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"Una psicologia medica cattolica deve essere una vera sintesi delle verità contenute nei sistemi già esistenti e inaccettabili visto il loro spirito di materialismo puro e le verità della filosofia e la teologia cattolica. Questo lavoro di sintesi non può essere compiuto che da persone istruite e nella medicina o psicologia e nella filosofia, e che possiedono una esperienza pratica e personale assai grande: cioè questo lavoro deve essere fatto da medici, specialisti di psichiatria, dunque da scienziati cattolici laici. (Rudolf Allers, 1936, lettera a P. Agostino Gemelli).

mercoledì 18 marzo 2015

SOGGETTO UMANO E DIMENSIONE ANTROPOLOGICA - MARTIN F. ECHAVARRIA


Dal 16 al 18 Ottobre 2014, l'associazione Medicina e Persona ha organizzato il convegno: Il soggetto ed i percorsi di cura, a cui ha partecipato il professore Martin F. Echavarria. La sua relazione, Soggetto umano e dimensione antropologica, che a breve sarà pubblicata assieme agli atti del convegno, è una lezione magistrale sull'utilità di un approccio "ispirato dall'antropologia di san Tommaso d'Aquino" per la psicologia teorica e pratica. Martin F. Echavarria è il direttore del dipartimento di psicologia presso l'Università Abat Oliba di Barcellona, autore di cinque importanti testi di psicologia cattolica e di numerosi articoli di ineguagliabile valore per chi desidera addentrarsi nella ricomposizione della frattura tra psicologia contemporanea ed antropologia (filosofia) cattolica. Senza alcun dubbio è attualmente uno dei più importanti esponenti della psicologia cattolica del mondo. Lo ringrazio infinitamente per il suo lavoro e la sua vicinanza al nostro impegno. 



Soggetto umano e dimensione antropologica

Martin F. Echavarria, Universitat Abat Oliba CEU (Barcellona)

1. Introduzione
Perché parlare della dimensione antropologica del soggetto umano in sede psicologica? Non si tratta di un’intromissione indebita della filosofia o addirittura della teologia nel campo della scienza? Anche se potrebbe sembrare, in realtà non dobbiamo dimenticare che la psicologia ha come oggetto l’uomo, per cui la domanda di natura filosofica e teologica sul soggetto umano è di radicale importanza per il discorso psicologico. Infatti, anche se poche volte viene riconosciuto in maniera esplicita, dietro ogni psicologia c’è una concezione dell’uomo che non è di ordine prettamente empirico-scientifica, ma filosofica (Echavarría, 2013). Rudolf Allers diceva che dietro tutti i problemi della psicologia c’è una questione filosofica, metafisica o etica, e addirittura, teologica. Le principali differenze di metodo e di contenuto vanno di solito associate a diversi modelli filosofici e antropologici. Purtroppo, nella maggior parte dei casi tali modelli non sono compatibili con la visione cristiana dell’uomo. Così lo diceva Giovanni Paolo II in un discorso ai membri della Rota Romana:
[…] la visione antropologica da cui muovono numerose correnti nel campo delle scienze psicologiche del tempo moderno è decisamente, nel suo insieme, inconciliabile con gli elementi essenziali dell’antropologia cristiana, perché chiusa ai valori e significati che trascendono il dato immanente e che permettono all’uomo di orientarsi verso l’amore di Dio e del prossimo come sua ultima vocazione.
Tale chiusura è inconciliabile con quella visione cristiana che considera l’uomo un essere «creato ad immagine di Dio, capace di conoscere e di amare il proprio Creatore» (Gaudium et Spes, 12) e nello stesso tempo diviso in se stesso (Ivi, 10). Le ricordate correnti psicologiche invece partono o dall’idea pessimistica, secondo cui l’uomo non potrebbe concepire altra aspirazione che quella imposta dai suoi impulsi o dai condizionamenti sociali o, per l’opposto, dall’idea esageratamente ottimistica secondo la quale l’uomo avrebbe in sé, e potrebbe raggiungere da solo, la sua realizzazione.
(Giovanni Paolo II, Discorso ai membri della Rota Romana, Giovedì, 5 febbraio 1987).
Non è poi, difficile indovinare quali siano i rappresentanti di queste psicologie: le scuole pessimistiche sono quelle che considerano l’uomo come schiavo dei sui impulsi; cioè quelle scuole di psicologia del profondo che hanno una concezione deterministica della vita animica dell’uomo; ed anche il comportamentismo radicale, che concepisce l’uomo come un burattino del suo ambiente. Le scuole ottimistiche invece sono quelle che, come alcuni psicologi di orientazione umanistica, sottolineando che l’uomo ha una tendenza all’auto-realizzazione e alla creatività, lo concepiscono come completamente autonomo, capace di darsi autonomamente la felicità, dimenticando che l’uomo dipende dagli altri -soprattutto da Dio-, e che la sua natura è danneggiata dal peccato originale. Chesterton diceva che “pessimismo” e “ottimismo”, in fondo non sono altro che eufemismi per riferirsi alla “disperazione” e alla “presunzione” che, secondo san Tommaso, sono vizi contrari alla virtù teologale della speranza. Una psicologia fondata sulla speranza non si può costruire a partire da una visione distorta dell’essere umano, un uomo che è allo stesso tempo “immagine di Dio”, ma pure “diviso in se stesso” come risultato della caduta, del peccato.
È urgente, perciò, sviluppare una psicologia che parta da un’antropologia che sia d’accordo con la visione integrale dell’uomo –con la sua grandezza e la sua miseria-, che propone il cristianesimo. Crediamo lo si debba fare non a modo di una lontana fondazione, ma come qualcosa che penetri dal di dentro la comprensione psicologica dell’uomo, così come la causa prima è con più proprietà e profondità causa delle cose di quanto non lo siano le cause seconde. L’approccio che qui proponiamo è ispirato dall’antropologia di san Tommaso d’Aquino che, per la sua profondità, è a nostro parere la più adatta per una fondazione solida della psicologia. (Echavarría, 2010a).

2. Persona e personalità
Parlare sul soggetto umano da un punto di vista antropologico è innanzitutto parlare del concetto di persona. Non si può comprendere la personalità umana a partire da semplificazioni schematiche, perché in essa c’è qualcosa che è impossibile ridurre al solo risultato di una natura che si esprime nelle sue proprietà naturali e, per questo, non la si può concepire in modo scientificamente e statisticamente predicibile, come diceva già Allport (1986). Occorre avvicinarsi alla vita singolare dell’individuo per cogliere la sua vita interiore. In ogni persona si nasconde un mistero che nessuna tecnica umana può svelare del tutto. Pio XII lo sottolineava lucidamente con queste parole:
Non sfugge ai migliori psicologi che l’impiego più abile dei metodi che ci sono, non riesce a penetrare nella regione dello psichismo che costituisce, per così dire, il centro della personalità e continua ad essere sempre un mistero. Arrivato a questo punto, lo psicologo può solo riconoscere con modestia i limiti delle sue possibilità e rispettare l’individualità dell’uomo sul quale deve dare un giudizio; dovrebbe sforzarsi per scoprire in ogni uomo il progetto di Dio e aiutare a svilupparlo nella misura del possibile. La personalità umana, con i suoi caratteri propri, è infatti la più nobile e la più ammirevole delle opere della Creazione. (Pio XII, 1958, 174).
