Etichette2

adattamento Agostino Massone Alberto D'Auria Alessandro Beghini Alexander Batthyany amore Amy Fischer Smith Andrea Morigi anima e corpo Anna Terruwe Anselm Grun Antonino Stagnitta Antonio Giuliano antropologia approccio esistenziale approccio integrale alla persona aridità Aristotele assiologia Associazione di Psicologia Cattolica Avvenire Benedetta Frigerio Carlo Alfredo Clerici Carlo Nesti CEYTEC combattimento spirituale Confessione conflitto conoscenza Conrad Baars contemplazione Contra Gentiles convegno corso di psicologia cattolica Craig Steven Titus credenze cura di sé didattica Dio in terapia Domenico Bellantoni don Curzio Nitoglia don Ennio Innocenti don Paulo Ricardo Elena Canzi Emiliano Tognetti emozioni Ermanno Pavesi esercizi spirituali esperienza Evagrio Pontico Fabrizio Mastrofini filosofia formazione Francesco Bertoldi Franco Imoda Franco Poterzio Frank J. Moncher Freud Friedrich Nietzsche frustrazione genitorialità Gesù terapeuta Giancarlo Ricci Giovanni Cavalcoli O.P. Giovanni Cucci Giovanni Paolo II Giovanni Pardini Hans Selye ideale di sé Ignacio Andereggen impulsi inconscio Integrity Restored IPS Jacques Lacan Jean-Claude Larchet John A. Gasson Jorge Olaechea Kevin Vost laboratorio di psicologia cristiana lavoro Le vie della psicologia Luigina Mortari Luisa Fressoia magistero Magnda B. Arnold malattie spirituali Mario Ghiozzi Martin F. Echavarria medioevo metanoeite Mimmo Armiento mistica mito modello di mente normalità omogenitorialità omosessualità Padri Orientali particolari Paul Vitz percezione Peter Kleponis Pio XII pornografia presentazione libri psichiatria psicoanalisi Psicologia Contemporanea Psicologia della felicità psicologia e vita cristiana psicologia positiva psicologia tomista psicologia umanista psicoterapia Puri di Cuore Radio Maria recensione libri relativismo Renzo Bonetti Roberto Marchesini Rudolf Allers Sant'Ignazio di Loyola Sean Kilcawley spiritualità spiritualità nella cura Stefano Parenti storia della psicologia stress Tommaso d'Aquino Tredimensioni Tullio Proserprio UCCR video virtù vis cogitativa Wenceslao Vial Willem Duynstee workshop Zelmira Seligmann
"Una psicologia medica cattolica deve essere una vera sintesi delle verità contenute nei sistemi già esistenti e inaccettabili visto il loro spirito di materialismo puro e le verità della filosofia e la teologia cattolica. Questo lavoro di sintesi non può essere compiuto che da persone istruite e nella medicina o psicologia e nella filosofia, e che possiedono una esperienza pratica e personale assai grande: cioè questo lavoro deve essere fatto da medici, specialisti di psichiatria, dunque da scienziati cattolici laici. (Rudolf Allers, 1936, lettera a P. Agostino Gemelli).

giovedì 2 agosto 2012

L'APPROCCIO ESISTENZIALE IN PSICHIATRIA - RUDOLF ALLERS

Anche in questa occasione, ci sediamo in prima fila per ascoltare una relazione del professor Allers. Ed è veramente un orgoglio poter offrire una delle lezioni più importanti, o meglio, una di quelle a cui Allers teneva maggiormente. Negli ultimi anni della sua vita, ritiratosi dall'attività clinica di psicoterapeuta ed impegnatosi unicamente nell'insegnamento universitario, Allers dedicò diversi scritti a quello che lui definì "approccio esistenziale". Con questa etichetta intendeva denominare una modalità di studio dell'uomo che partisse dal modo in cui il paziente percepiva se stesso e la realtà. Una modalità, cioè, per "entrare" curiosamente e rispettosamente nello sguardo delle persone "anormali". Compiendo tale percorso, Allers si avvicina così all'esistenzialismo filosofico, ma solamente per prenderne gli aspetti metodologici e per coniugarli alle intuizioni più interessanti della fenomenologia, sempre all'interno di una concezione dell'uomo e del cosmo di stampo aristotelico-tomista. Non a caso, l'autore al quale probabilmente si sente più vicino è quel Max Scheler che guidò anche la riflessione filosofica di Karol Wojtyla e che è stata così riassunta dal Reale: "Dunque, il procedimento seguito non è dalla persona all'atto, bensì dall'atto alla persona" (in Persona e atto, Rusconi, 1999, pag. 19). L'obiettivo è di comprendere l'ontologia dell'uomo, ciò che Allers definisce come "antropologia filosofica", ma solo a partire dai fatti dell'uomo stesso.
Significativo è anche il fatto che Allers scriverà il suo ultimo libro, Abnorme welten, edito postumo (2008) e redatto curiosamente in lingua tedesca, proprio sviluppando ed ampliando le tematiche contenute in questo articolo. 
Prima di lasciarvi immergere nella scrittura semplice e lineare del professor Allers, è importante descrivere quale sia l'origine di tale approfondimento. Agli inizi degli anni '60 Allers fu invitato a tenere alcune conferenze all'Institute of Living diretto dallo psichiatra Francis Braceland, amico di lungo corso e responsabile del suo trasferimento da Vienna agli Stati Uniti. Allers approfondì l'esistenzialismo filosofico ed i suoi collegamenti con la psichiatria. Nel 1961, a seguito di tali conferenze, Allers pubblicò Existentialism and Psychiatry: four lectures (Springfield, IL), un testo monografico in cui venivano riportate quattro conferenze. Il volume era così suddiviso: Prima lezione - La psichiatria ed il clima intellettuale al volgere del secolo; Seconda lezione - Esistenzialismo; Terza lezione - L'approccio esistenziale in psichiatria; Quarta lezione - Finalità e limiti dell'approccio esistenziale in psichiatria. Come voi stessi avrete notato, abbiamo la fortuna di poter ospitare l'intera terza lezione. Ho tradotto personalmente il testo dall'inglese, ma vorrei ringraziare Jorge Olaechea per il suo prezioso contributo, in particolare per il suo lavoro di tesi di dottorato sulla vita e le opere di Allers (che spero ben presto diventi una pubblicazione) ed i responsabili del sito Rudolf Allers Information Page per le preziose informazioni ivi pubblicate.

