una rappresentazione strettamente parlando. Il concetto di genus, per esempio, “non è una rappresentazione di niente di esistente al di fuori della mente”[13]. Egli sottolinea ripetutamente anche che alcune cose non possono essere rappresentate direttamente da immagini. Queste cose le conosciamo dalla relazione di causa e di effetto, o da un'altra relazione. Quest'ultimo è il caso del concetto di causa prima: “...esso (l'intelletto) non conosce la causa prima se non come commisurata ad una forma”[14].
            Bisogna distinguere il pensiero di un concetto semplice ed isolato da altri contenuti dell'intelletto. Quando parla della conversione al fantasma, San Tommaso sembra riferirsi sempre a nozioni singole che devono essere “ispezionate” nel fantasma al fine di essere realmente comprese. Ma è apparentemente diverso per le proposizioni. Le proposizioni sono unità, perché esse hanno un solo significato. L'operazione intellettiva che trova la sua espressione in una proposizione non è una serie di passi isolati. Tali serie non possono mai risultare in un significato a meno che non ci sia un'altra potenza sintetizzatrice. L'intelletto pensa attraverso la sua capacità di “combinare e dividere” l' “oggetto” di una frase in quanto unica. (Questo oggetto unico è quello che Bolzano ha chiamato la proposizione per seSatz an sich – o quello che Meinong intende con il suo termine Das Objectiv). San Tommaso compara la comprensione o il concepimento di una sentenza con la consapevolezza di un continuum.
...comprendiamo un continuum simultaneamente, e non parte dopo parte; e in modo simile comprendiamo una proposizione, e non prima il soggetto e poi il predicato; perché conosciamo tutte le parti secondo una specie del tutto[15].
                In questo modo il nostro intelletto comprende insieme sia il soggetto che il predicato, come parti di una proposizione; ed anche due cose paragonate assieme, a seconda che convengano in un punto di paragone. Da questo è evidente che molte cose per quanto siano distinte, non possono essere comprese come una; ma per quanto esse siano comprese sotto un concetto intelligibile, esse possono essere comprese assieme. Ora ogni cosa è effettivamente intelligibile a seconda che la sua immagine sia nell'intelletto. Tutte le cose, quindi, che possono essere conosciute da una specie intelligibile, sono conosciute come un oggetto intelligibile, e quindi sono conosciute simultaneamente[16].

            Una proposizione, quindi, è compresa senza un fantasma corrispondente. Un tale fantasma è quindi impossibile. I fantasmi sono piuttosto immagini di particolari, o sono particolari che illustrano o simbolizzano una nozione generale. Ci sono anche fantasmi che simbolizzano relazioni, qualche volta anche piuttosto complesse. Ma ci sono senza alcun dubbio molte relazioni e molte proposizioni che esprimono queste relazioni che, per loro natura, non possono essere simbolizzate da alcun fantasma. L'importanza enorme di questo appunto di San Tommaso diverrà chiaro nella connessione con la questione del “pensiero senza immagine”.
            Ci sono, apparentemente, due significati del termine comprendere (intelligere). Da una parte, questo termine indica la consapevolezza intellettiva di una natura universale; qui il senso originale di intus legere sembra essere quello appropriato. Dall'altra, intelligere indica tutti i tipi di operazioni intellettive all'infuori dell'astrazione e della formazione del concetto. Intelligere nel primo senso pretende la conversione al fantasma. Ma San Tommaso evidentemente ha considerato la possibilità che ci siano delle gradualità in questa operazione. Almeno due volte[17] sottolinea che i fantasmi sono particolarmente necessari alle persone con una capacità intellettiva ridotta; a questi ultimi devono essere forniti degli esempi particolari per permettere loro di comprendere le idee universali.
            Nel riportare le visioni di San Tommaso sulla conoscenza intellettiva dei particolari una procedura più o meno cronologica sembra essere consigliata dal momento che c'è una certa modificazione che deve essere osservata nel suo insegnamento – se non nei concetti essenziali, almeno nelle modalità di formulazione.

1. Nel suo Commento sui Quattro libri delle Sentenze, San Tommaso, dopo aver riassunto il problema, dà questa soluzione:
In questa consapevolezza che è acquisita attraverso le forme che sono le cause delle cose, o attraverso la rappresentazione di tali forme, si arriva ai particolari sebbene le forme stesse siano interamente immateriali; la ragione di questo è che la causa prima di una cosa è quella che mescola l'essere (esse) dentro le cose, ma l'essere (esse) riguarda sia la materia che la forma. Da ciò le forme di questo tipo portano direttamente ad una conoscenza di entrambe, ossia, di materia e di forma; e per questa ragione le cose sono conosciute sia in universale che in particolare attraverso tale consapevolezza.
                L’anima, quindi, quando è unita al corpo, non conosce se non attraverso le forme ricevute dalle cose, e quindi non conosce direttamente i particolari attraverso quella facoltà conoscitiva in cui le forme sono ricevute dalle cose in modo totalmente immateriale, ma solo attraverso le potenze attribuite agli organi.
                Indirettamente, però, ed attraverso una qualche riflessione, essa conosce i particolari anche attraverso l’intelletto – che non adopera un organo – come accade quando dal suo oggetto proprio esso ritorna alla conoscenza del suo atto, e dall’atto ritorna alla species, che è il principio del conoscere, e da lì procede a considerare il fantasma da cui la species è stata astratta, e in questo modo conosce il particolare attraverso il fantasma[18].

            L’intelletto è in grado di fare uso dei particolari nelle proposizioni e nei sillogismi in quanto si ricurva verso le funzioni sensitive (in quantum reflectitur ad potentias sensitivas) ed è in qualche modo in contatto con esse (quodammodo continuatur cum eis). L’intelletto conosce grazie ad una forma immateriale che può essere l’origine della conoscenza sia degli universali che dei particolari (forma…quae potest esse principium cognoscendi universale et singolare)[19].
            Rispetto all’interessante ed importante nozione di una “continuità” tra l’intelletto e le facoltà sensoriali, San Tommaso si appella alla ragione particolare, o vis cogitativa, in quanto medium tra questi due livelli di operazioni mentali:
                L’intelletto pratico, come si dice nel libro III del De Anima, al fine di fare ordine riguardo i particolari necessita della ragione particolare attraverso la cui mediazione il giudizio universale può essere applicato ad un lavoro particolare, come accade in un sillogismo in cui la premessa maggiore è un universale  un giudizio dell’intelletto pratico – mentre la minore è un particolare – la valutazione della ragione particolare, che con un altro nome è chiamata vis cogitativa – e dove la conclusione consiste nella scelta del lavoro[20].

            Si dice che la vis cogitativa sia all’interno dei confini delle parti sensitive ed intellettive dove la parte sensitiva raggiunge l’intelletto[21].
            Chiunque, considerando queste affermazioni, si rende conto di una certa oscurità, o almeno, di una certa incompletezza. La nozione di continuazione e l’esatta natura della vis cogitativa necessitano di ulteriori accertamenti. Inoltre, non è facile comprendere come l’intelletto giunga alla conoscenza delle species intelligibili (species intelligibilis impressa), dal momento che quello che conosce è il verbum mentis o la species espressa, avendo la specie impressa più la natura di un processo che di un contenuto. Infine c’è il problema del significato preciso del “tipo di” conversione o riflessione.

2. San Tommaso poi ha scritto la frase seguente nelle Quaestiones Disputate de Veritate: L’intelletto è in grado di conoscere la verità. Ma i giudizi di verità possono riferirsi agli universali o ai particolari. La verità di un giudizio di quest’ultimo tipo, anch’esso, dev'essere corroborato dalla riflessione intellettiva. Questa è un’ulteriore ragione per accreditare l’intelletto di una conoscenza dei particolari, dal momento che la verità è conosciuta da una riflessione dell’intelletto sul proprio atto e sulla relazione che questo atto genera con la cosa stessa.
(La verità) è conosciuta dall’intelletto a causa del fatto che l’intelletto riflette sul proprio atto; non solo conosce il suo atto, ma conosce il riferimento alla cosa[22].

            Ma non c’è una diretta conoscenza intellettiva dei particolari materiali. L’intelletto entra in contatto con i particolari solo accidentalmente:
fin quando continuano le potenze sensitive che hanno a che fare con i particolari. Questa continuità, però, è duplice. In un modo avviene grazie alla conclusione del movimento della parte sensitiva nella mente, come accade nel movimento che va dalle cose all’anima; così la mente conosce il particolare attraverso una certa riflessione, proprio come la mente nel conoscere il suo oggetto proprio – che è di natura universale – torna indietro alla conoscenza del suo atto, e va fino alle species, che è il principio del suo atto, e quindi va ancora più indietro fino al fantasma da cui la species è stata astratta, ed in questo modo riceve una qualche conoscenza del particolare.
                In un altro modo, (la continuità avviene) attraverso il movimento dall’anima verso la cosa, che inizia dalla mente e procede verso la parte sensitiva; così la mente regola le potenze inferiori, e coinvolge se stessa con i particolari attraverso la mediazione della ragione particolare – una facoltà individuale che è anche conosciuta come la potenza cogitativa (vis cogitativa).
                È impossibile applicare la proposizione universale in una mente che opera con l’atto particolare se non attraverso una potenza intermedia in grado di apprendere il particolare[23].

            La formazione di una proposizione circa i particolari viene spiegata ancora attraverso una tipologia di riflessione (per quondam reflectionem)[24]. Si ha l’impressione, però, che San Tommaso stesso non consideri questa soluzione come sufficiente o definitiva. Sottolinea che l’intelletto, essendo totalmente libero dalla materia, può essere l’origine solamente della conoscenza universale, eccetto forse per una sorta di marcia indietro verso il fantasma da cui la species intelligibile è stata astratta[25].
            Può essere degno di nota il fatto che ci sia un piccolo cambiamento di espressione in questi passaggi. Mentre il Commentario sulle Sentenze parla di un intelletto che considera il fantasma e si flette su se stesso, il termine riflessione verso o sopra il fantasma (reflexio ad – o supra – phantasma), si trova prima nel De Veritate ed è ripetuto con continuità in seguito.

3. Nel cinquantanovesimo capitolo del Libro II della Summa Contra Gentiles, c’è un appunto che intende rendere chiara la natura della continuità (continuatio):
Pertanto attraverso la forma intelligibile l’intelletto possibile entra in contatto con il fantasma che è in noi, allo stesso modo in cui la potenza visiva entra in contatto con il colore, che è dentro la pietra. Ma questo contatto non fa che la pietra veda ma che sia vista.

Il significato è che la relazione tra la potenza cognitiva e l’oggetto di cui questa potenza diviene consapevole è unilaterale. Le proprietà della pietra non sono alterate dal suo essere vista o dalla potenza della visione che continua sulla pietra. In modo simile, il fantasma non diventa intelligibile come tale dall’intelletto che continua su di esso. C’è, comunque, una grande differenza tra questi due casi. Il medium tra la pietra e l’occhio o la facoltà della visione è della stessa natura di entrambi i termini; sia la pietra che il senso appartengono all’ordine materiale, anche se il senso è “nobilitato” ad organo del composto umano, “a contatto” con l’ordine spirituale. Ma l’intelletto è immateriale e il fantasma è materiale. È vero che il fantasma non contiene la materia individuale della cosa particolare che rappresenta; ma è materiale grazie alla sua natura, dipendendo da un organo per la sua esistenza. Il riferimento alla visione e all’oggetto osservato non è quindi molto d’aiuto. Ci si può riferire, specialmente in riferimento al ruolo giocato dalla vis cogitativa, al principio secondo cui il livello più alto di un ordine tocca, o eventualmente coincide con, il livello inferiore dell’ordine più alto successivo[26]. Ma nell’applicare questo principio al problema della relazione tra l’intelletto ed il fantasma la difficoltà permane come prima. È piuttosto questo il caso, poiché nulla è conosciuto fintanto che non è in atto, e mai fintanto che è in potenza[27]. Ma il fantasma non può mai diventare realmente intelligibile; lo diventa solo potenzialmente in quanto rende possibile il disimpegno della forma universale ed astratta[28].
            È stato sottolineato che il problema della relazione tra le potenze intellettive e sensitive sorge non solo nei confronti della conoscenza ma anche riguardo alla volontà ed all’azione. L’imperium esercitato dalla parte intellettiva dell’anima sulle potenze sensitive non è un problema minore: come può l’immateriale dominare la materia senza essere “mescolato” con essa in una modalità che è più che accidentale? L’Aquinate afferma ripetutamente questo dominio della potenza da parte delle facoltà superiori. Così, per esempio, nell’ottantunesimo capitolo del Libro II della Summa Contra Gentiles: “…la potenza sensitiva è soggetta all’intellettiva, ed è controllata dal suo dominio”.
            C’è un altro fatto ancora che mostra che l’intelletto è coinvolto con l’ordine materiale. I giudizi sono dell’intelletto; ma nell’esprimere i nostri giudizi facciamo uso di determinazioni temporali; il presente, il passato, ed il futuro sono segni caratteristici di ogni proposizione. L’intelletto è al di là del tempo. Il tempo misura solo il movimento in riferimento allo spazio e può essere applicato solo a qualcosa che è in qualche modo nello spazio. Nel formare le sue proposizioni attraverso la composizione o la divisione l'intelletto applica gli intelligibili che ha precedentemente astratto dalle cose[29]. Ma applicando le nozioni alle cose, l’intelletto, a quanto pare, deve essersi impadronito in qualche modo delle cose. Ancora si è messi di fronte alla difficoltà di spiegare come l’intelletto riesca ad impadronirsi dei contenuti materiali.

4. Nella Summa Theologica, l’Aquinate affronta il problema soprattutto nella Prima Parte, Questione Ottantasei, Articolo Uno e Questione Ottantanove, Articolo Quattro. Ma l’argomentazione della Summa è ripresa lungamente nella Questio Disputata De Anima, e sarà riportata assieme ad altri passaggi presi da quest’ultima.
            La relazione delle facoltà intellettive con le cose materiali è discussa soprattutto in connessione con l’azione e, specialmente, con l’habitus della prudenza. Le azioni sono dei particolari e devono procedere dalle ragioni che riguardano questi particolari. La ragione o intelletto
…primo e soprattutto si occupa degli universali…; le conclusioni dei sillogismi non sono solo universali, ma anche particolari perché l’intelletto attraverso un tipo di riflessione si estende sulla materia[30].
La prudenza non risiede nei sensi esterni…ma nel senso interno, che è perfezionato dalla memoria e dall’esperienza così da giudicare propriamente l’esperienza particolare…essa (la prudenza) è primariamente nella ragione, però attraverso un tipo di applicazione si estende al senso[31].

E:
…la comprensione che è una parte della prudenza è una giusta stima di un qualche fine particolare[32].

Si incontra qui ancora una volta “un tipo di” riflessione (quaedam reflexio) attraverso cui l’intelletto “si estende”[33] verso la materia. Ma c’è qualcosa in più. Abbiamo parlato di un tipo di applicazione (quaedam applicatio) che abilita l’intelletto a raggiungere un senso interno. Non può esserci dubbio, sebbene il termine non sia menzionato, che sia la vis cogitativa a cui l’allusione è rivolta. Questo passaggio è degno di nota perché indica una certa difficoltà nei confronti della relazione dell’intelletto coi sensi interni; dal momento che questi ultimi sono di tipo materiale ci si può chiedere quale tipo di applicazione questa possa essere.
            Mentre abbiamo detto da una parte che l’intelletto giunge a conoscere il particolare solo accidentalmente, sentiamo dall’altra che questa conoscenza è essenziale alla perfezione dell’intelletto. Una piena conoscenza della realtà è possibile solo attraverso una conoscenza dei particolari; solo le cose particolari sono complete[34]. La conoscenza del solo universale è una conoscenza indistinta[35]. La realizzazione dell’intelletto è di conoscere la verità; ma la verità dei soli universali è incompleta e solamente metà della verità. La conoscenza intellettiva dei particolari, essendo accidentale per quello che riguarda la sua modalità di origine, è necessaria per la perfezione dell’intelletto.
La conoscenza dei particolari appartiene alla perfezione dell’anima intellettiva non nella conoscenza speculativa, ma nella conoscenza pratica, che è imperfetta senza la conoscenza dei particolari, nella quale esistono le operazioni…[36]

In un famoso passaggio, San Tommaso sostiene che l’anima intellettiva sia potenzialmente disposta a ricevere le species. Con “species” si intendono le immagini di cose particolari, perché San Tommaso dice: “L’anima intellettiva è immateriale in atto, ma è in potenza per determinare la species”[37]. Ovviamente, nessun’altra interpretazione di “species” starà in piedi; l’opposizione di immaterialità e species non può avere un altro significato.

5. Questio Disputata De Anima. L’idea che nessuna conoscenza degli universali possa portare ad una conoscenza dei particolari viene enfatizzata in questa questione. Nessuna combinazione degli universali è completamente individuale così da costituire una cosa particolare, per questo è sempre possibile che la stessa combinazione degli universali si trovati in un altro particolare[38]. La conoscenza della realtà, quindi, dipende dalla conoscenza dei particolari, ma l’immateriale non può diventare il principio di una conoscenza dei particolari materiali[39]. Questo rilievo riferisce dell’anima separata che si dice conoscere i particolari solo nell’universale[40]. Lo stesso è sostenuto per l’intelletto dell’anima unita al corpo, perché “un’anima mentre è congiunta al corpo non può conoscere i particolari attraverso l’intelletto”[41] ma questo significa, evidentemente, solo attraverso l’intelletto e non esclude la consapevolezza intellettiva dei particolari attraverso la cooperazione delle facoltà intellettive e sensoriali. Questo è espressamente affermato nella risposta alla prima obiezione:
L’anima mentre è congiunta al corpo conosce le cose particolari attraverso l’intelletto, sebbene questa conoscenza sia ottenuta, non direttamente, ma attraverso un tipo di riflessione. Così, quando l’intelletto ha compreso o afferrato l’universale, esso ritorna alla considerazione del suo atto proprio, la species intelligibile, che è il principio del suo atto, e l’origine della species. In questo modo, esso giunge alla considerazione del fantasma e delle cose particolari con cui il fantasma è coinvolto. Questo processo di riflessione può essere completato solo attraverso l’assistenza della potenza cogitativa, o dell’immaginazione[42].