Qui si dice qualcosa che a noi psicologi dovrebbe riempire di timore e di tremore: lo psicologo lavora con “la più ammirevole delle opere della Creazione”, la personalità umana. Il suo centro non è un “oscuro Es”, come Freud sosteneva, un qualcosa di impersonale (Freud, 1996, 146). Ed è per questo che non è qualcosa di manipolabile e modellabile a nostro piacimento. È un mistero, un mistero che si collega a Dio, e che merita di essere trattato con cura e rispetto. Questo mistero ha come base il carattere personale della vita umana. Di essa è un elemento primario quella interiorità dalla quale emana la capacità di farsi carico della propria vita, di non essere un semplice soggetto passivo delle tendenze che provengono certamente dall’organismo o dall’ambiente. San Tommaso lo diceva con queste parole: “L'individuo particolare si trova in un modo ancora più perfetto nelle sostanze ragionevoli che hanno il dominio dei propri atti, che si muovono da se stesse e non già spinte dall'esterno come gli altri esseri” (S. Th., I, q. 29, a. 1, co.). Le parole di san Tommaso contrastano con quelle di Freud in “L’Io e l’Es”: “Sarà molto utile per noi, a mio avviso, seguire l’invito di [...] G. Groddeck, che dice sempre che quello che noi chiamiamo il nostro “Io” si comporta nella vita passivamente e che, invece di vivere, siamo ‘vissuti’ da poteri ignoti e invincibili”. (Freud, 1973, 2707). È chiaro che il soggetto umano è sottomesso all’influenza dei sui impulsi interni, ma il suo carattere di persona gli consente, nella maggior parte dei casi, di autogovernarsi.
Pio XII, rispondendo agli psicologi che consideravano il soggetto umano interamente sottomesso ai sui impulsi inferiori, diceva:
Sono energie di un’intensità forse considerevole, però la natura ne ha affidato la direzione al centro: all’anima spirituale, dotata di intelligenza e di volontà, normalmente capace di governare queste energie. Che tali dinamismi facciano sentire la loro pressione su di un'attività non significa necessariamente che la costringano (Pio XII, 1953).
Questa singolarità e individualità inafferrabile ha dunque il suo fondamento nel carattere personale dell’essere umano, e non meramente in fattori puramente biologici o ambientali. Da questo carattere personale, che emana dal modo interiore e spirituale di sussistere del soggetto umano, dipende la comprensione profonda dell’essere umano. Anche se abbiamo certamente una natura, una natura umana individuale che ci da le nostre capacità comuni agli altri uomini (nell’ordine mentale, ad esempio, le nostre capacità cognitive e affettive), ed alcune nostre particolarità molto importanti (composizione corporea, sesso, caratteristiche fisiche, inclinazioni temperamentali, talenti, ecc.), comunque -questa stessa natura- non è la spiegazione immediata e prima del nostro comportamento come persone. Così lo spiegava un grande filosofo spagnolo, Francisco Canals:
La vita umana che consiste nelle azioni non è già pensabile “biologicamente”; non si può nemmeno dare ragione di essa, nella sua esistenza concreta – ma soltanto circa le strutture che la rendono possibile come sviluppo della pienezza dell’essere personale- dal punto di vista di un’antropologia universale. Riassumendo la terminologia anteriormente accennata, si direbbe che ci troviamo dinanzi a ciò che, nella sua esistenza concreta, apparterrebbe in ogni caso alla “biografia” di ogni uomo come persona.
In questa prospettiva, il “principio” della vita umana non va ricercato nella linea dell’essenza specifica, come forma costitutiva dell’uomo come tale, ma deve essere caratterizzata, come principio della vita umana, come il fine e il bene che mette in moto dinamicamente il suo processo
(Canals Vidal, 1987, 616-617).
La vita umana individuale, la vita della persona umana, non può capirsi soltanto in base alla sua natura, giacché questa si limita a fornirci soltanto il quadro delle sue possibilità, ma la si capisce principalmente in base al fine, a quello che ricerca come senso della sua esistenza. E a questo fine si rivolge tramite le sue elezioni libere fatte nell’interiorità della sua coscienza.
Qui arriviamo al nesso profondo che c’è fra le nozioni di persona e di personalità, con il quale lavora lo psicologo. Se la persona è il “sussistente distinto nella natura umana” (Tommaso d’Aquino, De potentia, q.9, a.4, co.), la personalità umana è l’organizzazione operativa stabile di un soggetto umano in quanto manifestativa e completiva del suo essere personale. Così come l’operare segue l’essere, la personalità è espressione della persona. È per questo che il nome di personalità solo in modo equivoco si potrebbe predicare degli animali. Di questi si potrà dire che hanno abilità cognitive naturali e modi naturali di reazione affettiva. Ma, non essendo persone, l’insieme dei loro tratti operativi non costituisce personalità.
Persona e personalità, comunque, non vanno confuse. Questo accade spesso nei discorsi di molte scuole psicologiche e filosofiche contemporanee (Echavarría, 2010). Secondo gli autori appartenenti a queste scuole, fino a quando non si siano formate un complesso di rappresentazioni, o di apprendimenti, o il linguaggio, o fino a quando l'individuo non sia socializzato, costui non sarebbe una persona ma una mera entità biologica impersonale. Solo tramite un processo d’individuazione, umanizzazione o personalizzazione si diventerebbe persona, e solo a malapena si continuerebbe ad esserlo fino a quando non si giunga al deterioramento cognitivo. Queste affermazioni sono radicalmente sbagliate e false, confondono l’ordine ontologico con quello operativo, ed hanno gravi conseguenze etiche. Se l’individuo non socializzato non è persona lo si può trattare come una mera cosa senza dignità. Ma la realtà è ben diversa. Gli esseri umani sono persone sin dall’inizio, anche se sviluppano le loro capacità lentamente, e divengono padroni di sé formando in loro stessi disposizioni stabili che configurano la loro personalità. Per questo, per sottolineare il carattere configuratore dello spirito umano, Pio XII definì la personalità come “l’unità psicosomatica dell’uomo come condotta e governata dall’anima” (Pio XII, 1958).
Questo ci porta a parlare delle cause della personalità umana da un punto di vista antropologico.

