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"Una psicologia medica cattolica deve essere una vera sintesi delle verità contenute nei sistemi già esistenti e inaccettabili visto il loro spirito di materialismo puro e le verità della filosofia e la teologia cattolica. Questo lavoro di sintesi non può essere compiuto che da persone istruite e nella medicina o psicologia e nella filosofia, e che possiedono una esperienza pratica e personale assai grande: cioè questo lavoro deve essere fatto da medici, specialisti di psichiatria, dunque da scienziati cattolici laici. (Rudolf Allers, 1936, lettera a P. Agostino Gemelli).

mercoledì 3 dicembre 2014

L'AMORE E L'ISTINTO - RUDOLF ALLERS

Sul numero 21 di Études Carmélitaines (pagg. 90-124), Rudolf Allers pubblica L’amour et l’instinct - Étude psychologique. Siamo nel 1936, Allers vive ancora a Vienna ove l'influsso nazionalsocialista inizia a farsi sentire, seppure lontanamente. Trascorreranno ancora due anni prima che Hitler "annetterà" al Terzo Reich quella che fu la capitale dell'Impero Austriaco, lo stesso periodo in cui Allers si trasferirà negli Stati Uniti per insegnare "psicologia metafisica" alla Catholic University of America. L'attenzione di Allers si rivolge ad un panorama culturale che sino a pochi anni prima era immerso nel Cattolicesimo (come egli stesso ci racconta nello studio sulla Leggenda di Freud), e che da alcuni decenni subiva un processo di secolarizzazione e scristianizzazione, nonché l'influsso di gruppi culturali differenti (come l'ebraismo - Sigmund Freud e Viktor Frankl erano ebrei - e il protestantesimo, seppure in misura ridotta - Alfred Adler aderì al protestantesimo proprio a Vienna). Gli studi tomisti compiuti a Milano - che gli avevano permesso di approfondire l'intuizione maturata durante la Prima Guerra Mondiale, ovvero il fatto che la filosofia tomista costituisse il punto di partenza per l'edificazione di una psicologia in sintonia con la filosofia e la Rivelazione - maturano nelle pubblicazioni degli anni trenta, in cui Allers utilizza i principi aristotelico-tomisti per smascherare alcuni presupposti erronei allora imperanti nella cultura specialistica e popolare. La visione psicoanalista, che dopo una iniziale reprimenda stava pian piano imponendosi nel panorama della psichiatria europea, assieme all'espansione delle filosofie positiviste e marxiste, aveva contribuito a creare alcune credenze erronee circa l'amore e la relazione tra i sessi. La principale di esse era l'identificazione dell'amore con l'istinto o, meglio ancora, la supremazia dell'istinto sull'amore. Una concezione fuorviante che, nonostante la denuncia dei cattolici, ha preso sempre più piede nella cultura del dopoguerra, sino a giungere a quella "rivoluzione sessuale" che solamente la teologia del corpo di Giovanni Paolo II ha saputo pienamente analizzare e contrastare. Il presente testo anticipa e si colloca lungo la traiettoria che troverà in Amore e responsabilità (Marietti, 1980) e Uomo e donna lo creò (Città nuova, 1985) pieno sviluppo.

Cosa dunque trattenere oggi di questo testo apparentemente antiquato e embrionale? Molto a mio avviso. Mi permetto di sottolinearne solo alcuni aspetti, il primo dei quali è l'utilità: il brano di Allers è uno studio squisitamente psicologico. Molto spesso, nel parlare di amore ed affettività con i pazienti, mi sono trovato sguarnito di testi specialistici, dovendo fare ricorso o ai libri esplicitamente cristiani (come il celebre Uomo-donna il caso serio dell'amore di Angelo Scola, ed. marietti, 2002) oppure alla letteratura tout-court (fondamentale I quattro amori di C. S. Lewis, Jaca Book, 1990). Ciò crea, però, una frattura tra la realtà e il dato Rivelato: se davvero l'amore è carità, ad esempio, e non solo istinto, ebbene ciò apparirà ad un livello fenomenologico prima ancora che ad uno teorico. Il processo della conoscenza in ambito antropologico, come scrisse Karol Wojtyla nel celebre Persona ed atto, è un processo che muove dall'atto alla persona ovvero dalla concretezza dell'esperienza alla riflessione sull'esperienza, e non vice versa. Dunque L'amore e l'istinto si rivela uno strumento importante: un testo di un professionista che, con gli strumenti a sua disposizione, riesce a dimostrare alcune semplici verità circa "l'amore dei sessi".
Restare nel confine della psicologia, però, non significa coprirsi gli occhi su ciò che c'è all'esterno. Anzi, tutt'altro. Primo perché la psicologia non è una "scienza autonoma", come la contemporaneità tenta di sostenere. Essa afferisce dalla filosofia e ne è una ancilla (le prime righe del testo rimarcano questa continua sottolineatura che Allers propone). Secondo perché la psicologia basa il proprio lavoro non solamente su di una soggettività opinabile, ma su di un'oggettività verificabile. Il fenomeno psichico deriva ed è determinato dal fenomeno oggettivo a cui si riferisce: "Sono l'ordine e l'essenza degli oggetti trans-soggettivi che determinano l'ordine e la qualità dei fenomeni psichici". Troviamo qui un appunto di metodo fondamentale, dal momento che diverse correnti contemporanee ritengono che il soggettivo abbia supremazia sull'oggettivo, come la posizione costruttivista secondo cui persino la realtà non è un a-priori, ovvero un dato pre-esistente, ma una costruzione del soggetto. Tali autori, volendo accentuare l'importanza della soggettività, dimenticano però che la verità è l'insieme di due momenti: il fatto esterno ed il riconoscimento interiore. Entrambi sono fatti, nel senso ampio del termine, ed è bene considerare entrambi. Ancora una volta è necessario tornare a san Tommaso d'Aquino: veritas est adequatio rei et intellectus (Summa Theologiae I, q. 16 a. 1 co.). Allers conclude così: "Chiunque, studiando un problema di psicologia, si limitasse strettamente alla considerazione dei fenomeni soggettivi, cesserebbe di essere uno psicologo nel vero senso della parola".
Il secondo aspetto che mi pare interessante è la considerazione della sessualità. Il desiderio di unione che caratterizza l'amore dei sessi è il veicolo, il segno, l'indicazione per qualcosa d'altro. Di per se stesso, infatti, l'istinto che porta all'unione fisica non produce l'appagamento che promette: "Esaminando i fatti si nota che questa unione, qualunque soddisfazione doni, lascia ancora il desiderio". Poiché il desiderio mira a qualcosa ancora oltre, qualcosa che il semplice "sesso" non dà. "Qualsiasi cosa facciano, gli sposi non possono compenetrarsi, non possono fondersi l'uno nell'altro". Viene qui alla mente il bel testo di José Noriega, Il destino dell'eros (EDB, 2006), in cui l'autore, professore presso l'Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia, analizza alcuni racconti mitici che sottolineano il limite insoddisfacente dell'unione sessuale. Egli, ad esempio, interpreta il mito dell'androgino in questo modo, ovvero riscontrandovi all'origine un desiderio così forte di compenetrare l'amato da richiedere un intervento esterno, divino, affinché la vera unione possa avvenire. Allers dice: "Una coppia è "una caro" (Mat. 19, 6), mai una persona o ens unum". Perché questo avviene? Perché non è l'altro in quanto altro uomo a poter soddisfare il desiderio umano, bensì Dio stesso (pur attraverso la persona della moglie o del marito, ma non riducendosi ad esse). Cesare Pavese lo aveva sintetizzato efficacemente: "Ciò che un uomo cerca nei piaceri è un infinito" (Il mestiere di vivere, Einaudi, 1952, p. 190).
Il ruolo dell'amore e dell'istinto viene argomentato da più punti di vista. Uno di essi è il rapporto tra la forza che tende a prendere per una soddisfazione egoistica, ovvero il puro istinto, e la forza che invece tende a donare, ovvero il puro amore. La tradizione filosofica aveva distinto l'eros dall'agape per sottolineare la direzione opposta delle due tendenze. L'enciclica programmatica di Papa Benedetto XVI, Deus caritas est (LEV, 2005), aveva però spostato l'accento sulla complementarietà piuttosto che l'oppositività delle due forze. Allers riprende tale aspetto, dicendo: "L'amore può nascere sia da una amicizia pura, sia da una semplice inclinazione della carne; ma ogni vero amore tra due persone di sesso diverso è necessariamente composto da sessualità ed affezione spirituale".
Se dunque la sessualità è solamente una espressione dell'affettività umana che ricerca nell'Infinito la propria realizzazione, allora si impone un cambio di prospettiva: non sono i desideri sessuali a plasmare l'affettività e quindi la personalità, bensì sono la personalità e l'affettività che declinano i desideri nell'ambito sessuale. La visione freudiana prevede che l'evoluzione umana si fondi sulla sessualità: "[...] la personalità di un uomo è prefigurata nella sua sessualità; dalla struttura e dall'evoluzione di quest'ultima dipende la sorte dell'intero uomo". Allers propone invece una inversione: "Ci sembra che la relazione debba essere invertita: l'istinto sessuale si conforma, nelle sue manifestazioni, agli atteggiamenti fondamentali della personalità, di cui segue tutte le alterazioni".  Nel suo studio sulle Fantasie sessuali & desiderio di autentica affettività (Studi cattolici n° 625, Marzo 2013, pag. 192-193), Roberto Marchesini dà testimonianza di questa inversione di prospettiva: "Nella mia attività clinica ho potuto verificare l’utilità di un metodo alternativo a quello freudiano, secondo il quale le fantasie sessuali sarebbero il soddisfacimento – mascherato sessualmente – di desideri non sessuali (in genere relazionali o affettivi) [...]". "Per Freud, infatti, il nucleo originario dell’uomo è costituito da impulsi irrazionali di tipo sessuale mentre, come emerge chiaramente nei casi sopra descritti, il bisogno fondamentale che chiede soddisfazione è quello di affermazione, ossia di un amore incondizionato".
Ci sarebbero altri punti da segnalare, in particolare le importanti parole legate alla nevrosi che Allers lascia all'ultimo paragrafo. Al lettore l'iniziativa di evidenziarli ed anche proporli sotto forma di commenti. Nel concludere questa breve presentazione, desidero ringraziare la dot.sa Claudia Sisto che ha tradotto l'articolo dal francese e lo ha reso fruibile al pubblico italiano.

 

