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"Una psicologia medica cattolica deve essere una vera sintesi delle verità contenute nei sistemi già esistenti e inaccettabili visto il loro spirito di materialismo puro e le verità della filosofia e la teologia cattolica. Questo lavoro di sintesi non può essere compiuto che da persone istruite e nella medicina o psicologia e nella filosofia, e che possiedono una esperienza pratica e personale assai grande: cioè questo lavoro deve essere fatto da medici, specialisti di psichiatria, dunque da scienziati cattolici laici. (Rudolf Allers, 1936, lettera a P. Agostino Gemelli).

domenica 14 maggio 2017

Il mio psicologo si chiama Gesù, presentazione - Carlo Nesti

Carlo Nesti
Ci siamo già occupati del fenomeno editoriale Il mio psicologo si chiama Gesù di Carlo Nesti. In particolare, abbiamo riportato la bella introduzione che richiama San Tommaso e Rudolf Allers come maestri (dimenticati) della psicologia. Oggi torniamo ad interessarcene, perché Carlo Nesti, giornalista sportivo di lungo corso, ha presentato il suo libro a Torino proprio questa settimana, con una testimonianza davvero interessante. In essa scorgiamo una splendida umiltà, ed una semplicità d'animo tale da permettere all'autore di innamorarsi continuamente di Gesù e di testimoniarlo al mondo, anche al suo mondo, quello giornalistico, potremmo anche dire "borghese", "perbenista" e "politically correct" senza fanatismo, senza bigottismo, senza relativismo. Ci pare di scorgere in questa semplicità il motivo per cui Nesti, che non è uno psicologo, ben apprezzi il contributo di Rudolf Allers: è grazie ad una fedeltà semplice ed appassionata all'esperienza umana, quella per cui ci si rende conto che nulla basta, mentre il cuore desidera tutto, che si può scoprire "l'esperienza di Cristo Presente". E da lì, le verità che Allers e, dietro di lui San Tommaso e tanti altri Dottori e Padri della Chiesa, descrivono più e meglio degli psicologi contemporanei che, a quell'esperienza han deciso di rinunciare. In fondo, ed in questo ci ritroviamo con l'autore, la vita è semplice, così come lo dovrebbe essere la psicologia. Almeno quella che resta legata all'esperienza. 

Pubblichiamo il suo intervento e, prima di esso, la breve e simpatica presentazione del libro al Tg3. Grazie Carlo per la sua testimonianza!



13-5-2017

Torino - Circolo dei Lettori


Innanzitutto, grazie per l’ospitalità e grazie per la vostra presenza.

