Rudolf Allers |
Con l'articolo La vis cogitativa e la valutazione - pubblicato originalmente su The News Scholasticism 15 (1941) pag. 195 - 221 - iniziamo un percorso nuovo che si svilupperà in tre tappe. L'antropologia tomista, ossia l'identificazione delle caratteristiche fondamentali dell'uomo sviluppatasi a partire dalla filosofia di san Tommaso d'Aquino (1225 - 1274), descrive l'uomo come un composto di anima e corpo: il sinolo. Il composto è unitario, ma l'anima è unita al corpo in modo diverso prima e dopo la vita terrena, durante la quale l'anima è informata dal corpo o, per dirla con san Tommaso stesso, l'anima è forma del corpo. Dunque è l'anima che "dà vita" alla materia del corpo; appunto la "anima", fornendole delle qualità, ossia delle facoltà o potenze (vis). San Tommaso riprende la tripartizione di aristotele, secondo cui l'anima può essere, vegetativa, sensitiva e intellettiva. Quest'ultima è propria solo dell'uomo (Platone identifica l'essenza dell'uomo con la sua anima, l'uomo è anima - verbo essere), mentre gli animali dispongono (ossia hanno - verbo avere) di un'anima sensitiva; le piante di un'anima vegetativa. Le forme più alte includono quelle inferiori: l'anima intellettiva possiede le facoltà proprie dell'anima sensitiva e vegetativa. L'analisi tomista distingue le facoltà in conoscitive ed appetitive. Le prime permettono la conoscenza di un oggetto. La particolarità di un oggetto, ad esempio il 'gatto del vicino di casa', viene appresa dai sensi, i quali colgono la forma dei peli, il colore, la consistenza, ossia le caratteristiche materiali di quel gatto particolare. La conoscenza del particolare appartiene all'anima sensitiva. Così come appartiene all'anima sensitiva la facoltà dell'Immaginazione, che permette di apprendere che è interamente 'il gatto del vicino' anche se è possibile vederne solo il muso, che spunta da dietro la porta. Il gatto del vicino, poi, lo si era già visto altre volte. Questo è il motivo per cui lo si riconosce con facilità, grazie alla facoltà della Memoria, anch'essa propria dell'anima sensitiva. C'è, però, un aspetto del 'gatto del vicino' che è insito nel discorso stesso che si sta svolgendo.
Come si giunge a pensare che il 'gatto del vicino' è un gatto, e non magari un cane, una sedia, o qualcosa di ignoto? Si può giudicare 'il gatto del vicino' come gatto perché se ne coglie l'essenza, ossia il suo esser gatto e non altro. Un principio organizzativo, una forma, che l'intelligenza percepisce grazie al processo di astrazione: dal particolare, il gatto del vicino, si astrae l'universale: la gattità. La conoscenza degli universali - Platone le chiamava le Idee - è propria dell'anima intellettiva. Molti psicologi contemporanei corrono il rischio di confondere i termini ed i costrutti della psicologia moderna con quelli della filosofia tomista. Quando si parla di "mente" e di "processi cognitivi" ci si dimentica quasi sempre che la percezione e l'intelligenza possono distinguere i due piani diversificati dell'esistenza: quello materiale, a cui appartengono i particolari, e quello spirituale, a cui, invece, appartengono gli Universali. Dunque si crea una grande confusione, perché un processo cognitivo difficilmente riesce a spiegare l'astrazione dell'universale, semmai può spiegare l'induzione o altri processi. Ma non è questa la sede per le polemiche. Si sollevano allora due domande: 1. come l'intelletto coglie l'universale? 2. Come può intendersi nella concezione tomista l'idea contemporanea di mente - o, inversamente, l'antropologia tomista ha qualcosa da dire sulla mente così come la intende la psicologia contemporanea? Entrambe le questioni trovano risposta nella Vis Cogitativa. Essa è una facoltà dell'anima sensitiva che svolge la finalità di percepire il valore di un oggetto. Percepire il valore vuol dire giudicare, o meglio stimare un oggetto, e questo è il perché negli animali tale facoltà è chiamata estimativa. Allers dice che la vis cogitativa è stata intesa da molti autori come corrispondente all'istinto. Percepire un valore, infatti, comporta un'attrazione (o un rifiuto) per il valore stesso: la parte conoscitiva dell'anima è strettamente collegata alla parte appetitiva o desiderativa, che permette il raggiungimento del fine, l'utilità.
Da quanto esposto sin ora vorrei che si percepissero due conseguenze: 1. la Vis Cogitativa è d'estremo interesse per la psicologia, in particolare la psicologia clinica che ha a che fare con le emozioni, gli istinti, i giudizi di ragione e le scelte della volontà. Approfondendo questa facoltà è possibile interrogarsi sulle scelte e sui valori - anche latenti - insisti nei comportamenti. 2. Lo studio di questa facoltà rappresenta un ottimo esempio della possibilità insite nell'incontro tra antropologia tomista e psicologia contemporanea. Per troppo tempo la psicologia ha allontanato la filosofia dal suo campo d'indagine: ufficialmente a causa di una visione scientista del sapere; fondamentalmente per un pregiudizio ideologico contro il cristianesimo e tutte le sue espressioni culturali. Si è trovata così incapace di comprendere pienamente l'uomo, la realtà, la vita. Oggi è giunto il momento per chiudere questa frattura, seguendo le orme di Rudolf Allers.