L’amore e l’istinto

Studio psicologico

Preliminari

La questione della natura dell’amore e dell’istinto, e delle loro relazioni reciproche, è esaminata qui dal punto di vista della psicologia. Ciò non esclude digressioni al di fuori dei limiti di questa scienza; esse sono, al contrario, indispensabili. Ci teniamo a spiegarci su questo punto, prima di entrare nella materia, per giustificare il metodo che perseguiamo.
La psicologia studia i fenomeni mentali. Questi fenomeni sono tutti in relazione con degli oggetti, reali o ideali, indipendenti dal soggetto. Sono l’ordine e l’essenza di questi oggetti tran-soggettivi a determinare l’ordine e la qualità dei fenomeni psichici. Se scorgiamo, ad esempio, che l’arancione ha il suo posto tra il giallo e il rosso e che è impossibile collocarlo altrove, ciò non è dovuto a una proprietà della nostra anima o dell’atto percettivo, ma alla struttura di una realtà trans-soggettiva. La forza che ci costringe a formulare le nostre conclusioni secondo le leggi della logica non è dovuta alla nostra organizzazione mentale, ma all’ordine che regna al di fuori di noi stessi e di cui rintracciamo, talvolta a tastoni e talvolta con più sicurezza, le linee fondamentali. Le emozioni che sentiamo e che sembrano ben appartenere alla nostra propria natura dipendono anche da oggetti trans-soggettivi. Il piacere sensuale o estetico, l’impressione di bontà morale, la gioia causata dall’incontro dell’amico, o le diverse esperienze emozionali dotate di un accento negativo – il dolore, il dispiacere, la tristezza, ecc. – tutti questi stati d’animo dipendono, nella loro esistenza e nella loro qualità, dalla natura degli oggetti. Una classificazione dei sentimenti che fosse astratta dall’ordine degli oggetti corrispondenti – cioè dall’ordine dei valori realizzato in questi oggetti – sarebbe una cosa essenzialmente impossibile. Tale impresa può sfociare solo nella sterilità e nella confusione.
Chiunque, studiando un problema di psicologia, si limitasse strettamente alla considerazione dei fenomeni soggettivi, cesserebbe di essere uno psicologo nel vero senso della parola. La psicologia, per sopperire ai propri doveri, si vede obbligata a oltrepassare i suoi limiti. Forse è abbastanza paradossale, ma tuttavia è la verità. Noi stessi, dunque, non potremmo sperare di trattare il nostro argomento, se non fossimo disposti ad una tale “trascendenza” dalle considerazioni puramente psicologiche.
Tuttavia si impone una notazione. Come psicologi non ci è permesso di cambiare completamente terreno: il punto di partenza deve restare sempre il fenomeno mentale e ciò che vi possiamo scoprire. La realtà dell’oggetto in sé non è una questione che la psicologia dovrebbe porre o risolvere. L’oggetto vi entra solo in quanto oggetto “vissuto” o esperienza di un soggetto. I problemi gnoseologici o ontologici non hanno nulla a che fare con la psicologia. Saremmo forse costretti a parlare di ontologia o assiologia: ma allora avremmo lasciato la regione della psicologia pura per avventurarci sul terreno della metafisica.
Lo stesso atteggiamento si impone allo psicologo di fronte alla biologia. I fatti biologici non toccano direttamente la psicologia. Questa scienza non è interessata in quanto tale alle relazioni che esistono ad esempio tra il temperamento ed il funzionamento delle ghiandole endocrine. Abbiamo una esperienza del nostro temperamento, ma di per sé non sappiamo niente della secrezione tiroidea, surrenale o pancreatica. Le cosiddette spiegazioni dei fenomeni psichici, come le forniscono la biologia e la fisiologia, non hanno nessuna importanza per la psicologia che si limita a descrivere e a analizzare i dati mentali come mentali. Psycologica psychologice, come dice M. Spranger. Queste spiegazioni, in termini di biologia, sono, inoltre, nella maggioranza dei casi, delle spirali più o meno viziose. Anche il “behaviourism” americano che non vuole sentire niente della coscienza, dell’introspezione, di tutto ciò che, per uno spirito ingenuo, costituisce l’essenza della psicologia, anche questa “psicologia oggettiva” (una vera contradictio in terminis) parlando di “behaviour” di condotta, si basa sulla stessa psicologia che essa condanna, - la “condotta” essendo qualcosa che conosciamo solo attraverso la nostra esperienza soggettiva e personale. La maggior parte di queste spiegazioni che un tempo costituivano la gloria della fisiologia e di una psicologia che si credeva tanto più scientifica in quanto abbondava di termini biologici – non sono altroché traduzioni molto imperfette dei risultati introspettivi nel linguaggio della fisiologia.
Le spiegazioni fisiologiche, per dire chiaramente quello che pensiamo, non hanno nessuna importanza per la psicologia come la concepiamo noi. Di conseguenza non speriamo affatto di trarre profitto da osservazioni di “psicologia animale”. Il comportamento di un topo che vaga in un labirinto non può insegnarci niente sulla psicologia dell’apprendimento. Il comportamento di una madre scimpanzé verso il suo piccolo non getta nessuna luce sulla natura dell’amore materno umano. Osservando un uccello maschio che dispiega le sue piume davanti alla sua femmina, registrando tutte le fasi dell’inseguimento del leone per la leonessa, non ci vediamo più chiaro per quello che riguarda l’amore dei sessi.
Abbiamo ritenuto indispensabile questa dichiarazione preliminare – che indica la nostra posizione – perché non ci si stupisca del fatto che, nelle pagine successive, non diremo nulla dei dati fisiologici. Vogliamo fare solo della psicologia: descrivere, analizzare quello che l’osservazione dei fatti psichici ci permette di intravedere.
Aggiungiamo, per evitare ogni malinteso, che noi non disconosciamo la natura psico-fisica dell’uomo. Ma neghiamo che sia giustamente la fisiologia che debba essere considerata come la “scienza” fondamentale dell’uomo. Naturalmente vi sono delle relazioni tra il fisico e il morale. Ma non è affatto provato che queste relazioni siano di una natura tale che il fisico possa fornire una spiegazione adeguata del morale. Bisognerebbe piuttosto trovare una spiegazione al di là e del fisico e del morale. Cioè cercare di spiegarli tutti e due come conseguenze di qualcosa di molto più profondo. Sarebbe il compito di un’antropologia filosofica o generale. Non sappiamo se un tale obiettivo sarà mai raggiunto; possiamo solo sperarlo. Ciò che sappiamo fin troppo bene, è che la preponderanza accordata al metodo biologico in psicologia ha ritardato il progresso di questa scienza ed ha contribuito alla confusione attuale.
Avendo così definito la nostra posizione, cercheremo di precisare le relazioni tra l’amore e l’istinto. Ma innanzitutto dobbiamo arrivare a una concezione chiara e distinta di cosa significano i due tratti. Cominciamo con l’istinto.

I

L’istinto: la parola e la cosa

Consultando i trattati di biologia o di psicologia, si avrà indubbiamente l’impressione, che l’istinto sia una cosa ben conosciuta e la cui esistenza è chiaramente stabilita. Basta, tuttavia, riflettere un momento per rendersi conto che l’istinto non è e non può essere un fatto; la parola “istinto” non è il nome di un fatto, ma il riassunto succinto di una teoria. Non si osserva mai l’istinto, ma solo delle azioni o delle esperienze, delle forme di comportamento che rapportiamo a una certa causa comune, perché questi fatti per la loro identità sembrano averne una sola, e questa causa è chiamata istinto. La biologia non osserva mai l’istinto: essa registra solo delle modalità di comportamento. Nemmeno l’introspezione ci mostra l’istinto: abbiamo solo l’esperienza di essere spinti a fare certe azioni. E, poiché ci occorre, per soddisfare il nostro bisogno di spiegazione, una causa, introduciamo il concetto di istinto. Ma non possiamo sapere se questa cosa chiamata istinto esiste realmente e come noi l’immaginiamo.
Ci si è abituati a parlare dell’istinto come se fosse una realtà ben conosciuta, sicura, indubitabile. Ne è dell’istinto come della “forza” in fisica. Se ne ha bisogno per potere classificare molti fenomeni; si tratta in questo caso di teorie molto utili, forse molto probabili, ma tuttavia non sono che teorie. La gravitazione, l’elettricità…non sappiamo che cosa sono. Si prenda un trattato di fisica moderna e si vedrà che la scienza si sforza di eliminare questi termini e di rimpiazzarli – per quanto possibile – con equazioni puramente quantitative. Ciò non sarebbe possibile, se questi termini designassero delle realtà palpabili. Per l’istinto è assolutamente la stessa cosa.
Ma, se è così, come dunque si è potuto fare dell’istinto la base stessa della psicologia? Non si dovrebbe temere di veder crollare tutta la costruzione, se le fondamenta sono di una natura così ipotetica? Questo timore non ha affatto, a quanto pare, perturbato la sicurezza dei costruttori dei sistemi. Non hanno nemmeno notato che le pietre destinate a sostenere il magnifico edificio non erano che delle forme vuote. Una certa psicologia biologica, il “behaviourism”, la riflessologia e, last but not least, la psicoanalisi, si facevano forti di insegnare una psicologia nuova – ognuna la loro, si intende – basandosi sui risultati di una esatta biologia – mentre questi risultati non erano altro che delle parole scelte molto bene per mascherare l’ignoranza assoluta delle cose essenziali.
Per capire la situazione attuale della psicologia e anche le idee che svilupperemo in seguito, dobbiamo fare una piccola digressione che – benché ci conduca un po’ lontano – sarà tuttavia molto utile.

L’illusione analitica

In quasi tutte le scienze e già da qualche tempo si parla di “crisi”. M . Buehler, eminente psicologo di Vienna, pubblicò, nel 1930, un libro piuttosto noto, intitolato: la crisi della psicologia. Le scienze naturali sono in stato di ricostruzione (la porta che dà accesso al loro tempio dovrebbe, secondo M. Eddington, portare l’iscrizione: chiuso a causa di ricostruzione, accesso proibito!). Sembra esistere ovunque una crisi; abbiamo anche trovato l’espressione: crisi della batteriologia! Questo stato di crisi non è la conseguenza di un arresto, di una incapacità di procedere verso nuove scoperte; è una crisi di principi. Lo si vede particolarmente nella medicina e nella psicologia. C’era un tempo in cui la medicina si sentiva sicura di sé; essa si era data al materialismo e vedeva la sua salvezza nell’aderenza stretta alle idee e all’ideologia delle scienze chiamate esatte. Improvvisamente la medicina si vide davanti ai problemi, dove le categorie dei metodi “classici” si mostravano impotenti. L’analisi come metodo, il concetto dell’elemento come categoria, la psicochimica come ideale, non sono più raccomandate con l’unanimità del XIX secolo. Il medico che un tempo dichiarava ironicamente di non avere bisogno dell’anima, poiché essa non poteva essere trovata nelle sezioni microscopiche del cervello, si sentiva profondamente confuso: invece di elementi, la nuova generazione cominciava a parlare di totalità; un neo vitalismo tendeva a rimpiazzare il dogma materialista; tutte queste belle frasi, testimonianze di un attivismo scientista, diventavano problematiche. Ancora ieri ci si rallegrava dei trionfi della scienza, si era convinti che gli ultimi misteri del mondo sarebbero stati svelati se non domani, almeno dopodomani. Due formule – che si sentivano, è vero, molto più dalla bocca dei volgarizzatori della scienza che da quella dei veri sapienti – caratterizzano il pensiero di questo secolo. Una era: “non ancora”; non sappiamo ancora cos’è la vita, l’anima, l’uomo, ma domani lo sapremo; già abbiamo strappato il velo che nasconde le profondità del mondo; ancora un po’ di tempo e sapremo la formula magica che ci aprirà tutte le porte. – Oggi ci sentiamo lontani più che mai dalla realizzazione di questo ideale. L’altra formula, era: “nient’altro che”: la vita non è niente altro che un insieme molto complesso, ma decifrabile in principio, di processi chimici, la coscienza non è nient’altro che la funzione di cellule nervose, la storia nient’altro che un gioco di forze economiche, la personalità nient’altro che il prodotto dell’attività di tali ghiandole e cromosomi, ecc. ecc.1
Bisogna tenere conto di questa situazione se si vuol capire come la teoria dell’istinto abbia potuto acquisire l’importanza che le concedono tanti trattati di psicologia.
Gli elementi il cui insieme costituisce una cosa complessa diventano manifesti attraverso l’analisi, cioè attraverso una frammentazione, sia solamente concettuale, o artificiale, come negli esperimenti di chimica o di fisiologia, sia spontanea, essendo l’essere complesso dissolto da non importa quale influenza. La biologia e la medicina inclinano a credere che tutto ciò che è prodotto da una tale frammentazione è necessariamente un elemento. Disturbi organici del cervello, per scegliere un caso che colpisce molto, distruggono alcune funzioni sensoriali o motrici, di cui spesso non resta che un “rudere”. Questo resto è allora interpretato non come un elemento qualunque ma piuttosto come un elemento che sarebbe esistito già, sebbene nascosto, nel tutto della funzione superiore. Ora un frammento può essere un elemento, non c’è bisogno di dirlo. Ma non è permesso considerare ogni frammento come se fosse un elemento in senso stretto. Quando un edifico crolla in seguito ad un terremoto, quando un ponte è rotto da un’inondazione, troviamo bene dei frammenti che non sono del tutto degli elementi. La scossa che fa cadere i muri non distacca uno ad uno i mattoni; del ponte non resta affatto un ammasso di sbarre di ferro, di catene, di viti, tali quali come li si è portati per la costruzione.
Sarebbe facile scoprire le fonti di questa idea, secondo la quale la dissoluzione – almeno in biologia e in psicologia – dovrebbe mostrarci gli elementi costitutivi. Noi non possiamo intraprendere qui questa ricerca. Limitiamoci a notare che manca qualsiasi prova a questa idea. Abbiamo spiegato altrove come questo principio porta a conclusioni false in materia di fisiologia e di psicologia della sensazione. Le conseguenze sono ancora più gravi quando si tratta di funzioni psichiche di un ordine più elevato. Senza averlo forse mai formulato, expressis verbis, si è adottato il principio metodologico seguente: la dissoluzione di una funzione complessa, facendo apparire gli elementi, questi saranno tanto più visibili e più veri quanto più la dissoluzione sarà stata spinta in avanti. Quello che è al fondo del fenomeno complesso della personalità, ad esempio gli elementi di cui essa è l’insieme, devono dunque essere cercati laddove la personalità, attraverso un processo di dissoluzione, è caduta a pezzi. Il rovescio di questa tesi è l’idea che si troveranno i fenomeni più elementari nelle prime fasi di una evoluzione. La natura umana, ci dicono i partigiani di questa teoria, si trova nello stato puro dei piccoli bambini o nei selvaggi di una cultura primitiva, o in uomini in cui la personalità è caduta in dissoluzione, nei dementi, gli idioti, i pazzi, i criminali. Ma si darà senza dubbio ragione alle parole del filosofo inglese Bosanquet quando scriveva, che si ha maggiore possibilità di conoscere la natura umana attraverso lo studio dei geni, degli eroi, dei santi piuttosto che attraverso quello delle persone che popolano gli asili e le prigioni.