3. Le quattro cause della personalità
Le disposizioni naturali (quelle che sono comuni all’intera specie umana e quelle che sono particolari dell’individuo) sono condizione dello sviluppo della personalità.
La personalità si può dividere in due aree: quella delle disposizioni cognitive e quella delle disposizioni appetitive. Qui i concetti di disposizione e, soprattutto di abito (habitus, hexis), nel senso classico aristotelico di “disposizione difficile da cambiare”, hanno un ruolo centrale. Le disposizioni cognitive, nelle personalità pienamente sviluppate, sono gli abiti intellettuali, soprattutto le virtù intellettuali. Le disposizioni appetitive costituiscono il carattere, che è l’insieme organizzato degli abiti operativi pratici di una persona umana (Echavarría, 2010a). Ma, senza delle capacità cognitive naturali, che in ciascuno di noi sono molto diverse (ognuno di noi ha i suoi talenti), non potrebbero svilupparsi gli abiti intellettuali e cognitivi che configurano le molteplici “intelligenze” di cui parla la psicologia di oggi (Gardner, 1993). D’altro canto, senza le inclinazioni naturali dell’affettività, che costituiscono il temperamento, non si potrebbe sviluppare il carattere, che risulta non solo dall’influenza dell’ambiente, ma soprattutto dal lavoro personale di auto formazione. Si potrebbe dire che i talenti naturali si rapportano agli abiti intellettuali, nel campo della cognizione, come il temperamento si rapporta al carattere, nel campo degli affetti e i rapporti interpersonali. Attraverso la formazione di queste disposizioni, la persona umana prende possesso di sé, e la sua struttura operativa stabile si fa più personale, più “personalità”.
Senza la capacità di prendere possesso di sé, non solo in ogni operazione e condotta, ma pure nel lungo termine, non è possibile essere responsabile, impegnarsi e donare liberamente se stessi ad un’altra persona nell’amicizia, e senza di questo non c’è maturità, felicità, e nemmeno personalità.
Siamo arrivati a un argomento difficile, ma di grande portata.
Una discussione classica nel campo della teoria della personalità è quella sulla causa principale della configurazione della personalità. Ci sono due posizioni principali: quella che sottolinea la centralità di quello che abbiamo in noi sin dalla nascita (genetica e congenitamente), e quella che sottolinea l’importanza dell’ambiente. Oggi, la maggior parte degli autori sostiene che la personalità è il risultato di entrambi gli elementi, quello biologico e quello ambientale, e addirittura si insiste sul fatto che questi due elementi entrano in rapporto tra di loro causandosi reciprocamente. Così, ad esempio, Millon:
Una premessa basica di questo testo è che lo sviluppo della personalità è funzione di un’interazione complessa tra fattori biologici e ambientali. L’incidenza relativa di ogni gruppo di fattori sullo sviluppo della personalità di un individuo dipenderà dalla potenza e cronicità dell’influenza di ogni fattore. Questo certamente varierà da un individuo ad un altro. Ma mi sembra probabile che i fattori biologici stabiliscano i fondamenti che guidano lo sviluppo della personalità, mentre i fattori ambientali agiscono per modellare la sua espressione. (Millon, 1994).
Tuttavia, in questa opposizione o rapporto tra natura e cultura si trascura troppo spesso ciò che è più determinante della personalità umana come tale: i fattori personali, specialmente il ruolo della volontà e delle scelte personali.
In realtà, il problema di questo approccio che riduce le cause della personalità alla dimensione biologica e all’influenza dell’ambiente è derivato da un altro problema precedente: quello della concezione di causalità sottostante. Nella filosofia moderna, per il rifiuto delle cause finali e formali (strettamente legate tra di loro), e per l’influenza del meccanicismo, tutta la spiegazione scientifica fu ridotta all’interazione tra cause materiali e cause efficienti-meccaniche, e il nome di “causa” fu limitato a queste ultime. In questo modo, la comprensione multi causale della realtà fu impoverita, e questo incise specialmente sulle scienze della vita e particolarmente sulla Psicologia. In contrasto con questa concezione emerse nel campo del pensiero germanico la distinzione tra le scienze della natura (Naturwissenschaften) e le scienze dello spirito (Geisteswissenschaften). Le scienze della natura intendono trovare le cause (intese come cause efficienti-meccaniche), cioè “spiegare”. Le scienze dello spirito, invece, cercano di “comprendere”, rinunciando alla ricerca delle cause (anche se questo comprendere in fondo non è che uno spiegare in vista della causa finale). Benché è superiore alla concezione positivistica, questa maniera di intendere le cose conserva la riduzione del nome di causa alla sola causa efficiente. Noi, invece, preferiamo la concezione analogica della causalità, propria dell’aristotelismo, che distingue almeno quattro sensi della parola causa. Causa è tutto quello che interviene nell’essere o nel farsi di un ente. Nell’essere, come costitutivo intrinseco di una cosa, come causa materiale o causa formale; nel farsi, come fattore estrinseco che influisce nella produzione di una cosa, cioè come causa efficiente o come causa finale. Così abbiamo quattro cause: materiale, formale, efficiente e finale. Questo schema delle quattro cause, che è specialmente adatto per spiegare le sostanze materiali, si può applicare analogicamente ad altri livelli, come quello psicologico (Rychlak, 1994; Pérez Álvarez, 2003). Noi lo applicheremo qui alla comprensione della personalità.
Innanzitutto dobbiamo chiarire che “causa materiale” non vuol dire qui la base organica della personalità umana. La nozione di materia è analogica. Qui ci interessano due sensi di materia: a) la materia ex qua; e b) la materia in qua.
a) La materia in qua è il soggetto di una forma o qualità. La personalità non è un’unica qualità, ma un insieme ordinato di qualità. Il soggetto prossimo di ognuna di esse è la facoltà che questa forma (abito o disposizione) perfeziona. In ogni caso, siccome tra gli abiti che costituiscono la personalità c’è un ordine, si potrebbe considerare che quella facoltà che è la sede dell’abito guida o principale, è la causa materiale prossima della personalità. Ma siccome le facoltà a loro volta ineriscono nella persona, il soggetto ultimo di queste qualità, che insieme costituiscono la personalità, è la persona stessa, il tutto. Da questo punto di vista, la persona stessa è la causa materiale della personalità. Qui “materia” è lo stesso che “soggetto”.