L'approccio esistenziale in psichiatria


L'esistenza stessa, l'essere o il modo di essere proprio di un individuo, non può essere studiato o descritto come se fosse un oggetto che si può apprendere con una qualche forma di consapevolezza immediata. Anche se si sostenesse di poter avere un'intuizione diretta dell'esistenza di un altro, non sarebbe ancora possibile comunicare il contenuto di tale visione. Attraverso tutte le proprietà che attribuiamo ad una persona e con cui tentiamo di caratterizzare la sua esistenza peculiare ed individuale, definiamo relazioni con il mondo in cui vive. Tutto quello che siamo in grado di dire su di lui è che risponde a certi aspetti del mondo secondo questa o quella modalità. E lo comprendiamo, fin tanto che è possibile, solo quando realizziamo quale particolare visione del mondo provoca il suo comportamento, le sue parole, e determina tutto il suo essere. Comprendere un'altra persona significa, infatti, porre se stessi sul suo "punto di vista" così da diventare consapevoli del modo in cui il mondo gli appare.
Per comprendere il poeta si deve raggiungere la terra del poeta, e per comprendere la poesia si deve visitare la terra della poesia, ricorda Goethe. Come mostra la seconda parte di questo detto, la terra non è solamente una regione geografica, e neanche la somma totale dei costumi e cose del genere, ma la totalità del mondo che è peculiare al poeta e la totalità dell'interpretazione-mondo che forma il senso della poesia.
Ognuno di noi vive qualche aspetto di se in un proprio mondo, perlomeno fintanto che conduce una "esistenza autentica". "Tutti gli uomini svegli vivono in un mondo comune, ma nel sonno ognuno fugge in un suo proprio mondo". Queste parole di Eraclito rimangono vere. Avviene, però, non solo nel sonno che ognuno abbia un "mondo privato". Alcuni piccoli spazi di privacy sono propri di ognuno. Più questo mondo privato invade il mondo comune e lo trasforma, meno intelliggibile diviene la persona e più appare anormale.
Appare, almeno, all'inizio. Per questo è possibile che si giunga a comprendere anche un mondo largamente diverso se si è capaci di rendere chiaro a se stessi come e dove questo mondo privato differisca dal proprio e da quello condiviso dalla grande maggioranza degli uomini. La nostra abilità di discernere le peculiarità di tali mondi privati si è sviluppata notevolmente in tempi recenti. Siamo giunti più vicini alla comprensione delle nazioni straniere e delle civiltà sconosciute, delle epoche passate e di visioni del mondo molto differenti dalla nostra. L'antropologia culturale ha compiuto grandi progressi a questo riguardo, sebbene molti di noi siano ancora vittime di ciò che è stato chiamato "l’imbroglio etnocentrico", la semplice ed indiscussa assunzione che tutto ciò che è straniero deve essere misurato dagli standard a cui noi siamo abituati.
Ciò che l'antropologia culturale ha raggiunto nel suo campo può essere comparato a ciò che l'approccio esistenziale ha contribuito e contribuirà a portare alla psichiatria. Ora, per spiegare in che cosa consista questo contributo, è possibile riassumere vari studi che sono stati pubblicati in anni recenti. Essi trattano in modo predominante casi di schizofrenia, alcune nevrosi, o stati maniaco-depressivi. Questi studi sono accessibili, e riassumerli potrebbe essere tedioso ed equivalere ad una mera ripetizione. Penso, piuttosto, che sia preferibile sottolineare le promesse – che in larga misura perdurano tuttora – che ci si aspetta che l’approccio esistenziale realizzi. In altre parole, proverò a servirmi di questo approccio per caratterizzare brevemente alcuni tipi di “mondi anormali” ed anche di modalità anormali di esistenza nel modo in cui essi diventano evidenti nelle diverse immagini di mondo.
            Una parola può essere spesa sulla nozione di tipi a cui ho appena accennato. Distinguere e descrivere i tipi non corrisponde a costruire una classificazione. Una classe è definita da un certo numero di proprietà che devono essere presenti per ogni singola persona inclusa nella classe. Ci possono essere caratteristiche aggiuntive che quindi possono diventare la base per la distinzione in subclassi. Ma le caratteristiche essenziali devono esserci. Di conseguenza, non ci sono “casi borderline” fin tanto che abbiamo a che fare con le classi. Ci possono essere classi intermedie, ma ogni classe è strettamente definita da una quantità minima di caratteristiche indispensabili. Una classe è formata stabilendo questo numero minimo di tratti; si mette assieme una moltitudine di individui che si crede somiglino l’un l’altro per diversi aspetti; si verifica che le caratteristiche siano presenti in ogni individuo, e così si giunge a formare una classe. Un individuo è o non è un membro di tale classe e nessun individuo è più rappresentativo di un altro della sua classe. Il gatto randagio è un felino né più né meno di un leone.
            Nella formazione di un tipo, si procede in un modo totalmente differente. Qui, il punto di partenza non si trova in un insieme di individui ma in un singolo individuo che sembra particolarmente caratteristico o, come disse Ernst Kretschmer, il “caso più bello”. Bello, in questo contesto, non ha un significato estetico ma denota piuttosto la compattezza delle caratteristiche in pieno sviluppo. I tipi, quindi, non hanno confini definiti; si mescolano l’un l’altro, si confondono, e permettono che si ipotizzino “casi borderline”. La maggiorparte delle divisioni in medicina, specialmente in psichiatria, sono tipologie piuttosto che classificazioni.
Un individuo appartiene ad una ed una sola classe. Si può dire che è un membro di un’altra classe solo se questa classe è costruita sulla base di caratteristiche distintive totalmente differenti. Questa univocità di definizione è assente nel caso dei tipi. E’ anche possibile che esistano tipologie di diverso genere che si sovrappongono e si combinano in molti modi.
            E’ abbastanza evidente in psichiatria. Parlando da una prospettiva storica, il punto di vista tipologico ha prevalso fino alla seconda metà del diciannovesimo secolo quando in Francia prima, con Moreau, Morel e Magna, in Germania poi con Kahlbaum, Hecker ed in particolare Kraepelin, furono fatti tentativi di classificazione. Ma anche allora il punto di vista tipologico non perse la sua importanza. Lo si può vedere chiaramente nel riferirsi, ad esempio, agli stati depressivi, allo stupore, alle idee persecutorie, e così via nella descrizione di “classi” di disturbo mentale.
            I “mondi anormali” di cui mi accingo a parlare sono allo stesso modo tipi e non classi. Più ancora, essi sono tipi che non coincidono con altri tipi che la psichiatria può distinguere. E’ abbastanza possibile che pazienti con disturbi molto differenti, ossia diagnosi, vivano in mondi pressocché identici, come è possibile che mondi molto differenti possano essere osservati in pazienti sofferenti dello stesso problema.
            Bisogna fare un’ulteriore nota preliminare. Ho detto che è necessario entrare nel mondo di un’altro, così com’è,  per comprenderlo. Ciò comporta anche che si deve essere consapevoli del fatto che le parole possono significare per lui, e per ogni genere di evento, quello che non significano per noi. Se interpretiamo queste parole come siamo soliti comprenderle, rischiamo di fraintendere profondamente l’altro. Si fallirà, ad esempio, a comprendere un uomo che è diventato rapidamente irrequieto ed apprensivo se non si tiene conto del fatto che un gatto nero, che ha incrociato il suo sentiero, significhi per lui più di quanto significhi a noi. Noi vediamo un animale nero, lui vede un segno di brutto presagio.
            Come introduzione, vorrei parlare inizialmente di due mondi che non sono anormali nel senso della psichiatria, ma che ciononostante differiscono dal mondo in cui noi, persone adulte e “normali”, viviamo. Mi riferisco al mondo del bambino piccolo ed al mondo delle persone nate cieche.
            Molti pensano i bambini piccoli come se essi fossero degli adulti in scala ridotta. Non lo sono, certamente, ed una delle differenze principali è che essi devono vivere in un mondo costruito per gli adulti dove tutte le cose sono troppo grandi. Un mondo dove tutte le resistenze sono enormi, e molti sforzi sono condannati al fallimento. Più ancora, è un mondo le cui leggi sono sconosciute; può accadere l’inaspettato e può accadere in ogni momento. Gli eventi e gli adulti sono imprevedibili. La conoscenza appena acquisita può rivelarsi inattendibile. E’ un mondo strano e sconosciuto in cui ci si potrebbe perdere completamente senza la protezione degli onnipotenti genitori, e qualche volta anch’essi sbagliano. La Dott.sa Maria Montessori ha suggerito che i bambini debbano vivere in un mondo commensurato alla loro altezza, forza ed abilità. Ma questo può essere attuato solo per poche ore al giorno, nel nido d’infanzia della Montessori. La maggior parte del tempo i bambini esistono in un mondo adulto. Non sorprende che essi creino per se stessi un altro mondo il quale penetra in quello “reale” in modo sottile e che spesso è abbastanza sconosciuto anche al genitore più amorevole. Non sorprende neanche che molto di quello che gli adulti fanno appaia abbastanza stupido al bambino. Egli aderisce alle richieste fattegli, in parte per allontanare conseguenze spiacevoli, ma soprattutto, per un’attitudine che può ben essere descritta come generosità. Ma nessuno comprenderà le reazioni di un bambino – essi sono spesso piuttosto sconcertanti – finché non si realizza che queste reazioni sono dettate ed in accordo con un mondo visto in modo abbastanza diverso da quello dell’adulto.
            Il caso della persona con cecità congenita è di un altro genere. Egli è cresciuto; ha partecipato alla vita di altri. Questi pensano di comprenderlo e che lui comprenda loro. E’ assolutamente vero in senso ampio. Ma, ciononostante, ci sono profonde differenze. Le persone che vedono credono che il mondo del cieco sia lo stesso mondo del proprio, meno il dato della vista. Ossia, meno la luce ed il colore. Questa credenza è supportata dal fatto che il cieco usa le stesse parole e, apparentemente, indica con esse le medesime cose. Questo, tuttavia, è lontano dall’essere vero. Quando il cieco parla di “distanza”, l’esperienza di fondo non è affatto quello che è connotato con la stessa parola in una frase di una persona che vede. Non da ultimo, distanza significa “lontano da” nel senso che questa è una esperienza visiva. Il cielo è distante, così come l’orizzonte quando guardiamo il mare o le grandi pianure. Sono distanti le tristi montagne nebbiose e tutti gli oggetti che paiono come piccoli, mentre sappiamo che essi sono grandi. Di tutto questo la persona cieca non ha esperienza. Per lei, la distanza è rappresentata dall’esperienza di un certo numero di passi o di un certo tempo di camminata, o di un viaggio in treno. Una parola come “grattacielo” significa per lui, forse, un lungo tragitto in un’ascensore ma la metafora di fondo è senza senso per il cieco. Come pensa il tempo? Mattino e pomeriggio, notte e giorno non esistono per lui. Il tempo può essere per lui solo la durata di qualche attività o il ritmo della vita quotidiana. Così le due categorie fondamentali che determinano la nostra esperienza del mondo che ci circonda, assumono per il cieco un significato totalmente differente. Le espressioni più comuni del linguaggio ordinario devono anch’esse possedere un altro senso per lui. Noi diciamo: “Questa cosa non è qui”, e basiamo il nostro giudizio sulla consapevolezza visiva nella stragrande maggioranza dei casi. “Non qui” significa per il cieco: “Non a portata”, o “non per essere toccata da una serie di movimenti ben noti”. Che qualcosa non sia “al suo solito posto” è per noi una consapevolezza intuitivamente immediata. Per il cieco il risultato di una ricerca più o meno lunga. Poi ci sono le numerose metafore – di cui ignoriamo la maggior parte delle volte l’origine metaforica – che sono derivate da esperienze visive. Insight, qualcosa è chiaro, vedo, non puoi vedere che questo è il modo migliore? – la lista può continuare infinitamente. Ma queste poche indicazioni possono essere sufficienti a mostrare che il mondo del cieco non è il nostro meno il colore e la luce, e che le parole stesse hanno altre connotazioni per lui rispetto a noi.
            Questa breve considerazione sul mondo del cieco può anche esser utile come indicatore per il modo in cui l’analisi “esistenziale” dei mondi anormali dovrà procedere. Dobbiamo ricostruire la struttura dei mondi dei nostri pazienti ricavandola dalle loro espressioni, dalla loro condotta e dalle rare spiegazioni che essi sono in grado di fornire.
Le descrizioni piuttosto sommarie dei mondi anormali che mi appresto a presentare, non hanno la pretesa di essere definitive e neanche di essere esaustive. Esse sono pensate come illustrazioni di quali possano essere gli esiti di una riflessione esistenziale e che, spero, saranno sufficienti a permetterci di immaginare lo scopo ed i limiti dell’approccio esistenziale in psichiatria, cosa che sarà oggetto della mia ultima lezione.
            Credo che si debba distinguere tra tre principali tipologie di mondi anormali, ognuno dei quali comprende diversi sottotipi. Ho definito questi tre tipi di base come: mondi difettosi, trasformati e pervertiti.