Come si giunge a pensare che il 'gatto del vicino' è un gatto, e non magari un cane, una sedia, o qualcosa di ignoto? Si può giudicare 'il gatto del vicino' come gatto perché se ne coglie l'essenza, ossia il suo esser gatto e non altro. Un principio organizzativo, una forma, che l'intelligenza percepisce grazie al processo di astrazione: dal particolare, il gatto del vicino, si astrae l'universale: la gattità. La conoscenza degli universali - Platone le chiamava le Idee - è propria dell'anima intellettiva. Molti psicologi contemporanei corrono il rischio di confondere i termini ed i costrutti della psicologia moderna con quelli della filosofia tomista. Quando si parla di "mente" e di "processi cognitivi" ci si dimentica quasi sempre che la percezione e l'intelligenza possono distinguere i due piani diversificati dell'esistenza: quello materiale, a cui appartengono i particolari, e quello spirituale, a cui, invece, appartengono gli Universali. Dunque si crea una grande confusione, perché un processo cognitivo difficilmente riesce a spiegare l'astrazione dell'universale, semmai può spiegare l'induzione o altri processi. Ma non è questa la sede per le polemiche. Si sollevano allora due domande: 1. come l'intelletto coglie l'universale? 2. Come può intendersi nella concezione tomista l'idea contemporanea di mente - o, inversamente, l'antropologia tomista ha qualcosa da dire sulla mente così come la intende la psicologia contemporanea? Entrambe le questioni trovano risposta nella Vis Cogitativa. Essa è una facoltà dell'anima sensitiva che svolge la finalità di percepire il valore di un oggetto. Percepire il valore vuol dire giudicare, o meglio stimare un oggetto, e questo è il perché negli animali tale facoltà è chiamata estimativa. Allers dice che la vis cogitativa è stata intesa da molti autori come corrispondente all'istinto. Percepire un valore, infatti, comporta un'attrazione (o un rifiuto) per il valore stesso: la parte conoscitiva dell'anima è strettamente collegata alla parte appetitiva o desiderativa, che permette il raggiungimento del fine, l'utilità.
Da quanto esposto sin ora vorrei che si percepissero due conseguenze: 1. la Vis Cogitativa è d'estremo interesse per la psicologia, in particolare la psicologia clinica che ha a che fare con le emozioni, gli istinti, i giudizi di ragione e le scelte della volontà. Approfondendo questa facoltà è possibile interrogarsi sulle scelte e sui valori - anche latenti - insisti nei comportamenti. 2. Lo studio di questa facoltà rappresenta un ottimo esempio della possibilità insite nell'incontro tra antropologia tomista e psicologia contemporanea. Per troppo tempo la psicologia ha allontanato la filosofia dal suo campo d'indagine: ufficialmente a causa di una visione scientista del sapere; fondamentalmente per un pregiudizio ideologico contro il cristianesimo e tutte le sue espressioni culturali. Si è trovata così incapace di comprendere pienamente l'uomo, la realtà, la vita. Oggi è giunto il momento per chiudere questa frattura, seguendo le orme di Rudolf Allers.
La vis cogitativa e la valutazione
Molte
incomprensioni tra la psicologia moderna, sperimentale, e la psicologia
Scolastica, introspettiva, sorgono dal fatto che entrambe parlano linguaggi
differenti e che l’una non conosce il significato dei termini utilizzati
dall’altra. Per illustrare questo stato dei fatti, è sufficiente ricordare i
significati dei termini “immaginazione” e “memoria” in S. Tommaso e nella
psicologia sperimentale. Se entrambe le parti volessero impegnarsi per chiarire
i significati che hanno in testa, senza dubbio potrebbero giungere ad un
accordo. Qualche volta, il disaccordo non è sui termini ma sull’interpretazione
di certi fatti. La teoria della percezione o le idee sulla Gestalt non solo
ammettono, ma anche rendono necessario il sensus
commis; anche la patologia punta nella stessa direzione.[1]
Ho tentato di mostrare che la controversia sul “pensiero senza immagine” sia dovuta
principalmente a questa mutua incomprensione, gli sperimentalisti non
conoscendo a cosa gli psicologi Scolastici si riferiscono quando parlano
dell’indispensabilità del fantasma nella formazione e nell’utilizzo della
nozione astratta, e gli Scolastici essendo ignoranti dei fatti scoperti dalla
psicologia sperimentale.[2]
Tra le facoltà sensitive elencate
dalla psicologia Tomista ce n’è una che alla psicologia sperimentale,
probabilmente, appare come una mera costruzione: la vis aestimativa o cogitativa.
La psicologia empirica non sa che farsene di questa facoltà di cui
apparentemente non abbisogna e, inoltre, che considera come un costrutto non
necessario ed infondato. Cioè, gli psicologi avrebbero questa opinione, se
sapessero di questa facoltà. Ma non sanno nulla di essa, poiché per loro alcuni
problemi che possono richiedere l’introduzione di questa facoltà non sorgono all’interno
della cornice categoriale su cui si basano le psicologie contemporanee.
Uno studio più approfondito di
alcuni dati empirici raccolti dagli sperimentalisti, da una parte, e un’analisi
del vero significato della concezione Scolastica, dall’altra, può servire a
provare che (a) la nozione della vis
cogitativa è ben fondata, (b) non del tutto contraria alle scoperte della
psicologia, e (c) anche di una tipologia che può essere proficuamente usata
nella psicologia empirica.
Questo articolo si focalizza nello
studio di un solo aspetto del problema, cioè la relazione tra la vis cogitativa ed i fatti conosciuti riguardo
la consapevolezza dei valori. Questa questione sembra essere particolarmente
adatta per dimostrare l’utilità della nozione Scolastica che la psicologia può
utilizzare ed anche per chiarificare uno dei molti punti ancora problematici
nella teoria di questo senso interno.