L’ossessione dell’inferiore

Il modo di considerare la natura umana che biasima questa citazione è solo una delle numerose forme attraverso le quali si manifesta una tendenza generale che, da secoli, avvelena la mentalità occidentale. Si potrebbe nominarla: lo sguardo dal basso. Ciò che è inferiore, tutto ciò che si avvicina alla natura bruta o anche morta, è giudicato come più vero, più naturale, più importante. Si getti uno sguardo su tante eresie, tanti modi intellettuali, persino fuggitivi, tante pseudo-filosofie, tante correnti d’idee sociali: ovunque si incontrerà questa idea funesta che l’inferiore costituisce il fondo e il centro della realtà, quello che realmente importa, che il ricercare, sia fare atto di scienza, e che il vivere, sia conformarsi alle esigenze più vere della natura umana. Un capovolgimento del pensiero generale si è tuttavia manifestato dall’inizio del secolo. La rinascita della filosofia a cui assistiamo – non senza constatare che questa filosofia si impegna spesso in passi pericolosi – è uno dei segni di questo cambiamento. Benché la mentalità del XIX secolo non sia ancora vinta – qualunque cosa dica M. Joel, di Basilea, in uno studio molto interessante che è apparso alcuni anni fa nei Kantstudien – e benché le catene di cui il materialismo e tutte queste pseudo filosofie hanno caricato il nostro spirito non siano ancora spezzate, si ha diritto di sperare una metanoia, sperare che il pensiero filosofico, scientifico, generale, saprà ritrovare la sua via verso le sole fonti capaci di estinguere la nostra sete di verità, di realtà, di sicurezza.
Chiunque voglia accelerare questo ritorno alla verità dovrà stare in guardia: adversarius noster circuit quaerens quem devoret. Noi ci siamo troppo abituati ai modi di pensare che ci furono insegnati un tempo, che ci furono presentati come i soli ad avere diritto il nome di scienza; cadiamo facilmente nelle trappole e diventiamo schiavi della mentalità che vogliamo vincere e che, persino, crediamo di avere già vinto.
Se non fosse così non si potrebbe comprendere il ruolo che svolge l’istinto in certe psicologie, persino opposte alle antiche concezioni biologiche e meccaniche dell’attività mentale.

L’istinto come esperienza vissuta

Dicevamo che l’esistenza dell’istinto non è un fatto, che non si può osservarlo. L’istinto, è una teoria compressa in una sola parola. Quello che si osserva, sono certi comportamenti, detti istintivi, e certe nostre proprie esperienze nelle quali ci sentiamo come spinti all’azione.
La natura delle azioni che attribuiamo generalmente, negli animali, all’istinto, non deve affatto occuparci qua, dal momento che l’analisi di questi fenomeni non può insegnarci niente sui fatti della psicologia umana. Si è dimenticato troppo, nel XIX secolo, che vi è, tra l’uomo e l’animale più sviluppato, un abisso insormontabile. Nessuna somiglianza anatomica, in effetti, e nessun atto, per quanto “intelligente” sia, possono cancellare questo fatto fondamentale: che vi è storia solo per l’uomo. Gli animali non conoscono né storia, né progresso, né tradizione. D’altronde l’intelligenza, esaltata così spesso, delle scimmie antropoidi non eguaglia affatto quella di un piccolo bambino2. Ignoriamo assolutamente cosa avviene “nella testa” di un cane o di una scimmia; non sappiamo nemmeno se lì avviene qualche cosa. M. Janet per esempio, dubita del fatto che gli animali posseggano davvero una memoria simile alla nostra. Ad ogni modo, per studiare il ruolo che l’istinto ha nella nostra vita, possiamo soltanto ricorrere alla nostra esperienza interiore. Cerchiamo dunque di scoprire le caratteristiche specifiche dei fenomeni in questione.
Ci sembra che la psicologia abbia un po’ trascurato il lato descrittivo quando tratta dell’istinto. Gli scienziati parlano molto dell’istinto come base della nostra vita mentale, discutono della sua natura, vogliono depistarlo anche là dove l’introspezione non ne vede nessuna traccia, ma non si sono presi la briga di descrivere minuziosamente i tratti che caratterizzano una esperienza come indubitabilmente istintiva. Non possiamo qui colmare questa lacuna. Accontentiamoci di indicare alcuni tratti che ci sembrano essenziali.
La correlazione tra il fenomeno mentale e l’oggetto di cui abbiamo parlato agli inizi, si ritrova ugualmente nell’esperienze dovute all’istinto. Ci sentiamo spinti, vi è “in” noi stessi qualche forza che ci spinge verso un certo comportamento, ma allo stesso tempo sentiamo l’attrazione di qualche cosa al di fuori di noi, siamo coscienti di uno scopo che intravvediamo più o meno distintamente. Questa attrazione e l’impulso che vi corrisponde non sono azioni, sono solo fasi preliminari che possono sfociare in un’azione ma che, almeno agli inizi, non la necessitano. Perché vi sia azione, occorre un’altra cosa rispetto all’impulso o all’attrazione. La situazione interiore, nel momento dell’apparizione di un tale momento istintivo, è essenzialmente la stessa di quella che precede ogni azione riflessa, cosciente, volontaria. L’azione istintiva è solo un caso speciale dell’azione in generale; poiché l’azione volontaria è, indubbiamente, un fenomeno più sviluppato, di un ordine più elevato, dobbiamo prenderla come punto di partenza se vogliamo essere fedeli alla nostra intenzione di guardare le cose “dall’alto” e di evitare le trappole del metodo opposto.
Azione vuole sempre dire scelta. Nil volitum quin praecognitum. Questa praecognitio, tuttavia, non è un atto cognitivo semplice, ma sempre il risultato di un paragone, di una scelta, di una decisione. Anche quando crediamo “di non avere scelta”, quando vediamo solo una linea d’azione possibile, scegliamo quanto meno tra azione e non azione. Talvolta ne siamo perfettamente coscienti, talvolta è soltanto la riflessione che ci mostra che è così. Prima di decidersi, l’uomo che è invitato da una situazione qualunque ad agire, paragona le possibilità che intravede; sceglie quella che gli sembra la migliore. In effetti quando si chiede a qualcuno perché agisce in tal modo e non diversamente, la risposta è sempre: mi sembra che questo sia meglio. La parola: meglio, o un’altra dello stesso senso, si applica ad un bene o a un valore. Ogni azione mira solo alla realizzazione di un valore che il soggetto giudica superiore a quello realizzato dalla situazione attuale (da cui l’azione parte e che essa vuol modificare) e superiore a ogni altra forse ugualmente realizzabile. Inutile fornire esempi. Tutto quello che facciamo, a cominciare dalle azioni più insignificanti o banali sino agli atti di abnegazione o di eroismo si riconduce a questa formula generale: questo è meglio.
L’oggetto della nostra volontà è sempre un bene o piuttosto la sua realizzazione. Omne ens appetit bonum. Non potremmo agire, se non avessimo innanzitutto intravisto, più o meno distintamente, un bene possibile, e se non avessimo, allo stesso tempo, la coscienza di poterlo realizzare agendo. Si può forse desiderare l’impossibile, ma non si può volerlo, nel senso stretto del termine3.
Un’azione non può dunque essere compresa, se non si studia prima il bene che essa deve realizzare. Una classificazione delle azioni esige innanzitutto quella dei beni realizzabili e – poiché una cosa riveste il carattere di un bene dal momento che essa rappresenta un valore – una classificazione dei valori. Le azioni istintive possono essere caratterizzate solo dall'indicazione dei valori che esse realizzano. Questi ultimi sono facili da determinare: sono esclusivamente quelle di ordine vitale. I valori vitali hanno la particolarità di aderire all'organismo stesso; di conseguenza la loro realizzazione resta, come obiettivo, chiusa nella sfera del soggetto. La soddisfazione di desideri istintivi produce una alterazione nel mondo esterno solo per accidens, perché il fine primario di un'azione istintiva non è di cambiare una situazione esterna, ma unicamente di soddisfare un bisogno interno. L'istinto “vuole” solo questa soddisfazione o il godimento che ne è l'esperienza soggettiva.
È importante notare che l'istinto sessuale, come esperienza vissuta, non aspira affatto alla “conservazione della specie” o alla procreazione di figli. Dei suoi fini (che, si dice, siano perseguiti dalla “natura” che si “servirebbe” dell'istinto sessuale per realizzarli) niente appare né nel fenomeno mentale del desiderio, né in quello dell'atto, né in quello della soddisfazione. Il motivo primario di un'atto sessuale è il desiderio di soddisfarsi, di liberarsi di una tensione; il fine primario è solo una situazione che permette di raggiungere questa conservazione. Parlando della conservazione della specie come “obiettivo” dell'istinto sessuale, ci si rende colpevoli di un equivoco della parola obiettivo o di un antropomorfismo eclatante.
Gli istinti aspirano solo alla soddisfazione o al godimento che li accompagna. Il piacere di soddisfazione ha un carattere particolare, specifico, molto diverso dagli altri piaceri di cui abbiamo esperienza. Eccoci arrivati a un punto importante: se vi sono dei piaceri diversi e se ciascuno di loro possiede una nota assolutamente specifica, è a priori inverosimile, per non dire impossibile, che in fondo a tutti i nostri piaceri vi sia la soddisfazione dell'istinto come fenomeno o elemento originale. In effetti, è impossibile che una qualità assolutamente nuova possa scaturire dall'alterazione di un'altra qualità.
La psicoanalisi del signor Freud presuppone che tutti i nostri piaceri, anche quelli attaccati alle funzioni più nobili del nostro spirito, siano solo prodotti di una mutazione del nostro istinto. Ma la scuola freudiana ha veramente trascurato troppo i dati dell'introspezione4. Questa insegna che ci sono almeno tre modi diversi di piacere che si distinguono l'uno dall'altro e per la loro nota specifica e per il loro svolgimento: il piacere di soddisfazione (dell'istinto), il piacere di funzione (del bambino che gioca), il piacere di creazione (causato dal compimento di un'opera). Avere ignorato questo fatto importante è un grave errore che la psicoanalisi ha commesso. La visione un po' troppo semplicistica che riguarda tutti i fenomeni mentali come prodotti di una trasformazione dell'istinto – che essa considera quasi come la materia prima di questi fenomeni – non avrebbe mai potuto svilupparsi, se si fosse tenuto conto dei dati della psicologia descrittiva. Questo è tanto più vero, che non solo le sfumature emotive, ma anche i ritmi secondo cui si svolge l'emozione sono completamente diversi in queste tre modalità di piacere. Il bisogno istintivo causa una inquietudine, un turbamento talvolta profondo, una tensione, spesso dolorosa, che però non è sempre un dispiacere puro. Il momento della soddisfazione è accompagnato da un piacere acuto, di durata piuttosto corta, e seguito da una caduta rapida dello stato emotivo. Una stanchezza, un bisogno di riposo, un benessere tranquillo sostituiscono l'agitazione (si pensi ad esempio all'agitazione emotiva dopo un pasto). Il desiderio di soddisfazione aspira a un tale culmine di godimento, e tutto il suo sviluppo è diretto verso il momento supremo. Il piacere causato dal gioco si comporta in modo diverso. L'osservazione dei bambini che giocano lo dimostra al meglio, ma si ritrova la stessa nota nel gioco degli adulti. Nel gioco non vi è acme, la situazione non chiede nessuna soluzione. Sono la funzione, l'occupazione, l'attività stessa che generano il piacere, che spingono a continuare quasi infinitamente. Il gioco non finirebbe se non intervenissero delle influenze estranee o la stanchezza. Non vi è un punto culminante né una fase di riposo, di quiete reattiva. Infine il piacere che proviamo nel momento della creazione di un'opera mostra un aspetto nuovo. Qualche volta vi è uno stato di culmine che tuttavia non è necessariamente quello del compimento, ma piuttosto quello della nascita di un’idea chiara e distinta. Terminando la nostra opera ci sentiamo spesso come liberati da un peso; ma non è una tranquillità felice: è piuttosto un sentimento di vuoto. Siamo liberati, ma ci troviamo anche di fronte ad un vuoto interiore, non sappiamo cosa fare. L'inquietudine, assopita più o meno durante il lavoro, ritorna e ricomincia a turbarci.
Questa descrizione che abbiamo fatto a grandi tratti basterà tuttavia a mostrarci le differenze enormi tra questi tre modi del piacere. Ce ne sono forse ancora altri: è sufficiente in questa sede aver fatto emergere i caratteri essenziali. Ci sembra completamente impossibile che uno di questi tre modi sia al fondo degli altri due; non si potrebbe immaginare come una tale trasformazione si sarebbe potuta avverare.