1. I mondi anormali difettosi si trovano nelle persone con ritardo mentale, nei casi di agnosia, ed in diverse forme di demenza, termine con cui, in questa sede, mi riferisco solo agli stati demenziali dovuti ad alterazioni organiche, come nelle paresi, nella senilità, in conseguenza di artereosclerosi o di altre diffuse necrosi cerebrali.

a. Il mondo del ritardo mentale può essere descritto come un mondo chiuso. Siamo soliti parlare di gradi di deficenza mentale e basare la distinzione di queste gradualità sui dati raccolti dai test d’intelligenza. Attribuiamo alle persone una qualche “età mentale” che normalmente corrisponde alla “età cronologica” ed è inferiore a quest’ultima negli individui ritardati. Sappiamo, certamente, che un uomo di vent’anni circa, con un’età intellettiva di dodici non è lo stesso tipo di persona di un ragazzo dodicenne. E’ ritardato intellettualmente, ma è fisicamente cresciuto. Il suo comportamento differisce per molti aspetti rispetto a quello del ragazzo, e così anche il suo mondo.
Il mondo di un ragazzo normale è essenzialmente un mondo “aperto”. Si espande continuamente. Non solo si espande oggettivamente, ma la sua capacità di espansione è una caratteristica di base nel mondo così come viene sperimentato dal ragazzo. Il mondo chiuso è circondato da muri che sono inscalabili e spessi, ma anche invisibili. In altre parole, gli abitanti di questo mondo sono inconsapevoli dei suoi limiti. Per loro non esiste alcun “oltre”. Solo all’outsider questo mondo appare come una progione, non per coloro che vi vivono. E’ assente tutta la sfida verso l’ignoto, ed ancor più verso l’inconoscibile, di conseguenza sono assenti anche le preoccupazioni causate dalla natura problematica dell’esistenza e l’angoscia che risponde alla minaccia del totalmente sconosciuto, del totalmente altro. Per il semplicione tutte le cose sono semplici. Questo non preclude che una persona così, a patto che il ritardo non sia troppo grave, possa condurre una vita soddisfacente ed anche vantaggiosa. E potrebbe essere – proprio a causa della mancanza di problemi – che sia in buone relazioni con i suoi amici. Di nuovo, solo quando osservato dall’esterno, oggettivamente, se si vuole dire così, il suo “stare con” non risponde alle esigenze di una “autentica” esistenza. Accade anche che egli dimostri una buona quantità di naturale simpatia e di comprensione perché la sua attitudine verso gli altri non è “coperta dalla pallida tinta del pensiero”.

b. Un altro mondo, totalmente differente, è quello delle persone afflitte da agnosia. Questo mondo può essere descritto come perforato. Ci sono “buchi” in esso, ed il paziente ne è generalmente consapevole. Sa che non è più in grado di compiere alcune azioni o di affrontare alcune situazioni che precedentemente erano per lui una cosa ovvia. Una grande parte del mondo in cui ha vissuto è stata tagliata via. Compiti che erano semplici una volta, che ha eseguito in modo pressocché automatico, sono diventati impossibili e lo espongono a “situazioni catastrofiche” (K. Goldstein).
Ma il deficit di cui soffre è più grande di tutto ciò. Non è più in grado di affrontare situazioni e problemi che in precedenza erano relativamente semplici. Qualcosa è scomparso dalla realtà stessa. Non importa se si attribuisce questa diminuzione al deficit di “pensiero categoriale”, come Gelb e Goldstein, o al deficit della “funzione simbolica” come Sir Henry Head. Ciò che importa realmente è che il “senso” è scomparso da un gran numero di esperienze, e ciò che rimane è soprattutto la superficie delle cose. Le cose sono solo quello che appaiono nella consapevolezza immediata, ma non indicano più oltre se stesse verso qualcosa che “significano”. Dove una volta diveniva visibile “dietro” le cose, qualcosa d’altro rispetto alla cosa in se, ora non c’è nulla. Così, tredici carte da gioco sono solo molti oggetti, differenti l’un l’altro, ma il loro stare assieme come “mano di bridge” non viene compreso. Di conseguenza, è assente un aspetto del dato che è presente alla mente normale (anche se non sempre espressamente notato). Il mondo è, ossia, appiattito; ha perso la sua profondità. Qualsiasi modalità dell’esistenza che si possa attribuire al “significato”, non esiste più; il suo posto è vuoto. Il paziente afflitto da agnosia è, quindi, rivolto, in “situazioni catastrofiche”, verso il Nulla e, di conseguenza, risponde con intensa ansia.
Forse, non si dovrebbe parlare come di un “mondo” per l’ambiente ed il contesto in cui questi pazienti vivono. Un mondo che propriamente merita questo nome non ha buchi. E’ una struttura solida. Può essere più ampio o più stretto, aperto o chiuso, peculiare in diversi aspetti, ma comunque sia, è un tutto strutturato. Tali considerazioni, tuttavia – per quanto siano pertinenti al contesto – sono suggerite più che da un’analisi del mondo “perforato” da quella della situazione presente negli stati di confusione mentale e saranno riprese meglio in seguito.

c. In un certo senso il mondo “Perforato” è anche un mondo chiuso, poiché è divenuta impossibile la trascendenza della situazione presente e concreta verso una qualche zona “al di qua” o “al di là”. Per usare una metafora non molto appropriata, si potrebbe dire che il mondo chiuso del ritardo mentale è chiuso su di un piano orizzontale ma mantiene, ciononostante, alcune sue profondità, anche se non molte; laddove invece il mondo perforato corrisponde alla perdita dell’interpretazione simbolica o categoriale, dell’insight astrattiva, non è così ristretta sul piano orizzontale ma piuttosto è deprivato della sua profondità.