La cooperazione dell’immaginazione è data per scontata, dal momento che questa potenza deve fornire il fantasma all’intelletto, e la cooperazione della vis cogitativa è anch’essa necessaria. Questo però, non risolve la difficoltà. Anche se l’intelletto fosse in grado di “estendere” se stesso alle facoltà sensoriali, il modo, o la natura, di questa “estensione” non è evidente. Più ancora, la natura dell’ “azione” dei sensi sull’intelletto non è chiara. San Tommaso riferisce di questa azione in una discussione sulla possibile presenza delle funzioni sensoriali in un’anima separata[43]. Paragona il prodotto delle funzioni sensoriali ad una nave che trasporta le persone da una parte all’altra di un fiume, e che non è più necessaria una volta che le ha portate sull’altra sponda. Così, le immagini che predispongono la ricezione delle species intelligibili non sono più necessarie dopo che queste species si sono formate. Questo si applica solo per la conservazione delle species nell’intelletto; nei confronti dell’operazione intellettuale San Tommaso considera il fantasma indispensabile. Nel De Memoria et De Reminiscentia, per esempio, egli dice: “L’intelletto possibile dell’uomo necessita dei fantasmi, non solo per l’acquisizione delle species intelligibili, ma anche per ogni riesame che voglia compiere delle species acquisite, nei fantasmi”[44].

6. Nel Boethii de Trinitate la necessità di cooperazione delle potenze inferiori è ancora una volta sottolineata:
La conoscenza ha a che fare principalmente con le nature universali su cui essa è costruita. Secondariamente, e attraverso un tipo di riflessione, ha a che fare con altre cose. In questo modo, la conoscenza tratta di quelle cose che appartengono alle nature universali, in quanto applica a quelle nature le cose particolari che appartengono alle potenze inferiori[45].

In questo trattato, San Tommaso parla anche di “una connaturalità del nostro intelletto al fantasma”, espressione che indica che l’intelletto è, per così dire, indifeso senza il fantasma. Un’altra questione riferisce del tipo particolare di fantasmi verso cui l’intelletto si muove quando rinnova la sua comprensione di alcuni concetti formati precedentemente:
In questa vita, il nostro intelletto non può conoscere senza un fantasma, ma questo non significa che la nostra conoscenza sia così accecata dal fantasma tanto da giudicare che le cose conosciute siano, in ogni aspetto, esattamente come il fantasma attraverso cui conosciamo[46].

Sebbene questo rilievo abbia a che fare primariamente con la nostra conoscenza delle sostanze immateriali (il corpo dell’articolo nota che le somiglianze delle cose sensibili, quando usate per rappresentare le sostanze immateriali, sono chiamate da Dionysius “simili dissimili”), il fatto psicologico che comporta ha un’importanza generale. Nell’acquisire la conoscenza, il fantasma è necessario, per quanto spirituale questa conoscenza possa essere; questo è fuori di dubbio[47]. Il fantasma, però, non ha bisogno di avere una vera somiglianza con la cosa o le cose “significate” dal concetto. Piuttosto, il fantasma da cui l’intelletto inizia a formarsi un’idea di un oggetto immateriale può essere semplicemente un effetto dell’oggetto immateriale, e l’idea è arrivata attraverso la causalità, la negazione, o l’eccellenza.

7. Nei Libros Arist. De Anima, i vari passaggi che si riferiscono al nostro problema riproducono quello che si è detto prima. Non è necessario riportarli in extenso; solo un rilievo contiene un punto di vista speciale che non deve essere ignorato, precisamente,
Non saremmo in grado di sentire la differenza tra una cosa dolce ed una cosa bianca, a meno che non ci siano alcune potenze sensitive [ossia, il senso comune, San Tommaso, In De An., III, 3, n. 601] che le comprendono entrambe. Così, anche, non saremmo in grado di comprendere il confronto dell’universale con il particolare, se non ci fossero alcune potenze sensitive che li comprendono entrambi. L’intelletto, quindi, conosce sia l’universale che il particolare, ma li conosce ognuno in un modo differente[48].

Nella consapevolezza sensoriale, il senso comune è oltre i sensi esterni, di cui è, allo stesso tempo, la radice e la sintesi. Dal momento che nell’ordine intellettivo non c’è una facoltà più alta dell’intelletto stesso, la conoscenza dell’universale e del particolare deve essere realizzata dall’intelletto. Qui sorge una difficoltà. Il “confronto dell’universale con il particolare” viene espresso in una proposizione. La proposizione è un’unità; non consiste di pezzi separati, come se l’intelletto si muovesse, prima verso il fantasma che rappresenta il soggetto, quindi verso l’universale per essere usato come predicato. Sembra, quindi, che i modi attraverso cui l’intelletto conosce i due termini potrebbero essere di un certo tipo al fine di permettere la loro congiunzione nell’unità della proposizione, ma l’universale è conosciuto direttamente, ed il particolare attraverso la “riflessione”. Di questa differenza non c’è alcuna esperienza nell’atto del giudizio per quanto ne sappiamo. (È vero, però, che questi dettagli dell’operazione intellettiva non sono stati studiati a sufficienza attraverso gli esperimenti. Questo è uno dei molti problemi che ancora attende un’analisi sperimentale).

8. Quodlibet, I, a. 1, c., contiene due rilievi che devono essere considerati. Il primo dice che affinché un particolare sia conosciuto è necessario che ci sia una somiglianza con il particolare, per quanto esso sia un particolare, nella potenza cognitiva. Dal momento che l’intelletto giunge ad una conoscenza del particolare attraverso la riflessione, ci deve essere una tale somiglianza nell’intelletto. È difficile immaginarne la natura.
            L’altro rilievo ripete la teoria della “riflessione”, ma c’è una lieve differenza nell’espressione. La riflessione è detta mossa, non sul fantasma che è un prodotto della potenza dell’immaginazione, ma sulle potenze sensitive stesse – reflexio ad potentias sensitivas.

***

I passaggi riportati sopra non contribuiscono molto nel rimuovere le oscurità che abbiamo notato nei confronti della teoria Tomista della conoscenza intellettiva dei particolari. Non è chiaro quale tipo di operazione questo “ritorno al fantasma” sia, e neppure lo sono le ragioni che rendono possibile l’evidenza. Come l’intelletto materiale sia in grado di “estendere” se stesso verso le potenze sensitive, che sono materiali, rimane inspiegato, ed è lo stesso con il problema di come l’intelletto possa ritornare alle species intelligibili, che sono apparentemente di una natura tale da non essere oggetti dell’operazione intellettiva. Prima di tentare qualche tipo di delucidazione della teoria Tomista è bene considerare i fatti, dal momento che San Tommaso stesso indirizza il lettore, più di una volta, verso l’esperienza come una prova della sua concezione dell’operazione intellettiva. È attraverso l’esperienza che sappiamo che gli universali hanno la loro origine nel fantasma; l’esperienza ci dice che dobbiamo tornare al fantasma per la chiarificazione di una nozione già acquisita.

II

Nonostante le difficoltà e le oscurità accennate in precedenza, la psicologia Tomista è, in molti sensi, più moderna di quanto ci si potrebbe aspettare a prima vista. Benché non affronti tutti i fatti, è maggiormente in accordo con la realtà rispetto alla psicologia che fu accolta ed insegnata per tutto il periodo che va dall'inizio della ricerca sperimentale fino al ventesimo secolo. La psicologia sensista ed associazionista si è dimostrata incapace di avere a che fare con alcuni problemi, specialmente con quelli che riguardano le operazioni più elevate della mente. Il cambiamento è avvenuto quando O. Kuelpe ha iniziato le sue indagini sui processi del pensiero. Kuelpe non era l'unico, ma la sua scuola, chiamata la Scuola di Wuerzburg, portò a compimento il volume di lavoro più grande in quel periodo. Richiederebbe troppo tempo dettagliare qui i vari fattori che hanno determinato questo cambiamento di prospettiva nella psicologia, ma uno di questi fattori dovrebbe essere menzionato. La filosofia di Husserl, benché non psicologica nelle sue intenzioni, diventò molto influente nella psicologia. Husserl era un allievo di Brentano e fu molto impressionato dagli scritti di B. Bolzano, che ha insegnato filosofia all'Università di Praha nella prima metà del diciannovesimo secolo. Entrambi, Brentano e Bolzano, sotto tutti i punti di vista, avevano familiarità con la filosofia Aristotelica e Tomista; Bolzano era un prete Cattolico, e Brentano lo è stato fino a quando ha lasciato la Chiesa perché non voleva accettare le decisioni del Concilio Vaticano. La filosofia di entrambi contiene una buona quantità di Scolastica. Così, sotto l'influenza della filosofia di Husserl, da una parte, e lo sviluppo logico della psicologia e la forza dei fatti, dall'altra, si può vedere un determinato riavvicinamento tra la psicologia sperimentale moderna e quella speculativa medievale. Quest'ultima, però, non fu semplicemente speculativa come molti, che hanno poca familiarità con i lavori originali, credono; i ripetuti riferimenti di San Tommaso all'esperienza sono sufficienti da soli a mostrarlo. Per l'Aquinate “sperimentale” non significa un esperimento nel senso moderno della parola, ma significa tener conto dei fatti osservabili. Lui, come molti altri Scolastici, fu un osservatore acuto e giudizioso.
            Le affermazioni fatte da San Tommaso sui processi intellettivi sono, principalmente, le seguenti:
1. La nozione universale, o il concetto, è derivata dall'attività dell'intelletto che utilizza un fantasma, o immagine, come forma materiale da cui astrarre l'universale. Di questo, San Tommaso dice, siamo resi consapevoli dall'esperienza.
2. Facciamo uso del fantasma, non solo al fine di raggiungere l'universale per la prima volta; dobbiamo ritornare al fantasma ogni volta che pensiamo la nozione universale nuovamente. Abbiamo bisogno del fantasma anche per chiarificare ad un'altra persona il significato della nozione astratta.
3. Il fantasma, verso cui l'intelletto ritorna quando pensa nuovamente un concetto che già esiste nella mente, non necessita di essere esattamente la stessa immagine che è servita come base per il processo di astrazione.
4. Al fine di “rendersi conto” di un concetto di oggetti immateriali, può essere utilizzato un fantasma che possiede poca somiglianza, se ne ha qualcuna, con l'oggetto inteso attraverso concetto. Tutti i concetti, comunque, richiedono l’intervento di un fantasma se devono essere pensati con un significato.
5. Ci sono alcune operazioni intellettuali che, seppure ultimamente basate sui fantasmi, non possiedono un fantasma che corrisponde esattamente ad esse. Tutte le proposizioni appartengono a questa classe; il significato della proposizione non può essere “contenuto” nel fantasma che corrisponde ai termini della proposizione.
6. L'intelletto è incapace di ripescare direttamente ogni particolare. Esso, però raggiunge una conoscenza del particolare indirettamente, tornando sui passi attraverso cui l'universale è stato ottenuto in origine, e arrivando alla fine ad una “riflessione sul fantasma”[49].
            Nel considerare le affermazioni della psicologia moderna sul “pensiero senza immagine”, bisogna distinguere tra la consapevolezza di un singolo concetto e la consapevolezza di una relazione tra concetti (o tra universale e particolare). L'affermazione che le proposizioni possono essere pensate senza che intervenga alcuna immagine non è totalmente opposta alle visioni di San Tommaso. Il Dottore Angelico probabilmente avrebbe accettato le osservazioni che mostrano l'esistenza del “pensiero senza immagine”, per quanto questi fatti riguardino il pensiero delle proposizioni. Egli sapeva, come ogni Scolastico sapeva da Agostino, che il pensiero, ad es., il pensare le relazioni in quanto espresse attraverso una frase, può esistere senza le immagini delle parole. Il principio “ogni frase detta è preceduta da una frase di pensieri senza parole” è stato enunciato per primo da Sant'Agostino, nella sua De Doctrina Christiana, ed è un luogo comune negli autori medievali che hanno a che fare con il linguaggio. È riportato da William di Occam nella sua Summa Totius Logicae; Tommaso la utilizza come una fonte autorevole. Non c'è quindi ragione per ogni Scolastico di dubitare la validità dell'evidenza sperimentale che riguarda il pensiero senza immagine, per quanto questa evidenza si riferisca esclusivamente al pensare le proposizioni, o quegli stati mentali da cui scaturiscono le proposizioni formulate.
            È differente la questione del pensiero senza immagine dei concetti singoli. Qui l'Aquinate sostiene, in un modo che non lascia spazio al dubbio, che nessun concetto può essere pensato senza che ci sia nella coscienza un fantasma corrispondente. Nella discussione di questo punto, ci sono due domande: 1) È  realmente vero che non pensiamo mai un concetto fin tanto che questa operazione intellettiva non è associata ad una immagine? 2) Se questo è il caso, il fantasma è un elemento indispensabile nel rendimento mentale complessivo, o è soltanto una qualità accidentale senza la quale un concetto può essere pensato, benché sia generalmente richiesta?
            Non può esserci dubbio che siamo consci di immagini che ci accompagnano in molte occasioni di pensiero-concettuale, e che adoperiamo le immagini frequentemente per il nostro utilizzo, specialmente nello spiegare delle nozioni astratte agli altri. Anche i concetti che, come tali, non hanno niente a che fare con la realtà tangibile possono essere illustrati dalle immagini, ad es., dallo schema logico di Eulero, o dall'Arbor Porphyreana.
            Ci si può domandare, però, se non ci siano alcuni concetti che, per la loro natura, non ammettono alcuna immaginazione. In alcuni casi, le immagini che sorgono dal pensare tali concetti sono più un ostacolo che un aiuto alla comprensione. La matematica moderna ha introdotto molte nozioni che rifuggono tutti i tentativi di visualizzazione; una semplice occhiata ad alcuni dei più recenti trattati sulla fisica atomica, o sulla meccanica delle onde, evidenziano questo punto. Ad esempio, esiste un'immagine che sia davvero d'aiuto per comprendere nozioni come le onde di probabilità, lo spazio sei-dimensionale, la curvatura dello spazio? Il matematico o il fisico devono possedere un'immagine o una qualche formula che esprima o implichi una di queste nozioni, ma esse possono anche essere comprese da qualcuno che è incapace di maneggiare questi simboli matematici.
            Anche se è accettato che un tipo di immagine sorge quando pensiamo a queste nozioni, ci si potrebbe ancora chiedere se queste immagini siano essenziali per la nostra comprensione. Esse potrebbero essere dei semplici accidenti dovuti ad alcuni abiti della mente che sono attualizzati anche in quegli ambiti dove le immagini stesse non sono solo superflue, ma persino di disturbo. Alcuni autori pensano di aver trovato l'evidenza della presenza costante delle immagini, ma alle loro scoperte si oppongono quelle della maggior parte degli psicologi sperimentali che hanno studiato queste questioni.  Gli autori che sostengono di aver mostrato la necessità delle immagini hanno mostrato, infatti, solamente la loro ubiquità, purché, certamente, le loro scoperte siano corrette. Essi hanno trascurato di indagare il ruolo giocato dalle immagini nella comprensione intellettiva.
            L'opposizione di alcuni autori all'esistenza del “pensiero senza immagine”  si basa più sul pregiudizio che sull'evidenza sperimentale. Questo è vero, non solo per alcuni Neo-Scolastici che credono che questa nozione contraddica le affermazioni dell'Aquinate, ma anche per alcuni psicologi che avvertono che le loro posizioni sensiste o associazioniste diventino indifendibili nel momento in cui l'esistenza del pensiero senza immagini venga riconosciuta. Quando, nel 1906, R. S. Woodworth riferì del “pensiero senza immagine”[50], Angell rifiutò questa espressione nel nome dell' “ortodossia danneggiata”[51].
            La dimostrazione della possibilità del pensiero senza immagine dipende dalla tipologia mentale degli osservatori. Possono esserci persone che sono incapaci di rilasciare le immagini del tutto, o di distinguere le immagini essenziali per i processi di pensiero da quelle che sorgono solo accidentalmente e non hanno nulla in comune con la nozione considerata. Questo pericolo di essere ingannati da un tipo particolare di formazione mentale è tanto maggiore, quanto minore è il numero di osservatori. Così, gli spunti critici di T. D. Cutsforth[52] si basano sugli esperimenti con un osservatore e, quindi, non hanno alcun peso.
            Bisogna badare, inoltre, a non confondere alcuni fatti mentali con le immagini, perché i primi a volte portano essi stessi alla simbolizzazione attraverso delle immagini tangibili. Quelli che G. E. Mueller o O. Selz chiamerebbero “complessi”, o quelli che G. C. Myers riferisce come “patterns”[53] possono essere simbolizzati da alcuni schemi tangibili. (Nel descrivere l’efficacia dei complessi, Selz parla di “anticipazione schematica”. Questo termine non vuole significare alcuna immagine concreta, ma la sua scelta indica la possibilità suddetta). Questo non prova, però, che questi patterns o schemi siano, come tali, di una natura palpabile.
            Le obiezioni sollevate contro l’affermazione che esiste il pensiero senza immagine possono essere considerate invalide e basate su di un’evidenza insufficiente. Possiamo, quindi, procedere a riportare le osservazioni che dimostrano il pensiero senza immagine.
            Tra i risultati della moderna indagine sperimentale, bisogna elencare prima il rinnovato riconoscimento di una differenza essenziale tra immagine o percezione, da una parte, e concetto, dall’altra. Gli psicologi più anziani, che erano dominati dalla filosofia sensista derivata da Hume e da altri empiricisti, hanno accettato il concetto come nulla di più di una immagine generalizzata da cui le caratteristiche individuali sono state cancellate così che l’immagine potesse adattarsi ad ogni individuo di una classe; gli altri, influenzati da pregiudizi nominalistici, hanno considerato il concetto come un semplice segno o simbolo, utile nella classificazione e nel ragionamento come un’etichetta, ma non distinto nella sua natura come fenomeno mentale, proveniente dalla rappresentazione o dall’immagine della parola. Molto prima che l’esistenza del pensiero senza immagine fosse dimostrata sperimentalmente, è stato però evidente che le parole e le loro immagini non sono indispensabili per pensare; il pensiero “preverbale” è stato descritto da alcuni psicologi e filosofi, ad. es., B. Erdman, ed anche da psicopatologi, come per esempio A. Pick. Così, è stato chiaro che il pensare un concetto ed il pensarlo con o attraverso la parola che significa questo concetto sono due atti mentali differenti.
            Il primo a notare l’esistenza del pensiero senza immagine è stato A. Binet[54], che ha registrato alcuni spunti davvero interessanti fatti dalle sue due figlie. Ha trovato che mentre le immagini sono assenti la comprensione del concetto può essere perfetta quanto si desidera; anche le parole che significano delle esperienze tangibili sono a volte comprese senza un’immagine che le accompagna. Sentendo la parola “tempesta”, Armande sottolinea: “Oh, non possiedo alcuna illustrazione di questo. Non è realmente una ‘cosa’, quindi non la vedo”. Binet enfatizza il ruolo accidentale delle immagini: “Una immagine contiene solo una piccola parte dell’oggetto che rappresenta, e spesso una fotografia mentale non penetra al di là della superfice delle cose”. Lo studio sperimentale di questi problemi inizia con il lavoro di K. Buehler[55]. I suoi esperimenti ampi e accurati hanno dimostrato in modo definitivo l’esistenza di pensieri con una completa comprensione del loro significato, senza che intervenga alcuna immagine. Queste immagini, che a volte si presentano, spesso sono insufficienti: sono variabili, mentre il significato del pensiero rimane inalterato. Da questo, egli conclude:
I pezzi variabili delle immagini sono insufficienti a spiegare la costanza e la fermezza del nostro pensiero. Qualcosa che appare nella coscienza così frammentariamente, così sporadicamente, così tanto accidentalmente come le immagini fanno nell’esperienza del pensare non può essere l’elemento portante delle esperienze fermamente strutturate e continue del pensare[56].

