E' stata una sorpresa imbattermi nelle lezioni sulle malattie spirituali di don Paulo Ricardo Azavedo Junior, sacerdote brasiliano attivo in diversi progetti d'evangelizzazione culturale. Riprendendo l'insegnamento dei Padri della Chiesa (in particolare Evagrio Pontico) padre Paulo introduce in pochi minuti le cosiddette malattie spirituali e la loro terapia. Dalle sue parole si evince che il tema è di per sè abbastanza semplice: la philautia, o superbia, "l'amore di sé contro di sé", è il segno distintivo della natura umana decaduta, ossia della scelta di rivoltarsi contro l'ordine creato da Dio e Dio stesso, il peccato originale. Da essa derivano altri atteggiamenti, come la gastrimargia (o gola), la filargiria (o avarizia) e la cenodossia (o orgoglio). I Padri insegnano che per ogni malattia spirituale esiste una specifica terapia: continenza, temperanza, altruismo, umiltà, ecc. Ce n'è abbastanza per una vera e propria psicologia, in barba a chi dice che lo studio della mente nasce con Freud o con i laboratori di psicofisica. Ed è proprio nella congiuntura con la psicologia contemporanea che, a mio avviso, il discorso si fa più complesso: poiché la modernità ha operato una frattura ed una censura nei confronti del sapere medievale che risulta difficile l'integrazione tra la psicologia dei Padri della Chiesa e le concezioni contemporanee. Spetta agli psicologi cattolici recuperare questo prezioso contributo ed armonizzarlo con la odierna terapia. Per fortuna su questo tema specifico si sono già cimentati alcuni autori, come Jean-Calude Larchet, di cui in italiano sono disponibili l'imperdibile "L'inconscio spirituale" ed il corposo "Terapia delle malattie spirituali", ed il prolifico Anselm Grun, il quale ha edito un libricino semplice e riassuntivo che tratta più o meno degli stessi temi, con riferimenti junghiani: "Per vincere il male".Ringrazio padre Paulo per l'autorizzazione a riprendere i video nel nostro blog.
Da una prospettiva tomista come
collocare questo prezioso sapere? Certamente l'integrazione richiede uno
studio mirato, che permetta di superare gli ostacoli contenutistici e
terminologici insiti nelle differenti concezioni. Mi sembra, però, che
i punti di vicinanza superino di gran lunga le distanze. La struttura
dell'antropologia tomista consente di collocare le osservazioni e le
pratiche dei Padri all'interno di un modello di mente e di uomo che ne
permette da una parte una migliore comprensione, dall'altra una
interpretazione che eviti lo spiritualismo o lo psicologismo.
In
questa introduzione mi permetto di approfondire un aspetto: il termine "malattia" con cui si denominano comunemente le
malattie spirituali. Una malattia, ai nostri giorni, è una affezione
biologica; in termini filosofici si direbbe materiale. La causa è un particolare
materiale e l'effetto è una modificazione del corpo umano. Il termine che
la psicologia contemporanea utilizza invece per definire le affezioni
della mente è "disturbo". Esso indica una turba, cioè un cambiamento
di una funzionalità anche senza la modifica delle strutture. In termini tomisti si potrebbe forse dire
che il disturbo è un cambiamento della natura di un oggetto, ossia una
perturbazione nel (naturale) movimento dalla potenza all'atto. Ad
esempio: una depressione è un disturbo della persona, la quale non
cammina più verso l'attualizzazione delle sue potenzialità. Le malattie a
cui fanno riferimento i Padri, ed in particolare la phialutia, sono atteggiamenti dell'uomo. Intendiamo per atteggiamento la tendenza ad un
comportamento abituale, il quale ha l'approvazione (se così si può dire)
della volontà, è cioè un comportamento volontariamente attuato. Un
atteggiamento, a lungo andare, diviene abituale; esso cioè si
automatizza, in modo tale che la persona possa eseguire l'atto senza
porvi attenzione e/o coscienza. E' il caso, ad esempio, del semaforo rosso: ogni guidatore sa che col rosso bisogna frenare. Eppure quante volte freniamo senza neppure avere la coscienza di farlo! Per questo motivo l'abitudine può sembrare un
automatismo ove la volontà non entra in gioco, ma in realtà essa è
pienamente responsabile dell'abitudine stessa. Le abitudini (o disposizioni abituali, in quanto il comportamento dispone l'uomo alla sua ripetizione in un contesto abituale) di cui parla san Tommaso possono essere d'aiuto oppure d'intralcio alla natura della persona (la cui finalità è la beatitudine). Nel caso siano conformi alla sua natura si chiamano virtù; nel caso opposto vizi. Le une si oppongono alle altre: per sconfiggere un vizio si richiede l'attuazione di una virtù.