d. Un mondo che è ridotto in entrambe le dimensioni è un mondo ristretto; è quello della demenza. Più correttamente, è un mondo in restringimento il cui processo termina con la scomparsa di qualsiasi cosa che assomigli ad un mondo.
            Non c’è bisogno di parlare di questo mondo in modo ancora più esauriente. Il fenomeno del decadimento mentale nella paresi, nell’artereosclerosi e nella terza età è sufficientemente noto. La demenza senile, tuttavia, sembra possedere alcune peculiarità che la distinguono dagli altri processi dementigeni, almeno in alcuni casi.
            La persona che sta invecchiando è consapevole in modo più frequente ed acuto del declino dei suoi poteri mentali. Proprio per questa ragione essa può essere responsabile, non certamente del processo, ma della velocità con cui progredisce. Questo può sembrare paradossale e richiede una spiegazione.
            Si può imparare molto studiando il punto di vista delle persone che realizzano che le proprie forze corporali stanno venendo meno. Per molti questo pare una catastrofe specialmente in quei giorni che hanno reso un idolo la giovinezza. Invece di godersi i molti piaceri che la vita può ancora offrire, queste persone guardano solo indietro. Paragonano il presente con il passato e non trovano altro che perdite. In tempi più antichi sussistevano delle ricompense definite, perché la vecchiaia godeva di un grande prestigio, era vista come “venerabile”, si credeva di essere in grado di contribuire in virtù dell’esperienza, e così via. Ma in un epoca in rapido sviluppo, l’esperienza non conta tanto quanto in passato. Il “senato” di oggi non consiste più nei “senior del popolo”, e i “vecchi di chiesa” sono spesso soltanto “vecchi”. Per molti, diventare anziani è una sfortuna, anche una tragedia. Si devono “ritirare” e non sanno dove. Si sentono inutili; deplorano la perdita del ruolo che hanno ricoperto in precedenza, benché piccolo esso potesse esser stato. Consci solo di cosa se ne è andato, non volendo vedere cosa può essere rimasto di possibilità positive, essi “cedono”. Non hanno cura di mettere in pratica le capacità che ancora possiedono.
            Non è probabile che con questa attitudine il processo di senescenza sia accelerato o intensificato ma si può fortemente dubitare che qualche volta le sue manifestazioni vengano maggiormente alla ribalta. Sembra anche che gli stati depressivi siano frequentemente causati da questa attitudine e non siano effetti diretti di alterazioni cerebrali. Inoltre, la preoccupazione per il passato può essere un’azione attiva di ritiro più che dipendente dalla distruzione delle memorie più recenti. Vivere nel passato è vivere in un mondo che è significativo perché è quello in cui la persona occupa un posto definito e non è diventata superflua.
            Il mondo dell’anziano è caratterizzato da un senso di perdita che qualche volta può assumere una tale intensità da diventare intollerabile e scappare in un mondo immaginato essere l’unica soluzione.
            Se il volo nel passato ha il suo effetto consolatorio, allo stesso tempo è un fattore che aumenta il senso di perdita e rende la persona afflitta anche più consapevole della sua situazione. Sarebbe meglio non ricordare ciò che è stato e che non c’è più.
            Quando il ricordo del passato ed il disprezzo del presente non costituiscono un senso di perdita, il ritorno al passato assume la forma di un sogno più che quella di una effettiva reminiscenza. Nella contemporaneità, è solo il presente che conta. Quindi, il mondo è ridotto anche di più da quando ha perso anche il contesto che, più o meno consciamente, sottende tutta la conoscenza della situazione presente.
            Che nell’immagine intera della senilità, potrebbe esserci una co-operazione di fattori organici e sicogenici, diviene a volte visibile nel fatto che una persona può improvvisamente avere capacità di successo che sembravano esser state del tutto perse. Per quanto possa vedere, manchiamo ancora di un’accurata descrizione fenomenologica ed “esistenziale” dei numerosi stati della demenza.

II. I mondi trasformati si presentano come un gruppo di immagini molto differenti. Esse hanno attratto un’attenzione maggiore di quella per gli altri mondi anormali. Infatti, la maggior parte degli studi ispirati da considerazioni esistenzialiste ha a che vedere con casi di schizofrenia. Il mondo dello schizofrenico è solo uno dei diversi mondi trasformati.

a. C’è, per primo, il mondo stracciato degli stati di confusione mentale. Come ho sottolineato, la tipologia dei mondi anormali non coincide con alcun raggruppamento dei disturbi mentali. Così, il tipo di mondo di cui ora andrò a parlare può trovarsi in casi molto differenti.
            E’ a questi casi che si applica la qualifica di “mancanza totale di coerenza”. Non che il mondo dell’esperienza quotidiana scompaia; esso persiste ma è, per così dire, sommerso e pervaso da spettri che compaiono dal nulla. Le cose sembrano non avere legami con l’ambiente; eventi misteriosi ed incomprensibili si susseguono senza che si riveli un senso nella loro successione; gli oggetti più comuni sembrano assumere un aspetto nuovo ma occulto e perciò minaccioso. Due mondi, per così dire, che hanno poco o nulla in comune, si fondono.
            Lo stato mentale di questi pazienti è stato spesso comparato, non del tutto giustamente, a quello di una persona che sogna; perché quando sogniamo viviamo nel mondo del sogno, “rapiti nel mondo privato della persona che dorme”, e non siamo consapevoli del mondo reale attorno a noi. Ma nello stato di confusione mentale, il mondo fantastico del delirio, per così dire, si espande oltre quello della realtà. I punti di riferimento abituali ed affidabili non offrono più alcun senso di orientamento. Tra le singole fasi degli eventi normali e naturali, si interpongono altri elementi che privano di senso ogni evento.
            Ci si può chiedere se un tale ambiente sia ancora degno di esser chiamato “mondo”. Per quanto poco questo mondo somigli all’esperienza normale, esso è ciononostante un certo tipo di mondo, visto che conserva i residui dei principi di base dell’ordine, vale a dire lo spazio ed il tempo. Le cose si trovano una di fianco all’altra, gli eventi seguono l’un l’altro. Molte cose conosciute rimangono anch’esse ciò che sono, anche se sono miste ad altre di strana natura. L’ordine, tuttavia, è come si compone un mondo. Il mondo stracciato mostra un ordine minimo, ma pur sempre un ordine. Mi si permetta di notare che c’è bisogno urgentemente di chiarire che cosa significhi il termine “mondo”, specialmente in vista dell’affermazione esistenzialista che l’essere dell’uomo è essenzialmente l’essere-in-un-mondo.
            Se è così, allora la modalità di esistenza propria dell’individuo afflitto da uno stato di confusione mentale è una modalità molto cambiata. Non ha senso per lui essere “a casa” in questo mondo poiché è continuamente in cambiamento. Che perda l’ “orientamento”, non sappia dove si trovi, né sia sicuro riguardo al tempo, può essere la conseguenza di questa alterazione del suo mondo e del suo essere. Quando ritorna alla normalità, il paziente spesso riferisce del suo stato come di un sogno. Ma ciò che lo porta a dire così non è la somiglianza fenomenica della confusione mentale col sogno, piuttosto la discontinuità tra la sua prima esistenza, ora ricordata e ripresa, e l’episodio di confusione.
            Il mondo del confuso è disgregato ed incorenente in ogni momento perché il mondo fantastico irrompe continuamente nella realtà. (Certamente, definire un “mondo” l’insieme di allucinazioni, di interpretazioni, di vaghe apprensioni non è abbastanza appropriato; ma dopo tutto, parliamo anche del mondo dei sogni). La sua esistenza, di conseguenza, è precaria. Manca il supporto di un mondo attendibile. E’ comunque discutibile se si debba parlare di esistenza “inautentica”. Se fosse possibile utilizzare termini quantitativi nei confronti dell’esistenza, si potrebbe caratterizzare questa modalità di esistenza come “diminuita”.
            E’ anche, per ovvie ragioni, un’esistenza insicura. Questa insicurezza, è comunque solo un tipo di quella modificazione esistenziale descritta con questo nome. Ci sono diversi tipologie di insicurezza, un fatto spesso ignorato. L’insicurezza della confusione mentale è quella di un uomo “in perdita” perché ha perso il supporto di un mondo intelligibile ed ordinato. Può diventare, secondariamente, l’insicurezza di qualcuno minacciato da un pericolo sconosciuto, che termina in angoscia, perché all’interno di un mondo inintelligibile e caotico ogni sorta di pericolo imprevedibile può sopraggiungere. Sotto questo aspetto assomiglia all’insicurezza del bambino nel buio.

b. L’incoerenza del mondo del confuso si manifesta sia nella sezione trasversale di ogni istante che nella dimensione longitudinale della sequenza degli eventi. Un’altra, invece, è l’incoerenza del mondo della mania che risulta come mondo instabile. Qui, durante ogni piccolo arco di tempo il mondo è sufficientemente ordinato; ma non esiste alcun ordine nella successione di questi singoli pezzi. Il paziente in uno stato di eccitazione maniacale è, in generale, disorientato. Si sente abbastanza a casa nel suo mondo e non nota che questo mondo cambia da un momento all’altro. Questa insabilità è legata ad un abbassamento di senso, cioè, il fatto che ogni evento, ogni idea, ogni impulso raggiunga lo stesso grado di rilevanza e, quindi, diventi predominante non appena emerge alla consapevolezza.
            Questa trasformazione può anche essere descritta, nei termini della psicologia configurazionale o Gestalt, come una riduzione della differenza tra “figura” e “sfondo”. O, nel vocabolario di William James, come un fallimento degli “stati effettivi” nel raggiungere la preminenza sui “confini” che li circondano. Poiché nessuna “figura” viene tagliata via, per così dire, in modo abbastanza duro da attrarre l’attenzione e raggiungere la soglia, ogni dettaglio dello “sfondo” diventa ugualmente rilevante o, piuttosto, egualmente irrilevante.
            Questa descrizione si riferisce, certamente, ai casi più estremi di “voli ideativi”; ma si applica anche, sebbene in modo meno pronunciato, a disturbi meno marcati, anche a quegli stati che difficilmente possono essere definiti anormali in senso clinico, come quelli solitamente etichettati come “ipomania”. Nei momenti di euforia, inoltre, la persona ciclotimica può evidenziare una vita in un mondo instabile.
            Questo mondo è ampio ma poco profondo. Il rapido alternarsi di aspetti-mondo non permette né la concentrazione né la ricerca. In molti casi, però, vivere in un mondo simile intacca l’esistenza in modo poco evidente. E’ ben noto che anche stati estremi di questo tipo non sono riconosciuti come anormali da osservatori profani. (Questo può essere particolarmente vero in un’epoca che apprezza l’attività così tanto rispetto alla tranquillità ed alla contemplazione che anche il relax diventa qualcosa da “fare”).
            L’impatto di una massa di impressioni e di idee incessantemente in cambiamento spesso sommerge l’individuo tanto da sentirsi rapito in una sorta di “vortice”, scombussolato in uno sballottamento di dati di cui non ne può prendere in considerazione alcuno, anche se può apparirgli come momento significativo; ma sfugge via velocemente così come è emerso.
            E’ difficile trovare una qualifica appropriata per il modo di vivere in un mondo simile. Un aspetto di tale esistenza, ad esempio, può caratterizzarsi come una “mancanza di serietà”, se con questo termine denominiamo un’attitudine che abilita il soggetto a dar fede ai diversi dati di esperienza con un valore o una significatività adeguata. In questo senso si può parlare anche di un’esistenza inautentica considerato che l’autenticità implica un atteggiamento nei confronti dei contenuti dell’esperienza che è conforme alla natura “oggettiva” delle cose e delle idee.