Le relazioni della vis cogitativa con gli altri sensi
interni e la questione se, quanto, ed in quale modo la vis cogitativa co-operi nella formazione del fantasma su cui
l’intelletto attivo può operare, vengono messe da parte. E neppure sarà
considerato il problema se “l’immagine generale” sia un risultato della sola
immaginazione o se essa sia dovuta, come suggerisce la sua natura
quasi-concettuale, all’influenza della vis
cogitativa.
A causa di queste limitazioni del
problema sembra permesso poter ignorare le importanti ed interessanti
spiegazioni date dal Cajetanus e dal Ferrariensis. Le discussioni di questi
autori hanno a che fare soprattutto con la relazione tra le facoltà sensoriali
e l’intelletto; essi si focalizzano sul problema della formazione e dello
sviluppo del fantasma ed il suo ruolo nel disimpegno della natura universale
dall’immagine particolare.
I
Negli animali
esiste, leggiamo in San Tommaso, una capacità di apprendere alcuni dati che non
provengono immediatamente e come tali dai sensi esterni. L’esempio classico a
cui l’Aquinate ripetutamente si riferisce è quello della pecora che è
consapevole della pericolosità del lupo. Cosa essi percepiscano è semplicemente
una pecora, una grandezza, un colore, il suono dell’ululato. La pericolosità
non è qualcosa che appare immediatamente con queste caratteristiche. E neppure
la consapevolezza dei fattori ambientali favorevoli o sfavorevoli viene
acquisita tramite l’esperienza; vediamo che anche il cucciolo di animale si
comporta in modo adatto. Non c’è alcuna capacità razionale negli animali; essi
non possono concludere in alcun modo dai dati-sensoriali che quello che
apprendono è segnale di pericolo. Bisogna supporre, quindi, che le bestie siano
dotate di una particolare facoltà che permette loro di diventare consapevoli delle
situazioni ambientali favorevoli e sfavorevoli. A questa facoltà è dato il nome
di vis aestimativa.
Autori moderni spesso traducono
questo termine con “istinto”. Ma istinto così come è utilizzato dagli psicologi
contemporanei indica più di una facoltà cognitiva. Con istinto biologi e
psicologi si riferiscono a funzioni complesse che determinano alcuni tipi di
comportamento. L’istinto non è solo ciò che definisce tale meccanismo, ma anche
la potenza dietro l’azione “istintiva”. La vis
aestimativa di conseguenza, corrisponde solo alla parte cognitiva o, per
parlare il linguaggio della fisiologia, alla parte afferente di tutto il
meccanismo istintivo. Nella terminologia di San Tommaso instinctus indica, infatti, ciò che rilascia l’attività degli
appetiti sensitivi. Ma è piuttosto fuorviante vedere nei testi moderni che
questo termine viene utilizzato in un senso non più generalmente accettato.
La vis aestimativa è considerata da San Tommaso come la più alta
facoltà esistente nell’organismo animale; si avvicina alla ragione (attingit rationem).[3]
Nell’uomo le sue azioni divengono ancora più grandi e più simili a quelle della
ragione, e perciò la sua potenza è chiamata vis
cogitativa o ratio particularis.
La “vicinanza” con le facoltà razionali e, parlando genericamente, il suo
essere radicata in un’anima razionale “nobilita” questa potenza e la eleva al
di sopra del livello che raggiunge nelle bestie. Questo, tuttavia, deve esser
vero anche per le altre facoltà sensoriali, sebbene la differenza tra le
facoltà umane e quelle animali possa non essere così manifesta come nel caso
della vis cogitativa. La “nobiltà”
delle facoltà sensoriali – ed anche, forse, delle vegetative – è basata, primo,
sulla razionalità dell’anima a cui tutte queste facoltà appartengono, e
secondariamente sulla diretta e dirigente refluentia
o influenza dell’intelletto e della volontà sulle attività dei sensi. La
volontà razionale fa uso degli appetiti per la realizzazione del suo obiettivo,
il bene universale, nelle circostanze particolari. L’intelletto gioca un ruolo
determinante nella percezione-sensoriale, dal momento che il semplice
riconoscimento di un oggetto percepito come di questo o quell’altro tipo
implica la consapevolezza di un universale. I fatti ben noti che illustrano
l’influenza della conoscenza e dell’interpretazione intellettuale nella
percezione-sensoriale, alcuni dati sperimentali, che tuttavia non possono
essere qui riportati, ed altri esempi provano anche che l’influenza delle
facoltà razionali si addentra profondamente in processi che, a prima vista,
paiono essere puramente fisiologici.[4]
È pertanto vero che si possono distinguere due forme di attività della vis cogitativa, una dopo, ed una prima
che l’intelletto si sia messo in moto.[5]
La nostra conoscenza delle
operazioni mentali negli animali è solo di tipo indiretto. Dal comportamento dell’animale
concludiamo l’esistenza e la modalità di funzionamento di alcune facoltà che
scopriamo in noi stessi. Anche la nozione di “comportamento” è originariamente
sviluppata dall’auto-esperienza. La conoscenza diretta che abbiamo della nostra
mente e del suo funzionamento rimane, inevitabilmente, il punto di partenza e
la base anche della psicologia più “oggettiva”, anche del comportamentismo. Non
appena la psicologia vuole essere più che una semplice descrizione delle
reazioni alle situazioni ambientali prestabilite, essa deve fare riferimento
all’auto-esperienza. Se vogliamo produrre delle considerazioni sui
funzionamenti mentali che sottostanno al “comportamento”, è l’introspezione che
fornisce gli indizi. Se questo deve essere chiamato antropomorfismo, allora la
psicologia è condannata per sempre ad essere antropomorfa. In queste
circostanze, è preferibile limitare le discussioni psicologiche alle evidenze
che provengono dallo studio della mente umana, e mettere a lato la psicologia
animale. Le pagine seguenti trattano, di conseguenza, solo della vis cogitativa come una facoltà
dell’anima razionale.