Ma un'abitudine non è ancora un disturbo. Se l'abitudine negativa, o vizio, corrispondesse alla aegritudo animae (o malattia psichica) allora la terapia si risolverebbe semplicemente nell'insegnamento e nella pratica della virtù ad essa opposta. Un goloso, però, possiede una capacità di contenersi (o astenersi) ben diversa da quella di un ossessivo-compulsivo. Questo perché il disturbo si caratterizza per un meccanismo compensatorio: l'atteggiamento compensa una percezione inadeguata di sé. Ad esempio, se di fronte ad un compito assegnato dal capo la prima cosa che un impiegato fa è di uscire sul terrazzo ed accendersi una sigaretta, esprime senza dubbio un'abitudine viziosa, ma anche la convinzione, nata la prima volta che ha attuato tale comportamento, di aver bisogno di una mano per gestire l'ansia relativa al compito o al capo, come se una parte di se stesso mettesse in dubbio l'idea di potercela fare. Una sfiducia verso se stessi o una scontentezza. La sigaretta, dunque, svolge il ruolo di compensare l'ansia, come se essa fosse padrona di lui più di quanto lui lo sia di se stesso. Sempre per rimanere nell'ambito del fumo, molti ragazzi accendono la prima "cannetta" sotto la pressione di dover dimostrare di non essere imbranati o di essere "fighi" e ben presto attivano un vizio che nel tempo non ha più legami con il motivo iniziale, ma continua a perdurare a causa dell'abitudine. Dunque bisogna distinguere tra: una malattia spirituale di tipo vizioso, ed una malattia spirituale di tipo compensativo. Quest'ultima è ciò che comunemente si chiama disturbo psichico o nevrosi. Per estirpare il primo tipo è necessario percorrere il rimedio già indicato dai Padri della Chiesa, e ripreso da San Tommaso: esercitare la virtù. Per guarire il secondo tipo è necessaria una predisposizione che abiliti la persona al cammino di ascesi della virtù, innanzitutto recuperando una diversa percezione di sé stesso (autostima) e delle sue capacità (autoefficacia), con relativo effetto anti-ansia. Un ragazzo che crede nelle sue qualità non necessita dello spinello per farsi forte di fronte ai coetanei. Così come l'impiegato di fronte al capo, non avrà bisogno della sigaretta obbligata per "farsi forza", se quella forza sente di possederla o, comunque, di poterla conquistare con le proprie capacità. Certamente qui non si vuole fare l'apologia del self-made man, o dell'uomo onnipotente; tutt'altro, l'uomo forte è ben conscio dei suoi limiti, e proprio per questo li può accettare, così come può accettare che il limite è il segno del divino e la realtà, anche se diversa dalle sue utopie, è cosiffatta per lui da Dio. Ma questo discorso ci porta su di un terreno che ora non è possibile percorrere.