c. Il mondo stracciato della confusione ed il mondo instabile dell’eccitazione maniacale sono certamente mondi trasformati. La trasformazione, però, non si spinge troppo in là. Il mondo normale, in cui tutte le persone vivono coscientemente, rimane dietro la trasformazione che subisce. E’ coperto dai contenuti fantastici nel primo caso, è dissolto e reso inconsistente nel secondo, ma preserva la maggior parte dei suoi tratti fondamentali. Abbiamo a che fare con un altro tipo di trasformazione nel caso di altri due tipi di mondi trasformati di cui il primo è il mondo estraniato della depersonalizzazione.
            Come nelle discussioni precedenti e nella attuale, la designazione clinica o classificazione dello stato mentale non ha alcuna importanza. Sebbene la sindrome di depersonalizzazione avvenga in uno stato di melanconia, durante un processo schizofrenico (come un episodio in alcuni casi di nevrosi), essa è la stessa nei suoi aspetti base.
            L’etichetta “estraniamento del mondo percepito” fu utilizzata per la prima volta, per quanto sappia, da C. T. Oesterreich nel 1907. Gli fu suggerita dalle frasi delle persone stesse che lui studiava. Infatti, non c’è niente di più comune in tali casi che sentire queste persone descrivere il loro mondo come diventato strano in un modo la cui precisa natura essi difficilmente sanno come caratterizzare. Prese in senso stretto molte di queste affermazioni appaiono contraddittorie e logicamente impossibili. Essi attribuiscono ad alcuni dati proprietà che sembrano escludersi a vicenda. Le cose si trovano alla stessa distanza di sempre, ma appaiono molto lontane. Esse hanno la stessa altezza, ma sembrano essere più piccole. Le persone paiono le stesse ma anche sono profondamente cambiate; esse si muovono come in passato, ma manca qualche cosa. Sembrano come automi piuttosto che persone viventi. I colori sono gli stessi, ma sono anche differenti. Così come la vita è assente nelle persone e negli animali, così alcune qualità sono mancanti nei colori che appaiono come “morti”, senza lustro. Uomini ed animali sono diventati senza vita, mere macchine; ma gli umani, in definitiva, sono ancora distinti dalle bestie.
            Il mondo è stato radicalmente trasformato, ma ciononostante è lo stesso. Ed esso è anche così con l’auto-coscienza dell’individuo. Esso è lo stesso e non lo è, “ho perso me stesso o il mio ego”; una frase che, in verità, sembra negare se stessa. “Questa macchina qui, questa non sono io”, dice un paziente di Ball.
            Il soggetto è depersonalizzato ma non de-individualizzato. Egli è, al contrario, intensamente cosciente di essere uno, ma uno tra molti altri individui che non sono altro, per così dire, che individui. Cioè, essi sono singoli, ma distinti l’un l’altro solo dall’essere ognuno di loro un uno. Differiscono, certamente, e sono riconosciuti, in possesso dei loro nomi abituali, anche trattati come sempre. Ciononostante, essi hanno perso altrimenti alcune caratteristiche indispensabili. Il mondo è appiattito perché ogni cosa ha lo stesso significato o, piuttosto, non ne ha alcuno. E’ un mondo gelido, perché non c’è niente a cui appellarsi e nessuno a cui un appello può essere indirizzato. La differenziazione degli esseri, il loro rango conforme alla dignità o all’importanza, è scomparso, incluso l’io. Assieme a questo scompare anche tutto il contesto pieno di significato. Le cose giacciono una di fianco all’altra senza essere collegate. Esse sono decisamente individui raggruppati, ma ognuno è di per sé solo.
            Bisogna notare che questo mondo è deprivato di ogni caratteristica che possa fornire un giudizio di valore. Questo è vero non solo per i valori positivi ma anche per tutti quelli negativi. L’uomore del depersonalizzato è di indifferenza. Non quell’indifferenza, però, che alcuni filosofi hanno proclamato, poiché non è l’indifferenza riguardo a ciò che non merita considerazione rispetto ad un bene maggiore. Il depersonalizzato non è né uno Stoico né un asceta Cristiano. Egli è, come lui stesso ci dice, niente. Perlomeno, niente che somigli ad un essere umano come lui si ricorda di esser stato. Non nega di esistere (e questo distingue il suo atteggiamento dal délire de négation di Cotard), ma esiste nello stesso modo, o la sua modalità di esistenza è la stessa, di tutte le altre cose.
            Questo livellamento di ogni valore verso l’indifferenza intacca principalmente i valori più elevati; quelli che sono più o meno collegati con ciò che è specificatamente umano. Sebbene il depersonalizzato sia reticente nell’ammetterlo, ciononostante è un fatto che lui non sia indifferente ai valori più bassi. Preferisce dormire in un letto che coricarsi sul pavimento scomodo, o mangiare cibo decente che un piatto di pessime pietanze.
            Sarebbe, quindi, scorretto voler caratterizzare questo mondo estraniato come se fosse “de-umanizzato”; perché è l’aspetto veramente umano che è scomparso. E c’è una certa logica nel fatto che assieme a quella umana anche tutte le altre vite perdono la loro natura, e le azioni di esseri viventi diventano quelle di meri meccanismi o automi.
            Ho riferito sopra circa la curiosa modificazione dell’esperienza dello spazio. Le cose sembrano lontane sebbene esse siano alla stessa distanza di sempre. L’individuo non dubita affatto che le cose sul tavolo siano a portata di mano, o che dovrà fare lo stesso numero di passi per attraversare la strada. Perché, apparentemente rimosso a grande profondità, le cose paiono come se fossero stese su di un piano. C’è solo una piccola profondità in questo tipo di mondo spaziale. Questo fenomento potrebbe essere correlato con, ed espressivo di, egualizzazione, il processo di livellamento verso il basso a cui tutto è diventato soggetto.
            Il tempo vieta ogni ulteriore riflessione. Posso solo sperare che questo rapido schizzo abbia mostrato le peculiarità del mondo estraniato e la modifica dell’esistenza della persona che ne soffre.