            I “pensieri” di cui parla Buehler sono complessi, ossia, consapevolezza di relazioni che a volte hanno una struttura abbastanza complessa. Un osservatore, ad esempio, riporta il pensiero “che l’idea di futuro non deve essere confusa con il futuro stesso; tali confusioni sono un trucco comune in filosofia. Non c’era traccia di parole o di immagini”[57]. Che i “pensieri” di questo tipo possano esistere o anche esistano regolarmente senza alcuna immagine che si accompagni, o senza alcuna immagine che formi una parte essenziale del fenomeno totale, come è stato sottolineato, non è del tutto in contraddizione con il punto di vista Tomista; piuttosto, il fatto può essere considerato come in perfetto accordo con le idee dell’Aquinate.
            Nessuno degli psicologi moderni nega che le immagini della percezione o dell’immaginazione siano la base necessaria, indispensabile per l’astrazione. La teoria Scolastica dell’astrazione è stata confermata dagli esperimenti di J. Lindworsky[58], e più recentemente da A. Willwoll[59]. Molte delle ultime pubblicazioni confermano e completano le affermazioni di Buehler, senza aggiungere nulla d’importanza.
            Diverse esperienze mostrano che le immagini, se ce ne sono, sono posteriori al pensiero ed alla sua comprensione. Le immagini illustrano il significato dopo che è stato afferrato dall’intelletto[60]. Nel pensare e ragionare, il soggetto ed il predicato non si danno mai come immagini. Contrariamente all’opinione di Sigwart, Wund, o James Mill, il significato in atto di una frase non è costruito attraverso le immagini[61]. Nel pensiero sillogistico il significato delle premesse è appreso concettualmente; questa è una esperienza certamente intellettuale, e non sensoriale.
            Molte osservazioni importanti si trovano negli studi di O. Selz sul pensiero ben ordinato e produttivo[62]. I risultati generali di questi esperimenti possono essere sintetizzati affermando che la soluzione dei problemi, lo sviluppo di una cospicua catena di idee, la produzione di nuove e creative combinazioni di idee, dipendono dall’attualizzazione di alcune disposizioni intellettuali; l’attualizzazione è anticipata in un modo generale e schematico. L’immagine gioca, se c’è, solo un ruolo molto subordinato in questo processo.
Le disposizioni cognitive (Wissendispositionen) non sono le fondamenta per la riproduzione di immagini che possono essere collegate assieme dalle associazioni di contiguità; esse sono disposizioni di una consapevolezza uniforme di relazioni oggettive, (Sachverhaltsbewusstsein, una conoscenza di come le cose sono legate alle altre), che la coscienza non può risolvere in un numero di immagini associate posizionate fianco a fianco[63].

Un fatto emerge molto chiaramente dalle numerose osservazioni di Selz: le immagini sono, in molti casi, non simboli dei contenuti intellettuali dei concetti, ma delle operazioni intellettuali. Possiamo cercare, ad esempio, la stessa soluzione di un problema ed essere fiocamente consapevoli che questa soluzione giace in una precisa “direzione”; dopo di che, può sorgere una rappresentazione simbolica di “direzione”. Questa non è una immagine dell’idea o del complesso di idee da cui la nostra ricerca è partita, e neppure simbolizza o anticipa il risultato ancora sconosciuto; essa simbolizza l’attività dell’intelletto[64]. Le immagini qualche volta servono come modalità di enfasi, o di evidenziazione di alcuni elementi nozionali di un insieme concettuale[65]. Negli esperimenti di Selz, ci sono, certamente, molti esempi in cui gli osservatori hanno registrato la presenza e l’attività delle immagini. Per avere chiaro a loro stessi, ad esempio, il compito e la soluzione particolare negli esperimenti che richiedono il nome di tutta una parte presentata come parola stimolo, o vice versa, le immagini sono frequentemente utilizzate. “L’immagine”, sottolinea Selz[66], “può servire come un fundamentum per l’astrazione di nuove relazioni di oggetti, proprio come una percezione permette di guadagnare una nuova conoscenza, perché attraverso il processo astrattivo, alcuni lati oggettivi vengono notati nell’oggetto di percezione che sono passati come non riconosciuti in precedenza”. È bene ricordare, però, che il termine “astrazione” è utilizzato da Selz, e da molti altri psicologi, in un senso piuttosto ampio. Significa, per questi autori, non solo il disimpegno dell’universale dal particolare, ma anche ogni modo attraverso cui diventiamo consapevoli di una caratteristica comune a cose diverse. Da questa differenza nella terminologia si sono originate alcune incomprensioni evitabili.
            La disparità dell’immagine e del concetto è stata notata prima di Selz, ed anche prima che gli studi di Wuerzburg diventassero famosi. Così, W. M. Urban sottolinea che “anche…nell’uso strumentale del concetto, le immagini particolari richiamate non sono equivalenti adeguati alla consapevolezza del significato. Esse spesso sono irrilevanti; …il significato intrinseco del termine…non ha un’immagine equivalente”[67]. Con questa osservazione superiamo la comprensione dei singoli concetti, laddove gli studi precedentemente riportati hanno a che fare principalmente con la comprensione delle relazioni che possono essere espresse nelle frasi[68].
            C’è anche un’evidenza indiretta del fatto che il ruolo delle immagini non è essenziale nei processi di pensiero come molti credono. H. Bowers[69] ha trovato che i problemi che vengono più facilmente visualizzati non sono, per questo motivo, i più facili da risolvere. Le persone con una vivida immagine mentale non sono in alcun modo migliori nel risolvere i problemi di quelle che mancano di questa capacità, anche se i problemi apparentemente rendono l’uso delle immagini necessarie. Il fatto di uno spostamento di insight [Alpert[70], Paton[71]] indica che c’è un principio all’opera che sta, per modo di dire, fuori dalle situazioni concrete e, quindi, immaginabili al cui interno i problemi devono essere risolti. W. Blumenfeld ha confermato un’osservazione riportata da Buehler riguardante le relazioni temporali sull’associazione del pensiero, da una parte, e di singole parole o delle loro immagini, dall’altra; le prime richiedono minor tempo delle seconde. Se i pensieri e l’organizzazione delle relazioni tra di essi fossero dipesi dalle immagini e dalle loro relazioni, ci si sarebbe aspettato il risultato opposto[72].
            Diversi autori sottolineano che le immagini che appaiono nel corso degli esperimenti sui processi di pensiero, o di quelli che hanno a che fare con la comprensione di nozioni e di parole, spesso sono debolmente collegate con il significato del termine presentato, o limitate ai simboli verbali (eventualmente a simboli di natura simile). La sostituzione di un tipo di fenomeno cognitivo con un altro, forse, non ha ricevuto l’attenzione che merita. Le parole, specialmente, sono in grado di agire come sostitute delle immagini. Bisogna distinguere due casi: la parola può replicare direttamente l’immagine, o può simbolizzare la nozione astratta. In un caso patologico di agnosia visiva analizzato da Hochheimer, sembra che si sia realizzato il primo dei due casi[73].
            Il secondo caso è quello studiato da T. V. Moore nei suoi esperimenti sulla comprensione di parole[74]. Egli ha presentato ai suoi osservatori delle semplici parole ed ha chiesto loro di reagire alla consapevolezza del significato o dell'immagine. Le parole scelte significavano cose di vita comune, le cui immagini si supponeva che fossero prodotte facilmente. Questi esperimenti hanno mostrato che il significato è appreso prima che qualsiasi immagine compaia. Così sembra che la comprensione del significato di una parola sia indipendente dalla raffigurazione. I risultati ottenuti da T. V. Moore furono confermati da E. C. Tolman[75]. Si potrebbe obiettare, però, che in tali esperimenti il soggetto sia provvisto di un'immagine sin dall'inizio, dal momento che il significato gli viene presentato in una parola che legge o ascolta. Siccome i simboli verbali possono sostituire le immagini, e siccome secondo la teoria Tomista il fantasma non necessita di essere la vera rappresentazione della cosa da cui il significato o il concetto è stato astratto, la contraddizione tra i dati sperimentali e l'interpretazione Tomista non è così grande come sembrava a prima vista.
            Ci sono, però, altri fatti. I pazienti che soffrono di afasia furono osservati da H. Head[76] essere in grado di esprimere le proprie idee, anche di riportarle alla propria storia attraverso i gesti, sebbene essi non avessero a propria disposizione nessuna traccia di raffigurazione verbale. La conclusione tratta da Sir Henry Head è inconfutabile: le immagini mentali non giocano un ruolo tanto grande nel pensiero quanto i vecchi psicologi credevano, ma le parole possono essere rimpiazzate dalle immagini, proprio come le immagini possono essere rimpiazzate dalle parole. Le storie possono essere narrate in immagini, e un intero sistema di segni può essere concepito indipendentemente dalle parole. Il fatto che le immagini verbali possano essere dispensate nel pensare non prova che non ci siano immagini coinvolte; e neppure confuta la nozione che le immagini mentali di solito giocano un ruolo importante nei processi di pensiero. Quello che è provato è che il pensiero può procedere senza fare affidamento sulle immagini mentali.
            Nel comprendere delle idee particolarmente astratte, gli schemi linguistici che non necessitano di svilupparsi in immagini verbali giocano un ruolo importante[77]. Ma, qui, come altrove, la non assoluta necessità è dimostrabile; le immagini possono essere presenti, ma esse non sono necessarie. Esse non sono un elemento indispensabile all'operazione della comprensione. Se sono presenti, spesso contengono o indicano solo una parte dell'intero significato che viene compreso. Non è vero che comprendere non va oltre quello che è espressamente simbolizzato dall'immagine[78], ma le immagini sono sicuramente di grande aiuto in molti casi. Le immagini mentali possono essere trattate proprio come i simboli matematici, ossia, esse possono essere combinate in accordo con alcune regole (che non necessitano di essere chiaramente date alla coscienza) senza nulla più che una vaga apprensione del loro senso, proprio come il matematico o il fisico non si cura del significato preciso dei simboli che utilizza mentre sta sviluppano un'equazione [Bourdon].
            Tutti questi esperimenti hanno più a che fare con la questione della presenza e della necessità delle immagini piuttosto che con l'esatta funzione nella totalità dell'apprensione del significato. San Tommaso ritiene, come è stato riportato precedentemente, che l'intelletto si raffigura, per così dire, la nozione astratta nell'immagine. (J. P. Sartre, però, non è di questa opinione[79]). L'oggetto o il significato non è decifrato dall'immagine, ma è immediatamente appreso da un atto che presenta alla coscienza l'oggetto nella sua immagine.
            Attraverso un sommario preliminare possiamo dire che l'esistenza del pensiero senza immagine è definitivamente fondata, ma che il “pensiero” nella terminologia degli psicologi indica il risultato di un'operazione intellettiva in cui le relazioni tra i termini sono percepiti, relazioni che quando sono formulate prendono la forma di una frase. Inoltre, il sorgere delle immagini nella percezione del significato contenuta nelle singole parole o immagini non è un fenomeno costante. Questo comunque, si riferisce ad immagini altre che quelle presentate all'osservatore. Non c'è quindi modo di trasportare il significato se non con i dati sensibili. È quindi impossibile escludere la cooperazione dei fattori tangibili. Deve anche essere tenuto in mente che l'Aquinate stesso ha riconosciuto il fatto che l'immagine non necessita di essere una da cui la nozione, l'universale, o – per usare il termine moderno – il significato è stato astratto.

III

Le presunte contraddizioni tra la psicologia Tomista e la psicologia sperimentale sono dovute ampiamente ad incomprensioni dei testi Tomisti e delle affermazioni della psicologia sperimentale. San Tommaso non ha mai preteso che la consapevolezza delle proposizioni – o gli stadi pre-verbali che precedono la proposizione – sia necessariamente dipendente dai fantasmi; la psicologia sperimentale non ha mostrato che la comprensione del significato sia totalmente libera dalla cooperazione dei fattori tangibili.
            Ma le difficoltà della posizione Tomista permangono. Il controllo dell'intelletto sui particolari è più problematico che mai. Non vediamo come l'intelletto riesca a rintracciare il fantasma; e neppure come diventi consapevole delle species intelligibili; e neanche come sia in grado di influenzare le potenze sensitive in un modo così determinato da evocare il fantasma appropriato, ossia, l'unico che corrisponda a quel concetto particolare. Lo stesso problema sorge nei confronti della determinazione particolare dell'azione. Il riferimento alla ragione particolare (vis cogitativa) non è esplicativo. Questa potenza, a dispetto della sua peculiare dignità, è materiale, e le sue relazioni con le facoltà immateriali non sono facili da comprendere.
            Certamente, c'è il famoso testo del De Veritate, Questione Dieci, dove San Tommaso dice che, dopo tutto, le attività non appartengono a questa facoltà o a quell'altra, ma sono essenzialmente di un'unica anima. Ma questo non è di grande aiuto. Non è ancora chiaro come queste facoltà cooperino; come, ad esempio, il fantasma giunga a trovarsi “nella” ragione particolare (vis cogitativa), e a fortiori, come la particolarità (ratio particularitatis) venga appresa dall'intelletto.
            Neppure la letteratura su questo tema è decisiva. Un'indagine completa sui Tomisti più vecchi o sui Neo-Tomisti non può essere tentata. Le opinioni degli autori non-Tomisti non possono essere considerate perché il problema esiste solamente all'interno della filosofia Tomista. Ogni filosofia che nega l'individuazione tramite la materia, o il ruolo dell'intelletto attivo e la genesi delle idee universali attraverso l'astrazione, non incontra questo problema particolare.
            Una delle difficoltà fu sfrondata da William de la Mare, l'autore del Correctorium Fratris Thomae. La sua argomentazione è chiamata da Simonin difficilmente intellegibile (à vrai dire peu intélligible); tuttavia, essa non è tanto inintelligibile né irrilevante quanto gli antagonisti vorrebbero che fosse. L'argomentazione dice, nell'edizione di P. Glorieux[80]: Se il particolare fosse conosciuto intellettualmente, la riflessione sul fantasma sarebbe inutile. Il significato è, penso, abbastanza chiaro. Se il fantasma materiale e particolare rimane fuori dall'intelletto ed è solamente “illuminato” dall'intelletto attivo così che l'universale immateriale è sganciato e passa, come una species intelligibile (species intelligibilis), nell'intelletto possibile (intellectus possibilis), non c'è possibilità per l'intelletto di afferrare il particolare. La risposta dei Tomisti, come contenuta nel Correctorium Corruptorii Quare, si riferisce, nel suo responsio ad cavillationes articuli secundi, a San Tommaso, Summa Theol., I, q. 86, a. 1, in cui gli avversari avrebbero trovato tutte le risposte che desideravano purché avessero letto e compreso questo passaggio. Esso quindi prosegue ad affermare le ragioni del perché l'intelletto deve essere accreditato della conoscenza dei particolari. Il rilievo sulla consapevolezza indiretta dei particolari dice:
Perciò il nostro intelletto non è reso consapevole del fantasma direttamente dalla species che esso riceve; piuttosto esso procede verso una conoscenza del fantasma attraverso un tipo di riflessione. … Poiché, quindi, il nostro intelletto, attraverso la somiglianza che riceve dal fantasma, si riflette sul proprio fantasma da cui la somiglianza particolare fu astratta esso possiede una qualche conoscenza della cosa particolare in accordo con il tipo di continuità dell'intelletto attraverso l'immagine.

            Benché questa risposta sia fedele al testo dell'Aquinate, e benché possa essere considerata come una risposta soddisfacente alle obiezioni di William de la Mare o di Mateus di Aquasparta, essa non illumina il lettore sul senso vero di San Tommaso. In realtà la questione diventa più oscura attraverso l'introduzione di due ulteriori qualificazioni: San Tommaso parla solamente di un qualche tipo di riflessione (quaedam reflexio), ma qui noi incontriamo un “tipo” di conoscenza (quaedam cognitio) e un “tipo” di continuità (quaedam continuatio).
            È inevitabile l'impressione che il nostro problema sia stato una croce per molti dei commentatori di San Tommaso e che essi avessero provato un certo imbarazzo quando avevano a che fare con esso. Questo è vero anche per Capreolo quando doveva rispondere agli argomenti di Pietro Aureolo e di Durante da S. Porciano[81]. Quest'ultimo accantonò l'intero problema negando l'esistenza di una species intelligibile (species intelligibilis) e la funzione dell'intelletto attivo (intellectus agens).
Bisogna notare...che la prima cosa conosciuta dall'intelletto non è l'universale ma il particolare...il suo primo oggetto; ed ogni condizione dell'oggetto precede di per sé l'atto della facoltà. Una potenza non fa il suo oggetto attraverso il suo atto, ma suppone che l'oggetto...e non l'universale, o una condizione universale, non precede l'atto del comprendere, quindi è composto dall'atto del comprendere, ecc. … Se il nostro intelletto non comprende il particolare dal primo atto del comprendere, questo potrebbe essere o perché il particolare non gli fu presentato, o perché non ha voluto o potuto comprendere il particolare. La prima ipotesi non può essere sostenuta, perché la rappresentazione che è fatta all'intelletto è realizzata attraverso il fantasma che è rappresentativo della cosa particolare, e senza di esso il nostro intelletto non può conoscere niente di nuovo [“nuovo”: perché Durante non considera necessaria la riflessione e mantiene che l'intelletto trattenga le sue nozioni una volta e per sempre]. E neppure si può sostenere la seconda perché è chiaro che la potenza del nostro intelletto si estende alla conoscenza dei particolari, altrimenti noi non discuteremo di essi, e neppure potremmo fare nulla attraverso la nostra libera volontà dal momento che gli atti sono dei particolari e a riguardo dei particolari. La terza non può essere sostenuta perché la volontà segue la conoscenza...(l'intelletto) di per se e primariamente comprende ciò che per primo e principalmente muove l'intelletto a comprendere... Ma è il particolare e non l'universale che di per se e principalmente muove l'intelletto[82].