II

Differenze essenziali tra l’amore e l’istinto

Se le differenze qualitative tra i modi del piacere formano un ostacolo insuperabile per ogni teoria che vorrebbe conoscere solo uno di questi modi e farne il rudimento univoco degli altri, la difficoltà è enormemente più grande, quando si tratta di relazioni tra l’istinto e l’amore. Queste due esperienze e le due condotte che le corrispondono sono talmente diverse l’una dall’altra, che sembra completamente impossibile trarre la seconda dalla prima. Le azioni che vengono emanate dall’amore hanno un carattere essenzialmente “trascendente” di fronte all’attività biologica; il loro scopo è situato radicalmente al di fuori della sfera individuale del soggetto, mentre lo scopo dell’istinto resta essenzialmente legato all’immanenza e si realizza all’interno dell’organismo. Tra questi due caratteri c’è un abisso; chiunque se ne sia reso conto non può immaginare una metamorfosi affettiva nel corso della quale l’istinto diverrebbe amore. Qualunque sia la relazione tra l’intinto e l’amore, essa non può mai essere interpretata in modo da vedere nell’amore un istinto sviluppato o coltivato.
La teoria che fa dell’istinto il germe e l’essenza dell’amore sembra molto inverosimile a uno spirito ingenuo; come dunque, ci si domanda, tutto quello che si chiama amore potrebbe identificarsi con l’istinto? Passi se necessario per l’amore dei sessi, dove almeno l’istinto gioca un ruolo incontestato. Ma vi è l’amore materno, quello del prossimo, della natura, dell’arte, della patria, della scienza, di Dio…, noi diciamo di amare un brano di musica, un paese, una cosa, un’idea. Certi autori pensavano che bisognava trovare una fonte unica per tutte queste forme d’amore e scoprirne l’unità innata; tali altri negavano ogni somiglianza e vedevano nella denominazione comune solo una equivocazione; altri ancora parlavano di “modi amoris” che consideravano emanante da un solo amore che si manifesterebbe in un modo diverso secondo i suoi oggetti. Le lingue moderne, in effetti, sembrano conoscere solo questa parola: amore, mentre l’antichità ne aveva tre a disposizione: eros, filia, agape, oppure: amor, dilectio, caritas. (Si veda l’approfondimento di R. P. Raitz von Frentz, J. J., Scholastik 1929). Un nome comune, tuttavia, utilizzato per cose diverse può naturalmente essere un equivoco puro e semplice; ma può darsi anche che dietro questo equivoco si nasconda qualche relazione essenziale. Occorre dunque esaminare più da vicino questi “modi amoris”5.
Il pensiero aristotelico-tomista vedeva l’essenza dell’amore nel desiderio del più grande bene dell’essere amato. L’agostinismo conservando e sviluppando, qui come altrove, le idee del platonismo e del neo-platonismo, poneva in prima linea “l’oltrepassamento di sé” nel soggetto amante e il movimento verso l’unione con l’essere amato6.
Vediamo dunque tre tratti di cui l’insieme caratterizza l’amore, per così dire, completo. Questi tre tratti, tuttavia, non hanno tutti la stessa importanza o la stessa dignità, perché sembra, che si possa egualmente parlare d’amore anche là dove il movimento verso l’unione è assente o persino impossibile. Si può ben amare la scienza o una idea senza volere né potere unirsi con esse. Ma l’autotrascendenza di me amante e il desiderio del bene dell’essere amato devono esserci, perché si possa parlare d’amore, anche in un senso solamente metaforico. Chiunque ami realmente la verità, o la scienza, o la sua patria desidera il bene della cosa amata: che la verità sia riconosciuta dappertutto, che la scienza faccia dei progressi, che la gloria e la felicità della patria crescano. E ogni amore vero è pronto a donarsi, a dimenticarsi, a perdersi per e nella cosa amata. Qualche volta forse questo carattere lo si vede appena; ma ne restano sempre delle tracce. Perlomeno, un atteggiamento che deve poter portare il nome d’amore è incompatibile con la negazione del valore appartenente all’oggetto.
Non si può amare un oggetto se non dopo aver percepito il suo valore. Ma, d’altra parte, non si scorge il valore, o tutto il valore, di un oggetto senza amarlo. L’amore – come si diceva una volta e come sottolineato oggi da Scheler – rende perspicaci, e non ciechi. Vi è in ciò una reciprocità causale molto complessa tra il movimento della conoscenza e quello dell’appetito. Se la natura umana non fosse così “piena di contraddizioni” e se essa non fosse indebolita nelle sue posizioni nei confronti del bene, la percezione di un valore genererebbe immediatamente un atto di amore, o piuttosto questi due atti si fonderebbero in uno solo7.
L’istinto, al contrario, è in verità cieco. Non vede affatto la personalità totale, ma la guarda esclusivamente dal punto di vista della soddisfazione. Non vuole mai il bene dell’altro; cerca solo di raggiungere il proprio scopo. Non può scoprire altro valore se non quello che corrisponde al godimento della soddisfazione8. Ecco dunque una prima differenza essenziale e profonda tra l’amore e l’istinto. Una seconda consiste in questo: l’amore, volendo il bene supremo dell’essere amato, e realizzandosi nell’abbandono di se stessi, ha una tendenza chiaramente altruistica; il “trahit extra se” ne è la nota caratteristica. Non si può descrivere la natura dell’amore meglio di quanto non facesse San Paolo: “non quareti quae sua sunt”. L’istinto al contrario, non fa altro che cercare quae sua sunt.
Queste due differenze sono così grandi che ogni teoria che stabilisca una identità tra i due fenomeni diventa molto problematica. Se l’istinto è un “elemento” contenuto nel tutto del fenomeno amore, non può essere che un elemento tra molti altri che hanno un’origine molto diversa. Ma l’istinto, preso separatamente, non può bastare a una teoria dell’amore.

III

Unione istintiva e unione d’amore

Si obietterà, forse, che uno dei tratti che noi dicevamo essere essenziali per l’amore appartiene tuttavia anche all’istinto: il desiderio di unione. L’istinto sessuale aspira, si dirà, all’unione fisica. Ma bisogna ben chiedersi se questa unione è realmente in sé lo scopo dell’istinto. Ci sembra, che l’istinto desideri solo la soddisfazione e che l’unione fisica sia solo un modo o il modo per eccellenza, per ottenere la soddisfazione completa. Nelle diverse perversioni sessuali – manifestazioni più o meno patologiche dell’istinto – la soddisfazione completa è ottenuta tramite atti talvolta molto diversi dall’unione carnale. L’esistenza di queste perversioni sembra dimostrarci che il vero scopo dell’istinto, non è l’unione in se stessa, ma il piacere, strettamente soggettivo e “egoista” che accompagna l’amore. Quando un uomo desidera realmente l’unione e non solo la soddisfazione che ne deriva, non ci troviamo più di fronte all’istinto puro: l’amore vi si trova già mescolato.
L’unione nuziale, senza dubbio, sembra essere qui sulla terra l’immagine di unione per eccellenza. Non vi è, tra due esseri umani, intimità, comunione più immediata e più profonda. Ma questa unione è veramente la realizzazione dell’idea di unione propria dell’amore, è il culmine di quello che l’amore immagina sognando l’unione con l’essere amato? È dubitabile e per ragioni forti.
Esaminando i fatti si nota che questa unione, qualunque soddisfazione doni, lascia ancora il desiderio. Essa calma senza alcun dubbio tutti i bisogni dell’istinto; ma questa comunione, questa identificazione di due esseri, questa volontà di essere ricevuti in un altro, tale quale la concepisce l’amore, non vi si trovano. Qualsiasi cosa facciano, gli sposi non possono compenetrarsi, non possono fondersi l’uno nell’altro. Una barriera insormontabile li separa. Sarebbe facile riportare numerose parole con le quali tante persone – uomini e donne – si lamentano del fatto che le gioie fisiche del matrimonio, malgrado ogni godimento comune, malgrado l’abbandono supremo, non possono soddisfare il desiderio di unione. L’acme del piacere fa dimenticare, per un momento, che l’unione non è affatto realizzata; ma appena passato questo momento, ciascuno degli sposi ridiventa cosciente della sua individualità, dell’impossibilità di uscire realmente da se stesso. Benché gli sposi dicano: “noi” in un senso più profondo rispetto ad ogni altra coppia, questo “noi” resta sempre un plurale! Una coppia è “una caro” (Mat. 19, 6), mai una persona o ens unum.
In effetti, nessun individuo, e la persona umana meno degli altri, può perdere, forse anche solo per un momento, la propria esistenza e ritrovarla dopo. L’uomo può perdere la coscienza di se stesso, sentirsi, attraverso qualche fantasmagoria della sua immaginazione, immerso in un altro, ma gli è perfettamente impossibile uscire da se stesso. Quando l’esaltazione è passata e ritorna la piena coscienza, la disillusione è grande e talvolta dolorosa.
In questi casi l’uomo ha coscienza, con una intensità particolare, della solitudine, caratteristica essenziale della sua esistenza. Anche l’intimità più grande con un altro, anche fosse quella dell’unione nuziale, non gli permette di arrivare fino alle profondità supreme di un altro sé né di aprirgli le fonti più nascoste del suo essere. Vi è una piena soddisfazione sul piano dell’istinto, ma non vi è appagamento completo per i desideri dell’anima.
Questa solitudine è qualche cosa di più profondo rispetto alla banale sensazione di isolamento di cui si lamentano gli uomini quando non hanno un compagno, quando non trovano l’aiuto che si aspettano, quando si credono incompresi. La solitudine che noi consideriamo qui è una caratteristica costitutiva dell’esistenza della creatura e una conseguenza necessaria della sua struttura ontologica. L’essere razionale ha questo di particolare, che la sua esistenza e la sua essenza si riflettono nella sua coscienza. La solitudine sentita è il correlato soggettivo dell’isolamento ontologico. Quando due esseri finiti si toccano, non si tratta in quel caso del contatto di due sostanze; vi sono solo gli accidenti che, direttamente, agiscono l’uno sull’altro. Noi non abbiamo nessuna conoscenza immediata delle sostanze, noi le immaginiamo come se fossero “dietro” gli accidenti9.
L’uomo, dunque, è ben cosciente della sua esistenza e quindi del suo essere come sostanza. Non dobbiamo qui discutere la delicata questione se abbiamo una conoscenza vera e propria della nostra sostanza o solamente una intuizione immediata e semplice della nostra sostanzialità; nei due casi quello che sappiamo di noi stessi basta a risvegliare in noi la sete di un contatto sostanziale, il desiderio di toccare – per così dire – la sostanza dell’altro, di annullare le distanze che ci separano. Questo desiderio, almeno fin quando si rivolge ad un essere finito, non può mai essere appagato. Rinchiuso nei limiti del suo essere l’uomo non può veramente oltrepassarli; il superamento di se stessi resta un ideale che, fluttuando nell’infinito, indica la via nella quale l’amore potrebbe trovare la sua realizzazione suprema. Non dimentichiamo che la definizione: trahit amor amantem extra se, si trova nel trattato: De adhaerendo Deo!
In effetti, che l’amore, atteggiamento dell’io, sia capace di portare l’uomo a trascendere il proprio io, è una cosa inimmaginabile. Perché l’io sia tratto fuori da se stesso, è indispensabile l’intervento di una forza estranea all’io. Questa forza, l’amore può esercitarla solo se è, non solo l’atto, la passione, l’atteggiamento del sé, ma un essere in cui l’io e l’amore si fondono. Bisogna che sia l’Amore sostanziale e non una modificazione di un essere essenzialmente differente da lui.
Quando si tratta di questo amore, di Dio, l’unione può essere realizzata (non dalle proprietà della nostra natura, ma dalla grazia che proviene dall’alto) a un tale grado che nessuna unione qui in basso potrebbe mai produrre. La realizzazione dei desideri che l’amore risveglia nell’anima è possibile solo nell’amore di Dio e attraverso un soccorso concesso alla nostra impotenza dalla bontà dell’Altissimo.
Non di meno l’amore terreno che si avvicina di più all’ideale è sempre – ma con le restrizioni che abbiamo già indicato – l’amore dei sessi. Ecco la ragione per cui le descrizioni delle estasi dell’amore mistico contengono delle espressioni tratte dal linguaggio dell’amore terreno. Molti autori hanno creduto di poterne trarre la conseguenza – piuttosto assurda – che l’amore mistico fosse solo una trasformazione o persino una maschera dei fenomeni erotici. Ma il nostro linguaggio è molto povero e insufficiente, anche quando si tratta dell’amore di un amante o di una madre. È per questo che le parole di un amante o anche quelle delle madri degenerano così facilmente in un balbettio puerile. Di fronte ai grandi avvenimenti della vita, a grandi passioni, a grandi impressioni che ci toccano fino al fondo del nostro essere, torniamo tutti bambini. Ma non vi è nessuna ragione per fare dell’amore mistico un fenomeno erotico o, peggio ancora, sessuale.
Dicevamo che l'amore dei sessi è più o meno la più grande realizzazione dell'amore che conosciamo sulla terra. Forse l'amore materno si avvicina ancora di più all'ideale; ma resta, in larga misura, unilaterale; il bambino non può amare né con l'intensità, né con l'abbandono di se stesso, che necessiterebbe al suo amore, perché sia uguale a quello della madre. Nell'amore dei sessi vi è comunque un ostacolo assai grave – e forse sempre all'origine – che gli impedisce di diventare una realizzazione dell'ideale; questo ostacolo, è proprio l'istinto.