Per comprendere la natura della vis cogitativa, bisogna chiarire, prima,
quale siano i suoi oggetti propri, secondariamente, quale siano le sue
relazioni con le altre facoltà, sensitive e razionali.
L’oggetto di questa potenza è il
bene o fine particolare;[6]
riguardo le commoditates et utilitates
sive nocumenta;[7] le
intentiones quae per sensum non
accipiuntur.[8]
Affermazioni come quest’ultima conducono gli autori posteriori a parlare degli
oggetti della vis cogitativa come insensata o ‘intentiones insensataÈ.[9]
Le “utilità”, ecc., apprese dalla vis cogitativa non sono, però, oggetti
dello stesso tipo come i dati dei sensi esterni. È una utilità per noi (o per
un organismo che l’apprenda), anche una relazione. Poiché questo senso interno è
definito collativa intentiortnum
particularium[10]
e, perché il combinare ed il dividere è una capacità caratteristica soprattutto
dell’intelletto, è detto anche ratio
particolaris.[11]
La giusta valutazione di un fine particolare può anche chiamarsi intellectus “in quanto ha per oggetto un
principio, e senso in quanto ha per oggetto un particolare. E questo è quello
che il Filosofo dice nell'Etica VI. E. 11: i particolari sono necessariamente
compresi dal senso; tuttavia questo è nell'intelletto. Parole queste che non si
riferiscono al senso particolare con il quale conosciamo i sensibili propri; ma
al senso interno col quale giudichiamo i particolari”.[12]
Così, sembra che gli oggetti propri della vis
cogitativa siano solo alcuni beni particolari, o alcuni valori attualmente
esistenti in certe cose, collegate alle nozioni di convenienza, utilità,
pericolosità, e simili. È però difficile restringere l’operazione di questa
potenza sensitiva solo ai valori del tipo menzionato poc’anzi. La volontà
razionale non può considerare ogni oggetto particolare senza qualche funzione
intermediaria che dà forma, così, al legame tra la facoltà immateriale ed il
materiale particolare in cui il valore risiede, come attuato e desiderabile o
come da attuare attraverso l’azione dell’uomo. Ora, ci sono molti valori che
non appartengono alle classi dell’utilità, della convenienza, del danno, o del
pericolo. Anche questi valori devono essere avvicinati alla volontà da qualche
intermediario, che naturalmente non può essere nient’altro che la vis cogitativa. Perciò dovremmo
concludere che anche altre tipologie di valore vengono appresi da questo senso
interno. È necessario attribuire alla vis
cogitativa tale capacità, dal momento che la nozione universale dei valori
– ad es., di valori morali – non può essere immaginata mentre si rivela, a meno
che non ci sia un qualche altro senso che fornisca il substrato da cui la
nozione generale può essere presa.
San Tommaso, quando spiega le
funzioni della vis cogitativa di
solito si riferisce ad una immagine presa dalla vita animale. Inoltre, parla
solo della convenienia o nocumentum che viene conosciuta dalle
impressioni-sensoriali e che si origina da un oggetto presente. Tuttavia è
chiaro che i fantasmi o le immagini devono anche essere in grado di funzionare
come una fonte per questo senso interno. Nel decidere su di un’azione futura,
deliberando sulla sua bontà, e contemplando diversi possibili scopi, non
abbiamo a che fare con oggetti attualmente presenti. Contempliamo diverse
possibilità di come la situazione attuale possa essere cambiata dalle nostre
azioni future. Le varie situazioni, eventualmente causate dal nostro agire,
sono previste nell’immaginazione, fondate sulla situazione effettivamente
compresa e sull’esperienza precedente. Queste immagini non sono “copie”, ma
“costruzioni”. Però in esse distinguiamo gradi e differenze di bontà, la cui
rappresentazione appartiene alla vis
cogitativa, dal momento che questi valori sono incorporati nelle immagini
che si riferiscono a situazioni particolari.
Quindi sembra corretto definire
l’oggetto proprio, in questo caso, della vis
cogitativa come un qualsiasi valore, in quanto è realizzato in una cosa
particolare o in una situazione particolare ed appreso come tale.
In ogni organismo le cose sono
organizzate in modo che le funzioni più in basso servano quelle più in alto, e
le più alte servano la totalità. I sensi servono la ragione, e la volontà fa
uso degli appetiti sensoriali così come delle facoltà vegetative e locomotorie,
così che l’uomo possa raggiungere i suoi veri fini. Fino a poco tempo fa, tale
visione appariva alquanto insolita per la mentalità dei biologi e degli
psicologi. Ma al giorno d’oggi molti tra loro sono ritornati a concezioni che,
sebbene difficilmente formulate con gli stessi termini, sono vere ma
leggermente differenti dalla nozione di organismo come gerarchia di funzioni
governata da un principio intrinseco. Il nome attribuito a questo principio è
diverso per ogni scuola e quasi per ogni studioso. Lo chiamano Entelechia, o un
principio di Gestalt, o parlano
piuttosto oscuramente della totalità di una struttura organica o di un
organismo; ma si riferiscono a ciò che è noto da epoche come la forma substantialis.
Non importa quale termine venga
utilizzato. La cosa principale è che anche la biologia e la psicologia possono favorire
il riconoscimento che c’è un principio unificante nell’organismo, che ci sono
funzioni più alte e più basse, performance maggiori e minori, e, che ogni
indebolimento dei primi riduce le azioni totali dell’organismo ad un livello
simile a quello posseduto dagli organismi meno perfetti.
