Venerdì 16 Gennaio 2015, il neo-quotidiano La Croce pubblica una mia lettera inerente la Psicologia Cattolica, titolandola "Per una #psicologia rinnovata" e dandole ampio spazio a pagina 6. La riportiamo con gratitudine al direttore Mario Adinolfi.
Egregio Direttore,
ho comperato e letto con piacere i primi tre numeri del suo nuovo
quotidiano. Tanto che sto pensando persino di abbonarmi. Mi piace
l’idea di essere temerari: siamo cattolici. Mi piace l’idea di
poter giudicare i temi etici: l’aborto, l’eutanasia, la teoria
del gender sono un male. Mi piace l’idea che si possa parlare di
cose irriverenti: dei falsi Miti di Progresso e, in particolare, di
psicologia. A pagina sei del primo numero compare infatti l’articolo
del dot. Marco Scicchitano che è particolarmente bello, e si presta
a più livelli interpretativi.
Sin da quando
solcavo i corridoi dell’Università, dotato di incoerenza ed al
contempo di quel bisogno di verità così tipico dell’età, ho
sempre provato un malcelato fastidio per la disciplina che stavo
studiando. Un fastidio dovuto ad una premessa implicita, nascosta ed
inverificata: la psicologia è una scienza moderna. Ove per moderno
si intende “nata dalla modernità”, “prodotto della modernità”,
frutto delle “magnifiche sorti e progressive” della “rivoluzione”
scientifica. Ovvero: un edificio che rottama la pattumiera
preesistente. Eppure, in seguito alla conversione avvenuta proprio in
Università - dopo l’incontro con alcuni “strani” coetanei
(niente sesso e niente stupidaggini, molta amicizia e tanta felicità)
- mi rendevo conto che le parole della Chiesa spiegavano di più e
meglio me stesso di quanto non facessero le disarticolate ed
artificiose teorie della psicologia accademica. E nello spiegare me
stesso mi spalancavano anche agli altri.
Un esempio? Nessuno
degli autori più studiati dice chiaramente che l’uomo si muove per
la felicità. Freud sostiene che cerchiamo il piacere. Lacan
addirittura il godimento. Io avevo entrambi, ma non erano abbastanza.
Adler la perfezione, e già mi piace di più. Ma il rischio di un
intellettualismo superbo getta un’ombra su cosa intenda per
perfezione. Frankl il senso della vita. Invece, San Tommaso lo dice
chiarissimamente: “Il fine ultimo dell’uomo è la beatitudine”
(Summa Theologiae, I-II, art. 1).
Dunque ho sentito
l’esigenza di approfondire il motivo di una frattura con il passato
così evidente e così universalmente sostenuta, tanto che uno dei
testi più importanti del corso universitario recitava: “Per
molti secoli il pensiero umano occidentale ha escluso che l’uomo
potesse essere oggetto di indagine scientifica. […] Questa
impossibilità affermata di studiare l’uomo è tipica del pensiero
cristiano medievale. […] Il pensiero medievale è infatti
del tutto alieno dallo studio dell’uomo, di cui nega addirittura la
possibilità” (Riccardo Luccio in P. Legrenzi, Storia della
psicologia, Il Mulino, Bologna 1980, p. 40).
Mi sono accorto che la scienza psicologica si fonda su di un “falso
Mito di Progresso”: l’idea che la modernità sia in antitesi con
il passato, ovvero con quel medioevo così vituperato nei libri
scolastici e quel cristianesimo così scomodo. Invece non c’è
alcuna antitesi, anzi semmai c’è una buona e semplice censura.
Perché studiando i filosofi medievali, San Tommaso in primis, ed i
Padri della Chiesa, sant’Agostino e san Massimo il Confessore
soprattutto, mi sono accorto che esiste una psicologia più e meglio
strutturata di quella contemporanea. Ho così capito che il mio
compito in qualità di psicologo cattolico è di riesumare il lascito
perduto e dimenticato. Ma nel fare ciò, ho dovuto amaramente
constatare che la psicologia cattolica, ed in particolare sua
formulazione più sistematica, ovvero la psicologia tomista, comporta
un riesame dei fondamenti impliciti delle principali correnti di
psicologia contemporanea. Purtroppo, la quasi totalità delle scuole,
da Mesmer ai recenti cognitivisti, ha edificato le proprie teorie su
di filosofie implicite e parziali.