IV

La scelta e il sacrificio criteri differenziali tra l'istinto e l'amore

Abbiamo già spiegato che tra l'amore e l'istinto vi è una differenza notevole e anche essenziale. L'istinto cerca solo la propria soddisfazione; niente gli è altrettanto estraneo quanto il quaerere quae non sua sunt, il che, al contrario, costituisce l'essenza dell'amore. L'amore vuole solo donare, l'istinto vuole solo prendere. Per l'amore è naturale sacrificarsi, l'istinto per sua natura cerca di impossessarsi della sua preda. M. Paul Haeberlin, di Basilea, nel suo libro sul matrimonio, nota – molto giustamente, per quanto ci sembra – che non bisogna voler costruire la comunità matrimoniale sul terreno della sessualità, ma piuttosto conservarla malgrado quest'ultima. Vi è dunque, contrariamente a quello che si crede generalmente, un antagonismo profondo tra l'istinto e l'amore, benché uno e l'altro, nella vita dei sessi, siano inestricabilmente mescolati.
Una teoria, dunque, che facesse scaturire l'amore dall'istinto e vedesse in quest'ultimo una fase preliminare del primo ci appare assolutamente impossibile ed in contraddizione flagrante con i dati della realtà. Vi sono, naturalmente, relazioni molto strette tra l'istinto e l'amore; ma non sono quelle che esistono tra il germe e il fiore fiorito, né tra il rudimento indifferenziato e il fenomeno complesso. Vedremo a breve, come devono essere definite queste relazioni. Per il momento constatiamo soltanto che la situazione è molto più complicata di quanto non si pensi in generale.
Il Vangelo ci dice che non vi è amore più grande di come che dona la vita per i suoi amici. È dunque la grandezza del sacrificio, che diventa, in qualche modo, una misura dell'amore (se tuttavia è permesso applicare termini di quantità all'amore o a ogni altro fenomeno psichico). L'istinto, naturalmente, non conosce sacrifici. Può sacrificare un'altra cosa, anche la felicità dell'altro, a se stesso, per ottenere la sua soddisfazione; ma è incapace di sacrificare se stesso. Nel campo dell'istinto non vi è né scelta né decisione, né sacrificio. Bisogna che vi sia scelta perché vi sia sacrificio. Perché sacrificare vuole sempre dire: rinunciare, di fronte a due beni possibili, a uno di essi, perché l'altro è giudicato più grande. Si può sacrificare solo ciò che si considera come un bene, e anche come un bene importante. Laddove non vi è rinuncia a un bene desiderabile in favore di un altro che si considera più elevato, non si può parlare di sacrificio.
L'istinto non conosce scelta, e di conseguenza non conosce sacrificio né vero conflitto. È possibile che all'istinto si presentino due oggetti egualmente desiderabili e che non possa ottenerli tutti e due insieme. Ma c'è solo una teoria troppo naturalista che fa dei “tropismi” o delle reazioni istintive delle azioni primitive; l'azione, presupponendo il giudizio, la scelta, la decisione, appartiene a un piano molto più elevato di quello delle sue funzioni biologiche. Tra due o più attrazioni, indirizzandosi all'istinto, vi può essere antagonismo, ma non conflitto. Chi parla, come lo fa il freudismo, di un conflitto tra istinti dimostra la sua incapacità in materia psicologica: non ha capito né la natura dell'istinto né quella del conflitto. Gli istinti, come tali, possono rafforzarsi o inibirsi reciprocamente; si comportano come le forze in fisica, di cui calcoliamo la risultante seguendo lo schema del parallelogramma. Gli istinti, essendo per definizione dei dinamismi dovuti all'organizzazione dell'essere vivente, si avvicinano più alla natura delle forze meccaniche, che a quella delle forze spirituali. La categoria del conflitto non può essere applicata quando si tratta dell'istinto.
L'istinto può, naturalmente, creare un conflitto, quando il suo oggetto si presenta alla nostra coscienza contemporaneamente ad un altro oggetto che appartiene ad un livello assiologico più elevato. Ma allora non vi è conflitto di istinti ma questa situazione ben conosciuta; ci troviamo di fronte ad un bene molto attraente ma giudicato inferiore di rango, e un altro, riconosciuto come più elevato, ma che non ha affatto la stessa capacità di attrazione. Questa situazione sfocia o in una decisione contro la pulsione istintiva o in un arretramento davanti alle difficoltà che sono da vincere per trionfare sull'istinto: video meliora proboque, deteriora sequor.
Cediamo troppo spesso all’istinto, anche quando vediamo chiaramente che il bene che esso desidera è di rango inferiore; e crediamo di sentire una forza più grande che proviene dall’obiettivo dell’istinto. Si è pensato di poter concludere che la forza attrattiva di un valore crescesse in modo inversamente proporzionale alla dignità di questo valore. Questa asserzione è lungi dall’essere giusta. Innanzitutto il numero di casi – ammettendo anche che sia in favore di questa tesi (cosa che si ignora) non può servire da argomento in tale materia. Bisognerebbe analizzare ogni caso per sapere che cosa significhino realmente un’azione, una decisione. Del resto la tesi che combattiamo non sarebbe nemmeno provata, se effettivamente la maggior parte degli uomini si decidesse, regolarmente, per l’istinto e contro il bene più elevato.
Supponiamo che in un paese vi siano 999 uomini affetti da tubercolosi e solamente uno che non ne fosse toccato. Si concluderà che “l’uomo normale” è colui i cui polmoni sono rosi dalla malattia? Il normale non si confonde con la media. Se dunque, in media, l’uomo si decide per l’istinto, questo non prova né che egli possa fare diversamente, né che i valori elevati siano per natura deboli. Basta che un solo uomo si sia deciso, ogni volta o una volta per tutte, a scegliere il valore elevato e a rifiutare, malgrado ogni attrazione, lo scopo proposto dall’istinto, per provare la falsità della tesi citata. E non si saprebbe dubitare che questo caso si realizzi non solo una volta, ma molto spesso. Ciò che dicevamo alcune pagine fa, riferendoci alle parole di Bosanquet, si applica anche al problema in questione.

V

Natura delle relazioni tra l’istinto e l’amore

Quali sono, infine, le relazioni tra l’amore e l’istinto? L’istinto sessuale è, senza dubbio, un “momento” indispensabile nell’amore dei sessi. Se l’istinto non vi entra, ci troviamo a che fare con un’altra cosa, rispetto all’amore dei sessi, forse un’amicizia o persino un amore intenso del prossimo, ma non l'attitudine specifica che lega l’uomo alla donna10. Quello che un romanziere spirituale ha chiamato “amicizia amorosa” è forse più vicino all’amore che all’amicizia; non è meno vera l'esistenza, tra due persone di sesso diverso, di un’affezione così vergine d’inclinazioni sessuali da sentirsi disturbata, nel suo ritmo puramente fraterno, quando entra in gioco la sessualità. In altri casi, l’istinto, mal interpretato, può imporsi per l’amore. Un gran numero di matrimoni più o meno infelici ha origine dal fatto che i due coniugi pensano di amarsi, mentre si stimano solo o si divertono insieme o hanno gli stessi interessi. Questa illusione nasce da alcune spinte puramente istintive che sentono ogni tanto. Ciò mostra la necessità di saper distingue tra amore ed istinto. L’amore può nascere sia da una amicizia pura, sia da una semplice inclinazione della carne; ma ogni vero amore tra due persone di sesso diverso è necessariamente composto da sessualità ed affezione spirituale11. Ciò è vero anche, quando la componente sessuale dell’amore (il che capita talvolta nelle ragazze giovani) non è riconosciuta come tale; quando saranno donne sapranno, in retrospettiva, identificare i loro sentimenti di allora.
Poiché la sessualità è un elemento indispensabile dell’amore sei sessi e poiché non può, come abbiamo visto, esserne l’essenza, eccoci di fronte a un problema apparentemente molto difficile; non sarebbe così, se la psicologia moderna non avesse escluso, come pure tante altre discipline, di informarsi sulle soluzioni possibili presso una sana filosofia e se fosse rimasta in contatto con la realtà. Un fenomeno molto curioso – il cui studio sarebbe un compito molto interessante per uno storico – è questo: il pensiero moderno si è abituato a considerare come necessariamente identiche le condizioni necessarie all’esistenza di una cosa e l’essenza, il nucleo interno che comanda l’evoluzione di questa cosa. Un esempio: la teoria della discendenza assicura che gli organismi che popolavano una volta la terra sono non solo i predecessori, ma anche gli antenati degli organismi che sono arrivati dopo. Non discutiamo la legittimità di questa teoria. Notiamo solo, che la successione delle forme di vita, permette un’altra interpretazione, che potrebbe o rimpiazzare quella di Lamarck o di Darwin, o essere ad essa coordinata. Gli animali, in effetti, non potevano esistere prima che ci fossero piante di cui potessero nutrirsi. L’uccello non può vivere senza avere mosche, vermi o pesci, ecc. ecc.. L’esistenza di specie inferiori è una condizione sine qua non di quella delle specie superiori.
Così, la vita vegetale è il “fondamento”, la condizione della vita animale. Ma non ne consegue che le piante siano gli antenati degli animali. Applichiamo questo punto di vista al nostro problema. Dal fatto che l’istinto sessuale, o le sue manifestazioni, siano necessarie perché si possa parlare di amore dei sessi, non si deve né si può concludere che questo istinto sia una fase rudimentale dell’amore, fase che conterrebbe l’amore come il germe contiene la pianta12.
L’amore dei sessi presuppone l’istinto, ma l’amore non si sviluppa dall’istinto. La relazione tra l’istinto e l’amore somiglia in qualche modo a quella tra la materia e la forma. Una cosa appartenente a un certo piano o livello dell’essere può, rivestendo una nuova forma, essere elevata a un livello superiore. È ad esempio il caso dell’artista quando crea una statua di pietra. È il caso della volontà quando si appropria degli appetitus sensitivi, per trarne – per così dire – l’energia del suo atto. È infine il caso dell’istinto, quando è “ricevuto” nella totalità dell’amore.
Il ruolo dell’istinto, come momento necessario dell’amore dei sessi, non si limita tuttavia affatto a quello della “materia”. L’istinto o le sue manifestazioni diventano, inoltre, un mezzo di espressione per l’amore. Il filosofo tedesco G. Rimmel chiamava i fenomeni erotici le “manifestazioni più periferiche” dell’atto d’amore, che emana esso stesso dal centro della personalità.
L’espressione è una categoria fondamentale in psicologia; essa non è suscettibile di un’analisi ulteriore. Vista dall’esterno, essa appartiene al genere dei “segni”13: è una realtà diversa da quello che significa e attraverso la quale diventiamo coscienti della cosa significata. Ogni azione umana è, a parte il suo scopo mediato, l’espressione di un atteggiamento interiore. M. Buehler, di Vienna, nella sua teoria del linguaggio, fa notare che ogni enunciato verbale presenta un “aspetto” triplice. Esso significa o rappresenta qualcosa; nomina l’oggetto, formula un pensiero, un giudizio, esso racconta un fatto. È ciò che M. Buehler chiama “Darstellung”. Ma la parola si rivolge sempre a qualche uditore e tende a provocare in lui una risposta o una reazione; come tale, la parola si presenta come “provocazione” o scoppio (“Appell” o “Ausloesung”). Infine, colui che parla sia che lo voglia o meno, la sua parola svela sempre all’interlocutore – o a un osservatore – qualcosa del suo atteggiamento interiore, della sua situazione emozionale nelle sue diverse sfumature. Ci “inganniamo” facilmente, quando parliamo. È quasi impossibile ingannare assolutamente un osservatore perspicace. Ogni parola è così manifestazione, e della presente situazione interiore e della personalità totale, delle sue disposizioni o habitus (“Kundgabe”).
Quello che le analisi ingegnose di M. Buehler hanno dimostrato riguardo alla parola si verifica anche in tutto il comportamento. Ogni condotta contiene un elemento oggettivo: lo scopo che persegue; esso ha (quasi sempre in effetti, e senza eccezione, essendo l’uomo per sua essenza un “animale socievole”) una importanza sociale; di regola esso diventa l’espressione di una situazione interiore. Ciò si applica non solo alle condotte espressive, come il gesto, la mimica, le variazioni esteriori che accompagnano le nostre emozioni; ma anche ad ogni comportamento possibile. Vi è dunque una correlazione più o meno stretta tra stato d’animo e fenomeno espressivo; quest’ultimo diventa, inoltre, tanto più rivelatore, quanto più l’emozione a cui serve d’espressione è più intensa e più semplice. Le manifestazioni dell’istinto sessuale sono, in questo senso, delle espressioni dell’amore sentito per un individuo dell’altro sesso. Ogni espressione, tuttavia, esprime non solo lo stato emotivo attuale ma anche, come dicevamo prima, la personalità totale. La condotta erotica diventa così una espressione degli atteggiamenti fondamentali della personalità. Non che l’istinto sia la base e la causa di questi atteggiamenti. C.-G. Jung, di Zurigo, quando ancora aderiva strettamente alla dottrina freudiana, formulò il punto di vista psicoanalitico più o meno in questo modo: la personalità di un uomo è prefigurata nella sua sessualità; dalla struttura e dall’evoluzione di quest’ultima dipende la sorte dell’intero uomo. Ci sembra che la relazione debba essere invertita: l’istinto sessuale si conforma, nelle sue manifestazioni, agli atteggiamenti fondamentali della personalità, di cui segue tutte le alterazioni. Abbiamo osservato molte volte che l’intensità dei desideri, la forma della soddisfazione, il posto che la sessualità occupa nella vita, che tutto questo – considerato dalla psicoanalisi, e da altre dottrine naturaliste, come invariabile, dovuto alla “costituzione sessuale”, radicata negli strati organici – è capace di una alterazione, di una rivoluzione profonda dal momento in cui, attraverso una qualsiasi influenza (conversione, guarigione psicoterapeutica, choc emotivo), la personalità cambia, adotta una nuova posizione davanti alla realtà, al prossimo, alla religione. Non si può né trattare, né educare la sessualità presa in modo isolato; occorre sempre rivolgersi all’uomo totale. Una pedagogia sessuale, l’abbiamo spiegato altrove, non esiste; è possibile solo una educazione totale della personalità. È la stessa cosa per la psicoterapia; per riuscire occorre che essa si impadronisca della personalità intera, che abbisogna di una rieducazione, di un cambiamento delle sue posizioni fondamentali.
L’istinto compie il ruolo che può avere nella vita umana solo quando è sottomesso all’amore, e diventa mezzo di espressione e di realizzazione. Senza allontanarsi troppo dalla realtà, si potrebbe anche chiamare l’istinto lo strumento di cui l’amore si serve per arrivare fino alla persona amata. La sessualità, dicevamo già quindici anni fa - nel nostro libro sulla psicologia sessuale - è il canale prestabilito attraverso il quale il flusso dell’amore potrà scorrere.