Siccome molte delle facoltà che sono modificate da disposizioni animiche hanno a loro volta come soggetto un organo, ne segue che per uno studio completo della personalità non si può prescindere da tale fondamento, e che le contingenze e modificazioni biologiche degli organi delle facoltà alle quali appartiene la disposizione o l’abito influiscono pure sulla disposizione e, di conseguenza, sulla personalità. Questo non vuol dire, tuttavia, che tutta la personalità abbia sede organica, né che sia una mera conseguenza della base organica che, addirittura, fa parte della causa materiale (non efficiente) della personalità. La grande domanda è se la personalità è causata efficientemente dagli influssi fisici dell’organismo e dell’ambiente, o da altri fattori diversi.
b) La materia ex qua è l’insieme di elementi dai quali è composto un tutto complesso. In questo senso, parlare della causa materiale è equivalente a parlare delle parti dalle quali è composto un tutto: “Le parti di una cosa sono quelle in cui si divide materialmente un tutto: poiché le parti stanno al tutto come la materia alla forma; infatti Aristotele considera le parti nel genere della causa materiale, e il tutto nel genere della causa formale” (S. Th., III, q. 90, a. 1, co.). Prendendo questo senso della parola “materia” ampliamente, si potrebbe considerare che la materia della personalità è ciascuna delle disposizioni o abiti che compongono quell’insieme organizzato che è la personalità. Tuttavia, solo molto impropriamente si può parlare in questo caso di “materia” o di composizione di elementi. In realtà, la personalità non è il risultato dell’addizione di tratti, come una casa è composta da ferro e mattoni. Come nell’organismo (Goldstein, 1939) e nella psicologia della percezione, anche in questo caso è vero che “il tutto è prima delle parti”. Così lo diceva Rudolf Allers:
Il carattere e la personalità non si costruiscono a partire da piccoli pezzi, come un mosaico è costituito da piccoli tasselli. Se qualche pietrina di questo mosaico non avesse il giusto colore o si fosse rotta, l’artigiano potrebbe toglierla, gettarla via e sostituirla con un’altra della stessa misura; solo dovrebbe considerare la pietrina che sta introducendo, non essendo le altre importanti per lui. Non c’è connessione reale tra ciascuna delle pietre. È diverso quello che succede con la personalità umana o il carattere umano. Per descrivere la sua peculiarità, la psicologia moderna utilizza il termine “tutto”.
La principale caratteristica di un tutto è l’intima interrelazione delle sue parti. Queste sono tanto intimamente unite tra di loro che nemmeno è possibile chiamarle propriamente “parti”. Una parte ha una certa possibilità di avere un’esistenza separata; un foglio strappato da un libro è ancora qualcosa ed esiste da se stesso, anche se a volte contiene solo frammenti senza senso. E un tratto di matita su una pagina, o una macchia d’inchiostro non distrugge il libro al quale questa pagina appartiene. Ma in un vero tutto, c’è una connessione così intima tra i diversi aspetti –termine preferibile a “parti”- che nessuno di essi può soffrire un’influenza senza che tutto il resto sia anche influenzato, e nessuno di essi è capace di esistere da se stesso, indipendentemente dal resto (Allers, 2000, 28-29).
Infatti, la personalità non è composta da parti quantitative e sussistenti da se. Le sue quasi-parti sono tratti o disposizioni ordinate gerarchicamente, in modo tale che c’è un tratto principale che si comporta rispetto agli altri come quello che dà loro forma, e lo stesso succede con gli altri tratti tra di loro, dai principali verso i secondari. Se la causa materiale (ex qua) della personalità è l’insieme di disposizioni o abiti, la causa formale è l’ordine di questi abiti tra di loro. La personalità è una realtà complessa e non un mero aggregato univoco e piano di tratti che hanno la stessa importanza; è una realtà ordinata, o meglio, una pluralità organizzata in base a un progetto, un piano.
La personalità è una organizzazione operativa, cioè ordinata all’operazione. Nell’ordine delle operazioni, dice la tradizione aristotelico-tomistica, il principio di spiegazione è il fine, e la forma è determinata dal fine (causa finale). Così, il senso di quell’ordine che è la forma della personalità viene dato, a sua volta, da un altro ordine, quello della personalità considerata nella sua totalità in riferimento a un principio estrinseco, il fine ultimo al quale la persona è orientata. Ogni abito tende ad un fine o bene proprio. Ma la totalità della struttura operativa della persona solo si comprende dal fine o bene che è causa dell’ordine e della gerarchia degli abiti. Così, e al di là della valutazione che meritino altre opinioni loro, avevano ragione autori come Stern, Adler, Allers o Rychlak al concepire che la personalità si capisce dal fine o, come dice Adler, dal “senso della vita” (Adler, 1970, 20).
Finalmente, abbiamo la causa efficiente, cioè l’agente che produce la realtà causata nel soggetto e a partire dagli elementi, in vista del fine.
Dalla costituzione corporale, particolarmente dal sistema nervoso centrale e autonomo e dal sistema endocrino, derivano determinate inclinazioni psichiche che, col tempo, sono modificate entro certi limiti. In quella modificazione intervengono, certamente, come fattori decisivi, gli influssi ambientali, ma non come cause efficienti. L’influenza dell’ambiente non è immediata, ma è mediata da variabili di natura cognitiva. Pensiamo ad atti dello stesso soggetto che interpreta a suo modo gli influssi ambientali, così da non essere il fattore ambientale ad influire, ma la propria cognizione di quel fattore esterno. Questa cognizione, proponendo qualcosa come un bene o come un male, mette in moto gli affetti che, se sono ripetuti frequentemente e con intensità, possono alla fine configurare una disposizione stabile, sul fondamento e limite delle disposizioni naturali. Così, sempre è immediatamente il soggetto stesso la causa principale dello sviluppo delle sue disposizioni. L’ambiente lo è solo mediatamente e come causa esemplare ed estrinseca.
Alfred Adler diceva che lo sviluppo della personalità è imprevedibile solo a partire dalle circostanze esterne e dalle disposizioni costituzionali. Secondo lui, il fanciullo modella liberamente la sua personalità a partire da quei fattori che sono gli elementi dei quali si serve, come materia o strumenti, per costruire la sua propria personalità in modo libero e creativo.
Questa legge di movimento si origina nel campo molto limitato dell’infanzia e si sviluppa entro un margine di elezione relativamente ampio per mezzo della libera disposizione –non limitata da nessuna azione matematicamente formulabile- delle energie congenite e delle impressioni del mondo circostante. L’orientazione e lo sfruttamento degli “istinti”, “impulsi” e “impressioni” del mondo circostante e dell’educazione è l’opera d’arte del bambino, che non va interpretata dal punto di vista di una “psicologia del possesso” (“Besitzpsychologie”), ma di una “psicologia dell’uso” (“Gebrauchspsychologie”). (Adler, 1970, 32-33).