L’idea che le funzioni superiori in
un organismo, o che gli organismi superiori nella totalità degli esseri
viventi, siano “nulla più” che le manifestazioni complesse delle funzioni e
degli esseri più semplici ed elementari che osserviamo, deve essere
abbandonata, e deve essere abbandonata anche dagli esperti. Perciò non è più
necessario difendere e giustificare fino alla fine una concezione che sostiene
che le funzioni inferiori esistano nell’interesse di quelle superiori. I sensi
esistono per le facoltà razionali, e non queste ultime nell’interesse dei
primi. Questo si applica ai sensi interni ed agli appetiti sensoriali proprio
come per i sensi esterni e le facoltà vegetative o locomotorie.
La gerarchia delle facoltà, però,
non deve essere concepita come se le singole facoltà possedessero una reale
indipendenza o operassero senza riguardo della totalità in cui si situano. San
Tommaso è attento ad ammonire che non è la facoltà che opera, ma la persona
umana opera attraverso le facoltà. Da quando i fini ultimi dell’uomo vengono
concepiti nel suo intelletto che li presenta alla volontà razionale, è evidente
che deve esserci una duplice relazione tra le facoltà sensitive e le razionali.
I sensi forniscono all’intelletto il materiale da cui sviluppa le nozioni
universali; ma c’è anche una influenza diretta dell’intelletto sulle operazioni
sensitive.
Come questa influenza diretta
dell’intelletto raggiunga le facoltà sensoriali non è facile a dirsi. Le
considerazioni di San Tommaso a questo tema sono succinte e senza spiegazioni
aggiuntive. Abbiamo detto che c’è una duplice modalità di azione in ogni
agente; “una in accordo con la natura propria dell’agente, ed un'altra in
accordo con la natura dell’agente superiore. L’effetto, cioè, dell’agente
superiore rimane in quello inferiore e, a causa di questo, l’agente inferiore
agisce non solo attraverso l’azione che gli è propria, ma anche per l’azione
dell’agente superiore”.[13]
Dopo aver commentato la reflexio super phantasma che consente
all’intelletto immateriale di impadronirsi, indirettamente, del particolare
materiale, San Tommaso continua: “C’è un'altra modalità (oltre alla conoscenza
del particolare) secondo cui il movimento che parte dall’anima verso le cose
inizia nella mente (mens, qui
evidentemente, come si vede dal procedere oltre, sinonimo di intelletto) e si
inoltra nella parte sensitiva, pertanto la mente governa le potenze inferiori e
così si mescola con le cose particolari attraverso la mediazione della ragione
particolare che è in una potenza particolare, anche chiamata col nome di cogitativa”.[14]
La stessa idea è espressa, anche nel
de Veritate, in modo differente. Le
potenze ricettive come quelle appetitive della parte sensitiva determinano le
operazioni dell’anima sensitiva; ma, d’altra parte, l’anima sensitiva “ha una
partecipazione modesta della ragione, la cui parte più bassa (l’anima
sensitiva) tocca con quella più alta”.[15]
Bisogna ammettere che questa frase non è senza difficoltà. È difficile vedere
come la “parte più alta” delle facoltà sensoriali, che sono essenzialmente
materiali ed hanno, come San Tommaso sottolinea ripetutamente, organi definiti
in cui esse risiedono, possa “entrare in contatto” con una facoltà immateriale.
Il termine continuatio che San
Tommaso utilizza occasionalmente in questa connessione non contribuisce molto a
chiarire il problema. Questo problema, però, riguarda non solo la relazione tra
la vis cogitativa e l’intelletto, ma
in generale le relazioni tra le facoltà sensitive e razionali. Esso deve essere
discusso su di una base più ampia. Ma si può dire che, secondo l’Aquinate, il
collegamento che connette le facoltà razionali e sensitive è solo la vis cogitativa. Così, una
chiarificazione della natura di questa potenza può servire, in qualche modo,
come studio preliminare, a preparare il terreno per una indagine più accurata.
La ratio particularis come è collegata all’intelletto, così è
collegata anche alla volontà razionale. È stato ribadito prima che ci deve
essere un intermediario tra l’oggetto particolare, in cui l’intenzione generale
della volontà verrà realizzata, e la volontà stessa, la prima essendo
immateriale e l’altra materiale. La decisione su di un’azione particolare è
descritta da San Tommaso come un sillogismo in cui il termine maggiore è una
proposizione generale ed il termine minore una particolare. La seconda è
occupata dalla ratio particularis.
Negli animali, è la potenza aestimativa che muove gli appetiti. “Al posto della
potenza aestimativa l’uomo possiede, come è stato detto in precedenza (I. q.
78. A. 4. c.) la vis cogitativa che
qualcuno chiama ratio particularis,
perché è in grado di tenere assieme le intenzioni particolari. Così è la natura
dell’appetito sensitivo umano ad essere mossa da questa potenza. È proprietà
della ratio particularis stessa essere
mossa e diretta a seconda del significato degli universali; pertanto, le
conclusioni che riguardano i particolari sono ricavate in sillogismi dalle
proposizioni universali”.[16]
Poiché le conclusioni che riguardano i particolari sono raggiunte non dall’intelletto,
ma da questa ratio, l’appetito sensitivo ubbidisce più a quest’ultima che all’intelletto
in sé.[17]
In questa considerazione è implicata
una nozione che presenta anche una difficoltà maggiore di quella menzionata
prima. È sufficientemente difficile vedere come una facoltà sensoriale possa
entrare in contatto con una immateriale, o come quest’ultima possa lasciare la
sua impronta nella prima. Ma qui, abbiamo a che fare con il risultato di una
operazione puramente intellettuale, chiamata proposizione universale, che è
presa in carico dalla vis cogitativa.