VI

Amore maschile ed amore femminile

Permetteteci qualche parola sulle particolarità dell’amore nei due sessi. Si può affrontare questa questione sotto due aspetti: sia a partire dalla biologia (basandosi sulle differenze anatomiche e fisiologiche tra i due sessi), sia prendendo direttamente come punto di partenza dall’essenza della personalità dell’uomo e della donna. Il secondo processo ci sembra preferibile, perché è molto difficile descrivere una esperienza interiore dove entra in gioco solo l’istintività. Non vi è dato introspettivo, per quanto “elementare” sia, che rifletta solo la nostra costituzione psicologica; la nostra personalità intera si trova implicata in ciascuna delle nostre impressioni soggettive. Cercheremo dunque di tracciare qui l’immagine dei tratti essenziali della natura maschile o femminile, presa, non solo nel suo fondamento istintivo, ma nella sua totalità carnale e spirituale14.
Il sentimento dell’amore, le sue forme, i suoi ritmi è diverso nella donna rispetto all’uomo. Un buon numero di malintesi e di sofferenza proviene dall’idea di un’identità di amore tra i due sessi. Una donna che domanda d’essere amata da suo marito esattamente come lei ama lui, un uomo che desidera ritrovare con la sua donna un amore qualitativamente eguale al suo non possono che andare incontro ad una profonda delusione. Tutti e due proveranno di non essere amati – ma lo sono spesso fortemente, sebbene non se ne accorgano, perché ignorano le differenze essenziali tra la natura maschile e quella della donna, differenze che, necessariamente, si manifestano anche nel modo di amare.
Le caratteristiche specifiche dell’amore nei due sessi dipendono dalle differenze delle due nature. Si è creduto di trovare la radice di queste differenze nella vita emozionale che si dice essere più sviluppata nella donna. Questa, nelle sue azioni, nei suoi pensieri, in tutta la sua condotta, sarà determinata dall’emozione, secondo alcuni psicologi, piuttosto che dalla ragione o da qualche considerazione oggettiva. Le donne sono considerate come prive di logica. Ma, se si osserva più da vicino, si nota che lo spirito femminile non manca del tutto di logica; spesso le donne si mostrano davvero capaci di seguire, non solamente una catena di sillogismi, ma anche di servirsene correttamente. È dunque falso che esse non possano pensare logicamente; si direbbe piuttosto che esse non lo vogliono o che esse non vi si interessano. Non è vero neanche che l’emozione domina sempre nella vita della donna. Vi sono molti casi in cui vi sarebbero ottime ragioni per scatenare un’emozione eccessiva e in cui la donna, malgrado tutto, si comporta molto ragionevolmente, senza perdere la testa, senza lasciarsi andare alla disperazione; si rifletta un attimo su tutto ciò che una madre è capace di fare, quando si tratta di suo figlio. Naturalmente, molte madri commettono errori e agiscono assai poco ragionevolmente. Ma vi sono anche uomini che dimostrano mancanza di riflessione o di ragione in una situazione difficile o disturbante.
La differenza essenziale tra i due sessi non deve, secondo noi, essere ricercata nello sviluppo più o meno grande di una certa funzione o di un certo aspetto della vita mentale. Questa differenza deve avere le sue cause negli strati più profondi della personalità.
Lo psicologo olandese Heymans, ex professore dell’università di Groningen, ci sembra abbia intravisto il punto principale, sebbene non lo osservi tanto quanto occorrerebbe. Basandosi sui risultati di un’indagine che comprendeva parecchie migliaia di persone, arriva alla conclusione seguente: la donna s’interessa, spontaneamente, solo ai casi individuali, e non alla legge, alle generalizzazioni, alla formula concettuale (il che costituisce il tratto più caratteristico della mentalità maschile). Crediamo che questa formula abbia bisogno di una leggera modifica. Ecco cosa diciamo: lo spirito della donna si dirige innanzitutto verso le persone, quello dell’uomo verso le cose. La persona umana, è l’individuo, il singulare; la cosa, è l’elemento generico che si presta maggiormente all’astrazione o alla generalizzazione. Questo interesse delle donne per il caso singolo, per l’individuo umano ha probabilmente le sue radici nel fatto fondamentale della disposizione alla maternità. La relazione tra madre e figlio è assolutamente unica per la sua essenza e per le sue manifestazioni. Un legame misterioso unisce questi due esseri che, prima della nascita del figlio, erano uniti corporalmente. Quando questo legame corporale cessa di esistere, viene rimpiazzato da una prossimità mentale di cui non si possono trovare equivalenti altrove. Alcune donne tuttavia sanno amare un uomo in un modo quasi analogo e possono penetrare fino alle profondità più intime della sua anima e indovinare i movimenti più segreti. In generale, l’uomo è incapace di una tale forza indovina; se a volte la possiede, sarà forse un amante eccellente, ma non un rappresentante del tipo maschile. Del resto, i tratti essenziali della virilità mancano spesso a tali uomini.
L’amore è la forma più perfetta della relazione tra due persone umane. Una volta risvegliato nel cuore di una donna, risponde ai desideri e alle facoltà essenziali della sua natura, molto più che nell’uomo.
Non dimentichiamo che, tra le donne, vi sono enormi differenze individuali. Molte di loro senza dubbio non sono capaci di un amore vero e profondo. Ma non bisogna giudicare la natura femminile secondo la media statistica e nemmeno secondo la maggioranza dei casi. Non bisogna cercare l’essenza dell’amore femminile nell’atteggiamento di una donna civettuola per la quale l’amore è forse solo un gioco, o di un’altra che si è stancata presto del suo amante o di una terza che gli è infedele, ecc.; per scoprire la natura dell’amore femminile, occorre alzare lo sguardo verso le eroine dell’amore di cui parlano la storia e la leggenda. Le lettere della Signora Lespinasse ci insegnano più cose sull’amore che tutta la cronaca scandalosa dei nostri giorni (allo stesso modo abbiamo un’idea molto più corretta della fede studiando la vita di Sant’Agostino, che non raccogliendo fatti sull’atteggiamento religioso degli abitanti di una città moderna).
Una donna che ama realmente è riempita del suo amore. Tutto ciò che fa o pensa è immerso, per così dire, nella luce del suo amore. Sia che lavori, o che si occupi delle cose della vita quotidiana, di scienza o di arte, ella si sente sempre unita all’essere amato, anche se non ci pensa espressamente. Ella non può mai dimenticarlo completamente. L’uomo, al contrario, dimentica; in mezzo agli affari che lo tengono occupato, agli interessi che persegue, alle idee da cui è posseduto, non pensa alla donna amata. Indubbiamente, spesso questo pensiero passa attraverso la sua coscienza, come un chiarore fuggitivo, ma è tutto qui. “Non pensi mai a me quando sei in ufficio, in laboratorio, in fabbrica…” è un lamento proferito assai spesso dalle donne. Esse hanno perfettamente ragione, per quanto riguarda il fatto osservato; esse si ingannano se vi vedono il segno di un amore insufficiente o che diminuisce. L’amore maschile non è più debole di quello della donna; è diverso. È più facile per l’uomo darsi a una cosa che a una persona.
Le manifestazioni dell’istinto sessuale sono, in qualche modo, il riflesso di queste profonde differenze della natura dei due sessi. Il lato erotico ha un ruolo più importante nella vita di una donna, una volta che ella ne è divenuta cosciente. Non che la donna sia più sensuale, in generale, dell’uomo; non si tratta di differenze di quantità. La più grande importanza che hanno le esperienze erotiche per la donna è dimostrata in modo notevole dalle osservazioni raccolte dalla Sig.ra Hetzer, dell’Istituto di psicologia di Vienna. Seguendo la vita di un certo numero di giovani donne, la Sig.ra Hetzer ha potuto constatare che un’erotizzazione precoce faceva sparire tutti gli altri interessi, mentre le giovani ragazze nate dallo stesso stato sociale, che, per caso o di proposito, non si erano ancora svegliate alla vita sessuale, restavano interessate a molte cose. Non è lo stesso per la giovinezza maschile. Là, l’esperienza sessuale, anche precoce, non sembra danneggiare allo stesso modo la vita dello spirito, l’interesse oggettivo e scientifico, ecc.
Non possiamo approfondire qui questa questione. Ma alcune osservazioni che abbiamo potuto svolgere bastano a indicare la via in cui devono orientarsi le nostre ricerche.