In realtà, Adler prende qui la parola libertà in un senso ampio e improprio. È imprevedibile in maniera precisa cosa farà ogni bambino con tutte queste influenze. Ma fino a che non si sviluppa la sua capacità di discernimento e, quindi, di elezione, è vero che il bambino è più mosso, che non agente del suo sviluppo. Il bimbo riceverà gli influssi dell’ambiente secondo le sue disposizioni naturali. Poi, pian piano, per l’emergere sempre più evidente della sua personalità, cioè, della sua capacità di riflessione e di elezione, il soggetto umano si fa carico di se stesso e forma un modo di essere, ma da un punto di partenza che lui non sceglie, costituito dalla sua natura e dalle sue circostanze. E non potrà farlo pienamente se non conosce se stesso e se non accetta la sua natura e le sue circostanze particolari. Se questo è vero, la personalità è il risultato della libertà, ma di una libertà finita, limitata, che deve essere riconosciuta come tale, e che ha un punto di partenza che non ha scelto.
Non vogliamo terminare questa riflessione senza fare riferimento all’importanza di prendere in considerazione un altro fattore, di cui non abbiamo fatto ancora menzione perché è quasi sconosciuto alla psicologia contemporanea: quello soprannaturale. Certamente, non è un qualcosa che si possa conoscere con una impostazione puramente scientifico-naturale. Ma non per questo è qualcosa di irreale; anzi, è un fattore che influisce in maniera molto importante nella configurazione della personalità, anche se in modo misterioso, come misteriosa è pure la persona stessa. Pio XII proponeva l’importanza del soprannaturale per la psicologia proprio in un convegno di psicologia applicata con queste parole:
Quando si considera l’uomo come opera di Dio, si scoprono in lui due caratteristiche importanti per lo sviluppo e il valore della personalità cristiana: la sua somiglianza con Dio, che procede dell’atto creatore, e la sua filiazione divina in Cristo, manifestata dalla rivelazione. Infatti, la personalità cristiana si fa incomprensibile se si dimenticano questi dati e la psicologia, soprattutto quella applicata, si espone pure a malintesi ed errori se li ignora. Perché sono fatti reali e non immaginari o presupposti. Che questi fatti siano conosciuti tramite la rivelazione nulla toglie alla loro autenticità, perché la rivelazione mette all’uomo o lo colloca in posizione tale da superare i limiti di una intelligenza limitata per abbandonarsi all’intelligenza infinita di Dio (Pio XII, 1958).
Accanto agli abiti intellettuali e al carattere acquisito, o in realtà sopra di essi, ma in intimi rapporti, abbiamo una dimensione della personalità solo conoscibile attraverso la fede, la dimensione soprannaturale, che ha come centro le virtù teologali. Se questa realtà -che anche se rivelata è vera realtà- non si tiene in considerazione, la personalità reale e concreta, soprattutto se cristiana, ci diceva Pio XII, no la si può capire. Anzi, la si mal intende. Quindi, i fondamenti antropologici vanno ricercati non soltanto nella filosofia, ma anche nella fede e nella teologia.

4. Normalità e maturità
San Giovanni Paolo II diceva qualcosa di simile nel n. 112 dell’Enciclica Veritatis Splendor sul concetto di autorità:
Infatti, mentre le scienze umane, come tutte le scienze sperimentali, sviluppano un concetto empirico e statistico di «normalità», la fede insegna che una simile normalità porta in sé le tracce di una caduta dell'uomo dalla sua situazione originaria, ossia è intaccata dal peccato. Solo la fede cristiana indica all'uomo la via del ritorno al «principio» (cf Mt 19,8), una via che spesso è ben diversa da quella della normalità empirica. 
La normalità statistica, ci dice Giovanni Paolo II, può essere, e molto spesso è, molto lontana da quello che è normale secondo la volontà di Dio. Giovanni Paolo II parla qui contro l’impostazione di alcuni teologi moralisti che prendono la norma della moralità da ciò che è normale secondo le statistiche. Ma le sue parole, insieme a quelle di Pio XII, possono far riflettere anche gli psicologi, le cui ricerche si limitano ad essere molte volte di natura statistica. Le statistiche ci possono far conoscere come stanno le cose, ma non possono farci conoscere la normalità della personalità umana. Però la normalità è la regola dell’azione dello psicologo pratico, specialmente dello psicoterapeuta. D’altronde, dato che la persona umana è chiamata ad essere responsabile per il fatto stesso di essere persona, la dimensione morale non può essere accantonata, se veramente vogliamo avere una comprensione totale, e non parziale, della sua personalità.
In qualche modo, questo viene affermato da alcuni autori della psicologia contemporanea. Ad esempio, Gordon Allport, quando si chiede come si possono definire la normalità e la maturità, ci dice:
Non possiamo rispondere a questa domanda solo in termini di psicologia pura. Per poter affermare che una persona è mentalmente sana, normale e matura, dobbiamo sapere cosa sono la salute, la normalità e la maturità. La psicologia da sé stessa non può dircelo. È implicato ad un certo punto il giudizio etico (Allport, 1986, 329).
Allport elenca sei caratteristiche della personalità normale e matura, anche se non dice quale ne sia il fondamento: 1) Estensione del senso di sé; 2) Capacità di stabilire rapporti emozionali; 3) Sicurezza e accettazione di sé; 4) Pensiero realista; 5) Conoscenza oggettiva di sé; 6) Avere una filosofia unificatrice della vita.
Questi indicatori ci sembrano più chiari di quelli elencati, per esempio, da Millon (1994, 20), puramente pragmatici e conformativi, ma comunque insufficientemente fondati sulla struttura della persona umana.
Altri autori, come Erikson e Fromm, sono andati al di là di questo e hanno affermato che la personalità umana normale e matura è la personalità virtuosa (Erikson, 1967; Fromm, 1987). Fromm arriva a dire perfino che questa è la posizione di Freud, anche se questo non è vero:
La caratterologia di Freud implica che la virtù è il fine dello sviluppo umano. […] La crescita normale […] produrrà il carattere maturo, indipendente e produttivo, capace di amare e di lavorare; per Freud, in ultima analisi, salute e virtù sono la stessa cosa. Ma questo collegamento tra carattere ed etica non è esplicito (Fromm, 1987, 150).

Quest’idea è stata approfondita recentemente da Christopher Peterson e Martin Seligman (Peterson & Seligman, 2004). Questi autori hanno fatto uno sforzo per riabilitare il concetto di carattere inteso come struttura abituale che dipende dalla libertà e dalla responsabilità del soggetto, come concetto fondamentale per capire il comportamento umano, e specialmente l’uomo maturo e pieno. Dice Seligman:
Qualsiasi scienza [dell’uomo] che non abbia il carattere come idea basica –o per lo meno spieghi adeguatamente il carattere e la capacità di scelta- non sarà mai accettata come spiegazione utile della vita umana. Di conseguenza, credo sia arrivato il momento di resuscitare il carattere come concetto centrale dello studio scientifico del comportamento umano. (Seligman, 2003, 177)
Secondo Peterson e Seligman, il carattere maturo sarebbe composto da sei virtù che chiamano “ubique”, perché si trovano nella maggioranza delle grandi culture dell’umanità. Queste virtù, che definirebbero la personalità, sono: la sapienza, la giustizia, la fortezza e la temperanza, l’amore e l’umanità, la spiritualità e la trascendenza. Non è difficile scoprire dietro questi nomi le quattro virtù cardinali e, incluso, in modo vago, le virtù teologali in una versione secolarizzata (Vitz, 2005). Non possiamo far altro che essere d’accordo con questi autori sul fatto che queste virtù, bene intese, coprono in modo completo tutti gli ambiti della personalità: la sapienza, è la maturità nell’ambito cognitivo, particolarmente nel governo della propria vita, che la psicologia normalmente attribuisce all’intelligenza intra e inter personale, e che nel pensiero classico si attribuiva alla prudenza. La giustizia, si riferisce all’ambito del rapporto armonico della persona con i suoi simili. La fortezza fa che la persona non indietreggi davanti alle difficoltà e ai pericoli. La temperanza modera l’impulsività emozionale. Le altre virtù, riducibili alle teologali, coprono l’ambito del rapporto della persona con Dio.