Vorrei però dare
prova delle parole sin ora spese. Il bell’articolo di Scicchitano
riporta una realtà clinica che anch’io, nel lavoro coi miei
pazienti, osservo spesso: la reiterazione, ovvero “il percorrere lo
stesso iter contro la propria volontà”. San Tommaso avrebbe
chiamato questo processo habitus, ovvero abitudine. E
trattandosi di una abitudine negativa, avrebbe forse aggiunto il
termine vizio. Scicchitano parla di “dipendenza” e
“pregiudizio” e propone, a ragione, di analizzarne la “radice”
ovvero le cause. San Tommaso, probabilmente, avrebbe proposto anche
di analizzarne le finalità, ovvero gli effetti che tali formae
mentis mirano ad ottenere. Se infatti la causa della coazione a
ripetere (altro modo per descrivere la medesima reiterazione) può
rinvenirsi nella “non accettazione del limite”, l’effetto o
finalità consiste nell’obiettivo di custodire e rinnovare a se
stessi la percezione di forza, di sicurezza, di certezza, di
padronanza. Ovvero cercare, pur con iter e re-iter
inadeguati, una cosa buona e giusta quale la serenità (sorella
minore di quella beatitudo che è il fine ultimo dell’uomo).
Purtroppo le psicologie contemporanee difficilmente possono proporre
una strada alternativa, fondandosi su di antropologie implicite
parziali o erronee. Se il fine dell’uomo è il piacere, allora
basta sostituire il dispiacere con un altro piacere. Non ti va più
bene tua moglie? Che problema c’è. Cambiala! Per scoprire, invece,
che il confine oggettivo ed invalicabile dei limiti è positivo e non
negativo è necessario alzare il tiro e domandarsi: cosa davvero può
soddisfarmi, ovvero saturare il desiderio di felicità che provo
(satisfacere)? O per dirla con Sant’Agostino: quid animo
satis?
In assenza di una
sana antropologia filosofica di riferimento, non si può capire
perché l’uomo “non accetti il limite” ma anzi desideri
superarlo con una reiterazione senza senso. Lo fa in virtù di quel
peccato originale che è alla radice della nostra natura umana
decaduta e che perdura alimentato dalla reiterazione o vizio. Lo
aveva ben compreso un Gigante della psicologia, purtroppo sconosciuto
proprio perché Cattolico, Rudolf Allers, il quale scriveva che:
“Sorge dalla consapevolezza – che si potrebbe, volendo, chiamare
anche inconscia – della finitezza essenziale dell'uomo e della
rinuncia da parte dell'individuo di accettare la condizione umana”.
Il non serviam di Lucifero prima e di Adamo ed Eva poi è la
stessa rivolta dei moderni contro la tradizione e la realtà: “Il
conflitto alla radice della nevrosi non è tra impulsi e condizioni
ambientali insoddisfacenti, né tra l'individuo e le esigenze della
società, ma tra la superbia originale dell'uomo caduto […] e il
riconoscimento della sua essenziale finitezza” (in Psicologia e
Cattolicesimo, D’Ettoris, Crotone, 2009, pag. 102). Non è infatti
la caratteristica del solo psicotico il “piegare il dato di realtà
ad esigenze di coerenza che partono unicamente dal vissuto
soggettivo”, bensì anche e primariamente del nevrotico, ovvero di
ogni persona comune, potenzialmente (Allers sostiene che ogni uomo è
un nevrotico in potenza, ovvero che in ogni scelta è chiamato ad
aderire o eludere la realtà).
Recuperare la
psicologia cattolica significa ampliare lo sguardo sulla psicologia
contemporanea ed anche sulla clinica. “Per restare umani”, come
titola l’articolo di Scicchitano, bisogna riscoprire il bene ed
aderirvi. E per fare ciò riconoscere che la realtà ci anticipa,
perché non la creiamo noi, ed è buona, poiché è un regalo. Ma
come è possibile avere esperienza di questo al di fuori di una sana
antropologia? Noi psicologi cattolici dobbiamo riscoprire le nostre
origini ed esserne fieri, divulgarle, approfondirle. Perché nelle
università cattoliche non si studia più la psicologia tomista?
Spero che questo
giornale possa essere l’occasione per testimoniare la bellezza
della nostra filosofia, che nasce dalla bellezza dell’essere
cristiani.
Stefano Parenti
Fonte: La Croce, 16/01/2015
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