d. Il prototipo dei mondi trasformati, e quello che ha attratto l’interesse più ampio di coloro che vogliono applicare le idee della filosofia esistenzialista allo studio dei disturbi mentali, è quello che si trova negli schizofrenici. Propongo di chiamare questo mondo un mondo tramutato. Infatti, spesso è così lontano dalla nostra immagine del mondo ordinario che molti hanno sostenuto essere un mondo abbastanza inintelligibile. Si è anche detto che le espressioni di questi pazienti sono senza senso, sequenze vuote di parole senza alcun riferimento a qualcosa di oggettivo. Non si può negare che i nostri tentativi di comprendere cosa intenda una tale paziente, o di appurare se egli intenda qualcosa, spesso si dimostrano senza successo. Ma ci sono abbastanza casi – ed il loro numero è cresciuto considerabilmente nei tempi recenti, in parte come conseguenza dell’ “approccio esistenziale” – nei quali siamo in grado di penetrare all’interno dell’apparente assenza di significato e di scoprire alcune caratteristiche proprie del mondo tramutato. Queste osservazioni sono, forse, non conclusive, ma sono certamente suggestive e giustificano l’assunzione che, quantomento, un minimo di intelligibilità possa trovarsi anche negli altri casi.
            Schizofrenia è un nome che, come sappiamo tutti, copre una moltitudine di diverse immagini e di processi clinici. Non è del tutto certo che sia il solo se includiamo (seguendo in una certa misura Kraepelin ma soprattutto Bleuler) tutti questi casi sotto un unico nome. Bisogna ricordarselo, specialmente in vista di un’analisi del mondo tramutato, perché non tutti i casi etichettati come schizofrenici vivono in tale mondo, perlomeno, non in uno che è completamente tramutato. Varia considerevolmente quanto il mondo tramutato, che è privato del paziente, invada il mondo comune dei suoi amici normali. Qualche volta solo alcune sezioni del mondo comune diventano tramutate, così che l’individuo può adattarsi al suo ambiente e non essere coinvolto in conflitti disastrosi.
            Inoltre, è da notare che la condotta “autistica”, la caduta in un mondo privato, non è necessariamente uguale al vivere in un mondo tramutato. Il mondo del sognatore, per esempio, può essere estremamente “irrealistico”, ma questo non diventa per forza una trasmutazione. Questo mondo privato consiste di elementi che sono improbabili, contrariamente allo stato attuale delle cose, ma essenzialmente costruite da dati dell’esperienza comune. Infatti, sebbene il mondo dipinto in un sogno possa essere molto improbabile, è spesso impossibile nel senso stretto del termine. L’impossibile non può accadere, ma l’improbabile sì. In rari casi è accaduto che il sogno più fantastico diventasse realtà, ma il mondo tramutato non si accorda mai con la realtà neanche con una probabile.
            Lasciando da parte alcuni fenomeni borderline, basati su sogni notturni piuttosto che diurni, si può dire che in queste anomalie della mente gli elementi di realtà mantengono la loro originale, comunemente accettata natura e significato, benché essi siano uniti fantasticamente. La trasmutazione di cui parliamo, al contrario, dota questi elementi di una nuova natura. Essi cessano di essere semplicemente cose e proprietà, eventi o sequenze, e diventano la rivelazione di un altro mondo finora sconosciuto.
            Questo lo si vede con particolare chiarezza in quei casi in cui l’inizio della malattia – o almeno, la sua manifestazione – equivale a quella che è stata giustamente chiamata “l’esperienza di una catastrofe mondiale” (Weltuntergangserlebnis). Questa non è un’esperienza da “giorno del giudizio” o qualcosa di simile, sebbene riferimenti di questo tipo non siano rari. Se un mondo giunge alla fine, ce n’è un altro che emerge, uno che è sorprendentemente nuovo, che sorge solo gradualmente nel soggetto, ed esiste fianco a fianco del mondo precedente, sostituendolo grazie alla virtù di un maggiore significato e una maggiore rilevanza. Il mondo dell’esperienza ordinaria diventa, per così dire, “trasparente” ed apre la vista ad un altro mondo.
            E’ questo aspetto del mondo tramutato che ha portato gli psichiatri francesi a descrivere, sin da Lasègue, alcune forme, soprattutto con un carattere paranoide, come délire d’interprétation. Bisogna notare che questo nome denota il giudizio dello psichiatra o dell’osservatore e non quello del paziente, dal momento che quest’ultimo non è consapevole di alcun atto di interpretazione, come se ci fosse prima qualche datum che, avendo un significato peculiare, sarebbe stato compreso successivamente. Questo significato è immediatamente visibile; esso ha attinenza con il datum più di quanto il significato di una parola ben conosciuta ha attinenza con il fenomeno uditivo. L’abitante del mondo tramutato conosce tramite una consapevolezza immediata quello che le cose significano, proprio come la persona superstiziosa conosce cosa significa quando un gatto nero attraversa la sua strada. Né l’uno né gli altri procedono mediante l’interpretazione, ossia, applicando alcune regole, facendo uso di una specie di dizionario, per realizzare quello che l’avvenimento significa. In generale, non si ha a che fare con qualcosa simile ad una procedura “augurale”, ma con un’intuizione primordiale. Semplici dati sensoriali diventano pieni di significato. Una ragazza cammina sulla strada e vedendo il vento che solleva le tovaglie di un caffè sulla strada “sa” che la fine del mondo è vicina. Una luce scende oltre il muro e l’uomo “sa” che deve preparasi per un evento ancora sconosciuto ma funesto. E così via; gli esempi abbondano nella letteratura e nell’esperienza di ogni psichiatra.
            Non sempre, ovviamente, questo nuovo mondo si rivela improvvisamente. Può apparire anche in una successione di fasi che si susseguono lentamente, qualche volta interrotte da lunghi intervalli. Ma sotto tutti i punti di vista è un nuovo mondo. Vivere in un nuovo mondo comporta l’esistere in un nuovo modo. Questa nuova esistenza, o modo di esistere, insieme alla singolarità del mondo rende spiegabile, o così mi sembra, alcuni tratti caratteristici. Se le cose sono nuove, presentando aspetti finora sconosciuti, e appaiono in relazione con qualcosa che non faceva parte del mondo precedente, diventa inevitabile che nuove parole vengano trovate per designare nuove esperienze. I neologismi abituali diventano così intelligibili, non sempre nel loro preciso significato, ma nei loro avvenimenti.
            Si può trovare anche qualche altra spiegazione se si tiene conto dell’attualità di entrambi i mondi e la modalità di esistenza; cioè, le somiglianze tra la mentalità degli schizofrenici, i bambini ed i primitivi. Tali similarità esistono senza dubbio, sebbene esse possano essere meno pronunciate di quanto spesso si pensi. E’ stata proposta una spiegazione, e largamente accettata, che da una parte poggia sulla nozione di “regressione” e dall’altra sulla concezione di Lévy-Bruhl della mentalità primitiva. Quest’ultima concezione è stata severamente criticata dagli antropologi culturali, ad es. da Malinovski, dai filosofi, come Cassirer, e dagli psicologi come Biihler. E’ stata ripudiata completamente dallo stesso Lévy-Bruhl nelle note che ha creato in preparazione di un ultimo lavoro che non può più pubblicare. In queste annotazioni riferisce, con molte parole, che le profonde differenze che credeva esistessero tra la mentalità primitiva e quella progredita, nei fatti non esistono per nulla. Di conseguenza, anche se si considerasse come legittimo il parallelismo tra la storia personale e quella culturale, come difeso da Freud, la teoria della “regressione” ad una modalità “arcaica” della mentalità perderebbe il suo sostegno. Le suddette somiglianze, tuttavia, possono essere spiegate dal fatto che tutti e tre i gruppi, i primitivi, i bambini e gli schizofrenici, condividono una esperienza fondamentale: quella di dover esistere in un mondo sconosciuto la cui natura e le cui leggi sono ignote e misteriose.
            Il nuovo mondo è di un tipo strettamente tramutato, cioè, non rimpiazza il vecchio mondo così che quest’ultimo possa scomparire. Il nuovo mondo diviene visibile “dietro” o “dentro” le cose comuni che rimangono le stesse in superficie ma diventano “trasparenti”. Viene conferito un nuovo significato ad esse e, di conseguenza, le relazioni tra di esse e con il soggetto vengono alterate. Un fenomeno che normalmente non avrebbe attratto o guadagnato l’attenzione può raggiungere un’importanza capitale.
            La percezione che tale individuo vive in un mondo tramutato può aiutarci a comprendere molti tratti del suo comportamento e molte delle sue espressioni che altrimenti sembrerebbero soprattutto confuse. Così, diventa necessario non assumere l’esistenza di “impulsi-trasversali” totalmente immotivati (Querantriebe, come riporta Kraepelin) che giungono ad interrompere un’azione, se si interpreta la condotta del paziente come determinata da aspetti-mondo che sono ovvi a lui ma sconosciuti a noi.
            Tuttavia non è sufficiente il fatto che comprendiamo addentrandoci in questo mondo tramutato, quanto più è possibile, ed osservando le sue peculiarità. Molti altri problemi devono essere risolti prima che la più accurata visualizzazione di questo mondo rimanga intatta. Tornerò sulla questione dei limiti dell’approccio esistenzialista nella prossima lezione. Per ora, è sufficiente sottolineare che nel descrivere questo mondo come tramutato, non si è detto nulla della forma peculiare che questa tramutazione assume in un caso particolare, e neppure dei fattori che determinano alcuni sintomi più o meno tipici (come, ad esempio, il lamento di strani effetti fisici, la presenza di “voci”, e così via).