È mio dovere partire con qualcosa che potrebbe anche deludervi, ma che per me rappresenta non un atto di discriminazione fra voi, per carità, non me lo perdonerei mai, ma molto semplicemente un atto di modestia, da parte mia. Io mi rivolgerò, in questo intervento, soprattutto, a chi crede nel dio di Abramo, nel dio cristiano.
Non importa se cattolico, ortodosso, anglicano, evangelista, testimone Geova, questo non importa.
Purché siano persone che credono nel vangelo e nella bibbia, che contiene il vangelo, senza per forza essere legati ad una chiesa in particolare. sarei un presuntuoso, infatti, se venissi qui con l’ambizione di convertire qualcuno.
Avessi questi poteri…mi basta, e avanza, essere ascoltato e giudicato, per circa 22 minuti, e giuro che non lo faccio apposta.
22 come i giocatori della rosa di una squadra di calcio, segno che il pallone è sempre uno dei miei 3 migliori, e inseparabili, amici, insieme con una penna e un microfono, fin da quando sono nato.
Nessuno si scandalizzi, se userò un linguaggio, spero, elementare e divulgativo, anche perché so quanto è importante la conoscenza, la cultura, ma so anche che il signore ama i semplici, e io desidero essere semplice. voglio cominciare dal titolo del mio libro: “il mio psicologo si chiama Gesù”. Cosa significa?
Significa che esiste un Gesù, con quanto ha detto e fatto 2000 anni fa, che può darci un grossa mano nell’impresa più titanica della nostra vita: trovare la serenità.
Se qualcuno vuole pensare felicita’, io certamente non mi offendo, ma la felicità è solo questione di attimi. La vera impresa è conquistare uno stato d’animo costante, come la serenità, che può anche durare sempre, e sul terreno della quale fiorisce la felicita’.
Oggi, il mondo è diverso da quello nel quale visse per 33 anni Gesù.
Quello era un mondo dove esisteva soprattutto un bisogno più di pancia, di stomaco che di testa, di anima. un mondo in cui povertà e fame, anche se neppure oggi, vergognosamente, abbiamo risolto il problema, erano di proporzioni gigantesche. oggi, invece, c’è un bisogno che ha sovrastato, nei paesi sviluppati, il bisogno della pancia, ed e un bisogno di testa.
Aggiungo io un bisogno di cuore.
Ci sentiamo spesso stressati, soli, tristi, infelici. Siamo in balia di tensione, insoddisfazione, invidia, rancore. E questo, anche se a tavola, almeno a tavola, in teoria, non ci manca nulla.
State certi che, in questo momento non sto parlando dall’alto di nessun pulpito. Sono problemi, che riguardano eccome anche chi ha scritto questo libro.
Ed è proprio per questo, che l’ho scritto: senza essere uno psicologo, senza essere un teologo ma una persona, che vuole capire, se stessa e gli altri, e mettere al corrente i lettori delle proprie conclusioni. ebbene: la conclusione principale scaturisce, per me, da una tremenda assurdità, della quale stiamo pagando un caro prezzo. La spiego.
Nel momento i cui tutti ammettiamo di avere problemi interiori, psicologici, spirituali, anche quando materialmente abbiamo abbastanza, molto, magari tutto, la psicologia moderna continua a tenere fuori dalla porta proprio ciò che è metafisico, ciò che va oltre la materia, e riguarda l’anima: e, fra questi valori, la fede.
È come dire: “Con questo cacciavite, mannaggia, non riesco ad aprire il forziere. Nel quale c’è la verità”. Voce fuori campo, naturalmente dall’alto: “Beh, usa il cacciavite più sottile! È liì, a portata di mano da secoli!” Risposta scocciata: “No, non mi va, non ci provo nemmeno. È vecchio di millenni, è superato. non serve più a nessuno”.
In pratica: nel momento in cui non ci basta, per essere sereni, quello che vediamo, noi escludiamo la fede, che è proprio provare a credere in ciò che non vediamo. la psicologia moderna, infatti, è monopolizzata dalle filosofie secolarizzate, che cancellano quel vecchio arnese, di nome religione.