Le conclusioni circa i particolari sono ottenute dalla ratio particularis, pertanto sia il termine maggiore che il minore
devono essere presenti in questa facoltà. Ma, se è impossibile per l’intelletto
impadronirsi direttamente di un particolare, è ancora più impossibile per una
facoltà materiale includere in un’unica operazione sia la proposizione
universale operata dall’intelletto, sia quella particolare che procede
dall’attività della ragione particolare stessa.
Non solo la ragione particolare,
anche l’appetito stesso si dice
partecipe in qualche modo della natura della più alta facoltà razionale. C’è
una perfetta simmetria in questo. All’intelletto corrisponde, a livello
sensitivo, la vis cogitativa; alla
volontà razionale, l’appetito, in quanto è diretto verso un bene particolare
appreso e conosciuto.[18]
C’è anche una locuzione come voluntas
sensualitatis.[19]
C’è un’altra interpretazione che non
semplifica il problema, ma lo colloca, invece che nella facoltà sensoriale, in
quella razionale. “L’intelletto o la ragione conosce nell’universale il fine
verso cui ordina l’atto degli appetiti concupiscibili ed irascibili,
comandandoli. Questa conoscenza universale si rivolge al particolare attraverso
la vis cogitativa.[20]
Questo si legge come se la proposizione particolare, raggiunta attraverso o
nella vis cogitativa fosse in qualche
modo trasmessa all’intelletto, e come se fosse l’intelletto che tirasse la
conclusione riguardo il particolare. Sembra come se San Tommaso stesso non si
sentisse abbastanza sicuro di quale soluzione adottare. Non si sbaglia,
probabilmente, nell’assumere che l’Aquinate non abbia raggiunto una risposta
definitiva e soddisfacente alla questione della relazione e della cooperazione tra
le facoltà sensitive ed intellettive. È come se l’attingere ralionem, di cui
parla in riferimento alla vis cogitativa, fosse un termine in qualche modo
ambiguo. Nei passaggi riportati in precedenza, le affermazioni sulla vicinanza
del senso interno all’intelletto si riferiscono alla mente umana; queste due
facoltà infatti lavorano fianco a fianco e si influenzano vicendevolmente. Ma
S. Tommaso usa la stessa espressione anche in riferimento alla vis aestimativa negli animali. E qui il
fattore di somiglianza o di collegamento con l’anima non può entrare in gioco.
L’espressione che “la parte sensitiva apprende quelle intenzioni che non
rientrano nei sensi a seconda che raggiunga la ragione”[21]
può riferirsi solo alla stretta somiglianza con la natura. Questo significato,
però, non ha senso quando il riferimento è diretto alla mente umana, perché la
semplice somiglianza non spiega la cooperazione delle due facoltà.
Ci sono due modi possibili di
co-operazione. Il primo è rappresentato dalle immaginazioni che suppliscono
l’intelletto con il fantasma. L’altra consiste in una cooperazione attiva, in
cui entrambe le facoltà che cooperano tendono verso lo stesso fine. Sembra
essere di questo tipo la cooperazione tra l’intelletto e la ragione
particolare, dal momento che entrambe devono essere attive perché la mente
arrivi ad una conclusione particolare. Questo contraddice in qualche modo
l’affermazione che due potenze dell’anima, quando operano allo stesso tempo,
una necessariamente ostacoli l’altra o anche la inibisca.[22]
Che questa affermazione si accordi ai fatti è al di là di ogni dubbio; è anche
confermata da numerosi risultati sperimentali. Difficilmente si può sostenere genericamente
che ci sia solo una mutua inibizione e non anche un mutuo favoreggiamento. Le
nozioni, riportate prima, sulla cooperazione dell’intelletto e la vis cogitativa da una parte, la vis cogitativa e la volontà dall’altra,
implicano tale mutuo favoreggiamento. Anche di questo abbiamo evidenza
sperimentale; ci sono in aggiunta alcune esperienze comuni che si possono
menzionare. Ognuno sa, ad esempio, che alcune persone ragionano meglio mentre
camminano, che significa che l’attività della facoltà locomotoria ha
un’influenza positiva sulle performance dell’intelletto. O si può riferire il
fatto che le emozioni, in certe condizioni, aiutano un uomo a trovare le
soluzioni, mentre in altre condizioni esercitato un’influenza decisamente
inibitoria. Qualche volta, un uomo troverà una via di uscita da una situazione
difficile sotto la pressione della necessità, mentre non sarebbe colpito da
un’idea in assenza di disturbo emotivo. E così via.
Sembra necessario distinguere tra
operazioni che avvengono in due facoltà entrambe finalizzate allo stesso
obiettivo, ed altre che, a causa di differenti intenzioni, si ostacolano l’un
l’altra. Nel primo caso, c’è l’aiuto conferito dall’immaginazione
all’intelletto non solo nell’astrazione, ma anche quando chiarifica le nozioni
astratte attraverso le illustrazioni. O gli appetiti, invero, mettendo a
disposizione della volontà razionale la loro energia particolare.
Non è negli scopi del presente
articolo tentare una soluzione alle difficoltà evidenziate prima. Esse devono
essere menzionate per non avallare l’opinione che il sistema di S. Tommaso sia
pienamente perfetto in ogni dettaglio, e che il compito dello psicologo formato
nella filosofia Scolastica consista semplicemente nell’adattare le scoperte
della ricerca sperimentale al quadro preconfezionato della psicologia Tomista,
o per rifiutare le scoperte in quanto contrarie a questo sistema.