Rimane da spiegare il termine spirituale che abitualmente si associa a quello di "malattie". Spirito, spiritualità, spirituale sono parole che vengono pronunciate con infinite declinazioni; e questo comporta una confusione, soprattutto per i cristiani che - diciamolo - sono sempre più senza cultura sulle proprie radici. Forse, allora, San Tommaso può aiutarci a far luce anche su questo aspetto. Riprendendo Aristotele, il Dottore Angelico ci dice che l'uomo è un composto (sinolo) di anima e corpo. L'anima è un principio spirituale cioè è immateriale. Il corpo è il principio materiale. In questo senso "spirito" si oppone a "materia", ed è il modo principale con cui intendere la parola e i suoi derivati. Una malattia spirituale è quindi una malattia non-materiale, come appunto le malattie psichiche e le brutte abitudini (vizi). C'è però una seconda declinazione del termine, ed è quella che maggiormente ci interessa, anche se è la più sofisticata. L'anima dell'uomo ha delle facoltà (o potenze) diverse da quelle degli animali o delle piante. Possiede la facoltà di emettere giudizi, di percepire le idee universali, di ragionare, di scegliere il bene. L'antropologia tomista riassume queste facoltà nelle due funzioni di intelletto e di volontà. Esse sono proprie di un'anima razionale detta anche spirituale. All'interno dell'anima - che abbiamo detto è già un ente immateriale cioè spirituale - ci sono delle facoltà spirituali. Non so perché si utilizzi lo stesso termine, ed è possibile che sia un uso improprio (basterebbe definirla razionale), ma è possibile intravvedere una spiegazione di questo uso nel fatto che l'intelletto e la volontà sono le due facoltà dell'anima umana che non hanno corrispettivi materiali. Laddove le facoltà degli animali e delle piante (ad. es. la nutrizione, la percezione sensoriale, l'appetizione-passione, ecc.) necessitano di un organo corporeo o di tutto il corpo per essere attuate, l'intelletto e la volontà - agli occhi degli antichi (e sarebbe interessante se questo è vero anche ai nostri giorni, dopo le recenti scoperte delle neuroscienze) - non possedevano "correlativi oggettivi" nel corpo. Dunque motivarsi così l'accezione di spirituale. Le malattie spirituali di cui parlano i Padri sono malattie dell'intelletto e della volontà. Lo stesso ragionamento si applica alla disciplina del "discernimento degli spiriti" di S. Ignazio di Loyola, ove per "spiriti" si intendono i pensieri, cioè i giudizi, i ragionamenti; ossia le operazioni dell'intelletto.
Tornando alle malattie spirituali, esse sono anche dette "passioni" perché hanno l'aspetto di essere "subite" cioè "patite" passivamente dal soggetto. E' anche questo il motivo per cui sono suscitate principalmente o dal soggetto stesso o da un intervento demoniaco, cioè da un essere spirituale che agisce a livello spirituale (immateriale); oppure da malattie del corpo ma solamente per accidens, cioè accidentalmente o indirettamente. Guardando la loro eziologia, dunque, i Padri hanno insistito notevolmente sull'influsso di una creatura spirituale, cioè di quell'ambito della creazione che comunemente viene definito preternaturale: l'insieme delle creature celesti e infernali, create da Dio ma non emanazione di Dio stesso (laddove il soprannaturale, invece, è rappresentato dai miracoli, dallo Spirito Santo e dagli interventi diretti di Dio sugli altri due ambiti, naturale e preternaturale). Le passioni dei Padri, però, differiscono dalle passioni tomiste. Le prime hanno una valenza negativa, a causa del richiamato influsso demoniaco. Per San Tommaso, invece, le passioni non sono né buone né cattive in sé, essendo i movimenti dell'appetito sensitivo (altrimenti noti anche come emozioni: rabbia, amore, paura, speranza, gelosia, ecc). Dal punto di vista dell'antropologia tomista, il problema sorge quando la passione non è assoggettata all'intelletto. Questo può verificarsi poiché l'intelletto non ha un dominio assoluto sulle facoltà dell'anima sensitiva, ma un controllo "politico". In tali casi il comportamento può contrastare la retta ragione, determinando un prevalere dell'aspetto sensitivo su quello più propriamente umano.
Grazie agli apporti dell'antropologia tomista, possiamo comprendere ed utilizzare al meglio l'eredità dei Padri della Chiesa.