L’austriaco Sigmund Freud (1856-1939) è sempre una guida per tutti, tanto di cappello, e sostiene che l’uomo è trino. C’è l’id, che è la nostra parte inconscia istintiva, primordiale, sessuale. C’è l’io, che è la nostra parte cosciente, dove si fanno sentire le cose che apprendiamo dal mondo, come la ragione e la morale. E c’è il super io, che è la torre di controllo, che media, e dirige il traffico fra le due forze. Immaginiamo una situazione personale. “Pronto, torre di controllo del super io, sono l’id, l’istinto. posso decollare?” e il super io: “No, capitan id, istinto, adesso la pista è occupata dall’io, dalla ragione. Abbia pazienza, lo dica ai passeggeri, bisogna mettersi in coda”.
Ora, io non posso che rispettare un grandissimo maestro, come Freud, al quale si deve la nascita della psicanalisi.
Ma mi sia consentito solo esprimere un altro punto di vista.
Nel primo gruppo di studenti di Freud, c’era un tale Rudolf Allers, anche lui austriaco (1883-1963), di 27 anni più giovane del maestro, guarda caso, e non è un caso, l’unico cattolico, fra i suoi allievi. Prima, Allers e Alfred Adler si staccarono da Freud. successivamente, Allers si staccò anche da Adler. Di cosa si rendeva conto Allers, tanto da allontanarsi da Freud e dai suoi seguaci?
Si rendeva conto che Freud spiegava sì, con il subconscio, le nostre nevrosi, ma non poteva spingersi fino a darci una certezza di felicità.
L’uomo può anche trovare un equilibrio fra istinto, ragione e morale, che gli consenta di vivere degnamente.
Ma solo le origini dell’uomo, secondo le religioni monoteiste,bebrei, cristiani e musulmani, che hanno, in partenza, lo stesso dio in comune, ci fanno capire perché siamo perennemente insoddisfatti, e perché siamo destinati, comunque, e questo è il lieto fine, a vincere questa insoddisfazione.
Proviamo a dar credito alla genesi, simboleggiata da Adamo, da Eva, dal paradiso terrestre, e dal serpente tentatore.
Proviamo a dar credito alla metafora dell’uomo, che non si accontenta di quella felicità, e non si accontenta di essere figlio di Dio, ma vuole diventare anch’egli come Dio. L’errore decisivo.
Buttare fuori, a porta vuota, la palla della vittoria, all’ultimo secondo della finale dei mondiali! mamma mia: da spararsi! da togliersi la vita! appunto: togliersi la vita!
Gesù dice che, nella personalità non, ovviamente, nella razza, noi siamo tutti differenti, distinti, e non tutti uguali, come ci vede Freud.
La nostra anima è come una impronta digitale, diversa da tutte le altre.
Noi non siamo genericamente noi, bensì ciascuno di noi.
Ma c’è un tratto essenziale comune a tutti noi.
Ed è la ribellione al destino, che ci tolse, quando gli antenati tradirono dio, due ricchezze ineguagliabili: la felicita’ e l’immortalità. Pensate che batosta! La felicita’ e l’immortalità.
Il massimo delle nostre aspirazioni, e cioè vivere infinitamente felici.
Ricordate la frase di Roberto Benigni? “Se la felicità si dimentica di voi, voi non dimenticatevi mai della felicità”. E infatti chi se la dimentica!
Il ricordo della felicità, che era ed è un nostro diritto perduto, è sempre dentro di noi. È come un immenso amore non corrisposto.
Noi, nel profondo del profondo della tristezza, nel profondo del profondo delle viscere, cercheremo sempre il suo sguardo, i suoi occhi, la sua bocca, i suoi capelli. Noi abbiamo la felicità nel dna dei dna.
È per questo, con tutto il rispetto per id, io e super io, che a tutti, spesso, manca, comunque, qualcosa di troppo importante, che ci fa sentire inquieti, fragili, scontenti.
E se la psicologia moderna continuerà a ignorare le nostre origini divine, quelle nostre mancanze, ma anche le nostre certezze del dopo, e a credere che Adamo ed Eva siano solo i protagonisti arroganti, ingenui e sfigati, proprio perché ci rappresentano, di una fiaba infantile, non saprà mai dare una spiegazione, una speranza e una sicurezza all’umanità.
Se ci coglie l’angoscia, la nevrosi, la depressione, anche quando non ne esiste un apparente motivo scatenante, è perché è incisa dentro l’anima la nostra storia.