VII

Finalità sacrificale dell'istinto

Bisogna precisare ora il ruolo dell'istinto come elemento della personalità umana.
Innanzitutto l'istinto, come abbiamo spiegato prima, ha la funzione di realizzare alcuni valori vitali. Inoltre esiste per servire l'amore come mezzo di espressione e di realizzazione. Ma c'è ancora un'altra funzione nell'insieme della personalità. Designamo quest'ultima con una formula breve e, ne siamo molto coscienti, piuttosto paradossale: l'istinto esiste per fornire un alimento al sacrificio. Ecco ciò che rimproverano alla morale cristiana tutte quelle dottrine che, nel nome della natura e della libertà, preconizzano una nuova morale sessuale. Ma ciò che chiamano natura, non sono altro che le sue funzioni più primitive. Ciò che esigono nel nome della libertà, è piuttosto il libertinaggio; ciò che presentano come una morale nuova è in realtà solo una morale molto antica, pagana e molto primitiva.
La primitività in effetti è molto di moda ai nostri giorni. J. J. Rousseau scriveva: “Torniamo alla natura!” e questa parola ebbe un successo enorme alla fine del XVIII secolo e all'inizio del XIX secolo: “Torniamo alla primitività” sembra essere il leit-motiv di molte correnti d'idee contemporanee.
L'ammirazione per l'arte nera – senza dubbio molto interessante ma poco adatta a succedere a quella di Donatello, di Rembrandt o di Watteau – testimonia questa tendenza nel campo estetico, come la dottrina di un Bachofen in sociologia, la speculazione fantasiosa di un Klages in psicologia, la filosofia detta dell'esistenza in metafisica, la glorificazione del sangue e della razza in politica. Si scopre, senza difficoltà, la stessa mentalità, lo stesso primitivismo come motore di diverse polemiche contro la morale cristiana – in generale – e particolarmente quando si tratta del problema sessuale.
I difensori della nuova morale si spaventano soltanto nel pronunciare la parola sacrificio. E il loro spavento aumenta ancora, quando questa parola viene applicata all'istinto sessuale. Ma niente è più contrario alle esigenze della personalità umana, “più umano” che un tale orrore del sacrificio. Poiché Dio è amore e l'uomo è creato ad similitudinem et imaginem Dei occorre che la facoltà di amare sia un tratto essenziale della natura umana. Chiunque fosse realmente privato di questa facoltà sarebbe posto fuori dall'umanità. Ma amare vuol dire: essere pronti al sacrificio. Potere e persino volere fare sacrifici è dunque un tratto essenziale della natura umana. Chiediamo anche al bambino che sappia sacrificarsi; non solo perché si trovi preparato alla vita, che gli porrà limiti molte volte, ma anche perché divenga realmente un essere umano, perché sviluppi in sé quelle qualità essenziali che fanno dell'uomo un essere così diverso da tutto ciò che esiste sulla terra.
I valori si presentano all'uomo non solo scaglionati secondo la loro dignità oggettiva, ma anche differenziati secondo una seconda dimensione: quella dell'attrazione che esercitano sul sé. I valori corrispondenti alle tendenze primarie del sé esercitano un'attrazione più grande. Il sentimento di bisogno imperativo che caratterizza l'istinto testimonia questo primato attrattivo dei valori oggettivamente più bassi. Ciò che la teologia ci insegna ad essere la conseguenza del peccato originale (l'obnubilazione dell'intelligenza e l'indebolimento della volontà) può essere considerato come un'introduzione di questa seconda dimensione nell'ordine dei valori.
Perché l'uomo realizzi ciò che vi è di più elevato nella sua natura bisogna che possa opporre la sua volontà agli impulsi e ai desideri che corrispondono solo alla parte inferiore del suo essere. Anche gli ammiratori più eminenti del “naturale”, anche gli avvocati più accaniti della cosiddetta nuova morale, non oseranno contestare che esistano al di sopra dei valori vitali altri valori che attendono di essere scorti e scelti.
Ma queste persone sono affascinate dall'idea che la cosa “elementare” possa essere solo la cosa più reale e più preziosa. Considerano dunque come qualcosa di nocivo per la vita ogni azione che sembri contrastare le tendenze primitive. Non vedono, che questa natura umana che esaltano tanto trascende infinitamente il mondo organico. L'inclinazione più sentita da tutti, ma alla quale si conforma solo una minoranza, di aspirare all'ideale, di realizzare valori sublimi, di ottenere beni che non muoiono dal momento che li si possiede, questa inclinazione non potrebbe trovarsi ovunque, in tutte le razze, in tutti i secoli, in ogni cultura, se essa non appartenesse alla natura stessa dell'umanità. Restringere la natura umana a ciò che essa ha in comune con gli animali, significa dimostrare una povertà di giudizio e una mancanza veramente spaventosa verso la realtà.

VIII

Conflitto e nevrosi

Ci resta da dimostrare – contro l'interpretazione freudiana che vede, nella rimozione dell'istinto, l'unica causa degli incidenti nevrotici – in quale misura i conflitti che nascono dalla non soddisfazione dell'istinto possono scuotere la salute psichica dell'individuo. - Se le difficoltà inerenti tali conflitti non vengono considerati come una “ingiustizia”, come “qualcosa che non dovrebbe esistere” l'equilibrio mentale non ne risentirà. I conflitti non sono, in se stessi, causa di perturbazione morale. Lo diventano soltanto quando l'individuo, invece di accettare la vita così com'è – cioè più o meno irta di difficoltà – prende un atteggiamento di rivolta contro la propria sorte.
Nessuna esperienza agisce di per se stessa su di noi, essa agisce a seconda dell'interpretazione che le conferiamo. Lo stesso avvenimento può produrre effetti diversi in due uomini, a seconda dell'atteggiamento che adottano davanti ad esso. Vediamo soccombere un uomo in una situazione che un altro sopporta senza esserne spezzato. Vi sono dei deboli e vi sono degli eroi. Vi sono anche periodi storici dove anche la debolezza diventa un atteggiamento quasi generale15.
Per molti aspetti il nostro secolo merita di essere collocato in questa categoria. Una gran parte dell'umanità occidentale sembra dominata dal desiderio di trovare i modi per vivere senza nessun dolore, nessuna pena, nessuna difficoltà. L'ideologia delle utopie sociali come quella dei nuovi sistemi di educazione e di psicoterapia sogna un avvenire dove non vi sarebbe né conflitto né combattimento, né turbamento interiore. La psicoanalisi, animata da un opportunismo piuttosto curioso, sembra credere che evitando le rimozioni malsane e impedendo a certi avvenimenti d'ingombrare l'inconscio e di formarvi dei complessi, si possa arrivare ad una vita dove non vi sarebbero nevrosi e dove i conflitti sarebbero ridotti al minimo. Abbiamo già mostrato l'assurdità di questa concezione: il conflitto risulta dalla struttura ontologica della personalità umana; è necessario al suo sviluppo morale16.
Questa rivolta contro la sofferenza e contro il combattimento interiore proviene da una mentalità molto contraria a quella che deve caratterizzare lo spirito cattolico. Certamente nessuna creatura vivente vuole soffrire; la vita si accanisce con tutta la sua forza contro la sofferenza e la morte. Ma al cristiano è dato di essere più di una semplice creatura vivente; dotato di intelligenza e di volontà, può vincere la sofferenza, benché non possa ucciderla; può dargli un senso o, meglio, scorgerne il senso, se non nella vita individuale almeno in quella dell'umanità. Non bisogna in effetti che l'individuo desideri conoscere il senso della propria vita; si tratta di un desiderio insensato: il senso di una vita individuale, se mai si rivela, appare solo dopo la morte, perché ogni esistenza costituisce un tutto indivisibile, e il senso di questo tutto non saprebbe manifestarsi nel frammento che è la nostra vita quaggiù – questa vita di cui noi non conosciamo né l'evoluzione futura né l'epilogo eterno. Non possiamo capire fino in fondo né ciò che siamo, né ciò che facciamo, né ciò che soffriamo.
La volontà di penetrare il segreto della nostra esistenza è una forma di quella superbia che fu origine dei nostri mali. Il principio del cader fu il maledetto superbir (Dante). Da questa superbia che vuole, oggi come allora, essere uguale a Dio, nasce la rivolta che – dirigendosi contro l'essenza stessa del nostro destino di creature – è l'atteggiamento più pericoloso e il più nocivo.
Non è possibile spiegare qui come questo atteggiamento di rivolta interiore, che il soggetto non riconosce generalmente come tale, costituisce il fattore d'importanza centrale nell'evoluzione delle nevrosi17. L'oggetto della rivolta non è un fatto isolato, una sofferenza, un conflitto, ma il fatto totale di essere solo una creatura, limitata nel suo potere, nella sua esistenza, nei suoi diritti. Malgrado le migliaia o milioni di anni che sono passati da quando il serpente spinse i primi uomini alla rivolta, le parole del demonio non hanno smesso di farsi sentire segretamente nelle profondità del nostro io: eritis sicut Dii.
In principio, si sfugge alla nevrosi solo quando si accetta la situazione umana così com'è. Ci occorre, come si è molto ben detto, il “coraggio dell'imperfezione”; dobbiamo riconoscere la nostra debolezza, accettare di essere solo creature, finite, deboli, limitate, impotenti, consegnati a forze imprevedibili. Se vi si riflette, si vede che l'uomo, circondato com'è da altri uomini, di cui ignora il pensiero, dal mondo, di cui non può dominare definitivamente le forze, dall'ignoto che, dietro una barriera assai sottile di cose conosciute, alza costantemente la sua testa spaventosa, di fronte a problemi incessanti che riappaiono più numerosi quando uno dei due è stato risolto, - quest'uomo, dico, a cui ogni momento ricorda l'incertezza della propria esistenza, si trova in una situazione perfettamente uguale a quella di un bambino, che per la sua debolezza, la sua ignoranza degli esseri e delle leggi del mondo, per la sua incapacità di prevedere, diventa preda del terrore, a meno che non possa rifugiarsi nelle braccia di persone che gli ispirano fiducia e un sentimento d'insicurezza. Questa situazione del bambino e dell'adulto è tanto più pungente quanto la loro ignoranza è più grande.
Occorre che l'uomo accetti la sua situazione. Essa conviene alla sua natura. Se volesse rivoltarsi contro di essa questa rivolta equivarrebbe al rifiuto della propria natura. Ma l'uomo non è obbligato ad accettare semplicemente la sua situazione, con tutte le sue paure, i suoi pericoli, le sue minacce; gli è stato concesso, come bambini, di potersi rifugiare in un luogo dove può sentirsi in sicurezza, dove può avere fiducia, dove sa che lo aspetta l'amore. Per arrivare a quel punto, tuttavia, bisogna essere semplici come un bambino. Si dice che i nevrotici siano di natura complicata; potrebbe essere più giusto dire che le nature complicate sono minacciate dalla nevrosi.
Per restare fermi davanti ai conflitti, alle difficoltà, alle tentazioni, bisogna essere semplici. Per guarire una nevrosi non vi è bisogno di un'analisi che discenda nelle profondità dell'inconscio per trarre non so quali reminiscenze, né di una interpretazione che veda modificazioni o maschere dell'istinto nei nostri pensieri, nei nostri sogni ed atti. Per guarire una nevrosi occorre una vera metanoia, una rivoluzione interiore che sostituisca all'orgoglio l'umiltà, all'egocentrismo l'abbandono. Divenuti semplici, potremo infine vincere l'istinto con l'amore, il quale costituisce – se gli è veramente dato d'espandersi – una forza meravigliosa e invincibile.
Ma per arrivare a questa semplicità, a quest'atteggiamento ingenuo verso il mondo e se stessi, occorre fare entrare in gioco la seconda delle grandi forze messe a nostra disposizione dalla bontà divina: la verità. Queste due forze, la verità e l'amore, sono le sole ad essere invincibili. Per liberarsi dalle catene che ci attaccano ai valori inferiori, per poter resistere alle tentazioni che sorgono così frequentemente da fuori e da dentro, per restare fermi attraverso gli inevitabili conflitti dell'esistenza, non bisogna fidarsi dello stoicismo che in fondo è solo una forma raffinata dell'orgoglio, né darsi alla ricerca di cause incoscienti, perdute in una nebulosa lontana di un passato problematico. Come in filosofia o in psicologia non vi è punto di vista più pericoloso, così in materia di psicoterapia o di ascesi, di quello che abbiamo nominato “lo sguardo dal basso”. Bisogna alzare gli occhi verso le altezze della nostra vita, e dell'essere in generale.
Non comprenderemo mai niente della natura umana, come essa è veramente, se continuiamo a guardarla come elevata un po' al di sopra della natura degli animali. La capiremo molto meglio – senza poter tuttavia risolverne l'enigma – se la guardassimo come posta un po' al di sotto di quella degli angeli. Il programma di un'antropologia filosofica, scienza ancora appena abbozzata, alla quale è attribuito il dovere di “spiegare” la natura umana, non può essere riassunto meglio se non dalle parole del salmista: Quid est homo quod memor es eius? Aut filius hominis quoniam visitas eum? Minuisti eum paulo minus ab angelis, gloria et honore coronasti eum; et constituisti eum super opera manuum tuarum (Ps. VIII, 5-7).