e. L’ultimo dei mondi trasformati è il mondo frammentato nelle sindromi anancastiche. Le comuni descrizioni di tali stati sottolineano la natura compulsiva del sintomo e la sua insensatezza; da cui, due aspetti di un carattere semplicemente soggettivo. Questo vale sia per le nevrosi compulsive che per le fobie. Il paziente è impotente di fronte alla compulsione; “deve” pensare, immaginare, di fare alcune cose; è la vittima passiva della sua ansia anche se sa che non c’è una relazione reale tra l’attraversare una strada ed essere sorpreso da un attacco di cuore. Tutto questo è troppo ben conosciuto per richiedere ulteriori esemplificazioni. Cosa non è stato sufficientemente rimarcato è che le situazioni in cui tali esperienze sopraggiungono possiedono alcune caratteristiche che rendono possibile la reazione peculiare. Sebbene l’agorafobico, per esempio, sappia che una strada in sé non è pericolosa, gli appare esclusivamente sotto l’aspetto del luogo dove la morte può colpire. L’uomo che si sente costretto a raccogliere ogni pezzettino di carta perché potrebbe inavvertitamente mettere su di esso la sua firma, sa abbastanza bene che un rotolo stracciato, un biglietto del tram, ogni pezzetto di carta è soltanto un pezzetto di carta. Per lui non vuol dire altro che un’opportunità per scriverci sopra il suo nome. Per la persona scrupolosa ogni azione non è altro che un’occasione per peccare, e così via.
            In altre parole, l’oggetto, il contenuto del pensiero, la situazione, che realizza la reazione compulsiva non è percepito nella totalità delle sue relazioni fattuali, nella molteplicità dei significati che possiede nei differenti contesti, ma invece è visto staccato da tutte le altre connessioni tranne quella che emerge nell’esperienza del paziente.
            E’ stato spesso notato che i sentimenti o le reazioni di disgusto sono particolarmente frequenti in tali casi. Una breve analisi del disgusto può fare chiarezza sulla struttura – o, forse meglio, sull’assenza di struttura – in un mondo frammentato.
            Il disgusto o la nausea sono primariamente reazioni per la presenza di materiale organico in decomposizione, o per prodotti della vita che hanno perso la loro connessione con un essere vivente ed hanno assunto un’esistenza indipendente. Molte persone pensano con stupore al biochimico o al medico come a uomini che con la forza dell’abitudine hanno perso ogni senso di disgusto. Questa critica trascura che l’assenza della reazione di disgusto è propria di questi uomini solo all’interno del contesto delle attività lavorative. In condizioni di vita ordinaria essi sono soggetti a sentirsi disgustati proprio come qualsiasi altro. Un medesimo oggetto, quindi, può apparire come disgustoso o senza questa qualità in accordo con la situazione complessiva in cui lo si incontra. La chioma che si ammira e si apprezza come caratteristica di una persona amata diventa disgustosa quando viene spettinata o quando cade sulla tovaglia. Le cose “disgustose” che il biochimico o il medico maneggiano, appartengono ad un contesto significativo, di diagnosi, ricerca o trattamento. Pertanto esse non appaiono come isolate dalla vita ma piuttosto come riabilitate in un contesto vitale e così dotate di significato. E’ solo quando queste cose si incontrano in isolamento, separate da ogni possibile significato, e così completamente “fuori luogo”, che esse possono liberare la reazione di disgusto.
            Un altro tratto raro può essere segno di una simile origine: la pignoleria. La pignoleria mira a creare un mondo frammentato. Ogni cosa ha solamente un posto; ogni azione può essere compiuta solo in un modo; per ogni ora esiste una ed una sola attività. Così ci sono elementi ognuno dei quali ha solo un significato, sta solo all’interno di relazioni molto precise e formalmente definite e perde il contatto con il resto di ciò che c’è. La pignoleria può anche esser vista come una modalità di difesa attraverso cui viene preclusa l’invasione del mondo attraverso l’inaspettato. L’inaspettato, tuttavia, rivela inevitabilmente relazioni finora ignorate, ed in un mondo che è frammentato tali nuove relazioni non deve essere loro permesso di emergere.
            Sebbene questo profilo impreciso necessiti di essere completato, devo passare oltre, al terzo ed ultimo gruppo dei mondi anormali.

III. Denomino questo tipo di mondi come pervertito perché la principale caratteristica è un profondo cambiamento nell’ordine dei valori. Ciò che costituisce una perversione è, certamente, il fatto che un valore raggiunge un’importanza fondamentale che non le è dovuta, o è un disvalore, o occupa un posto in basso nell’ordine assiologico.

a. Il mondo del melanconico è uno di questo tipo. E’ ciò che vorrei definire un mondo vuoto. E’ vuoto perché sono scomparsi da esso tutti i valori positivi. Prevale completamente un aspetto negativo. Il mondo, includendo il soggetto stesso, è svuotato di tutta la bontà. Tutto ciò che c’è, che c’era o che ci sarà è essenzialmente male.
            Credo che le tendenze suicide nella melanconia possano comprendersi in opposizione a questo background. L’esistenza, dice un vecchio principio di filosofia, è essenzialmente positiva, oppure bontà ed esistenza sono termini convertibili. Ciò che danneggia tutta la bontà è, in realtà, il non esistere più. Diventare nulla. Andare verso un’esistenza in un modo che è fondamentalmente quello della non-esistenza, risulta un paradosso intollerabile. E’ di comune osservazione che il pericolo del suicidio è enorme non quando lo stato depressivo è al suo culmine, ma quando si sta sviluppando o, ancor di più, quando sta iniziando a diminuire. L’inibizione prolungata di tutte le attività impedisce che tali idee diventino determinanti nel comportamento effettivo. Una certa quantità di energia vitale è richiesta, sembra, per autoritrarsi, ossia, le conseguenze dell’esperienza di essere totalmente deprivato di ogni bontà.
            Quando tutta la bontà è scomparsa dal mondo, si annulla anche ogni differenziazione. Il mondo diventa uniformemente male; non nel senso che fallisce la proporzione verso qualche ideale – nel senso in cui un moralista può condannare il mondo – ma perché tutto è ridotto al livello più basso dell’essere; o, per quanto possa suonare paradossale, al livello del non-essere. L’azione diviene impossibile dal momento che agire significa prevedere uno stato di cose che si presume sia migliore di quello esistente al momento. Quando una tale visione è preclusa, l’azione non può aver luogo. In questa spiegazione può trovarsi, dunque, una ragione per la completa inerzia di molti melanconici.
            A questo mondo che è divenuto vuoto e spogliato di ogni bellezza corrisponde una esistenza ugualmente vuota e senza valore. Ma esistenza ed assenza di ogni valore si escludono a vicenda. Esistere significa essere dotato di valore. La modalità di esistere nella melanconia, per questo motivo, è totalmente in autentica. Viene in mente la nozione di disperazione di Kierkegaard, cioè la mancanza di volontà – essere senza che il soggetto sia consapevole di essere – ad accettare la propria situazione, come individuo in quanto rappresentante della natura umana. C’è spesso un accento deciso di aggressività, come se l’individuo si risentisse di dover essere umano, e fosse desideroso di vendicarsi sul mondo.
            Il fatto di una guarigione spontanea da una fase di dissennatezza maniacodepressiva può esser vista come indicativa di questa inautenticità; per questo motivo diviene evidente la persistenza di una esistenza negata in modo apparente e la bontà di questa esistenza. Diversamente, il ritorno alla normalità sarebbe piuttosto incomprensibile.
            Sarà compito di un futuro sviluppo dell’approccio esistenziale il provvedere ad una descrizione maggiormente dettagliata della modalità di esistenza che si trova nei melanconici. Una precisa comparazione tra gli stati depressivi di origine differente può essere una strada. Per il momento, tuttavia, non sembra che si possa andare molto al di là di un profilo molto generale dei tratti principali del mondo vuoto e della correlata esistenza “svuotata”.