Rimane da spiegare il termine spirituale che abitualmente si associa a quello di "malattie". Spirito, spiritualità, spirituale sono parole che vengono pronunciate con infinite declinazioni; e questo comporta una confusione, soprattutto per i cristiani che - diciamolo - sono sempre più senza cultura sulle proprie radici. Forse, allora, San Tommaso può aiutarci a far luce anche su questo aspetto. Riprendendo Aristotele, il Dottore Angelico ci dice che l'uomo è un composto (sinolo) di anima e corpo. L'anima è un principio spirituale cioè è immateriale. Il corpo è il principio materiale. In questo senso "spirito" si oppone a "materia", ed è il modo principale con cui intendere la parola e i suoi derivati. Una malattia spirituale è quindi una malattia non-materiale, come appunto le malattie psichiche e le brutte abitudini (vizi). C'è però una seconda declinazione del termine, ed è quella che maggiormente ci interessa, anche se è la più sofisticata. L'anima dell'uomo ha delle facoltà (o potenze) diverse da quelle degli animali o delle piante. Possiede la facoltà di emettere giudizi, di percepire le idee universali, di ragionare, di scegliere il bene. L'antropologia tomista riassume queste facoltà nelle due funzioni di intelletto e di volontà. Esse sono proprie di un'anima razionale detta anche spirituale. All'interno dell'anima - che abbiamo detto è già un ente immateriale cioè spirituale - ci sono delle facoltà spirituali. Non so perché si utilizzi lo stesso termine, ed è possibile che sia un uso improprio (basterebbe definirla razionale), ma è possibile intravvedere una spiegazione di questo uso nel fatto che l'intelletto e la volontà sono le due facoltà dell'anima umana che non hanno corrispettivi materiali. Laddove le facoltà degli animali e delle piante (ad. es. la nutrizione, la percezione sensoriale, l'appetizione-passione, ecc.) necessitano di un organo corporeo o di tutto il corpo per essere attuate, l'intelletto e la volontà - agli occhi degli antichi (e sarebbe interessante se questo è vero anche ai nostri giorni, dopo le recenti scoperte delle neuroscienze) - non possedevano "correlativi oggettivi" nel corpo. Dunque motivarsi così l'accezione di spirituale. Le malattie spirituali di cui parlano i Padri sono malattie dell'intelletto e della volontà. Lo stesso ragionamento si applica alla disciplina del "discernimento degli spiriti" di S. Ignazio di Loyola, ove per "spiriti" si intendono i pensieri, cioè i giudizi, i ragionamenti; ossia le operazioni dell'intelletto.
Tornando alle malattie spirituali, esse sono anche dette "passioni" perché hanno l'aspetto di essere "subite" cioè "patite" passivamente dal soggetto. E' anche questo il motivo per cui sono suscitate principalmente o dal soggetto stesso o da un intervento demoniaco, cioè da un essere spirituale che agisce a livello spirituale (immateriale); oppure da malattie del corpo ma solamente per accidens, cioè accidentalmente o indirettamente. Guardando la loro eziologia, dunque, i Padri hanno insistito notevolmente sull'influsso di una creatura spirituale, cioè di quell'ambito della creazione che comunemente viene definito preternaturale: l'insieme delle creature celesti e infernali, create da Dio ma non emanazione di Dio stesso (laddove il soprannaturale, invece, è rappresentato dai miracoli, dallo Spirito Santo e dagli interventi diretti di Dio sugli altri due ambiti, naturale e preternaturale). Le passioni dei Padri, però, differiscono dalle passioni tomiste. Le prime hanno una valenza negativa, a causa del richiamato influsso demoniaco. Per San Tommaso, invece, le passioni non sono né buone né cattive in sé, essendo i movimenti dell'appetito sensitivo (altrimenti noti anche come emozioni: rabbia, amore, paura, speranza, gelosia, ecc). Dal punto di vista dell'antropologia tomista, il problema sorge quando la passione non è assoggettata all'intelletto. Questo può verificarsi poiché l'intelletto non ha un dominio assoluto sulle facoltà dell'anima sensitiva, ma un controllo "politico". In tali casi il comportamento può contrastare la retta ragione, determinando un prevalere dell'aspetto sensitivo su quello più propriamente umano.
Grazie agli apporti dell'antropologia tomista, possiamo comprendere ed utilizzare al meglio l'eredità dei Padri della Chiesa.
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