Qui osserviamo una convergenza fra etica e psicologia che già fu indicata da Josef Pieper (Echavarría, 2004). Il celebre filosofo tedesco diceva:
[...] la caratterologia, non importa la tendenza che abbia, tocca l'etica in punti essenziali, e in questo senso non importa se ha un fondamento religioso o è autonoma o se è formalista o "materiale", intellettualista o volontarista. In qualche modo qualsiasi caratterologia si occupa dell’essere dell’uomo, e ancor più, del comune e immediato fondamento essenziale di tutte le azioni più piccole. E giacché qualsiasi etica in qualche maniera è orientata verso il dover essere dell’uomo, così si rapportano etica e caratterologia, parlando in modo sommario e provvisorio, come dovere ed essere. Le due scienze si suppongono vicendevolmente, ambedue coincidono in ultimo termine sulla domanda riguardo l’essenza dell’uomo. (Pieper, 1932, 68).

5. Psicologia antropologica e squilibri della personalità
Discendendo già al campo clinico, vogliamo riferirci all’importanza dell’approccio antropologico, dalla visione dell’uomo come persona ed essere responsabile, per comprendere alcuni disturbi. Anche se probabilmente di tutti i disordini mentali si potrebbe fare qualche tipo di lettura antropologica, ci sono alcuni disturbi che per la loro natura peculiare, non solo si prestano di più a questa lettura, ma incluso si potrebbe dire che non si possono capire senza di essa. L’esempio più chiaro lo costituiscono sicuramente le personalità nevrotiche.
In qualche modo lo stesso Freud iniziò, forse senza saperlo, l’interpretazione antropologica delle nevrosi sostenendo che i sintomi nevrotici sono causati da un conflitto fra la morale e il desiderio. In questo indirizzo hanno insistito specialmente alcuni autori che hanno cercato di sviluppare una psicoanalisi “personalista”, come Viktor E. von Gebsattel, Igor Caruso y Wilfried Daim. Mi limiterò qui a riassumere solo un paio di idee del primo periodo fenomenologico-esistenziale di Caruso (più tardi nella sua vita, cadde nel marxismo). La tesi di Caruso è che i sentimenti nevrotici di inferiorità, colpevolezza, scrupoli, ecc., sono la conseguenza dello spostamento di una vera colpa. Vi sarebbe una colpa reale, che il soggetto non vuole confessare mentre, invece di questa, il soggetto si auto castiga con dei falsi sentimenti di colpevolezza. Il Sentimento di colpa rimarrebbe nel fondo della psiche e avrebbe bisogno di venire a galla in qualche modo. Questo modo sarebbero i sentimenti di malessere, inferiorità e di colpa nevrotici. Dietro di tutto ciò si nasconderebbe la superbia di non voler riconoscere la propria responsabilità. Così lo spiega Caruso:
[...] i sentimenti nevrotici di colpevolezza (sentimenti di inferiorità, auto recriminazione, scrupoli, ecc.) sono spesso una maschera che deve far possibile la “falsa localizzazione”. Il fatto che “la coscienza più carica durante molti anni non conduca necessariamente alla nevrosi” non è un argomento contro la presenza della cattiva coscienza nella nevrosi. Nemmeno il bacillo di Koch rende tubercolosi a tutti i portatori. Non tutte le colpe conducono alla nevrosi, ma solo quelle non confessate e, ciò nonostante, temute. Questa colpa si trova frequentemente nel fatto che il nevrotico si dichiara colpevole di cose senza importanza mentre non si rende conto della sua vera colpa. Questa vera colpa è la superbia, che consiste nell’identificarsi del neurotico con il suo ideale e di escludere dalla coscienza i movimenti non compatibili; di questi movimenti “ignorati” non si sente responsabile. Questa superbia può essere accompagnata da conati di perfezione e purezza morale: il desiderio è certamente verso l’esterno, “verso il più in là”, ma la sua realizzazione con mezzi “di qua” è insufficiente. Questo spiega che i rapporti tra la colpa e la nevrosi possano essere trascurati dai teologi, come succede nell’argomento citato. [ ] L’argomento contro il rapporto tra la colpa e la nevrosi è un argomento tipicamente nevrotico e trova la sua continuità logica nella psicoterapia naturalistica, che dichiara nevrotico qualsiasi sentimento di colpa (Caruso, 1958, 61-62).
D’altro canto, e prima di Caruso, Alfred Adler aveva posto a base del carattere nevrotico la vanità, l’orgoglio e l’ambizione. Adler sosteneva che il nevrotico ha un profondo sentimento di inferiorità, di insufficienza, di imperfezione e di incompletezza, che gli causa una enorme angoscia, e cerca di fuggire da questo sentimento con un eccesso di auto affermazione, mettendosi alla ricerca di ciò che lui chiama “sentimento di personalità”, di essere superiore agli altri. Siccome al suo interno coesisterebbero allo stesso tempo un ideale perfezionista per il quale dovrebbe essere superiore agli altri, e i sentimenti di fondo di incapacità, il nevrotico, che si sviluppa sul percorso inautentico dell’egocentrismo, ha sempre paura del fracasso ed entra in shock, quando non può posporre l’incontro con qualcuno dei tre grandi problemi della vita: il matrimonio, il lavoro e l’amicizia. Il nevrotico cercherebbe costantemente di evitare queste situazioni, per poter conservare la sua sensazione di superiorità e non rendersi conto del suo “essere al di sotto”. “La psiconeurosi è il risultato della vanità e il suo obiettivo finale è di preservare l’individuo dalla collisione fra il suo obiettivo nella vita e la realità” (Adler, 1994, 302).