Una delle principali funzioni della vis cogitativa, secondo S. Tommaso, ha
senza dubbio a che fare con la conoscenza dei valori come realizzati
concretamente o possibilmente, in cose e situazioni particolari, e con
l’adattamento, così per dire, della volontà ai fini particolari. Come finalità
dell’azione umana e come oggetti di valutazione umana i valori si fondano sulla
relazione con la persona individuale che apprende questi valori o che mira a
questa o quell’altra azione. Questo, però, non implica che i valori consistano
o si fondino esclusivamente su tale relazione verso una persona umana e non
abbiano esistenza al di fuori di tale relazione. Si dirà di più dopo su questo.
Se si è nel giusto nel supporre che
S. Tommaso stesso non ha considerato il suo sistema come completo e chiuso, ci
si può allora chiedere se la descrizione che dà delle funzioni della vis
cogitativa sia esaustiva o se non ci siano altre prestazioni che possono essere
attribuite a questa potenza. Quando parla della vis cogitativa, S. Tommaso
quasi regolarmente si riferisce ai valori come oggetti. Qualche volta, però,
sembra suggerire che le funzioni di questa potenza non siano limitate solamente
verso questi oggetti. Ad esempio sostiene che “l’atto della vis cogitativa
consiste nella combinazione e divisione”[23] senza dare
alcun’altra specificazione, solo in uno dei passaggi fondamentali. La stessa
affermazione la si ritrova nei Commenti all’Etica VI[24] ed in quelli alla
Metafisica 1[25].
Meno chiaro è un altro passaggio: “La disposizione del sapiente (Ad secundum
dicendum, quod dispositio sapientis de singularibus non fit per mentem nisi
mediante vi cogitativa, cuius est intentiones particulares cognoscere, ut ex
dictis patet.) rispetto ai particolari è raggiunta dalla mente (intelletto)
solo grazie alla mediazione della vis cogitativa a cui devolve la cognizione
delle intenzioni particolari”[26]. È
probabile che il termine intentio significhi semplicemente oggetto; ma può
anche riferirsi alle finalità delle potenze appetitive.
Questi passaggi incoraggiano
un’interpretazione più ampia delle funzioni attribuite alla vis cogitativa. Questa è anche
l’opinione di C. Fabro[27]
e di G. P. Klubertanz.[28]
Quest’ultimo parla di operazione discorsiva nella vis cogitativa ed evidentemente ha in mente più che una semplice
consapevolezza di utilità o di pericolo e la formazione di un particolare
giudizio in riferimento all’azione. Questa interpretazione non è nuova; è
difesa anche da Giovanni di San Tommaso.[29]
Fabro dichiara che nel processo di partecipazione la “cogitativa ha la parte principale, ed è ultimamente radicata
nell’intelletto e non nella memoria”. Questa frase non è senza difficoltà. Come
può una facoltà sensoriale essere “radicata” nell’intelletto? Ogni facoltà,
certamente, radicaliter oritur ex anima;
ma questo non equivale. Per quanto sia implicata la loro relazione con l’anima,
tutte le facoltà vi sono radicate, come accidentia
propria. Generalmente si assume anche che le facoltà sensoriali,
specialmente i sensi esterni, si fondino nel senso comune pertanto è questo senso a cui è affidato il processo
della cognizione sensoriale, mentre i sensi esterni forniscono solamente,
invero, una materia ancora informata. (Bisogna sempre ricordare, quando si ha a
che fare con queste questioni, della nozione di “caos di sensazioni” di Kant a
cui si dà significato solo attraverso le forme dell’a-priori di Anschauung.
Questa connessione, conscia o meno, dell’estetica trascendentale di Kant con la
psicologia Aristotelica-Tomista spiega il perché ed il come questa
epistemologia possa svilupparsi in una interpretazione psicologistica con J.
Fries, con H. v. Helmholtz, recentemente con Sir Arthur Eddington). Non è così
semplice immaginare una funzione sensoriale che si radica in una facoltà razionale.
Si potrebbe essere tentati dal
pensare che la relazione tra l’anima e il corpo sia in qualche modo ripetuta o
rispecchiata anche nelle relazioni che si ottengono tra le singole facoltà. L’essenza
propter intellectivum et non e converso
dei sensi sembra corrispondere all’essenza dell’anima la causa finale del
corpo. Potrebbe essere corretto dire che l’intelletto è la causa finale dei
sensi, o che le operazioni intellettive sono la causa finale delle prestazioni
delle facoltà sensoriali. Ma questo non permette ancora di dire che queste ultime sono radicate nelle
prime.
Ogni volta che si ha anche fare con
una struttura gerarchica, è necessaria una grande cura nell’analizzare le
relazioni reciproche tra i livelli di questa gerarchia. Gli inferiori sono in
genere la condizione per l’esistenza di quelli superiori (nel mondo creato);
questi ultimi sono così fondati sui primi, e dipendono anche per il proprio
funzionamento ed esistenza su di essi. I più bassi diventano utili ai più alti,
dal momento che devono fornire loro una base di esistenza ed un substrato su
cui esercitare le loro potenze. Il livello superiore domina quello inferiore
assoggettandolo a se stesso e facendolo lavorare in una modalità conveniente
per le prestazioni superiori. Queste relazioni sono spesso trascurate e
confuse, specialmente nella psicologia moderna, a causa della prevalenza di
alcune idee evoluzionistiche che enfatizzano esclusivamente lo “sviluppo” del
superiore “al di là” dell’inferiore. Ogni concezione evoluzionistica, certamente,
finisce con l’abolire la vera nozione di gerarchia, perché questa nozione è
incompatibile con le altre di continuità e di trasformazione graduale
soggiacenti alla concezione evoluzionistica. La nozione di “radice” deve essere
interpretata secondo punti di vista simili. Non è possibile utilizzare questa
nozione senza indicare in quale particolare senso la si utilizza.