Capreolo non è molto felice nel rispondere a queste difficoltà; e neppure le sue obiezioni contro Aureolo sono realmente conclusive. Le cose non diventano più chiare con le sue parole:
Per una conoscenza dell'individuale nella sua incomunicabilità è sufficiente possedere una species che rappresenti l'individuale come il principio della sua individuazione; ed una tale species non necessita di essere materiale, quantitativa o segnata[83].

È abbastanza vero che una tale rappresentazione come principio di individuazione (quoad principium individuationis) potrebbe essere sufficiente; ma come è possibile una tale individuazione nell'intelletto immateriale quando il principio di individuazione è materia?
            Neanche le lunghe spiegazioni del Caietano sembrano conclusive. La sua nozione è che il fantasma sia in entrambi gli ordini, nel materiale e sensibile da una parte, e nell'intellettuale dall'altra.
Con l'avvento della luce dell'intelletto attivo, il fantasma è illuminato...; grazie a questa illuminazione risplende dal fantasma, non tutto quello che è contenuto in esso, ma la sola quiddità o natura, senza la singolarità collegata; e così questa illuminazione è astratta, perché fa si che una cosa appaia, ossia quello che è, mentre l'altra, ossia, il principio di individuazione, non appare.... La luce dell'intelletto attivo attualizza la natura intelligibile nel fantasma prima che sia resa intelligibile nell'intelletto.... L'intelligibile risplende nel fantasma...ed un tale intelligibile muove l'intelletto possibile.... Una cosa, ossia il fantasma, è in due ordini...a seconda delle differenti modalità dell'essere: a seconda della sua modalità reale dell'essere esso è sensibile, a seconda della sua modalità risplendente dell'essere esso è intelligibile[84].

            C'è qualcosa di vero nell'affermazione di G. H. Mahowald[85] che Caietano nega l'esistenza di un concetto chiaro e distinto degli oggetti particolari. Si dice che Caietano sostenga che conosciamo solamente gli universali in modo distinto; concludiamo in modo astratto che devono essere oggetti particolari, dal momento che l'universale non può esistere.
            L'autore probabilmente allude alla nozione di una cognizione argomentativa (cognitio arguitiva).
Quando concepiamo l'uomo e la singolarità, e realizziamo che l'uomo non sussiste di per se stesso, ecc., l'intelletto argomenta e conclude che una cosa singola esiste in natura. Una singolarità è concepita dal nostro intelletto non di suo proprio, ma attraverso un altro concetto, che, però, è in qualche modo, confusamente e polemicamente, ma non rappresentativamente, un concetto del particolare[86].

            Non c'è la minima evidenza psicologica di un tale processo di ragionamento, e neppure questa spiegazione pare soddisfacente poiché non elimina le reali difficoltà. Lascia non risposta la domanda di come l'applicazione dell'universale al particolare sia possibile. Inoltre, se questi particolari devono essere “conclusi” nel modo che Caietano suggerisce, come l'intelletto giunge alla conoscenza che gli universali non esistono e che devono esserci dei particolari da cui gli universali vengono astratti?
            Giovanni di S. Tommaso cerca un'altra via di uscita dalla tortuosità di questo problema. Egli assume l'esistenza di un vero concetto del particolare, un concetto proprio e distinto (conceptus proprius e distinctus), che, però, è indiretto e inadeguato, non direttamente concepito, ma dovuto ad una riflessione sul fantasma[87]. Egli ricorre ad un tipo di intuizione intellettiva attraverso cui grazie alla mediazione della coordinazione e di una continuazione verso i sensi (mediante coordinatione et continuatione ad sensus) l'intelletto raggiunge una conoscenza intuitiva...di una cosa presentata ad esso (notitiam intuitivam...rei praesentis)[88].
            Forse non è di poco interesse riportare l'opinione di un tardo Scolastico meno conosciuto, ma abbastanza rispettabile. L'agostiniano Thomas d'Argentina (Strasburgo) discute il problema nel suo Commentario sulle Sentenze[89]. Il suo lavoro merita considerazione non solo perché è un buon esempio del modo in cui gli ultimi scolastici hanno a che fare con il problema, rivelando alcuni dei loro metodi per evadere più che per risolvere le difficoltà, ma anche perché contiene diversi nuovi punti di vista.
                        Una idea che distingue la sua concezione dalle altre è la divisione dell'atto dell'intelletto in tre stadi, due dei quali sono definiti diretti ed uno che è chiamato riflesso. Solo l'atto per mezzo del quale l'intelletto diventa consapevole della sua stessa operazione o conosce se stesso come conoscente è considerato una riflessione; la consapevolezza del particolare nel fantasma è una operazione diretta. È necessario dire qualcosa nei confronti di questo modo di vedere. Il fantasma non appartiene all'intelletto – esso è, come dice Thomas di Argentina, non nell'intelletto ma presente ad esso – e risiede quindi non sullo stesso livello del concetto, della species intelligibile, e dell'atto di astrazione. Il movimento intellettivo attraverso cui l'auto-consapevolezza dell'intelletto viene raggiunta possiede un termine intrinseco o imminente, poiché il fantasma è in qualche modo al di fuori dell'intelletto, sebbene raggiunga il suo interno. Anche se non lo afferma espressamente, questa avrebbe potuto essere anche l'opinione dell'Aquinate. I termini “estensione”, “continuità”, sembrano accennare che l'intelletto solamente “tocca” - queste espressioni metaforiche non sono soddisfacenti, benché inevitabili – il fantasma che, però, rimane necessariamente e per sempre al di fuori dell'intelletto stesso.
                        Thomas d'Argentina descrive questa posizione del fantasma con il termine di “presenza”; il fantasma è presente all'intelletto ma non nell'intelletto. Ma questa è solo una descrizione, non una spiegazione.
                        Un'altra nozione da ricordare è quella del phantasiabile. Ogni cosa contenuta nel fantasma o desunta dal fantasma è un phantasiabile, e come tale è un oggetto dell'intelletto. Definendo l'oggetto dell'intelletto in questo modo, l'autore probabilmente pensa di evadere le varie difficoltà di cui era evidentemente molto consapevole. Ma anche questa è una formula, ed anche un'asserzione gratuita, non una spiegazione dei fatti e neppure una teoria della conoscenza intellettiva.
                        La stessa nozione di “presenza” appare in alcuni Neo-Scolastici. L. Noël, per esempio, tenta lo sviluppo di una teoria della conoscenza intellettiva combinando le due nozioni di “continuità” e di “presenza”.
...ma mentre l'organismo subisce questa invasione (vale a dire la presenza primaria delle cose) l'intelligenza non è estranea a questa invasione; essa la subisce tacitamente all'inizio, in continuità con la coscienza sensibile; quando toglie se stessa da questa passività, giungerà ad una nozione che si collocherà nell'astratto al di sopra del reale intuito dalla sensazione; tra questi due momenti c'è una continuità che, presa in concomitanza con la confusione originaria dei due aspetti di coscienza, ci permette di sapere che la nozione espressa nella parola mentale è derivata dall'insieme del presente originario.
                        Dal momento che la coscienza intellettuale si desta, il sensibile è presente, non solo alla coscienza sensibile, che è il suo obiettivo, ma alla coscienza umana...come il supporto che fornisce l'oggetto intelligibile, che gli dà corpo o lo supporta[90].

                        Queste affermazioni non differiscono essenzialmente da quelle di Thomas d'Argentina; ci sono le stesse nozioni di presenza di continuità con la stessa mancanza di spiegazioni soddisfacenti. Noël si riferisce al Commentario di Caietano[91] che, egli dice, non dà una piena spiegazione benché fornisca una certa precisione. Le parole di Caietano vengono interpretate come implicanti un'attività dell'intelletto attivo non solo nei confronti della produzione della species intelligibile, ma anche riguardo al fantasma stesso: “Grazie ad una precedenza della natura, il fantasma viene illuminato, prima esso (l'intelletto attivo) e il fantasma attuano l'intelletto possibile”. Sembra incerto, però, se il passaggio a cui si riferisce permetta una tale interpretazione.
                        Le affermazioni di molti Scolastici moderni non sono molto chiare. Recentemente J. Gredt si è occupato del problema[92]. La sua visione non si accorda con i fatti. Sebbene si riferisca all'esperienza, egli non tiene conto dei dati forniti dalla psicologia sperimentale. Che il “pensiero” (Denken) sia continuamente accompagnato dalle immagini, come abbiamo visto, non è vero. Gredt fallisce nel distinguere tra pensare come consapevolezza delle proposizioni e come comprensione dei singoli concetti. Riguardo alla riflessione, le idee di Gredt non sono più illuminanti di quelle degli Scolastici più vecchi. L'universale, abbiamo detto, porta con se il collegamento necessario con una immagine definita; l'universale dipende intrinsecamente (innerlich) da una immagine definita e questa dipendenza dall'immagine e l'immagine stessa sono rappresentate assieme all'universale nell'intelletto. Ma come una tale rappresentazione dell'immagine materiale sia possibile – benché essa sia, come dice Gredt, “spiritualizzata” - non viene spiegata da queste formulazioni. E neppure veniamo a conoscenza di come sia possibile per l'immagine essere rappresentata nell'intelletto passando per “inclusione ed accidentalmente” (nebenbei).
L'intelletto diventa consapevole del particolare in un modo non essenziale...Tramite un “pensare al rovescio” l'intelletto giunge a conoscere la cosa particolare rappresentata dall'immagine. Attraverso un pensiero più preciso giunge inoltre a conoscere l'immagine, l'attività dell'immaginazione e degli altri sensi, per quanto essi siano rappresentati dall'immagine. Ma in prima linea l'intelletto conosce la cosa particolare.

Le nozioni acquisite dall'intelletto sono collocate disposizionalmente (der Anlage nach) nell'intelletto; esse stesse hanno una relazione disposizionale per una precisa immagine. Il pensiero umano è sempre un'attività sensibile-intellettuale.
                        Queste affermazioni sembrano essere apparse insoddisfacenti all'autore dal momento che riprende questa questione in un secondo articolo[93]. Ma senza raggiungere una chiarezza maggiore.
Una conoscenza essenziale dei particolari corporali è preclusa all'intelletto umano. L'intelletto conosce il particolare solo attraverso una deviazione ed una regressione alla conoscenza sensibile.

La dipendenza dall'immagine e l'immagine stessa sono rappresentate assieme (mitdargestellt) nel concetto. C'è quindi una conoscenza intellettiva imperfetta dei particolari.
L'intelletto non conosce (il particolare) a seconda della sua essenza come particolare (Einzelwesen); conosce il particolare solo come presentato dall'immagine, attraverso le sue proprietà particolari (Einzelmerkmale). Queste sono accidentali, esteriori, palpabili, come forme, collocate nello spazio e nel tempo, attraverso cui l'intelletto distingue un particolare da un altro; queste caratteristiche, però, non formano la differenza essenziale della particolarità; esse possono cambiare mentre la cosa particolare rimane la stessa...così non c'è conoscenza reale del particolare del genere che...De singularibus non est scientia.

                        Le visioni di Gredt non favoriscono molto la soluzione. Un punto merita attenzione: l'affermazione che il primo oggetto che la riflessione raggiunge non è l'immagine ma la cosa particolare, poiché quest'ultima è supposta essere “non essenzialmente” ed implicitamente contenuta nel concetto. Questa idea, però, crea solamente una nuova difficoltà. I concetti sono astratti solitamente, ma non necessariamente, da diversi particolari; questi particolari possono essere dati nell'immaginazione attraverso una moltitudine di immagini o attraverso una “generalizzata” o un'immagine generica.
                        Leggendo queste immagini generiche ed altri punti d'interesse, M. J. Adler sottolinea:
Un'esperienza...è una sorta di universale; la quasi-universalità dei prodotti dell'immaginazione è stata riconosciuta, nella tradizione moderna, sotto la guida di immagini generiche o astratte. In modo preciso, certamente, queste immagini non sono astratte. La parola “astratto” può essere utilizzata per esse solo con il significato che esse hanno la potenzialità per l'astrazione; esse sono la materia approssimata su cui l'intelletto opera nell'atto primo dell'astrazione. La differenza tra l'immagine percettiva e l'immagine cosiddetta generica è che la prima possiede un'intenzione individuale mentre la seconda possiede un'intenzione particolare. Il punto d'individuazione determinato può essere perso con la perdita dei punti di singolarità. Le immagini generiche, quindi, forniscono la transizione all'intenzione universale dell'idea che può essere astratta da essa. Essa possiede un significato tra gli estremi dell'apprensione sensitiva ed intellettuale[94].

Il dott. Adler sembra implicare che l'astrazione proceda sempre da un'immagine generica e che per raggiungere un concetto la mente debba avere esperienza di diversi particolari di una tipologia. Questa interpretazione del processo astrattivo, però, non si accorda ai fatti. Anche se non ci fosse un'evidenza sperimentale a mostrare che siamo in grado di astrarre una nozione universale da una individuale, sarebbe sufficiente riferire il fatto che il concetto astratto “sole” era lungamente conosciuto prima che l'astronomia parlasse di stelle fisse come moltitudini di soli.
                        È vero che in molti casi l'immagine che serve come una base per l'astrazione è di una natura più o meno generica. Essa dunque si riferisce ad una moltitudine di immagini particolari e di cose particolari rappresentate da queste immagini. Tutte queste cose particolari devono essere contenute “non essenzialmente” nel concetto. Nel “pensare al rovescio”, quindi, l'intelletto arriva non ad una cosa particolare ma ad una moltitudine di cose. È difficile comprendere come l'intelletto possa arrivare, attraverso questo processo, ad una conoscenza di un particolare individuale. Questa conoscenza è indispensabile per l'intelletto nel formulare ogni giudizio particolare.
                        J. Maritain sembra essere condotto da considerazioni simili per “ammettere con Giovanni di San Tommaso, l'esistenza di un giusto (indiretto) concetto del particolare”[95]. Una filosofia non-Tomista, una che introduce la nozione di una forma haecceitatis, non ha quindi difficoltà ad ammettere un tale concetto di particolare, diretto o indiretto, ma è ancora discutibile se un tale concetto possa essere giustificato sulla base dei principi Tomisti[96].
                        La visione di Maréchal non differisce molto da quella proposta da Gredt:
L'intelligenza rimane l'intelligenza, e l'immaginazione rimane l'immaginazione; ma l'intelligenza subordinando se stessa all'immaginazione subisce una costrizione estrinseca perciò...L'intelligenza, riflettendo, incontra quindi nella species qualcos'altro che la pura espressione della spontaneità immateriale: essa incontra una relazione dell'intelligibile con il materiale estrinseco, impenetrabile e tirannico; una relazione per qualcosa che può essere pretesa  come un necessario complemento della species, ma che non potrebbe essere intellettualmente definibile se non negativamente, come una lacuna dell'intelligibilità...la nostra riflessione...fracassa se stessa contro il materiale e lo percepisce come una condizione restrittiva del gioco autonomo dell'immateriale[97].

La concezione di P. Maréchal merita la più alta attenzione. La sua è, infatti, una nuova prospettiva: il particolare è raggiunto dall'intelletto non come un oggetto totalmente afferrato – tale come esso è anche quando la presa è definita di un tipo non essenziale o accidentale – ma come un limite, una barriera, contro cui l'intelletto collide senza essere in grado di superarla. Non è possibile indagare qui nell'origine di questa nozione di limite; senza un'analisi più approfondita ci si può ricordare della nozione di Kant della cosa in se (Ding an sich) che non è data ma in qualche modo raggiunta come un limite.
                        Ci sono, anche, alcune nozioni di filosofi recenti. Tra queste c'è l'idea del limite (Grenze) nell'epistemologia di N. Hartman: l'intelletto è consapevole dei suoi propri confini; il “transintelligibile” deve possedere “un minimo di intelligibilità” per diventare visibile anche nella semplice forma di limitazione per l'intelletto. Questo si applica, certamente, all'infra-intelligibile, il particolare materiale, proprio come al sopra-intelligibile; Hartman stesso, essendo lontano dal vedere le cose in modo Tomistico, non si riferisce al particolare, la cui conoscenza intellettuale evidentemente prende per accertata[98]. Un altro è la “modalità di deficienza” di M. Heidegger; alcune cose con cui abbiamo a che fare nelle situazioni ordinarie passano inosservate, ma diventano notevolmente evidenti nel momento in cui c'è qualcosa che manca loro o esse stesse sono mancanti[99].
                        L'idea che il particolare sia conosciuto attraverso la negazione appare ancor prima in alcuni degli scritti degli antichi commentatori dell'Aquinate e di altri Scolastici. Questa idea è stata sviluppata maggiormente e le è stata attribuita un significato più profondo dai filosofi moderni a cui si è fatto riferimento prima. Il problema del limite, il limite della conoscenza, e simili formulazioni, ha destato un interesse così grande negli anni recenti come non mai. La “filosofia dell'esistenza”, o “filosofia esistenziale” ha enfatizzato questo problema. Esso sorge nella Neo-Scolastica, anche, come è evidente dalla citazione di Maréchal.
                        Un'altra nozione che gioca un ruolo negli scritti dei Neo-Scolastici è la nozione di “intuizione intellettuale”. Questa nozione richiama l'espressione utilizzata ripetutamente dall'Aquinate, che l'intelletto esamini (inspicit) il fantasma ed in esso il particolare. L'idea moderna, però, sembra andare oltre l'Aquinate. G. Rabeau presenta un passaggio caratteristico[100] in cui riassume le sue idee:
La conoscenza dell'oggetto particolare non è, propriamente parlando, intellettuale. Con questo io intendo che essa non consiste nel fatto che l'intelletto sia ridotto all'atto da una forma universale ed esprima quella forma in una parola. C'è senza dubbio una forma universale lì, ma il suo ruolo è solo occasionale; essa manda la riflessione indietro verso il fantasma da cui è stata concepita. Arrivati lì, troviamo un elemento positivo, la “continuazione” tra l'intelletto ed il fantasma. Ora, dal momento che questo contatto non è un semplice incontro, ma una conoscenza, è molto difficile non concludere con M. Régis Jolivet[101] che la conoscenza del particolare è una intuizione.