1 In fondo all’ottimismo di questo orgoglio scientifico (che in effetti sembrava giustificato, poiché poteva basarsi sui progressi veramente stupefacenti della scienza e della tecnica) c’era un tendenza che, già da secoli, dominava sempre più la mentalità occidentale. Come abbiamo fatto altrove, si potrebbe dare il nome a questa tendenza: l’elementismo o la predominanza dell’elemento. Essa s’accrebbe dopo quel secolo felice che vide la sintesi grandiosa elaborata dal genio di San Tommaso d’Aquino. Il nominalismo, reazione degli spiriti incapaci di vivere sulle altezze del sistema tomista, aprì la via all’elementismo e al materialismo, modificazione grossolana a tuttavia conseguenza inevitabile delle tesi nominaliste. A partire dal XIII secolo diventa sempre più visibile un declino dello spirito filosofico. Si è persa l’unità formale dell’essere complesso, si è attribuita l’esistenza all’elemento piuttosto che al composto. Più tardi, l’elementismo servì meravigliosamente i progressi delle scienze naturali. La concezione atomista e altre ipotesi costruite per facilitare l’analisi quantitativa, il calcolo infinitesimale che è solo l’espressione matematica di questo modo di vedere la realtà, sembrarono, per la grandezza dei risultati ottenuti, avere acquisito il diritto di considerarsi come “il” metodo scientifico kat'exochen. Sfortunatamente non si volle porre la questione del diritto: si accettò, colpiti dal progresso e dalla speranza che provocava, l’analisi e la quantificazione come via regia verso la conoscenza della realtà. Certi contemporanei di Galileo osarono opporre qualche resistenza all’invasione della “nova scientia” nei campi riservati a metodi completamente diversi; ma le loro voci non furono affatto ascoltate: fu vano, per esempio, che Cremonini fece la critica dell’analisi galileiana e delle sue applicazioni in ontologia. La frase molto conosciuta di Galileo, che bisognava misurare tutto quello che era misurabile, e rendere misurabile quello che non lo era ancora, divenne il programma della scienza in generale. L’atomismo fu introdotto nella sociologia da Hobbes, da Hume e dalla scuola sensista nella psicologia. L’idea di applicare il metodo quantitativo e matematico allo studio della via mentale non fu che l’ultima conseguenza di questa evoluzione. La “psico-fisica” inaugurata da G. Th. Fechner e coltivata da Wundt e dai suoi successori è la pronipote del nominalismo occamiano.
2 Un critico molto giudizioso delle teorie di M. Koheler ha fatto notare che, nel “pensiero” delle scimmie, manca la negazione.
3 Per i dettagli della psicologia della volontà rimandiamo allo studio magistrale di R. P. Lindworsky, S. J., Der Wil, 3° ed. Leipzig, 1929.
4 Forniremo dopo la pubblicazione della grande opera del nostro amico Roland Dalbiez l'opinione dei nostri collaboratori sulla dottrina e la tecnica di Freud. (Nota della redazione).
5 Non portano ad un gran profitto, a nostro avviso, le definizioni che ci lasciano gli autori moderni, sia psicologi, sia filosofi. La maggior parte di esse sono lontane dal soddisfarci; alcune sono talmente arbitrarie, che nessuno potrebbe riconoscere l’amore tale come lo si prova o lo si osserva. (Si veda per esempio la definizione dell’amore in Spinoza!). Molti autori hanno fatto delle sottolineature ad effetto su questo tema dove noi abbiamo lasciato delle descrizioni più o meno dettagliate, più o meno felici dell’amore. Ci sono delle osservazioni molto ingegnose per esempio in Stendhal e delle analisi molto sottili in Scheler. Ma si troveranno, per quello che ci sembra, delle osservazioni molto più preziose negli autori del medioevo.
6 Questa idea è stata formulata molto bene nel “De adhaerendo Deo”, un piccolo trattato molto conosciuto che figura tra le opere di S. Alberto Magno, ma il cui vero autore è, come il Sig. Grabmann, di Monaco, ha potuto provare, un monaco benedettino del XIV secolo, Giovanni di Kastl. Nel capitolo: De caritate si trova il seguente passaggio: Trahit enim amor amantem extra se et collocat eum in locum amati, et plus est qui ama tubi amat, quam ubi animat.
7 Si può obiettare che l’amore debba essere cieco, perché si sbaglia molte volte e perché molto spesso arriva il disincanto. Ma l’errore non consiste per nulla nel fatto che l’amante si inganni vedendo dei valori non esistenti nella persona amata, ma in quanto crede già realizzate quelli che sono solamente ancora nello stato di possibilità. La perspicacia dell’amore gli fa intravvedere quello che l’essere amato potrebbe essere, se si avverassero tutti i suoi valori possibili; ed il bisogno di desiderare il bene più grande della persona amata attraverso una idealizzazione così facile per l’uomo – che crede facilmente di avere tra le mani delle realtà mentre ha soltanto delle possibilità – conduce a questa illusione. L’amore non s’inganna sulla natura dei valori, ma sul loro modo di essere. Lo sguardo dell’amore discerne delle qualità laddove lo sguardo disinteressato o scettico non ne vede nessuna. È per questo che una personalità apparentemente insignificante può acquistare una importanza eccessiva agli occhi di un altro che lo ama. Perché l’amore scopre non solo le qualità che hanno a che fare immediatamente con le relazioni tra le due personalità, ma tante altre che non riguardano affatto queste relazioni.
8 È interessante che per la dottrina freudiana – che conosce solo l’istinto e fa dell’amore un istinto trasformato – la personalità amata non esiste affatto; in questo sistema, essenzialmente solipsistico, non vi è alcuno spazio per una seconda personalità in riferimento al soggetto. Sebbene la psicoanalisi non abbia mai professato questa opinione, essa non di meno scaturisce dalla logica interna del sistema. È sufficiente, come prova, riflettere un poco sul termine con il quale la psicoanalisi designa la personalità amata: la chiama “l’oggetto” della sessualità, della libido, o persino dell’amore.
9 Si vedano su questo le osservazioni così profonde e particolarmente attuali di S. Tommaso nel suo trattato De ente et essentia.
10 Sottolineiamo, en passant, che la sola presenza dell’eccitazione sessuale non è un criterio sufficiente di amore dei sessi; ci sono delle relazioni tra due persone di sesso differente, in cui l’istinto gioca un ruolo capitale, senza che vi sia vero amore.
11 Questa non esclude, pertanto, che vi sia un’amicizia davvero pura tra due persone di sesso differente!
12 È molto pericoloso confondere questi due punti di vista, perché si arriva così a conclusioni molto sbagliate. Il concetto di evoluzione stesso deve essere impiegato con prudenza. Appartiene in primo luogo alla biologia ed è là che ha il suo senso proprio. Ogni altra applicazione di questo termine avviene per metafora o per analogia. Ora, ogni trasposizione analogica esige, pena arrivare a conclusioni insostenibili, un’analisi minuziosa che precisa allo stesso tempo la sua portata e i suoi limiti. Si arriva ad esempio a delle teorie eccessive quando si applica il concetto di evoluzione, come si presenta in biologia, alla successione di stadi di culture o di strutture sociologiche. La stessa cosa per la psicologia. L’idea biologica dell’evoluzione non è applicabile in psicologia, perché nessun fenomeno mentale ne “contiene” un altro al modo di un germe.
13 Per l’analisi del concetto di segno rimandiamo alle pagine assai conosciute di M. Husserl, Logische Untersuchungen, t. II; ma si studieranno con profitto anche gli scolastici, non solo i trattati intitolati De modis significandi, ma anche i rispettivi passaggi delle opere dei grandi maestri.
14 La psicologia comparata dei sessi, sulla quale possediamo molti trattati, presenta una particolarità curiosa. La descrizione dell’animo femminile è basata su quella della natura maschile, come se la donna fosse solo una variazione dell’essere umano in generale, la cui essenza sarebbe realizzata dall’uomo. L’esempio che colpisce di più di questo atteggiamento ci viene dato, forse, da un piccolo articolo sulla sensibilità cutanea nei due sessi; vi troviamo una osservazione di una ingenuità veramente deliziosa: la soglia della sensibilità nella donna è subnormale! L’autore vuole dire che ha trovato una soglia più bassa nella donne rispetto agli uomini – ma perché “subnormale”? Perché suppone semplicemente che le condizioni osservate nell’uomo debbano fornire la norma assoluta: posto ciò, le varianti femminili diventano necessariamente anormali! Invece di considerare ognuno dei sessi come una manifestazione della natura umana, che sarebbe l’unica visione permessa da una scienza neutra ed oggettiva, la psicologia comincia con lo studio delle proprietà maschili, le erige come norma e colloca tutto ciò che essa trova di diverso tra le anomalie. La psicologia sessuale fa la stessa cosa. Essa è, in verità, da rifare, perché le osservazioni che si trovano nella maggior parte dei trattati sono assolutamente insufficienti. Una delle ragioni di questa insufficienza è quella che abbiamo appena indicato. Un’altra, non meno importante, è l’elementismo e la visione “dal basso”. Gli “elementi” potrebbero essere gli stessi nei due sessi e la “totalità” distinguersi profondamente l’uno dall’altro. Non ce ne si accorge tenendo lo sguardo fisso sugli elementi.
15 Gli oggetti che teme la debolezza sono naturalmente variabili; si troveranno molti uomini capaci di eroismo in una certa situazione e deboli in un'altra. Ve ne sono alcuni, ad esempio, che non temono alcun pericolo, da parte degli uomini o delle cose, ma che tremano davanti alle loro mogli. Ve ne sono altri che rischiano la vita attraversando ghiacciai sconosciuti o scalando scogliere e che, tuttavia, non riescono a decidersi di andare dal dentista. Un tale uomo sfiderà un pericolo momentaneo, ma si comporterà come un bambino piccolo quando si tratterà di sopportare una lunga malattia. Vi sono epoche della storia e periodi della cultura come gli individui. Ciò che viene indicato come sopportabile varia di secolo in secolo, di popolo in popolo. Gli eroi di Omero urlavano quando li colpiva un dolore; il selvaggio indiano si copriva di gloria sopportando senza lamentarsi torture spaventose. I tempi moderni sembrano soffrire di una idiosincrasia rispetto ad ogni dolore morale. Gli uomini d'oggi sembrano volerlo evitare addirittura di più del dolore fisico. E quando il dolore morale è diventato inevitabile cercano di evitarlo trattandolo come un sintomo, il che, in verità, implica una concezione degradante della sofferenza. Ricordiamo il caso di una madre che, alcune settimane dopo la morte inaspettata della sua unica figlia, è venuta a consultarci perché era triste. Le sembrava – e più ancora al suo entourage – che questa tristezza dovesse essere qualcosa di malato; quelle persone non concepivano più la grandezza della perdita di un essere caro, non comprendevano più la maestà della morte e non riuscivano ad immaginarsi che qualcuno fosse (per settimane!) pieno di dolore e di tristezza. Ecco un caso estremo, ma non meno tipico, poiché esso mostra, esagerandolo, un tratto molto diffuso tra gli uomini dei nostri giorni.
16 Questo miraggio di un'esistenza infine liberata dai conflitti nasce da una mentalità eguale all'ideologia del marxismo. Le strutture delle teorie di Freud e di Marx si rassomigliano molto. In entrambi i casi domina lo sguardo “dal basso”, il ruolo che svolgono gli istinti in Freud corrisponde esattamente a quello delle forze economiche in Marx, e la vita psichica cosciente appare come una “sovrastruttura” nei confronti degli istinti, che sono gli unici reali, allo stesso modo che, nel marxismo, la cultura nei confronti della realtà economica.
17 Abbiamo insistito su questo punto nel nostro libro sull' Evolution de la personnalité morale, 4 ed. Freiburg, Herder, 1935.

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