b. Al mondo vuoto di applica il nome di “pervertito” in un senso in qualche modo ristretto, dal momento che la perversione implica la sostituzione di un ordine o di valori “normali” con degli altri che non sono commensurati con la comune condizione umana; premesso che il vuoto di cui si è parlato equivale alla eliminazione di tutti i valori positivi. Ci sono due forme di mondi anormali che in modo particolare meritano di essere etichettati come pervertiti perché in queste forme ad alcuni valori è dato il primato su tutti gli altri in contraddizione con le condizioni di una esistenza normale, autentica e feconda.
            Il primo dei due mondi pervertiti è il mondo egocentrico del nevrotico. L’egocentrismo nevrotico differisce dal “normale” egoismo, anche da quella forma ingenua in cui l’egoista è inconsapevole del suo modo di comportarsi. La differenza, del resto, non è facile da comprendere o da descrivere a parole. Molti nevrotici protesteranno per il fatto di esser stati definiti egocentrici; essi pretendono di essere proprio l’opposto. L’egoista ammette che si preoccupa solo del vantaggio personale e giustificherà questo comportamento come naturale (fino al momento in cui non gli convenga, in una situazione particolare, assumere il ruolo dell’altruista). Le parole dell’egoista suonano come vere, quelle del nevrotico come false. L’esistenza del primo è vicina all’autenticità, mentre quella del secondo è piuttosto il prototipo di un certo tipo di inautenticità; un’esistenza inautentica non sempre consiste nel conformarsi al modello del gruppo, nel pensare, agire, parlare come “si fa”. Esiste anche una inautenticità che implica l’aspirazione ad “essere differenti” senza, tuttavia, che la persona divenga veramente se stessa. Se i piani dell’egoista non si realizzano, lui ha fallito. Se il nevrotico non può vedere le sue esigenze appagate, egli subisce una delusione.
            L’esistenza inautentica che si basa sul conformismo, sul perdere l’individualità per diventare come tutti gli altri, non è del tutto aliena al nevrotico. Egli, inoltre, tenterà di conformarsi; qualche volta in un modo veramente versatile così da essere un altro in diverse situazioni. In molti casi, tuttavia, il suo conformismo cesserà. Sarà coinvolto in conflitti o si sentirà non sufficientemente apprezzato, incompreso, o diventerà risentito e smetterà – per usare questa espressione alla moda – di essere un “buon mix”, perché la sua modalità di esistenza inautentica è fondamentalmente un’altra. Mentre il conformista “cade” al livello della media (Verfallenheit an das Man è l’illuminante espressione di Heidegger), l’aspirazione del nevrotico è di alzarsi, se si può dire così, al di sopra di sé. Battendosi per un posto nell’ordine della realtà di cui non ha diritto, ed essendo in qualche modo consapevole di ciò, il nevrotico si sente colpevole e diventa una preda dell’ansia.
            Deve essere sottolineato che questa è semplicemente una descrizione. Non è stato detto nulla sull’origine di questa forma di esistenza. La spiegazione genetica e la comprensione esistenziale sono due approcci differenti, nessuno dei quali può essere abbandonato; ma neppure possono essere confusi l’un l’altro.
            La personalità nevrotica è stata spesso definita come immatura o giovanile, specialmente nei confronti delle risposte emotive. Per quanto questa descrizione sia giusta essa indica un tratto strettamente collegato all’egocentrismo. La maturità comporta che una persona sia in grado di subordinare le sue inclinazioni alle richieste della realtà, e questo a sua volta significa che queste richieste appaiano come una cornice di riferimento con la stessa dignità, almeno, di quella dei desideri soggettivi immediati. Per la mente normale e matura i valori appaiono come ordinati in due dimensioni, la prima che può essere chiamata quella della “vicinanza” all’io, mentre la seconda permette che i valori appaiano come combinati in accordo con qualche principio “trans-soggettivo”. Essere-in-un-mondo richiede che si prenda piena consapevolezza del mondo come presenza, indipendentemente dalle preferenze soggettive. Se prevale solo la dimensione ego-centrata, il mondo diviene necessariamente un mondo pervertito.
            Poiché è centrato su di sé, il mondo del nevrotico è essenzialmente un mondo senza amore. E’ anche un mondo in cui le relazioni umane non si possono ampliare veramente. Il nevrotico avanza delle pretese sui suoi amici, ma è incapace di comprendere sinceramente le richieste della società. Il suo non è un vero “stare-con” gli altri, poiché essi sono degradati, per così dire, a strumenti per un fine egocentrico. Gli esseri umani e le cose giacciono più o meno allo stesso livello; essi sono più o meno strumenti utilizzabili. I sentimenti come l’ammirazione, la dedizione, e la devozione, per una persona o per una causa, sono praticamente assenti dal mondo del nevrotico. (Forse, è perché Freud giunse a conoscere la natura umana primariamente attraverso lo studio delle personalità nevrotiche che coniò il temine “oggetto sessuale” per descrivere una persona amata).
            Il nevrotico è incapace di “dare se stesso”, di abbandonare il suo proprio essere anche per un momento. Di conseguenza, è deprivato dell’esperienza dell’ “appagamento” che giunge dalla comunione con un altro in prima battuta, ma anche dall’incessante dedizione a qualcosa che appartiene alla regione del non-io.
            Mi permetto di menzionare, in questo contesto, che ho parlato della natura della nevrosi, trent’anni fa, come fondata ultimamente su di un “problema metafisico” (oggi si potrebbe dire “esistenziale”, ma questa terminologia allora non era ancora in uso). Questo problema nasce dalla consapevolezza – si può chiamarla, se così si preferisce, una consapevolezza inconscia – dell’essenziale finitezza dell’uomo e dalla riluttanza da parte dell’individuo ad accettare la condizione umana. E’ concepibile che il fatto della finitezza divenga tollerabile, almeno per la persona comune, solo quando vive in una “unione” reale con gli altri, quando esiste autenticamente e, quindi, nel modo dello “stare con”.

c. Sebbene non mi piaccia coniare nuovi termini, sono costretto a farlo nel caso del terzo “mondo pervertito” poiché non sono stato in grado di trovare un nome appropriato. Chiamo questo mondo, che è quello della dipendenza – prendendo questo nome in senso largo –, il mondo pothocentrico. Pothos significa desiderio, voglia; e questo mondo è, difatti, caratterizzato dal fatto di essere focalizzato attorno ad un desiderio dominante, il cui appagamento è la condizione indispensabile, così come la intende l’individuo, per la sua esistenza. (Forse, “monopothico” sarebbe stato un nome ancor più appropriato; ma suona piuttosto goffo).
            Questa descrizione si applica, ovviamente, primariamente alla dipendenza da droga e all’alcolismo cronico. Sembra adatta, però, anche per il giocatore d’azzardo compulsivo, alcune forme di mangiatori voraci; per certi aspetti l’uomo la cui vita è dominata da eccessiva vanità, dal bisogno di riconoscimento sociale (colui che ricerca lo “status” nel suo stadio più estremo); l’avaro; e chi è posseduto dall’avidità per il potere. Eventualmente anche alcuni di quelli che nel linguaggio popolare sono chiamati “maniaci sessuali”.
            Che questo mondo sia focalizzato attorno ad un desiderio dominante e che, di conseguenza, ciò che è desiderato appaia come il valore più elevato, non preclude che altri valori siano accettati – a patto che il principale sia realizzato. Ma fin tanto che questa condizione non viene adempiuta, il mondo è vuoto e luogo di tormento. La sofferenza causata dalla mancanza di adempimento è, certamente, potenziata nel caso della dipendenza da droga, anche da alcool, attraverso gli effetti fisici dell’assuefazione. Ma qualche volta, perlomeno, non soffre un dolore minore l’avaro che è stato derubato del suo tesoro, l’uomo avido di riconoscimento che per qualche ragione perde l’ambita stima da parte dei suoi seguaci, il potenziale tiranno i cui piani vengono contrastati. E’ noto che alcuni uomini hanno commesso il suicidio in tali circostanze. Una vita che non apporta la soddisfazione del desiderio dominante non è una vita degna. (Le espressioni “morte sociale” o che un uomo sia “morto per la sua famiglia” ed altre dello stesso tipo possono essere considerate come indicative di tale attitudine).
            Se il tempo lo permette, vorrei descrivere alcuni sottotipi del mondo pothocentrico. Per esempio, è differente se il desiderio dominante può essere soddisfatto per un certo periodo e così permettere alla persona di ritornare ad una autentica forma di esistenza, come avviene nella dipendenza da droga, o se questo desiderio è insaziabile e prevale in tutte le fasi della vita di un uomo, come nel caso dell’avaro.
            E’ ovvio che l’esistenza corrispondente al mondo pothocentrico è di profondissima inautenticità. E’ anche più lontana dall’esistenza autentica di quanto lo sia quella del nevrotico. Quest’ultimo è coinvolto, se in una modalità pervertita, con la totalità del suo essere. E’ lui, come persona, che ricerca l’accettazione, anela il potere, domanda amore, e così via. Nel mondo pothocentrico, nondimeno, la personalità finisce per stare in primo piano. L’esistenza, quindi, consiste, ad esempio, nella ricerca della soddisfazione di un solo ed unico desiderio. Il mondo è visto esclusivamente come una serie di situazioni che concedono o negano la soddisfazione. E’ una descrizione corretta se un drogato dice che quando è posseduto, a causa del bisogno di droga, dal desiderio di soddisfacimento lui “non è altro che il desiderio”.
            Si potrebbe anche trovare qualche criterio con cui distinguere l’esistenza nel mondo pothocentrico da quella di un uomo “posseduto”, in una modalità monoideistica, da un certo sentimento prevalente. Questa può essere una causa del perché creda di essere di fondamentale importanza, una persona che ama (o odia) appassionatamente, e altre attitudini che possono essere comprese sommariamente sotto l’etichetta di “senso della missione”. Infatti, è spesso difficile appurare, in un caso concreto, se si abbia a che fare con un entusiasmo ed un “impegno” genuino oppure con qualcosa congiunto ad una deformazione psicopatica della personalità. Un criterio può essere identificato, forse, nella misura in cui una tale persona rimane consapevole dei suoi doveri umani. Una persona che trascura questi doveri e non esita a sacrificare non solo se stesso ma anche altri per la sua ossessione, può difficilmente essere ritenuto normale o che conduce un’esistenza autentica.
            Sollevare tali questioni non riguarda più il fine di queste conferenze. Che non si possa evitare di porle, sia detto di passaggio, è indicativo del legame della psichiatria non solo con i problemi sociali ma anche con quelli morali.

Nessun commento:

Posta un commento