         Qui, l'intuizione accreditata all'intelletto si riferisce al particolare che è intuito attraverso e nel fantasma. C'è un'altra concezione dell'intuizione intellettuale. Bl. Romeyer, dopo aver sostenuto che i sensi sono incapaci di avvertire le leggi dell'essere attraverso (à travers) il fenomeno sensibile, continua:
Una tale percezione dell'assoluto è una intuizione intellettuale, di un livello davvero basso (infime) ma vero. Attraverso questa intuizione l'uomo raggiunge non solo l'essere come tale, le sue proprietà trascendentali, la verità e la bontà; raggiunge anche altre determinazioni che interessano l'essere: le sue caratteristiche sostanziali ed accidentali, la sua causalità, efficienza, esemplificazione, ed infine, i suoi gradi essenziali, la materia, la vita, la sensibilità, la mente[102].

Attraverso l'accreditamento della capacità di raggiungere la materia, questa intuizione dell'intelletto evidentemente diventa in grado di raggiungere anche il particolare. D'altra parte, Romeyer sostiene che la realtà concreta degli oggetti materiali è conosciuta dall'intelletto attraverso la concorrenza estrinseca dei sensi e nel modo di un afferramento-riflesso (saisie réflexe).
                        Roland-Gosselin è apparentemente un po' scettico nei confronti dell'intuizione intellettuale come un concetto legittimo della filosofia Tomista. Egli dice che è l'intelletto che ultimamente centralizza tutti i dati della consapevolezza, includendo certamente quelli della sensibilità[103]. Ed altrove asserisce che l'intelletto, essendo ordinato dalla sua natura ad una conoscenza essenziale dell'essere, è in grado di discernere l'atto dell'esistenza che si presenta alla sua visuale[104]. Ma l'atto dell'esistenza è l'esistenza individuale.
                        Nella discussione della conoscenza intellettuale e delle sue relazioni con i sensi il punto che viene sottolineato principalmente è la dipendenza dell'intelletto dai sensi. Ma i sensi dipendono, d'altra parte, dall'intelletto. Non esiste percezione, nel vero senso del termine, in cui l'intelletto non prenda parte. Come è stato sottolineato prima, il semplice fatto di nominare una cosa riconosciuta presuppone la cooperazione dell'intelletto. Sebbene si dica che il senso comune (sensus communis) sintetizzi il percetto dei dati grezzi forniti dai sensi esterni, il percetto in verità è più che il prodotto di un'attività meramente sensoriale. Roland-Gosselin, quindi, ha ragione nell'affermare il ruolo di “giudizio” nella percezione; sebbene bisognerebbe essere prudenti nel parlare di un'attività solamente intellettuale, poiché non c'è evidenza empirica di un giudizio che è attivo nella percezione sensoriale.
                        C'è un'altra questione più direttamente collegata al nostro problema. È stato ripetutamente sottolineato che il fantasma a cui l'intelletto “converte” se stesso dopo aver formato un concetto non necessita di essere, e molto spesso non lo è, il vero fantasma da cui il concetto è stato astratto in origine. Ci sono alcuni concetti a cui non può corrispondere alcun fantasma in modo esatto, come ad es., il fantasma di un cane corrisponde alla nozione universale de “il cane”. Concetti come “potenza”, o “-1”, o “concetto” stesso, non sono collegati allo stesso modo ai fantasmi come gli universali astratti sono collegati dai dati sensoriali ai loro fantasmi. L'esistenza di tali concetti era nota allo stesso Aquinate. Rabeau[105] chiama questi concetti concetti costruiti (concepts construits) – non è chiaro se nel riconoscimento consapevole della moderna nozione di “costrutti” oppure no. In ogni caso, la scelta del termine è felice e caratterizza perfettamente la natura di alcuni concetti che non sono direttamente astratti, ma che risultano da una peculiare operazione intellettiva. La mente umana, però, cerca naturalmente le illustrazioni concrete dei concetti più astratti, anche se queste illustrazioni non contribuiscono realmente alla nostra comprensione; esse sono spesso più un ostacolo che un aiuto. Queste illustrazioni non sono, inoltre, collegate in un determinato modo ai concetti. Un concetto di alta matematica o di fisica teoretica, può essere illustrato in vari modi; proprio come uno stesso pensiero può essere espresso in varie modalità. Una proposizione di matematica può essere dichiarata con una formula simbolica, con le parole, in ogni linguaggio; il “fantasma” di queste espressioni è diverso in ogni occasione, ma serve ugualmente come supporto per l'idea astratta.
Se ci sono menti che possono dispensare diagrammi in geometria e meccanica, perché non ci sono menti che possono dispensare modelli meccanici di fenomeni fisici? I modelli meccanici certamente non hanno sufficiente rilevanza  per l'indagine fisica di quanta l'hanno i diagrammi nella geometria da quando è stato possibile mostrare, come fece Poincaré (Electricité et Optique, Parigi, 1890, prefazione) che ogni qual volta un modello meccanico viene inventato per spiegare un fenomeno fisico, un'infinità di questi modelli diviene possibile[106].

          Quello che si è detto qui dei modelli per i fenomeni fisici si applica anche ad ogni fantasma immaginato o inventato o costruito con la finalità di illustrare un qualsiasi concetto. Si applica ugualmente ad ogni fantasma di carattere simbolico. Le parole sono solo un caso di questi simboli. Ce ne sono molti altri. Le relazioni logiche proprio come ogni tipo di contenuti mentali possono essere simbolizzati con le immagini. Alcune persone hanno immaginato di rappresentare tali cose come la settimana, o le stagioni di un anno. L'uso di espressioni metaforiche, di similitudini, di allegorie, ecc., risale a questa capacità della mente, cioè, di “vedere” qualcosa in una cosa concreta di una natura completamente differente. Ma, per dirlo ancora una volta, queste immagini non sono una conditio sine qua non per la comprensione di alcuni concetti. E neppure sono necessarie per la comprensione delle proposizioni. Anche qui la stessa idea può essere illustrata da immagini differenti. Come si può esprimere lo stesso pensiero in varie maniere, utilizzando parole differenti, così esso può essere illustrato da immagini differenti[107].
                        Quella che può essere chiamata la “scelta delle immagini” è un problema in sé. Il semplice fatto che ci siano similarità buone e cattive, illustrazioni appropriate ed insufficienti, prova che la scelta delle immagini è una funzione particolare della mente. Questa funzione deve essere sotto la direzione dell'intelletto, dal momento che i concetti o le idee per essere illustrate sono primariamente nell'intelletto. Ma non è l'immagine che è importante; la cosa principale è il concetto intellettivo. Il concetto non è compreso attraverso l'immagine, ma l'immagine riceve il suo significato dal concetto che essa intende illustrare. Come W. Staehlin dice giustamente, nessuna metafora sarebbe comprensibile se le immagini fossero i fatti rilevanti[108].
                        L'intelletto, quindi, deve esercitare un'influenza selettiva sulle immagini. Deve scendere, per così dire, nell'archivio della memoria o ordinare all'immaginazione quali immagini devono essere avanzate. Anche se questo è evidente, sembra che questo lato del problema non abbia sollevato molto interesse né da parte degli psicologi sperimentali né da parte dei filosofi Scolastici. C'è un importante passaggio nella Critica alla Ragion Pura di Kant, in cui l’autore parla di quello che chiama la Schema zu einem Begriff. Secondo questo filosofo, c'è una “procedura generale attraverso cui ci si procura l'immagine per un concetto. Quello che soggiace ai nostri concetti puramente sensibili non sono le immagini ma gli schemi”[109].
                        Non solamente i concetti sono “costrutti”; anche le immagini si può dire che possiedano questa proprietà. Si è sempre saputo che l'immaginazione non è solamente riproduttiva ma anche creativa. La capacità di combinare gli elementi dell'esperienza in nuove immagini è importante nell'invenzione e nell'arte. I nuovi concetti, però, non originano esclusivamente dalle nuove immagini. Il contrario è anche l'avvenimento più frequente, almeno nelle scienze con alto grado di astrazione. L'applicazione di nuovi principi di fisica a compiti pratici di ingegneria rende necessaria una traslazione delle nozioni astratte recentemente concepite a cose e situazioni particolari. Quindi la mente deve “costruire” nuovi fantasmi, la cui origine è nell'intelletto e la cui costruzione deve essere diretta dall'intelletto. Questo fatto non è sfuggito del tutto alla mente di San Tommaso[110]. Viene sottolineato espressamente da Rabeau[111].
                        La mente evidentemente sa, dalla natura del concetto stesso, quale e come questo concetto possa essere illustrato ed incorporato in un fantasma definito. C'è sempre la possibilità di diversi fantasmi tra cui l'intelletto sceglie. Noi rigettiamo alcuni fantasmi se essi non servono la finalità dell'intelletto, ci guardiamo attorno, cioè, per un'immagine adeguata, sappiamo in quale direzione dobbiamo cercare per una illustrazione appropriata. Questa attività presuppone non solo un'influenza diretta dell'intelletto sull'immaginazione, ma anche una capacità intellettuale di comparazione; se una tale capacità non esistesse, non potremmo mai distinguere tra un'immagine adeguata ed una inadeguata. Più ancora, un concetto, anche se di nuova formazione e non derivato direttamente dall'astrazione di un fantasma, deve portare in se stesso un elemento che indica la sua possibile relazione alle immagini. Questo è, come sembra, il punto di vista di A. Dondeyne, che scrive: “Il contenuto di un concetto presenta se stesso spontaneamente alla consapevolezza come uno “possibile”, ossia, come un contenuto di un essere realizzabile infinitamente”[112].
                        Ci sono alcuni autori la cui opinione può essere citata. Ma tutti questi studi non portano avanti la nostra comprensione del problema in modo notevole. Gli stessi termini ritornano costantemente. Leggiamo di riflessione, continuazione, luminosità (reflexio, continuatio, relucentia), ecc., ma non penetriamo più profondamente nella natura del problema[113]. Quindi ci è permesso terminare questo resoconto e tentare un riassunto dei risultati del presente sforzo filosofico.
                        L'unico progresso reale che è stato raggiunto sembra essere il riferimento fatto da P. Maréchal alla coscienza del limite o alla consapevolezza di una lacuna. Rabeau può essere menzionato per sottolineare il fatto che le proposizioni sono unità, che ad esse corrisponde una species expressa e che esse non sono una semplice combinazione o successione di termini. Abbiamo mostrato prima che questa è l'idea dello stesso Aquinate.
                        La filosofia deve prima di tutto prendere consapevolezza dei fatti: “Salvare apparentia”, come San Tommaso ripete dopo Platone e Simplicio. Non è quindi permesso scartare semplicemente tutta l'evidenza empirica e dichiararla ingannevole, poiché l'esperienza sensibile non è mai data nella sua purezza. Non c'è dubbio che questo sia vero. Ma lo stesso si può dire di ogni altra operazione mentale. Se questo assunto fosse giusto, non ci sarebbe né una psicologia empirica né una speculativa. Anche se si vuole concedere a F. Rahner[114], che sostiene questa visione, che la filosofia può procedere indipendentemente dall'esperienza e dall'esperimento, ciononostante è compito della filosofia legittimare le sue visioni riferendole ultimamente ai dati dell'esperienza. Le affermazioni di questo autore avrebbero guadagnato in validità se egli avesse tenuto maggiormente conto dei fatti.
                        Non tutti i Neo-Scolastici hanno avuto un tale disprezzo verso l'esperienza ed i dati della psicologia. Se essi non l'hanno fatto, è in parte perché essi hanno scelto di non curarsi del tutto di essi. Non preoccupandosi di studiare attentamente l'evidenza fornita dalla psicologia, molti di questi autori hanno creduto in una contraddizione tra la psicologia e le affermazioni dell'Aquinate. Essi hanno percepito giustamente che la teoria Tomista della conoscenza o piuttosto dei processi cognitivi, non poteva essere abbandonata senza mettere seriamente in pericolo il sistema nella sua totalità. Essendo convinti della verità del sistema filosofico, essi hanno preferito diffidare delle affermazioni degli psicologi. Noi ci siamo sforzati di mostrare che nei fatti non c'è contraddizione, che le scoperte della psicologia sperimentale sono piuttosto quello che ci si potrebbe aspettare seguendo i principi Tomisti. Così, l'evidenza fornita dalla psicologia può essere utilizzata senza alcuna restrizione nel tentare una spiegazione dei processi ancora misteriosi della conoscenza intellettiva dei particolari. Non possiamo sperare di tentare una teoria che sia completamente soddisfacente e che elimini ogni difficoltà riportata precedentemente. Ma possiamo sperare di contribuire ad una classificazione maggiormente penetrante.