Abbiamo tradito, abbiamo sbagliato, ci tocca una vita imperfetta e mortale, tanto che, talvolta, ci verrebbe da gridare: “Fermate il mondo! voglio scendere!”, come se fossimo al luna park.
Ma Dio ci spiega che proprio il modo di affrontare questa vita imperfetta e mortale ci consente di arrivare al premio assoluto, garantito dal sacrificio di Gesù in croce.
Dopo la morte fisica, infatti, ci sarà tutto ciò, che cerchiamo durante la vita terrena.
Noi sentiamo, come lo sentiva il popolo scelto da dio, in cammino per 40 anni nel deserto, che è poi L’immagine del nostro transito terrestre, che la felicita’ è la nostra terra promessa.
Piangiamo perché, come bambini spauriti, vorremmo trovarla subito, ed è questo che ci porta all’affanno.
Sembra un gioco di parole: il senso dato alla vita si trova nel senso dato alla morte.
Se vediamo la morte come punto di arrivo, ci sentiremo obbligati a correre come pazzi, per raccogliere il meglio subito, qui e ora.
Se, invece, vediamo la morte come punto di partenza verso la dimensione del paradiso, ogni evento verrà relativizzato, ogni male verrà ridimensionato, perché consci del fatto che il meglio deve ancora venire.
La ricchezza, il potere, il successo sono scorciatoie per arrivare prima del tempo al grande traguardo.
Ma cerchiamo di essere sinceri e obbiettivi.
Conoscete qualcuno che, anche possedendo queste risorse, per carità, desiderate da chiunque, sia veramente appagato tutti i secondi della propria vita?
L’esistenza esemplare, senza ferite da rimarginare, non esiste per nessuno.
Ci sono famiglie ricche, potenti, affascinanti, lasciatemi citare i Kennedy e gli Agnelli, che hanno patito lutti strazianti.
A quante di queste risorse avrebbe rinunciato, chi non c’è più, pur di essere ancora in mezzo a noi?
A quante di queste risorse avrebbe rinunciato, chi voleva bene a chi non c’è più per dargli anche solo un’ultima carezza?
Ma la grande notizia, che ha annunciato Gesù la grande notizia, che dovrebbero annunciare tutti i tg del pianeta, senza stancarsi mai, magari con dirette-fiume alla Vespa o alla Mentana, è che la felicita è già nostra, ed è solo rimandata.
Seguendo Freud, non si arriva a questa consolazione. Ma seguendo Allers sì. Se tutti conoscono Freud, e pochi conoscono Allers, è solo perché Freud ha avuto la fortuna di nascere nel periodo del positivismo, il movimento dell’ottocento, che considerava unicamente il reale, l’utile, il misurabile. E tutto il resto era noia, maledetta noia.
L’uomo, stanco delle ingiustizie del medioevo, provocate anche dalle strumentalizzazioni della religione, ("io re rappresento Dio, e quindi tu sei un mio schiavo") riteneva, sbarazzandosi giustamente di queste ingiustizie, di potere ottenere tutto con la ragione.
Con il progresso, in effetti, siamo stati meravigliosi, abbiamo inventato in pochi decenni quanto non era stato inventato per secoli e secoli.
Ma abbiamo dimenticato, agendo in senso orizzontale, da integralisti, o tutto o niente, e dimenticando di guardare in su, in senso verticale, il segreto della serenità.
Credere in Gesù, e leggere il vangelo, riflettendo su ogni sua frase, significa trasformarlo nel nostro psicologo personale.
Gesù ci insegna come imparare a vivere correttamente per ricevere quel premio, come trascorrere in modo costruttivo questa attesa, che ci rende tutti forestieri, di passaggio, negli 80-90-magari 100 anni, trascorsi sul pianeta. leggere la bibbia, della quale fa parte il vangelo, significa sfruttare le esperienze dei nostri predecessori. Penso ai libri dei salmi, dei proverbi una miniera di consigli pratici, altro che teorici.
Il senso biblico, fra i tanti, è: “io, tuo antenato, ho già attraversato quell’incrocio pericoloso, e ti voglio indicare come evitare di sbattere contro un tir, perché potresti farti molto male”.
Seguire la parola del signore significa non rassegnarci ad una attesa passiva, ma vivere una attesa attiva, migliorarci come uomini, perché l’ultimo nostro abito non avrà le tasche. Inutile pensare di portarsi dietro per sempre, ciò che è materiale.
Gesù ci dice che il tesoro, che costituirà la nostra unica valigia virtuale, sarà costituito da ciò che abita nel nostro cuore. pensate che bello!
Prolungare eternamente i sentimenti, le emozioni, le commozioni più pure che abbiamo provato.
le gioie, i sorrisi, gli abbracci, le strette di mano dopo i litigi, il perdono, per quanto spesso arduo come scalare l’Everest. esultare, ricongiunti ai nostri cari, persino, e questa è stata la grande rivoluzione di Gesù, in proporzione a quanto abbiamo sofferto, come spiega nelle beatitudini.
“Beati gli afflitti perché sarà loro il regno dei cieli”.
Per cui nemmeno il dolore è inutile, anche se tutti, umanamente, vorremmo farne a meno, e tutto ha un senso, che capiremo, pero’, solo alla fine.

Per concludere, ritengo di non avere detto nulla che il credente non sappia già. ma il problema non è sapere.
Il problema è ricordarsi di sapere.
Ricordarselo sempre, senza diventare eroi o martiri, ma padroni di noi stessi almeno nel metro quadrato, che occupiamo.
Avete presente cosa ci succede, quando vediamo un bel film, di quelli che trasmettono un messaggio positivo? usciamo dal cinema diversi, trasformati, motivati. ma passano un’ora, un giorno, una settimana e il film chi se lo ricorda più?
La grande scommessa da vincere, con noi stessi, resta sempre, mentalmente, come il nodo al fazzoletto dei nostri nonni o bisnonni, quella di mettere la lettera D davanti ad altre due lettere: “io”. se riuscissimo più spesso a chiederci non solo se quello che stiamo facendo piace a noi, ma se piacerebbe anche allo psicologo, Gesù, sarebbe molto terapeutico.
Sarebbe, parafrasando lo sbarco sulla luna, “un grande passo per ciascun uomo, e un grandissimo passo per l’umanità”.
Grazie della vostra pazienza!

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