Idee simili le troviamo in psicoanalisti come Karen Horney, come si deduce dal seguente testo:
Con tutti i suoi vigorosi sforzi verso la perfezione e con tutto il suo credere nella perfezione già acquisita, il nevrotico non ottiene ciò di cui ha più disperatamente bisogno: fiducia in se stesso e rispetto verso se stesso. La grandiosa posizione che potrebbe raggiungere, la fama che potrebbe acquisire lo farà diventare arrogante ma non gli darà sicurezza interiore. Ma tutti questi sentimenti di euforia collassano facilmente quando manca questo supporto, quando sbaglia o quando deve bastarsi da solo. Lo sviluppo nevrotico si indebolisce nel nucleo del suo essere. Diventa alienato da se stesso e diviso. Invece di una solida fiducia in sé, ottiene un regalo brillante di valore discutibile: l’orgoglio nevrotico. (Horney, 1950).
Si trovano idee simili anche in Albert Ellis, quando afferma che dietro lo squilibrio psichico ci sono idee irrazionali di un “dover essere” perfezionista. Ellis va più oltre e dice che il suo approccio più che psicologico è filosofico, perché aiuta la persona a raggiungere una nuova filosofia di vita (Ellis e Grieger, 2000).
Dialogando con Adler, Pieper indicava il componente etico dell’atteggiamento egocentrico, come contrapposto all’abbandono fiducioso in sé stesso, che è l’atteggiamento moralmente e psicologicamente salutare:
La caratteristica essenziale che serve da denominatore comune a tutti i più diversi tipi di nevrosi sembra esser un "ego-centrismo" dominato dall’angoscia, una volontà di sicurezza che si chiude esclusivamente in sé stessa, una incapacità di “abbandonarsi” che nemmeno per un momento smette di trovarsi al centro del suo sguardo: insomma: questa specie di amore alla propria vita che porta esattamente alla perdita di essa. È sintomatica la circostanza, in qualche modo casuale, che gli attuali caratteriologi siano ricorsi più di una volta in maniera esplicita all’adagio: “Chi ama la sua vita, la perderà”. Perché all’infuori del suo immediato significato religioso, questo adagio costituisce la più letterale espressione del dato che la caratteriologia e la psichiatria abbiano saputo costatare: “Il rischio a cui si espone l’io è tanto più grave quanto maggiore sia la sollecitudine con la quale si cerca la sua protezione” (Pieper, 1988, 208).
Rudolf Allers, proseguì le riflessioni di Adler in una prospettiva esplicitamente antropologica. Questo autore presenta il problema a partire dalla domanda sulla responsabilità:
Il soggetto, è responsabile, in qualche modo, del suo stato? Una psicologia strettamente medica può andare oltre, non essendole forse necessario trovare una risposta per portare a buon fine il trattamento. Ma una psicologia che contempla la totalità della personalità –psicologia che potremmo chiamare “antropologica”- deve prendere coscienza di questo problema. Personalmente, sono convinto che non saremo mai capaci di farci un’opinione esatta della natura dei disturbi nevrotici se vogliamo eludere questa domanda limitandoci a considerazioni psicologiche. Il problema della responsabilità è chiaramente di tipo morale. Ma non si può capire la struttura della condotta, sia quella che sia, senza considerare i fini perseguiti dal soggetto, i valori che vuole realizzare tramite i suo atti, cioè, il suo atteggiamento riguardo le leggi e i fatti morali (Allers, 1937, 140).
Riprendendo in qualche modo queste riflessioni Pio XII, in un altro discorso, questa volta ai partecipanti di un congresso di psicologia clinica, affermava quanto segue:
C'è un malessere psicologico e morale, l'inibizione dell'io, di cui la vostra scienza si occupa di disvelare le cause. Quando questa inibizione penetra nel dominio morale, per esempio, quando si tratta di dinamismi come l'istinto di dominazione, di superiorità, e l'istinto sessuale, la psicoterapia non potrà, senza dubbio, trattare questa inibizione dell'io come una sorta di fatalità, come una tirannia della pulsione affettiva, che scaturisce dal subcoscio e che scappa assolutamente al controllo della coscienza e dell'anima. Che non si abbassi frettolosamente l'uomo concreto con il suo carattere personale al rango del bruto animale. Nonostante le buone intenzioni del terapeuta, gli spiriti delicati risentono fortemente questa degradazione al piano della vita istintiva e sensitiva. Che non si trascurino troppo le nostre osservazioni precedenti sull'ordine del valore delle funzioni e il ruolo della sua direzione centrale. (Pio XII, 1953, 281-282).
Con questo testo, Pio XII dice chiaramente che i dinamismi di cui parlano Freud e Adler, l’istinto sessuale e la volontà di potere, non sono forze che ci obblighino necessariamente a un tipo di condotta. L’inibizione dell’io che produrrebbero, non è inevitabile. Si deve ricordare che malgrado la loro forza, l’essere umano è costituito in modo tale da potere, con l’aiuto della grazia, governare se stesso. Per questo motivo, Pio XII dice che si debbono preferire i procedimenti che tendono a dirigere, formare ed educare a quelle tecniche che sommergono l’individuo nel caos della sua vita immaginativa e istintiva,:
Sarebbe meglio, nel dominio della vita istintiva, concedere più attenzione ai metodi indiretti ed all’azione dello psichismo cosciente sull’insieme dell’attività immaginativa ed affettiva. Questa tecnica evita le devianze segnalate. Tende a fare chiarezza, curare e dirigere; influenza anche la dinamica della sessualità, su di cui si insiste tanto, e che si incontrerebbe o anche si incontra realmente nell’inconscio o nel subconscio (Pio XII, 1952, 783-784).