IV

Nel concepire una teoria bisogna essere chiari su due punti: primo una precisa conoscenza di quello che la teoria si suppone che realizzi e, secondariamente, l'assembramento di tutti i fatti che hanno pertinenza col problema. Ora, una teoria che suppone che una precisa filosofia sia vera, deve fronteggiare due difficoltà: deve fornire una spiegazione soddisfacente, e questa spiegazione deve essere espressa nei termini della filosofia adottata dallo scrittore. Inoltre, questi termini devono essere presi nel loro significato originale e non distorto. Accade frequentemente che una spiegazione teorica di alcuni fatti o una soluzione di problemi specifici è formulata apparentemente nei termini di una precisa filosofia, sebbene, un'analisi più approfondita mostri che questi termini hanno subito nella mente degli studiosi alcune sottili modificazioni, che possono passare inosservate, per lo più è così, dal momento che sono introdotte involontariamente ed inconsapevolmente. L'ambiguità di molti termini diventa una trappola pericolosa. Le stesse parole, utilizzate in filosofia ed in psicologia, nelle scienze e nella vita comune, sembrano avere lo stesso significato, ma questa è troppo spesso un'illusione. Così, il termine “astrazione” viene utilizzato in psicologia ed in filosofia; non è certo se il significato in entrambi i casi sia esattamente lo stesso. Abbiamo già avuto occasione di sottolineare che il termine astrazione viene utilizzato dagli psicologi in un senso piuttosto libero. Identificare l'astrazione dello psicologo con quella del filosofo è l'origine di fastidiose incomprensioni.
                        I problemi postulati dalla teoria Tomista sono evidenti. Il fantasma è fuori dall'intelletto; ma l'intelletto deve rintracciare il fantasma, prima deve “illuminarlo” con la forza dell'intelletto attivo al fine di sfilare la natura universale che è trasmessa attraverso la species intelligibile all'intelletto possibile; secondariamente, deve chiarificare o illustrare un concetto quando l'intelletto ritorna indietro attraverso la “riflessione”; terzo, deve formare un giudizio particolare.
                        Inoltre, deve esserci un'influenza definita e determinante esercitata dall'intelletto sulla facoltà dell'immaginazione. Questa diviene evidente dal fatto che l'intelletto è dotato della capacità di “scegliere” il fantasma appropriato nel caso dei “costrutti” e delle nozioni molto astratte, che non derivano direttamente da alcuni fantasmi.
                        A fianco di queste necessità empiriche, c'è un'altra ragione che ci costringe ad accreditare l'intelletto del potere di conoscere i particolari. L'essere reale si trova solo nei particolari, nelle cose che esistono individualmente; e l'essere è l'oggetto dell'intelletto. In quanto facoltà più alta della mente umana, la ragione è la luce attraverso cui la mente non solo diventa consapevole delle cose come esse sono, ma anche trova la sua strada con il comportamento attivo attraverso il mondo della realtà.
                        I fatti raccolti dalla psicologia sperimentale non contraddicono le idee della filosofia. “Il pensiero senza immagini” si riferisce a quello che la psicologia moderna chiama pensiero, vale a dire, per le proposizioni o per i contenuti “proposizionabili” dell'intelletto. A questi fenomeni mentali non corrisponde alcun fantasma, come abbiamo sottolineato più di una volta. L'evidenza sperimentale, quindi, riferendosi al “pensiero senza immagini” non può essere addotta come prova contro la psicologia Tomista, e neppure quest'ultima possiede una ragione per dubitare della validità dell'affermazione fatta dagli psicologi sperimentali. Gli esperimenti che dimostrano che il “significato” può essere afferrato prima che una immagine appaia, devono essere interpretati alla luce della tesi secondo cui l'immagine necessita di non essere l'unica da cui il significato è stato originariamente astratto. Se il significato è dato nelle parole, e, è compreso prima che la parola sia pienamente afferrata, si deve ricordare che le parole sono dati sensibili, che essi evocano immagini o vengono dati come tali dai sensi esterni, e che questi dati sono quindi sufficienti come materiale di base per la comprensione intellettuale. Lo stesso si applica, in modo simile, al significato presentato attraverso le immagini. Questi esperimenti non costituiscono alcuna obiezione contro la concezione classica dell'operazione intellettiva.
                        Un'obiezione seria potrebbe sorgere solo se si potesse dimostrare che il significato può divenire conscio spontaneamente ed essere pienamente compreso senza che nessuna immagine appaia nello stesso istante. Se un tale caso esista oppure no, non è semplice da dedurre. Nel revisionare l'esperienza personale è necessaria la più grande attenzione. Ognuno viene ingannato troppo facilmente dal credere che la modalità personale di fare esperienza sia generale. Nella storia della psicologia ci sono prove evidenti di tali esempi. Alcuni psicologi che appartenevano al tipo denominato motorio, essendo la loro visualizzazione principalmente se non esclusivamente di cinestesia, pensavano che il “dialogo interno” consistesse nella riproduzione di movimenti articolatori. Ma ci sono molte persone che non hanno tale visualizzazione cinestesica. Le persone la cui immaginazione è ben sviluppata sono inclini a credere che ognuno “pensi” in immagini visive. Nell'indagare la presenza o l'assenza di immagini bisogna tenere conto del tipo particolare d'immaginazione. Le immagini possono essere molto poco sviluppate e consistere in semplici frammenti o simboli della cosa immaginata. Questi simboli spesso non hanno somiglianza con la cosa per cui esistono.
                        Lo psicologo dovrà indagare se il fattore importante sia l'immagine come tale, o l'attività dell'immaginazione di qualsiasi tipo. Potrebbe essere che il tipo particolare di immagine sia abbastanza irrilevante e che il fatto importante sia l'immaginazione che è destata da qualche attività. Su queste cose proprio come sulla questione del significato senza alcuna visualizzazione non sembra ancora possibile alcuna decisione, dal momento che manca l'evidenza sperimentale.
                        Gli esperimenti sulla comprensione del significato e sulla sua relazione con la visualizzazione hanno a che fare con un processo mentale che è in verità piuttosto raro. Il compito abituale, al di fuori del laboratorio, non è la comprensione di parole o immagini isolate, ma la conoscenza dei contesti. Le parole isolate, quando utilizzate nel linguaggio comune, sono frasi solitamente frammentate. Si risponde spesso ad una domanda con una parola sola. Ma questa parola sta per una frase che ripete la domanda nella forma di una affermazione. Un'esclamazione può consistere di una sola parola; se è eloquente, ossia, più che una semplice espressione di turbamento emotivo, anche questa parola rimpiazza un'affermazione. Posso richiamare l'attenzione di un'altra persona su qualcosa semplicemente dicendo: “qui”; il gesto dimostrativo che accompagna la parola indica, infatti, il predicato di un'affermazione che significa, più o meno, “guarda qui verso questa cosa”. E così via.
                        Il caso medio è la comprensione dei contesti che possono essere più vicini o più lontani da una proposizione e dalla possibilità di essere inseriti in un'affermazione; il significato, come si incontra nel consueto rapporto con la realtà, è praticamente sempre il significato di relazioni. Quasi mai un concetto isolato giunge alla coscienza e deve essere compreso. È probabile che i casi – se tali casi esistono – di comprensione, senza immagini di accompagnamento, saranno sempre delle affermazioni o dei contenuti simili ad affermazioni. Ma questa questione necessita fortemente di un'indagine sperimentale, prima che possa essere fatta una dichiarazione precisa. Ad ogni modo, si può essere sicuri nell'asserire che non è conosciuto alcun fatto che provi l'esistenza di una comprensione dei concetti senza che un'immagine venga coinvolta. La filosofia Tomista, quindi, non ha nulla da temere dalla psicologia sperimentale, e quest'ultima non può pretendere che le sue scoperte confutino le affermazioni della psicologia filosofica pre-sperimentale.
                        Gli esperimenti, però, possono contribuire notevolmente ad una migliore comprensione ed ad una più chiara dimostrazione dei principi sostenuti dalla psicologia Tomista. Sarebbe particolarmente interessante possedere un'evidenza introspettiva dettagliata, sotto condizioni controllate, sui processi mentali coinvolti nel pensare o nel formulare giudizi particolari. Per quanto possiamo osservare, questo problema non è ancora stato studiato.
                        Così, se desideriamo raggiungere una qualche idea più chiara sul modo in cui l'intelletto entra in contatto con il particolare, dobbiamo rivolgerci alle analisi filosofiche. La particolarità e la singolarità in quanto tali non sono sconosciute all'intelletto. Distinguiamo perfettamente un'operazione intellettiva da un'altra, o un concetto da un altro. Inoltre, l'intelletto conosce se stesso come unità e come distinto da un altro. Non è la singolarità, ma la materialità che sembra impenetrabile alla potenza intellettiva.
                        La materialità è una proprietà non solo delle cose particolari che sono apprese dalla mente, ma anche dalle facoltà proprie della mente attraverso cui questa apprensione viene raggiunta. C'è una cosa materiale di cui la ragione è pienamente conscia, cioè, il corpo umano. L'anima conosce se stessa unita alla materia e risiedente, per così dire, in questo corpo particolare. (Sebbene bisogna ricordarsi che questo corpo non è strettamente materia, ma materia informata dall'anima). Le potenze intellettive devono essere consapevoli del corpo e delle facoltà sensoriali dipendenti da questo corpo, altrimenti non conosceremmo mai che una data impressione sensoriale è nostra, e neppure sapremmo come mettere in esecuzione un atto di volontà che sorge nella facoltà volitiva. Il problema della conoscenza intellettiva dei particolari inizia quindi non solo con la consapevolezza delle cose al di fuori di noi stessi; inizia con la conoscenza di noi stessi.
                        Poco si ottiene sottolineando il fatto che, dopo tutto, le facoltà sensoriali ed intellettive appartengono alla stessa unica anima. Le facoltà sono accidenti, realmente distinte l'un l'altra e dalla sostanza dell'anima. È solamente un modo metaforico di esprimersi e non molto più che una descrizione o un'affermazione  sui fatti, asserire che le varie facoltà comunicano l'un l'altra a causa di, o attraverso, l'anima a cui appartengono. Questo è stato apparentemente percepito dagli autori che hanno avuto a che fare con codesto problema. A causa di ciò, essi cercavano di scoprire un punto a metà tra l'intelletto e i sensi o l'immaginazione. Lo stesso Aquinate, specialmente nei confronti dell'operazione della volontà, si riferisce alla vis cogitativa. Per quanto vicino all'intelletto questo senso interno possa essere, non può mai diventare un punto realmente a metà poiché non c'è metà immaginabile tra la materialità e l'immaterialità. Una cosa è l'una o l'altra; non ci sono transizioni tra un livello ed un altro. E questo spazio non può essere collegato neanche riferendosi ad una “spiritualizzazione” dell'immagine. Anche questo è solo un altro modo di affermare i fatti, ma non una loro spiegazione.
                        Un'altra uscita da questa difficoltà sembra presentarsi se si considera il fatto che la mera percezione, in quanto operazione esclusiva dei sensi, in realtà non esiste, almeno, non nelle normali e comuni condizioni. Quello che noi chiamiamo una percezione è molto più che una semplice affezione dei sensi; questo di più è un importante fattore intellettivo. Nel chiamare l'oggetto appreso un qualcosa noi adoperiamo l'intelletto; “qualcosa” è un concetto non di meno di un cane o di un uomo o di una grandezza. Nel riconoscere un semplice colore, ad es., il rosso, estraiamo non solamente dal magazzino della memoria sensoriale, ma anche dal magazzino della memoria intellettiva. In questo senso si può certamente parlare di una “spiritualizzazione” non solo dell'immagine ma anche del percetto. È anche vero che il processo dell'apprensione riguarda una dematerializzazione graduale dell'oggetto. La species sensibilis, benché sia materiale, non trasporta, per così dire, la materia dalla cosa particolare ai sensi. Inoltre, l'immagine, specialmente se è in qualche modo generalizzata e non un semplice “ritratto” di una cosa particolare, è ancor meno materiale. Ma tutto questo lascia il problema centrale irrisolto. La cooperazione dell'intelletto con i sensi nella percezione presuppone che l'intelletto sia in qualche modo capace di trascendere la barriera tra la materialità e l'immaterialità.
                        È inoltre vero che l'intelletto conosce direttamente, grazie alla natura del concetto, il riferimento di quest'ultimo ad una moltitudine di particolari. È quindi la natura del concetto ad implicare un tale riferimento; la sua natura è di essere il predicato di molte cose. Ma attraverso di esso, l'intelletto non raggiunge la benché minima conoscenza di un particolare; e neppure il particolare viene “dato” attraverso la conoscenza di tutti gli universali, se una tale conoscenza fosse del tutto possibile, che possono essere astratti dalla cosa e dalle sue proprietà. Il particolare non è quello che i più antichi Scolastici denominavano una “collezione di proprietà”[115]; ognuna di queste proprietà essendo esprimibile con un nome. Neppure una conoscenza perfetta delle leggi generali che condizionano la comparsa di una eclissi in un determinato momento consentono all'astronomo di conoscere realmente il fenomeno finché non lo osserva. Ma questa conoscenza della natura universale necessita una presa intellettiva del particolare? L'intelletto al fine di conoscere che il suo concetto si riferisce ad un numero indeterminato ed, eventualmente, infinito di particolari deve possedere una conoscenza di ogni particolare individuale? Oppure la sua conoscenza della natura universale si basa su di un'apprensione intellettiva di alcune relazioni tra questi universali e la nozione del particolare in generale? O ancora: la nozione di un concetto, ad esempio, il concetto di funzioni ellittiche in matematica, è secondario per natura all'universale che è derivato dall'astrazione da un fantasma? Che una tale nozione altamente astratta sia secondaria nel tempo è chiaro; le prime nozioni che la mente forma sono astratte dalle immagini sensibili. È anche chiaro che i più alti gradi di astrazione poggiano ultimamente sulle prime. Però, questo non necessita un riferimento costante dei concetti più elevati a quelli ottenuti dai primi passi dell'astrazione; neanche un riferimento implicito è necessariamente implicato. Tuttavia, questi problemi hanno solamente un collegamento indiretto con le questioni in discussione. Menzionarli sembra opportuno perché così l'ampio campo dei problemi collegato a quello della conoscenza intellettiva del particolare diviene manifesto. Ma non possiamo tentare di analizzare tutti questi problemi.
                        Le varie suggestioni di come trovare una risposta alla questione del costruire un ponte tra l'intelletto e il particolare lasciano questo divario più ampio di prima. Esse sono piuttosto indicazioni che dicono che il divario deve essere collegato da una teoria, dal momento che esso è evidentemente collegato nella realtà. Il problema è più di natura metafisica che psicologica. Verrà risolto, probabilmente in modo migliore, da una prospettiva sul terreno dell'ontologia piuttosto che sul campo della psicologia. I tentativi di scoprire un punto a metà tra l'intelletto e i sensi o l'immaterialità e la materialità sembrano destinati a fallire. La descrizione e l'analisi psicologica può fornire alcune indicazioni valide sulla direzione verso cui l'indagine metafisica deve volgere.
                        Con questo non ci riferiamo alla nozione Tomistica di estensione (continuatio). Questo termine esprime solamente il fatto che ci sia una cooperazione indubitabile tra le facoltà sensoriali e le potenze intellettive, ed una penetrazione, per così dire, delle seconde nelle prime in un modo tale che, anche una semplice operazione sensoriale è mescolata con una certa quantità di intellettualizzazione. Estensione non è un termine esplicativo ma descrittivo.
                        Una nozione che è stata riportata in precedenza sembra di particolare utilità, quella, ossia, portata come contributo da P. Maréchal quando sottolineò il limite, il confine, o la barriera di cui l'intelletto diventa consapevole quando approccia il particolare. Possiamo vedere ora che questa nozione merita una considerazione particolare.
                        Il tomismo è persuaso dell'intelligibilità di base della realtà. Nonostante le limitazioni della mente umana, l'insieme della realtà può essere in qualche modo afferrato da essa. Le cose che non possiamo comprendere nella loro essenza possono essere almeno comprese attraverso l'analogia. Il modo analogico di comprendere è la controparte della struttura analogica dell'essere. I termini che utilizziamo sono ambigui o equivoci; ma il fatto che conosciamo questa equivocità è una prova di una nostra capacità di comprendere, in qualche modo, anche le cose che sono al di là del nostro potere di comprensione. È stata menzionata la nozione di N. Hartmann secondo cui anche il transintelligibile è dotato di un “minimo di intelligibilità”, altrimenti non potremmo conoscerlo per nulla e non saremmo in grado di chiamarlo transintelligibile. Il transintelligibile, per così dire, si trova su entrambi i lati dell'intelligibile; è al di sotto, come materia, e al di sopra, come essere puramente spirituale. Quest'ultimo come tale non è transintelligibile; l'essere spirituale e materiale è piuttosto un oggetto appropriato dell'intelletto, se non fosse per i limiti dell'intelletto e per la sua dipendenza dalle funzioni dei sensi. La materia è essenzialmente transintelligibile, ma non è così tanto “sotto” l'intelletto che il suo concetto sia inaccessibile alla ragione. Anche il concetto di materia prima è un conseguimento puramente intellettivo. La materia prima non può mai diventare un oggetto di esperienza; è essa stessa una nozione limitativa – Grenzbegriff, per usare il termine Kantiano che esprime esattamente quello che abbiamo in mente. La materia può essere pensata solamente in relazione con la forma. La forma può essere pensata indipendentemente dalla materia, perché possiamo pensare, anche se inadeguatamente, le forme pure e sussistenti. La teoria delle idee come concepita da Platone è una dimostrazione storica della capacità della mente di pensare le forme pure. La nozione astratta è un aspetto della forma che nell'ontologia Aristotelico-Tomista non può essere concepita in quanto esistente indipendentemente e separatamente dalla materia e dall'oggetto particolare. È della vera natura della forma essere concretizzata - “contratta” - dall'unione con la materia. La relazione con la materia è una caratteristica essenziale della forma, e pensando la forma la mente non può pensare se non la forma in quanto legata alla materia. Che il concetto sia in grado di essere il predicato di molte cose è solo la controparte psicologica della sua natura ontologica. Pensando l’universale, la mente necessariamente pensa la relazione dell’universale con la materia e con i particolari. Così la conoscenza dei particolari è implicata nella conoscenza dei concetti o degli universali.
            Il filosofo scopre, attraverso le sue accurate indagini, solo quello che è realmente implicato con la conoscenza umana. Egli afferma esplicitamente quello che è implicitamente dato nei fatti mentali che rispecchiano la realtà. Che solo il particolare sia realmente esistente e che il concetto segua la cosa esistente è un fatto non perché può essere dedotto dall’esperienza, grazie al volgersi verso il fantasma; può essere dedotto perché è un fatto che è contenuto nella nozione vera di un concetto, un fatto che è implicitamente dato assieme al concetto, e che deve solamente essere portato alla luce ed espresso in parole per acquisire una qualche forza compulsiva. Pensare un concetto è allo stesso tempo pensarlo solamente in quanto esistente tra i particolari. L’esistenza non è derivata, o non necessita di essere derivata, dall’avere esperienza delle cose al di fuori della mente. L’esistenza è l’esperienza immediata della mente stessa. Da quando Sant’Agostino, per primo, ha sottolineato: “Io so di sapere”, come il fatto irrefutabile che neanche lo scettico non può riconoscere, non ci sono mai stati dubbi su questo fatto: che la mente conosce se stessa come esistente. Il cogito Cartesiano possiede una lunga e nobile origine[116]. L’esperienza dell’esistenza come mia esistenza mi rende consapevole anche che questa esistenza è un’esistenza individuale.
            La ragione, quindi, conosce l’esistenza e conosce anche che l’esistenza è sempre, per quanto sia accessibile all’esperienza diretta, un’esistenza individuale. La ragione conosce inoltre che il concetto implica l’esistenza, e quindi l’esistenza in quanto reale negli individui. La ricerca del particolare, di conseguenza, è una tendenza naturale dell’intelletto. Nel procedere in questa ricerca, l’intelletto incontra la barriera della materialità. Un ostacolo che si oppone al progresso del movimento intellettivo può essere di due tipi. Può essere della natura di una resistenza impenetrabile, oscura, ingombrante, o, può presentarsi in una luce fioca, come se fosse semi trasparente, quindi insormontabile, ma riconoscibile nella sua natura. Quest’ultimo caso sembra essere quello realizzato nel tentativo dell’intelletto di raggiungere il particolare, della cui esistenza l’intelletto è sicuro già in precedenza, dal momento che la vera natura dei suoi contenuti, l’universale, testimonia il fatto che quello a cui si riferisce, esiste, seppure, nei particolari. Questi particolari possono essere pensati, in un modo generale, come essere materiale, perché la nozione di un particolare materiale, certamente, è raggiungibile dall’intelletto. La ragione, quindi, conosce quello che deve cercare; ma sulla strada di questa finalità preconcepita la ragione incontra un ostacolo insormontabile dietro a cui le cose desiderate sono celate.
            Alcuni fatti riguardano ugualmente la grammatica, la logica, la filosofia e la psicologia del linguaggio può essere menzionata a questo riguardo. Ci riferiamo ai giudizi cosiddetti distributivi. Le due proposizioni: “il cane ha quattro zampe”, e “ogni cane ha quattro zampe”, sono equivalenti; esse affermano lo stesso fatto, esse riferiscono dello stesso “Oggettivo”, per utilizzare la terminologia di A. v. Meinong. Esse sono intercambiabili. Il contesto psicologico, però, non è lo stesso in entrambi i casi. La prima proposizione, per così dire, è maggiormente intellettuale della seconda, che implica, in modo indiretto o per implicazione, un riferimento ai particolari. Questi particolari non sono afferrati come individuali; essi sono ciononostante intesi come particolari in un modo generale ed indefinito. Il fatto che l’intelletto possa formare queste due proposizioni mostra che il concetto come tale implichi una conoscenza intellettiva del particolare.
            Un altro punto dove l’intelletto giunge relativamente in contatto con il particolare è il nome proprio. Un nome, genericamente parlando, è un nome di una classe o di un universale. Un nome proprio è un nome comune ristretto fintanto da adattarsi ad un solo individuo. In quanto nome, il nome proprio appartiene al gruppo dei simboli vocali utilizzati per gli universali; in quanto nome proprio, si riferisce ad un particolare unico. Ci sono alcune transizioni tra il nome proprio e il nome comune. Un nome comune può essere utilizzato come nome per un particolare, ad esempio, un papà che chiama il suo ragazzo “figlio”; e un nome proprio può essere utilizzato in un modo generico, ad esempio, un bambino che chiama tutti i cani con il nome del suo proprio cane.
            Un altro fenomeno che è collegato a quello del nome proprio è il pronome possessivo. Aggiungendo “mio” o “suo” ad un nome comune, questo nome diventa il nome di un particolare; il mio cavallo, il mio amico, il suo libro, sono particolari. I pronomi possessivi si riferiscono alla persona che possiede una cosa. Appartenendo ad una persona un oggetto partecipa, in un certo senso, all’individualità della persona. (Questo è manifesto nell’attitudine che i bambini hanno nei confronti dei propri possedimenti. Sebbene sia un’idea erronea credere che il bambino non distingua tra se stesso e gli oggetti che lo circondano – infatti possiede una conoscenza abbastanza chiara, sebbene non esplicita e non formulata, dell’unicità del suo io, come Sant’Agostino aveva già sottolineato – è vero che le relazioni di un bambino verso le cose che gli appartengono o di cui è abituale sono più strette che nel caso degli adulti). Che qualcosa mi appartenga non è un dato dei sensi; difficilmente potrebbe essere dato dai soli sensi, e neppure dalla vis cogitativa, sebbene questa potenza sia in grado di afferrare alcune relazioni. Per realizzare pienamente il significato della relazione espressa dal “mio” l’uomo necessità di un insight intellettivo.
            Ci sono probabilmente altri modi ancora attraverso cui il particolare si avvicina all’intelletto. Ciononostante, non può mai entrare nella sfera dell’immaterialità. Ma l’intelletto conosce, attraverso l’indicazione allusa in precedenza, cosa troverebbe al di là della barriera, potendola passare. Ma l’intelletto deve passare la barriera per essere in grado di avere a che fare con il particolare? L’idea comune sembra essere che nel comprendere il significato di un particolare, o nel formare un giudizio riguardo ad esso, l’intelletto deve “contenere” questo particolare. Potrebbe essere, tuttavia, una nozione erronea dovuta all’illusione creata dalla forma grammaticale che esprime l’operazione intellettiva. Questa illusione sorge perché il nome del particolare deve essere impiegato nella frase. La frase è l’espressione di un’operazione intellettiva; così l’opinione comune che il particolare sia nell’intelletto allo stesso modo in cui è nei sensi.
            L'intelletto sa che ci sono i particolari. Sa anche che ultimamente tutti i suoi contenuti derivano dall'esterno. Soffre, come dice Rabeau, di uno shock dal fantasma. Subisce un altro shock quando incontra un'immagine. Questo non significa che il processo di astrazione debba ripetersi ogni volta che un'immagine si presenti. L'immagine può essere una dell'immaginazione, o una della percezione. Questo non fa alcuna differenza, dal momento che l'immagine della memoria, che eventualmente è rivissuta nell'immaginazione, deve sorgere simultaneamente al percetto, come giustamente evidenzia H. Bergson[117]. Anche le impressioni, di cui la mente non diviene conscia nel momento della loro presenza, determinano lo sviluppo di immagini memoriali. Le impressioni di cui non siamo consapevoli, vengono ricordate, e, in certe condizioni, richiamate[118]. A volte ha luogo un tipo di rinnovamento dei processi astrattivi, quando incontriamo un oggetto che riconosciamo in quanto conosciuto senza essere in grado di collocarlo. Il riconoscimento, però, di solito non consiste nel paragone di una nuova impressione con un'immagine; piuttosto consiste nella consapevolezza, che il nuovo oggetto – lo stesso si applica agli oggetti dell'intelletto – si accorda con una cornice o una costellazione già esistente[119].
            Che l'intelletto soffra un tale shock dall'attività della facoltà sensoriale postula una “continuità” tra i due. È questa continuità sufficientemente spiegata dal riferimento all'unità dell'anima a cui appartengono tutte le facoltà? Questo sembra essere dubbio, perché sussiste ancora la difficoltà che risulta dalla materialità delle facoltà sensoriali. Queste facoltà, però, non sono puramente materiali. Esse sono facoltà del composto, e di conseguenza, spirituali tanto quanto materiali. Difficilmente si può concludere così che la species sensibile, il fantasma, e gli stati mentali, in cui le impressioni sono conservate nella memoria, sono “spiritualizzate” in senso stretto; questa “spiritualizzazione” è relativa, e l'espressione non è nulla di più di una metafora descrittiva. Un'altra considerazione, però, sembra essere permessa. Analogicamente, si può asserire che il fattore spirituale nelle facoltà sensoriali sia collegato al fattore materiale in un modo simile a come l'anima è collegata al composto dell'essere umano. La “parte” fisica delle facoltà sensoriali è, in un certo modo, il fattore formale, e, come tale, accessibile all'intelletto. Così, ogni modificazione di carattere formale sarà alla portata della conoscenza intellettiva. Le impressioni dei sensi condizionano un'informazione accidentale della facoltà sensoriale, quindi, una modifica dell'elemento formale di queste facoltà. L'attività, o, vista da un altro angolo, la passività della facoltà sensoriale diventa così un oggetto proprio dell'intelletto.
            È possibile che una teoria soddisfacente della conoscenza intellettiva dei particolari possa essere sviluppata lungo queste linee. Restano, però, due problemi che devono essere menzionati, anche se una loro discussione dev'essere postposta. Uno di questi problemi si riferisce al dominio che l'intelletto esercita sull'immaginazione nella “scelta dei fantasmi”. L'altro problema concerne il modo in cui il significato è “contenuto” nei fantasmi simbolici. Quest'ultimo problema necessita di un'analisi così lunga che non può neppure essere toccato in questo contesto. Alcune parole possono essere proferite, però, sul promo problema.
            Nessuna facoltà dell'anima umana opera mai isolata; ogni operazione mentale è sempre la cooperazione di molte, praticamente, di tutte le facoltà. La percezione implica un fattore intellettivo; l'intelletto dipende dalle facoltà sensoriali; la volontà fa affidamento sull'intelletto che fornisce le finalità; l'appetito sensoriale non può operare senza la conoscenza sensoriale; e neppure la volontà può procedere all'azione senza che gli appetiti sensoriali cooperino. Il fatto, quindi, che un'operazione intellettuale attui l'immaginazione non è né un'eccezione né ad ogni modo più stupefacente rispetto alle altre attività della mente. Il problema si pone per il fatto che una precisa operazione intellettuale attua una precisa attività immaginativa. Osserviamo, a volte, che l'immaginazione lavora non in accordo con i bisogni dell'intelletto. Frequentemente non possiamo trovare la parola giusta per esprimere quello che è nella nostra mente, l'analogia realmente illustrativa o l'immagine non è a portata di mano, cerchiamo un simbolo appropriato. La precisa cooperazione dell'immaginazione, quindi, non è un modo prestabilito di funzionamento ma un conseguimento che deve essere allenato con l'esperienza, sviluppato dall'esercizio, controllato dall'intelletto. Le nozioni che sono ben note, facilmente trovano le immagini corrispondenti ed i simboli già pronti nell'immaginazione e nella memoria. Per altri, più inusuali, e per i concetti recentemente formati con un più alto grado di astrazione, le immagini devono essere create o ricercate meticolosamente. L'immagine particolare è sempre al di fuori dell'intelletto. L'attività particolare dell'immaginazione non lo è. È probabile che l'attività particolare dell'immaginazione sia strettamente correlata all'immagine particolare. Nella filosofia di Husserl c'è una nozione che sembra applicarvisi. Egli parla di una stretta correlazione tra Noesis e Noema, l'aspetto dell'atto del conoscere e il suo aspetto del contenuto. Quello che Husserl afferma della conoscenza teoretica o della conoscenza dell' “essenza” (Wesensschau) si applica ad ogni operazione mentale di qualsiasi tipo. Questa relazione, se comprendiamo le cose correttamente, non è dovuta a leggi psicologiche, ma dipende da fatti ontologici. Dipende dallo stesso parallelismo di base tra le nozioni e la realtà che permette alla mente umana di comprendere la realtà e di applicare alle cose reali le idee pensate dalla mente.
            Il problema della conoscenza, sia intellettuale che sensoriale, in ultima analisi non è risolto unicamente dalla psicologia. È un problema psicologico, dal momento che la sua soluzione richiede una conoscenza completa dei fatti empirici che è il compito della psicologia. La psicologia sola, però, non può scoprire nessuna risposta ultima ai suoi quesiti. Per conformarsi al suo compito, la psicologia deve essere molto di più di una psicologia empirica; la psicologia trascende i suoi confini, benché giunga ai suoi problemi ultimi e più profondi. Per essere completa, la psicologia deve abbracciare la filosofia.