Oggi questo approccio classico è stato in gran parte sostituito da un’approssimazione tecnica che ha dato certi risultati in alcuni disturbi clinici specifici, ma che ha perso profondità e finezza per quanto riguarda la comprensione dell’intimità dell’essere umano. Comunque, il dibattito rispetto il rapporto tra squilibrio psichico e moralità si è di nuovo aperto nel campo dei cosiddetti “disturbi della personalità”. Un autore canadese, Louis Charland, della University of Western Ontario, sostiene che i disturbi della personalità del cluster B, a differenza di quelli del cluster A e del cluster C, sono di natura morale (Charland, 2006). Lo dimostrerebbe in primo luogo il linguaggio usato per definirli, pieno di qualificativi di tipo morale. Ma soprattutto, il fatto che per il trattamento di questi disturbi è necessaria una specie di conversione morale, una volontà profonda e sostenuta di cambiamento del modo di essere. Dal canto suo, Peter Zacchar, della Auburn University at Montgomery, e Nancy Potter, della University of Louisville, partendo da un’etica della virtù, sembrano difendere la possibilità di una doppia natura di questi disturbi, a seconda dell’approccio che ricevano. La etica della virtù suppone che il soggetto, tramite le sue azioni libere plasmi il suo carattere. Da questo si potrebbe arrivare a un modo di esser che, da una valutazione clinica potrebbe essere considerato come un disturbo (Zachar & Potter, 2010a; Zachar & Potter, 2010b). La cosa più significativa è ciò in cui le due posizioni coincidono: il carattere morale dei disturbi del cluster B. D’altro canto è significativo che la teoria filosofica della virtù, non solo stia iniziando a influire sulla psicologia della personalità e dello sviluppo, ma anche sulla clinica. Indipendentemente dalle nostre considerazioni riguardo a questa discussione, è interessante osservare ciò che segue: i disturbi della personalità non sono per sé stessi patologie, ma modi anormali di essere che di solito si associano a disturbi clinici. Questa anormalità può avere molte cause, parlando genericamente le stesse cause che incidono nella conformazione di qualsiasi personalità: ambientali, biologiche, personali, fra le altre. Non ci sembra per questo un controsenso il ricercare anche in esse una dimensione morale. Di fatto, vari disturbi della personalità, l’istrionico, l'evitante e l’ossessivo-compulsivo, coincidono con le classiche personalità nevrotiche, isteriche, fobiche e anancastiche. D’altro canto, sebbene le personalità del cluster A sembrano muoversi in prossimità dello spettro schizofrenico, ci pare interessante segnalare la prossimità esistente tra determinati difetti di alcune delle virtù basiche e alcuni disturbi dei cluster B e C. I disturbi del cluster B, con la loro caratteristica impulsiva, assomigliano ai disturbi contrari alla temperanza, la cui specificità è la moderazione dell’impulso affettivo. I disturbi del cluster C, con la loro ansietà e timore, si avvicinano invece ai disturbi contrari alla virtù della fortezza. Per questo, al di là dei procedimenti tecnici di intervento specifico, ci sembra importante sottolineare la possibile utilità dell’educazione in queste virtù specifiche per trasformare in meglio queste personalità. Su questo percorso stiamo lavorando attraverso la direzione di varie tesi sull’egocentrismo inteso come tratto patogeno, e della teoria della virtù nella sua applicazione alla psicoterapia, indirizzo che seguono anche altri autori (Moncher, 2001; Titus & Moncher, 2009; Vitz, 2009).
Tanto dal punto di vista della clinica classica della personalità nevrotica, quanto da quello dei disturbi della personalità, ci ritroviamo con un intimo rapporto tra disposizioni morali e squilibrio psichico. Questo affonda le sue radici, dal punto di vista teologico, sulla ferita della natura umana conseguenza del peccato originale. Così lo aveva osservato già Rudolf Allers:
La nevrosi sorge dall’esagerazione che ha luogo nella divergenza –che esiste in qualsiasi vita umana- tra la volontà e la possibilità di potere. In altre parole: è un risultato della situazione puramente umana, così come è costituita nella natura ferita. Può anche dirsi che, orientata verso ciò che è morboso e perverso, è conseguenza della ribellione della creatura contro il suo essere naturalmente finita e impotente. (Allers, 1952, 80).
Paul Vitz, d’altro canto vede nello squilibrio psichico la manifestazione delle vicissitudini del peccato originale (Vitz, 1989). A sua volta, il teologo Jean-Claude Larchet, specialista in teologia della malattia, afferma che a conseguenza del peccato originale e personale, ogni uomo è disposto allo squilibrio psichico, anche se non sempre questo si manifesta sotto forma di una patologia specifica. Lo squilibrio psichico sarebbe, così, conseguenza di una più radicale malattia spirituale.
[…] la vita psichica non può essere considerata come un semplice gioco, meccanico, di forze delle quali vi sarebbe bisogno di controllare la potenza e l’armonia. E lo psicoterapeuta non dovrebbe essere ritenuto come un equivalente di ciò che è l’ortopedico o il cardiologo riguardo al dominio somatico. […] La mancanza d’armonia introdotta dalle passioni nell’esercizio delle nostre facoltà è una mancanza d’armonia non solo spirituale ma anche psichica. (Larchet, 2005, 16-17).
L’uomo caduto è necessariamente vissuto dalle passioni [si legga: vizi] anche se queste si trovano in proporzioni differenti nei differenti individui. Così come abbiamo appena visto, si può dire che ogni persona sviluppa una patologia psichica in rapporto alla sua patologia spirituale. Ma nella maggioranza degli uomini, questa patologia psichica non si manifesta sotto forma di disturbi percettibili o di malattie identificabili. (Larchet, 2005, 19).
Per questo, in questa stessa linea, affermava Pieper che l'etica della quale ha bisogno la psicoterapia è specialmente quella fondata in modo soprannaturale, perché l’aspirazione a mantenere un mero equilibrio naturale, più che liberare dall’angoscia, predispone ad essa. Un perfezionismo naturalista è nevrotizzante per se stesso:
In certo modo si rivela una cosa senza senso l’aspirare a mantenere l’ordine interiore per se stesso e proporsi come fine la pura conservazione dell’io in quanto tale. All’estremo di questa finalità “pura”, ma naturale, si trova la temperanza dell’avaro, che, come dice San Tommaso, evita la immoralità per le spese che comporta. È evidente che qui non vi è nessuna virtù. Ma sappiamo anche che il lavoro medico è debole quando agisce da solo, per promuovere nella persona malata una moderazione con garanzie di un risultato permanente. Giustamente si accusa qualsiasi trattamento psicoterapeutico che non abbia una fase metafisica o religiosa, del fatto che i suoi risultati sono “un imborghesimento circondato da timorose cure e avvelenato da un vuoto sconsolante”. E questo, è chiaro, non ha nulla da vedere con la pace sostanziale che concede la vera temperanza. Questo fracasso non è qualcosa che succeda fortuitamente, ma deve sopraggiungere per necessità. […] In altre parole: il mantenimento dell’io non è realizzabile mentre lo sguardo si mantiene su ciò che è esclusivamente umano. (Pieper, 1988, 227-228).

Conclusioni
La concezione antropologica del soggetto umano in sede psicologica si basa sul carattere personale dell’essere umano. Come persona, il soggetto umano, anche se è sottomesso a influenze importanti che provengono dalla sua natura e da ciò che lo circonda, è capace di auto governarsi e di formare se stesso, modellando la sua personalità e il suo carattere. Per questo, la persona umana adulta è, nella maggior parte dei casi, e a seconda delle diverse circostanze personali, responsabile tanto del suo agire, quanto del suo modo di essere. Senza l’assunzione della propria responsabilità non c’è crescita umana. Questa visione della persona umana come essere responsabile ha conseguenze tanto nella concezione della personalità normale, che non può essere intesa a prescindere da questa dimensione, quanto addirittura nella concezione di alcune forme di squilibrio psichico come le personalità neurotiche e alcuni disturbi della personalità. Qui soltanto abbiamo voluto fornire un panorama generale e un progetto, che dovrebbe svilupparsi nei dettagli per mezzo di studi e ricerche specifiche, realizzate in vista di una antropologia integrale.

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