Abbiamo tentato, nelle pagine precedenti, di riferire la teoria Tomista della conoscenza intellettiva, specialmente, in riferimento ai particolari materiali. Ci siamo anche sforzati di mostrare che non c'è alcuna contraddizione tra le affermazioni della psicologia Tomista e le scoperte della moderna ricerca sperimentale, soprattutto in riferimento al “pensare senza immagini”. Infine, abbiamo tentato di indicare i modi in cui le soluzioni ad alcuni problemi di base possono essere trovate; i problemi che sono di casa, per così dire, tra i confini della psicologia e della filosofia. Non possiamo vantarci di aver proposto delle soluzioni definitive e totalmente soddisfacenti a questi problemi, speriamo che la strada sia spianata per ulteriori indagini. Lo studio di questi importanti problemi dovrà procedere attraverso le indagini sperimentali tanto quanto le analisi filosofiche, ontologiche. La psicologia è stata chiamata da Kant uno “straniero nel campo della filosofia” che nel tempo tornerà verso il proprio campo, ossia, una vera antropologia filosofica. Questa antropologia filosofica può essere chiamata una metafisica della persona umana. Siamo ancora lontani dal gettare anche solo le fondamenta di questo edificio. Quello che abbiamo tentato di affermare qui non è solo un contributo per le fondamenta; esso aspira ad essere niente di più che uno sketch preliminare, utile, forse, per tratteggiare il promo abbozzo.


[1]              Oppure esso ha habitudinem ad multa; Suma Theol. I, q. 85, a. 3, ad 1um.
[2]              Per brevità, il termine “particolare” sarà utilizzato nel senso speciale di “particolare materiale”, e quando c'è un riferimento ai particolari immateriali, questo verrà espressamente menzionato. Lo stesso si applica al termine “singolarità”.
[3]              “Respondeo dicendum, quod impossible est intellectum nostrume, secundum presentis vitae statum quo passibili corpori conjugitur, aliquid intelligere in actu, nisi convertendo se ad phantasma”.
[4]              “Unde manifestum est, quod ad hoc quod intellectus actu intelligat, non solum accipiendo scientiam de novo, sed etiam utendo scientia iam acquisita, requitur actus imaginationis et ceterarum virtutum” (loc. cit.).
[5]              “Secundo, qua hoc quilibet in seipso experiri potest, quod quando aliquis conatur aliquid intelligere, format aliqua phantasmata per modum exemplorum, in quibus quasi inspiciat quod intelligere studet. Et inde est etiam quod quando aliquem volumus facere aliquid intelligere, proponimus ai exempla, ex quibus sibi phantasmata formare possit ad intelligendum” (loc. cit.).
[6]              “...quorum non sunt phantasmata, cognoscuntur a nobis per comparationem ad corpora sensibilia, quorum sunt phantasmata... Et ideo cum de huiusmodi aliquid intelligimus, necesse habemus converti ad phantasmata, licet ipsorum non sint phantasmata” (ibid., ad Sum.).
[7]              Per la conservazione delle species intelligibiles nell'intelletto stesso, cf. Summa Theol., I, q. 89, a. 5, c. Questo passaggio riguarda l'anima separata. In questo articolo però tutte le questioni riguardanti l'anima separata vengono scartate; trattiamo esclusivamente della psicologia della cognizione.
[8]              Ibid.
[9]              Summa Theol., I, q. 89, a. 5, c.
[10]             II Sent., d. XX, q. 2, ad Sum.
[11]             Q. D. de Ver., q. 10, a. 8, ad 2um contra.
[12]             Ibid., q. 8, a. 13, ad 4um.: In eisdem phantasmatibus ratio nostra in diversa tendit cogitatione.
[13]             I Sent., d. II, q. 1, a. 3, sol.; anche III Sent., d. XXIII, q. 1, a. 2, sol.
[14]             Summa Theol., I, q. 87, a. 1, c.; in VII Metaph., lect. 2; in VIII Metaph., lect. 1.
[15]             “Simul enim intelligit totum continuum, non partem post partem; et similiter simul intelligit propositionem, non prius subjectum et postea praedicatum; quia secundum unam totius speciem omnes partes cognoscit” (I Cont. Gent., 55).
[16]             “Et sic etiam intellectus noster simul intelligit subjectum et praedicatum, prout sunt partes unius propositionis; et duo comparata, secundum quodo conveniunt in una comparatione. Ex quo patet quod multa, secundum quod sunt distincta, non possunt simul intelligi; sed secundum quod uniuntur in uno intelligibili, sic simul intelliguntur. Unumquodque autem est intelligibile in actu, secundum quod eius similitudo est in intellectu. Quaecumque igitur per unam speciem intelligibilem cognosci possunt, cognosciuntur ut unum intelligibile; et ideo simul cognoscuntur” (Summa Theol., I, q. 58, a. 2, c.).
[17]             II Cont. Gent., 98; Summa Theol., I., q. 98, a. 1, c.
[18]               “In illa cognizione quae est per formas, quae sunt rerum causae, vel erarum impressiones, pervenitur ad singularia, quamvis huiusmodi formae sint omnino immateriales, eo quodo causa rei prima est quae rebus esse influit: esse autem communiter materiam et formam respicit. Unde huiusmodi formae ducunt directe in cognitionem utriusque, sc., materiae et formae; et propter hoc per talem cognitionem cognoscuntur res et in universali et in singolari. Anima ergo cum corpori coniucta est non cognoscit nisi per formas a rebus acceptas; et ideo per potentiam illam cognoscitivam in qua formae a rebus omnino immaterialiter recipiuntur, directe singularia non cognoscit, sed solummodo per potentias organis affixas, sed indirecte et per quondam reflexionem etiam per intellectum quo organo non utitur cognoscit singularia; prout, sc., ex objecto proprio redit ad cognoscendum suum actum ex quo actu redit in speciem quae est intelligenti principium; et ex ea procedit ad considerandum phantasmata, ex quo species huiusmodi est abstracta; et sic per phantasmata singolare cognoscit” (IV Sent., d. L, q. 1, a. 3, sol. Cf. Q. D. de Ver., q. 2, a. 6, c., dove la conoscenza intellettiva del particolare è detta essere secundum continuationem quondam intellectus ad imaginationem).
[19]             Ibid., ad 2um et 3um contra.
[20]             Ibid., ad 3um contra.
[21]             III Sent., d. XXIII, q. 2, a. 2, ad 3um.
[22]             Q. D. de Ver., q. 1, a. 9, c.
[23]             “…per accidens singularibus se immiscet inquantum continuatur viribus sensitivis quae circa particularia versantur. Quae quidam continuatio est dupliciter. Uno modo inquantum motus sensitivae partis terminatur ad mentem, sicut accidit in motu qui est a rebus ad animam, et sic mens singolare cognoscit per quondam reflexionem, prout mens conoscendo objectum suum, quod est aliqua natura universalis, redit in cognitionem sui actus, et ulterius in speciem quae est actus sui principium, et ulterius in phantasmata a quo species est abstracta; et sic aliquam cognitionem de singolari accipit. Alio modo secundum quodo motus, qui est ab anima ad res, incipit a mente et procedit in partem sensitivam, prout mens regit inferiores vires, et sic singularibus se immiscet, mediante ratione particolari quae est potentia quaedam individualis quae alio nomine dicitur cogitativa… Universalem sententiam quam habet mens de operabilibus non est possibile applicari ad particularem nisi per aliquam potentiam mediam apprehendentem singularem” (ibid., q. 10, a. 5, c.).
[24]             Ibid., q. 10, a. 5, ad 3um.
[25]             Ibid., q. 19, a. 2, c.
[26]               III Sent., d. XXVI, q. 1, a. 2; Q. D. de Ver., q. 15, a. 1, c.; II Cont. Gent., 91.
[27]              II Cont Gent., 98.
[28]             Ibid., e III Cont. Gent., 46.
[29]             II Cont. Gent., 96; Summa Theol., I, q. 85, a. 5, ad 2um.
[30]             “primo e principaliter universalium…; sillogismorum conclusiones non sunt solum universales sed etiam particulares quia intellectus per quandam reflexionem ad materiam se extendit” (Summa Theol., II-II, q. 47, a. 3, ad 1um).
[31]             “Prudentia consistit…in sensu interiori qui perficitur…ad prompte judicandum de particularibus expertis…principaliter quidem est (prudentia) in ratione; per quandam applicationem pertingit usque ad huiusmodi sensum” (ibid., ad 3um).
[32]             “…intellectus qui ponitur pars prudentiae est quaedam recta aestimatio de aliquo particulari fine” (ibid., q. 49, a. 2, ad 1um).
[33]             Ibid., I-II, q. 60, a. 5, c.
[34]             Ibid., I, q. 13, a. 1.
[35]             Ibid., q. 85, a. 3, c., II Cont. Gent., 98.
[36]             “Cognitio singularium non pertinet ad perfectionem animae intellectivae secundum cognitionem speculativam; pertinet tamen ad perferctionem aius secundum cognitionem practicam, quae non perficitur absque cognitione singularium in quibus operatur” (Ibid., III, q. 11, a. 1, ad 3um).
[37]             Ibid., I, q. 79, a. 4, ad 4um.
[38]             Cf. Q. D. de An., a. 20, c.
[39]             Cf. ibid., a. 7.
[40]             Cf. ibid., a. 12.
[41]             Ibid., a. 15.
[42]             “Anima conjuncta corpori per intellectum cognoscit singularia, non quidem directe sed per quandam reflexionem; inquantum, sc., ex hoc quodo apprehendit suum intelligibile, revertitur ad considerandum suum actum et speciem intelligibilem quae est principium suae operationis; et eius speciei originem; et sic venit in considerationem phantasmatum et singularium quorum sunt phantasmata. Sed haec reflexio compleri non potest nisi per adjunctionem virturis cogitativae vel imaginativae” (ibid., a. 20, ad 1um contra).
[43]             Ibid., a. 15, c.
[44]             In de Mem. Et Rem., lect. 2, n. 316, (Ed. Pirotta).
[45]             “Scientia est de aliquo dupliciter… Alio modo est de aliquibus secundario et quasi per reflexionem quandam, et sic de rebus illis est quarum illae rationes sunt, inquantum rationes illas applicat ad res etiam particulares quarum sunt adminiculo inferiorum virium” (q. 5, a. 2, ad 4um).
[46]             “Dicendum quod intellectus nostri operatio non est in praesenti statu sine phantasmate quantum ad principium cognitionis; non tamen oportet ut semper nostra cognitio ad phantasmata terminetur ut sc. illud quod apprehendimus judicemus esse tale quale est phantasmata per quod apprehendimus” (q. 6, a. 2, ad 2um).
[47]             Q. D. de Malo, q. 16, a. 8, ad 3um.
[48]             “Non possemus sentire differentiam dulcis vel albi nisi esset una potentia sensitiva (sc. sensus communis, v. In De An., III, 3, nn. 601) communis quae cognosceret utrumque; ita etiam non possemus cognoscere comparationem universalis ad particulare, nisi esset una potentia quae nosceret utrumque. Intellectus igitur utrumque cognoscit, sed alio et alio modo” (In III de An., 8, n. 712).
[49]             Sulla riflessione in generale si veda: J. Webert, “Reflexio, Etude sur les opérations reflexes dans la psychologie de St. Thomas”, Mél. Mandonnet, Vol. I, p. 285, Paris, 1930.
[50]             “Imageless Thought”, Jour. of Phil., 1906, 3, 70; anche Studies in Philosophy and Psychology. A Commemorative Volume by Former Students of Ch. E. Garman, 1906, pag. 351.
[51]             Journ. of Phil., 1906, 3, 641.
[52]             Am. Journ. Psychol., 1924, 35, 88; anche R. H. Wheeler, ibid., 1922, 33, 361.
[53]             “An Experimental Study of Patterns of Thought”, Ped. Sem., 1924, 31, 352. Anche C. C. Pratt, “Thought and Reasoning”, Psychol. Bull. 1928, 25, 558.
[54]             “La pensée sans images”, Rev. Philos., 1903, 28, 138.
[55]             “Uber Gedanken”, Arch. f. d. ges. Psychol., 1907, 9, 357.
[56]             Loc. cit., p. 317.
[57]             Loc. cit., pag. 318.
[58]             “Das schlussfolgernde Denken”, Erg. Bd. Stimmen aus Maria Laach, 1916. Anche: Michotte e Ransy, Contribution à l’étude de la mémoire logique, Louvain: 1912.
[59]             “Uber Begriffsbildung”, Leipzig: 1922.
[60]             A. Flach, “Ueber symbolische Schemata im produktiven Denkprozess”, Arch. f. d. ges. Psychol., 1925, 378.
[61]             M. F. Dunn, “The Psychology of Reasoning”, Studies in psychol. And Psychiat., 1926, 1, n°. 1.
[62]             Ueber die Gesetze des geordneten Denkverlaufs I. Stuttgart: 1913; Zur Psychologie des produktiven Denkens und des Irrtums. Ueber die Gesetze des geordneten Denkverlaufes, II. Bonn: 1922.
[63]             Loc. cit., I, p. 311.
[64]             Loc. cit., I, p. 219.
[65]             Loc. cit., II, p. 120.
[66]             Loc. cit., II, p. 146.
[67]             Valuation, its Nature and Laws, New York: 1909, pag. 106.
[68]             I seguenti studi sperimentali possono essere menzionati in quanto contengono dei contributi di valore per il nostro problema: H. E. Hengstemberg, “Erwaegungen ueber den Denkvorgang”, Arch. f. d. ges. Psychol., 1929, 67, 131; M. Simoneit, “Beitraege zur Psychologie des Denkens”, ibid, 1926, 55, 198; E. Jacob, “Ueber Entstehung und Verwendung von Begriffen”, ibid, 1925, 51, 533; S. Fischer, “Ueber das Entstehen und Verstehen von Namen”, ibid., 1922, 43, 43; C. J. Taylor, “Ueber das Verstehen von Worten und Saetzen”, Zschr. f. Psychol., 1906, 40, 225; Lindworsky, “Zur Psychologie der Begriffe”, Phil. Jahrb., 1919, 32, 15; A. Wenzel, “Erinnerungsarbeit bei erchwerter Wortfindung”, Arch. f. d. ges. Psychol., 1936, 97, 294; E. Peillaube, “L’étude expérimentale de la pensée”, Rev. de Philos., 1928, 28, 397; Fr. Aveling, “The Rilevance of Visual Imagery in the Process of Thinking”, Brit. Journ. Of Psychol., 1927, 18, 15; L. Rangette, “Untersuchungen ueber die Psychologie des wissenschaftlichen Denkens auf experimenteller Grundlage”, Arch f. d. ges. Psychol., 1917, 36, 169; A. Burloud, La pensée conceptuelle, Paris: 1927.
[69]             “The Role of Visual Imagery in Reasoning” Brit. Journ. Of Psychol., 1935, 25, 436.
[70]             “The Solving of Problem Situations by Preschool Children”, Teach. Coll. Contr. to Educ., 1928, n° 323, p. 69.
[71]             “The Problem of Insightful Behavior”, Psychol. Mon., 1933, 44, n° 197. Anche: Matheson, “A Study of Problem Solving”, Child Devel., 1931, 2, 242.
[72]             “Urteil und Beurteilung”, Arch. f. d. ges. Psychol., Erg. Bd. III, 1931.
[73]             “Analyse eines Seelenblinden von der Sprache aus”, Psuchol. Forsch., 1922, 16, 1.
[74]             “The Temporal Relations of Meaning and Imagery”, Psychol. Rev., 1915, 22, 189; “Meaning and Imagery”, ibid, 1919, 24, 114; “Image and Meaning in Memory and Perception”, Psychol. Mon., 1919, 27, n° 119.
[75]             “More Concerning the Temporal Relation of Meaning and Imagery”, Psychol. Rev., 1917, 24, 114. Per i dettagli si veda: T. V. Moore, Cognitive Psychology, Chicago: 1939, pp. 334 e ss.
[76]             Aphasia and Kindred Disorders of Speech, London: 1926.
[77]             Selz, loc. cit., II, p. 345.
[78]             Questa sembra essere l'opinione di H. Schroeder, “Experimentelle Untersuchungen ueber die Bedeutungserfassung”, Arch. f. d. ges. Psychol., 1934, 90, 103.
[79]             “Structure intentionelle de l'image”, Rev. de Metaphys. et. Mor., 1938, 45, 543. L'evidenza sperimentale non ci permette di sostenere più che “senza sensazioni attuali o rivissute nessun pensiero avviene” (H. Gruender, Experimental Psychology, Milwaukee: 1932, p. 387). Questa opinione è chiamata da C. Spearman (The Nature of Intelligence and the Principle of Cognition, London: 1927, p. 179) la “dottrina iconica”. Essa si appoggia, dice l'autore, parzialmente su “l'azione del principio del contatto”, e parzialmente sull'idea che il pensiero non si basi su di una esperienza reale proprio come la raffigurazione deve essere una non entità, “le fauci del gatto senza il gatto”.
[80]             “Le Correctorium Corruptorii Quare”, Bibl. Thom., IX, 1927.
[81]             Defensio Theologiae S. Thomae, I, d. III, q. 2, a. 3.
[82]             “Advertendum...quod primum cognitum ab intellectu non est universale sed singulare...primum objectum; et omnis per se conditio objecti praecedit actum potentiae. Potentia enim per suum actum non facit suum objectum sed supponit...sed universale vel conditio universalis non praecedit actum intelligendi, immo fit per actum intelligendi, etc. E dopo: Si intellectus noster non intelligeret prima intellectione singulare, hoc esset aut quia non representaretur ei, aut quia non posset aut quia non vellet. Primum non potest dici quia representatio quae fit intellectui nostro, fit per phantasma quod est repraesentativum rei singularis et sine eo intellectus nihil potest de novo intelligere. Nec secundum quia constat quod potentia intellectus nostri se extendit ad cognitionem singularium, alioquin de eis non disputaremus nec aliqua faceremus per liberum arbitrium, cum factiones sint singularium et circa singularia. Nec tertium quia velle sequitur cognitionem...(Intellectus illud per se et primo intelligit quod per se et primo movet intellectum ad intelligendum...Sed singulare primo et per se movet et non universale” (Durante da S. Porciano, In quattuor libros sententiarum, Venet., 1586, f. 140r; I d. III, a. 7; cf. ibid., q. 5 e d. XXVII, q. 1).
[83]             Loc. cit., ad 7um.
[84]             Comm. in Summam Theol., I, q. 79, a. 3, n° 9 e 10.
[85]             “Suarez, de Anima”, New Scholasticism, 1932, 6, 115.
[86]             In I, q. 86, a. 1.
[87]             Curs. Phil. Nat., III, q. 10, a. 4; Ed. Vives, Vol. III, pag. 474.
[88]             Ed. Vives, Vol. I, pag. 647.
[89]             IV Sent., d. L, q. 1, a. 3 (Venetiis, 1584, f. 206 ff.). Sostiene le sue idee sull'oggetto primario ed adeguato dell'intelletto nell'introduzione. (Ibid., f. 13, v.) Quod eius (sc. Intellectus) adaequatum objectum est ens phantasiabile mediate vel immediate. Et appello ens phantasiabile immediate quod proprie cadit sub phantasmate. Sed mediate cuius cognitio arguitive vel illative vel quocumque modo deducibilis est ex phantasmate sive ex notitia eius quod proprie cadit sub phantasmate. Questo si riferisce all'intelletto considerato secundum suam capacitatem naturalem praecisum ab omni dispositione sive influentia supernaturali. Ma se si considera l'intelletto secundum suam potentiam sive capacitatem obedientialem, allora il suo obiectum adaequatum est ens inquantum ens, sive ens universaliter sumptum, comprehendens creaturam et creatorem, creatum vel creabile.
                La teoria principale è esposta come segue: Intellectu conjuncto pro statu praesentis vitae res materialis particularis est per se intelligibilis. Qualsiasi cosa sia contenuta da un oggetto adeguato per l'intelletto è per se intelligibile... Ens phantasiabile tam mediate quam immediate est adaequatum objectum nostri intellectus pro statu praesentis vitae...secundum suam naturalem capacitatem...ens materiale est per se phantasiabile; ergo. Inoltre: per formulare un giudizio particolare l'intelletto deve conoscere il particolare. Gli atti morali riferiscono di particolari.
                Obiezioni: (1) Aristotele conosceva bene l'affermazione intellectus est universalium. Boezio: singulare sentitur... (2) L'assenza di proporzione tra la cosa materiale e l'intelletto immateriale. (3) L'intelletto è collegato agli universali come i sensi lo sono ai particolari. I sensi non conoscono l'universale, ergo. (4) Gli oggetti intellettuali sono astratti dall'hic et nunc, il particolare è hic et nunc. (5) Quae sunt unita in superioribus sunt separata in inferioribus; Lib. De causis. Gli angeli conoscono intellettualmente sia gli universali che i particolari; nell'uomo ci sono due differenti facoltà. (6) L'intelletto possibile è distinto dall'immaginazione, quest'ultima ha a che fare con i particolari. (7) Arguit specialiter quidam doctor sic (Marginal note: Aureolo, I Sent., d. XXXV, q. 4, a. 1): Impossibile est singulare in sua singularitate cognosci nisi designando et demonstrando ipsum sub certo et determinato situ in ordine ad potentiam apprehendentem, sive in ordine ad ipsum qui cognoscit singulare. Sed talem cognitionem designantem impossibiile est esse in intellectu; et notitia singularis signati, inquantum signatus est, impossibile est esse in intellectu. Aureolo prova questo: Omne cognoscens aliquid propria cognitione virtute illius cognitionis distinguit ipsum ad omni alio. Sed si ponerentur duo homines similes in colore, figura et quantitate ac universaliter in omni accidente tam animae quam corporis constat quod qui illos imaginaretur, non posset unum distinguere ab alio, nisi cognitione demonstrativa et situativa, dicendo, iste non est ille. L'unica caratteristica distinguibile è quella dell'essere hic e l'altra illic...non potest talis apprehensio esse in intellectu qui est potentia immaterialis et non extensa.
                Risposta: Illud quod ponit differetiam inter aliqua necesse est ut utrumque extremorum, illius differentiae cognoscat...Intellectus possibilis ponit et cognoscit differentiam inter formam communicabilem sive naturam universalem et naturam hanc particularem, indivudalem et singularem. L'intelletto sa che l'universale più astratto contiene diversi gradi di astrazione, attraverso la species specialissima e il particolare. Negare questo implica che l'intelletto nel formare un giudizio sui particolari è incapace di comprendere il suo atto proprio.
                Il primo oggetto dell'intelletto è quindi l'universale, presentato dalla species intelligibilis. L'oggetto adeguato, però, è un altro; essendo diventato consapevole della quidditas rei materialis, l'intelletto procede alla conoscenza di molte altre cose che anch'esse vengono conosciute dall'intelletto benché non primo. (In modo infelice non abbiamo detto cosa caratterizzi un oggetto come adeguato). Neanche la mancanza di proporzionalità può essere sostenuta; l'intelletto è inesteso ma conosce l'estensione, è immateriale ma conosce la materia. L'oggetto adeguato dell'intelletto include non solo l'universale astratto come tale, ma tutto ciò che è conosciuto dalle facoltà sensitive, queste stesse facoltà, le loro operazioni, quia omne illud cujus notitia est deducibilis ex phantasmate clauditur ingra ambitum objecti adaequati potentiae intellectivae. La risposta alla quarta e quinta obiezione non ha bisogno di essere prodotta. Alla (6) l'autore sottolinea che l'intelletto conosce gli universali e i particolari, e che la prima capacità è sufficiente per distinguere l'intelletto dall'immaginazione. Gli argomenti di Aureolo sono qualificati come apparentes sophisticationes. Ci sono altri principi di singolarità oltre al posto che conduce ad una conoscenza della singolarità. Questi principi sono intrinseci e la loro conoscenza è quindi anteriore a quella degli estrinseci respectus ad aliquam creaturam, ad es., posto. La singolarità non dipende dal sito, quindi neppure la conoscenza della singolarità.
                Thomas conclude che il particolare non può essere l'oggetto primario dell'intelletto. La species intelligibilis recepta in intellectu possibili è libera da ogni condizione materiale ed individualizzante e rappresenta immediate solamente la quiddità universale. La conoscenza del particolare presuppone la conoscenza dell'universale. Quanto prima l'intelletto conosce l'universale, esso si riflette sulla sua propria attività, conosce se stesso come conoscente, ed anche come la causa della sua conoscenza, quia naturale est intellectui quodo cognitio effectu immediate cognoscit causam, maxime si sit causa proportionata et sit praesens intellectui. Il fantasma non è in intellectu, sed praesens intellectui: ideo intellectus cognoscit huiusmodi pantasmata et per consequens cognoscit tale particulare cuius pefecta similitudo relucet in tali phantasmate. Unde hic est rectus ordo cognitionis intellectivae...quod intellectus actu recto primo cognoscat ipsum universale...secundo actu reflexo cognoscit suum intelligere (includendo evidentemente tutti i passi dell'operazione intellettuale e la species intelligibilis tra di essi), et tertio actu directo cognoscit ipsum particulare ut relucet in phantasmate. (Contrariamente a Caietano, Thomas usa il termine relucentia per designare l'apparenza del particolare nell'immagine ed attraverso l'immagine).
                Thomas quindi riporta gli argomenti in favore di una conoscenza intellettuale diretta del particolare. Sostiene che questi argomenti siano invalidi. Di questa discussione un punto soltanto merita menzione. La speculazione del fantasma, dice il nostro autore, avviene non antecedenter sed concomitanter vel consequenter. Est tamen hic notandum quod quamvis intellectus intelligat universale et intelligat se intelligere priusquam intelligat particulare ut relucet in phantasmate, tamen quia in omni intellectione rei materialis isti tres actus ita velociter se consequuntur quod tempus interpositum non est percetibile.
[90]             “La présence des choses à l'Intélligence”, Rev. Neo-Schol., 1930, 32, 145. Cf. anche “La Présence de l'intélligibile à la coscience selon S. Thomas et Cajetan”, Philos. Perenn., Regensburg: 1930, Vol. I, p. 161; “La présence immédiate des choses”, Rev. Neo-Schol., 1927, 29, 179; M. D. Roland-Gosselin, “Sur la notion de 'présence' en épistémologie”, Rev. Scienc. Phil. Theol., 1928, 17, 77.
[91]             Caietano, In Summam Theol., I, q. 79, a. 3, n. 6-12.
[92]             “Das Bindeglied zwischen der geistigen und sinnlichen Erkenntnis”, Div. Thomas (Friburg): 1937, 15, 243.
[93]             “Die Koerperwesen im Einzelding und im menschlichen Verstand”, Div. Thomas (Fribourg): 1938, 16, 257.
[94]             What Man Has Made of Man, New York: 1937, p. 162, nota 18. Alcuni rilievi pertinenti al ruolo delle immagini nei processi intellettuali possono essere trovati in R. Lacroze, La function de l'imagination, Parigi: 1938, pag. 145 e seguenti.
[95]             The Degrees of Knowledge, New York: 1938, pag. 35, nota a pie di pagina 2.
[96]             Cf. ad. es., C. Nink, “Die intellectuelle Erkenntnis”, Phil Jahrb., 1928, 41, 273. “So hat jedes individuelle Ding seine eigene Wesenheit” che è appreso dall'intelletto come “allgemeine Gestalt”.
[97]             Le Thomisme devant la philosophie critique, pag. 168.
[98]             Metaphysik der Erkenntnis, 2° ed., Leipzig: 1927.
[99]             Sein und Zeit, Halle a. S: 1929.
[100]            “Species, Verbum, L'activité intelléctuelle selon S. Thomas”, Bibl. Thom., XXII, pag. 85.
[101]            “L'intuition intelléctuelle et le problème de la métaphysique”, Arch. De Phil., 1934, 11, n°2.
[102]            “St. Thomas et notre connaissance de l'ésprit humain”, Arch. De Phil., 1928, 6, n°2.
[103]                  “Peut-on parler d'intuition intelléctuelle dans la philosophie Thomiste?”, Philos. Perennis, Regensburg: 1930, Vol. II, pag. 742.
[104]            “Essai d'une critique de la connaissance”, Bibl. Thom., XVII.
[105]            Loc. cit.
[106]            M. R. Cohen, Reason and Nature, 6° ed., New York: 1932, pag. 215.
[107]            R. Allers, “Bild und Gedanke”, Zschr. f. d. ges. Neurol. u. Psychiatr., 1922, 1.
[108]            “Zur Psychologie und Statistik der Metapher”, Arch. f. d. ges. Psychol., 1914, 31, 279.
[109]            Un altro passaggio rilevante lo si può trovare nella Kritik der Urtelskraft di Kant, § 59, “Von der Schoenheit als Sumbol der Sittlichkeit”.
[110]            Q. D. de Veritate, q. 10, a. 3, c.
[111]            Op. cit., pag. 131.
[112]            “L'abstraction”, Rev. Neo-Schol., 1938, 41, 1.
[113]            Per un buon studio storico si veda: J. Webert, “L'image dans l'oeuvre de St. Thomas”, Rev. Thomiste, 1926, 31, 427.
[114]            Geist in Welt. Zur Metaphysik der endlichen Erkenntnis bei Thomas von Aquin, Innsbruck: 1939.
[115]            Cf. i commenti di L. Raeyemaker, Rev. Néo-Schol., 1937, 40, 604, nel suo resoconto critico sul lavoro di Fuetscher su Akt und Potenz.
[116]            Cf. i vari studi sulla filosofia di Descartes del Dot. E. Gilson.
[117]            “Le souvenir du présent et la fausse reconnaissance”, Rev. Philos., 1908, 66, 561.
[118]            R. Allers e J. Teler, “Ueber das Auftauchen enbemerkter Eindrucke in Assoziationen”, Zschr. f. d. ges. Neurol. u. Psychiat., 1923.
[119]            Cf. O. Selz, 1. c. passim.

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