Termini come essere radicato,
continuazione, partecipazione ed altri, nascondono più difficoltà di quante ne contribuiscono
a risolvere. Il problema, probabilmente, non può essere risolto solo sul
terreno della psicologia. Se vogliamo mantenere il principio di distinzione
delle facoltà dalle loro operazioni e dai loro oggetti, dovremmo dar inizio ad
ulteriori indagini da due prospettive: la psicologia deve cercare e fornire più
descrizioni delle prestazioni della mente; l’ontologia dovrà indagare la natura
di tali oggetti come relazione, situazione, valore. Solo attraverso una
cooperazione delle due scienze, si potrà raggiungere qualche progresso.
Che abbiamo bisogno di una
conoscenza più chiara degli oggetti menzionati poco prima, diviene chiaro
quando si considera un’altra difficoltà collegata al problema della vis cogitativa. Sembra che questo lato
del problema non abbia ricevuto molta attenzione recentemente, ma è stato
pienamente visto dagli scrittori più vecchi, per esempio da Giovanni di San
Tommaso.[30]
Da quali dati sensoriali la vis
cogitativa è resa consapevole della species
insensatae? Quali dati permettono a questa potenza di diventare
consapevole, ad esempio della relazione di utilità, o di qualsiasi altra
relazione? Molte cose, molto differenti nella natura e nell’aspetto, sono utili
o dannose; molte cose sono buone, in un senso o in un altro. Anche se si
ammette che “esser buono” è equivalente ad “esser buono per me”, la questione
rimane, su quale dato-sensoriale poggi questa consapevolezza. Se i valori non
hanno un’esistenza oggettiva, e non sono neppure, come qualcuno li ha chiamati,
“qualità terziarie”, come può nascere in generale un atto di giudizio? Non è di
aiuto riferirsi al phantasma come via attraverso cui la res extra raggiunge la vis cogitativa. Ogni senso, sembrerebbe,
necessita di qualche tipo di species
impressa per essere attutato. Ma se non c’è nulla di oggettivo nell’oggetto
da cui il senso possa essere impressionato, non può nascere alcuna conoscenza.
Questo problema diventa particolarmente difficile da risolvere, quando
l’oggetto si suppone essere una relazione tra una res extra ed il soggetto stesso, come nel caso del “pericoloso per
me”. Giovanni di San Tommaso era consapevole di queste difficoltà a cui infatti
dedica una esauriente discussione. Le intentiones
insensatae, dice, essendo di un ordine superiore richiedono species
superiori o, almeno, che le spcies siano presentate in una modalità superiore.
Ci devono essere alcune potenze o alcuni agenti che generano queste species più
perfette della loro origine fuori dal sensa;
ma è impossibile che il meno perfetto dia vita a ciò che è più perfetto.
L’autore quindi conclude che queste species sono ricavate dal sensa stesso, dal momento che
quest’ultimo “in qualche modo contiene” le prime.
Ma questa non è una soluzione; è
piuttosto una petizione di principio. Salvo che all’“esser compresa” venga data
una spiegazione più definita, non possiamo avere alcuna idea di come
l’imperfetto generi il perfetto, o come la mente sia resa consapevole di queste
intentiones insensatae. Giovanni di
San Tommaso apparentemente considera alcuni processi analoghi all’astrazione
della natura universale dal phantasma. Ma, quindi, la natura universale è
veramente presente nell’individuo; non è formata dalla meno perfetta, è solo
disimpegnata da essa. Se si pensa che questa analogia sia ardita, si deve
concludere che anche quello che corrisponde alle species insensatae non è solo tamquam
contenuto negli oggetti e quindi non solo iamquam
presentato alla vis cogitativa, ma realiter presente assieme alle altre
caratteristiche apprendibili e realiter
distinte da esse. Cioè si giunge, con una certa inevitabilità, ad una
concezione oggettivistica dei valori.
È abbastanza vero che c’è una
capacità di creazione, modo combinationis
et divisionis, anche nelle facoltà sensoriali, specialmente nel sensus communis e nell’immaginazione. Ma
questa capacità non può mai spiegare la comparsa di qualcosa qualitativamente
nuovo. I valori sono, secondo la loro natura, differenti dagli altri oggetti
intenzionali. Chiamarli “soggettivi” o il risultato di una “oggettivazione” di
fenomeni “semplicemente soggettivi”, renderli dipendenti dalle emozioni o dagli
interessi, ecc. non li spiega per nulla. Queste frasi sono, in realtà, solo
riaffermazioni delle questioni originali in una modalità più celata e meno
intelligibile, sebbene apparentemente in un linguaggio più “scientifico”.
II
Lo stato
attuale della questione mostra che il suo aspetto ontologico non è stato
sufficientemente chiarito da permettere una risposta conclusiva. Ci si potrebbe
chiedere se non esistano fatti accaduti che si possano rivelare utili. Fatti di
tal genere, certamente, non rispondono alle questioni dell’ontologia o della
speculazione. Ma possono essere una strada verso la soluzione, a condizione che
siano fatti veri. Questa restrizione, benché ovvia, non è sempre considerata a
sufficienza. I filosofi facilmente prendono per fatti quello che gli autori nei
vari campi della ricerca empirica dichiarano esser tali. Le evidenti scoperte
dell’empirista non sono quello che ci presenta come un fatto. Egli
necessariamente trasmette le scoperte nel linguaggio della sua concezione
generale. I “fatti” sono scoperte annunciate con una terminologia definita. È
una scoperta, o una osservazione, che una pietra deprivata del supporto cadrà
verso terra. È una teoria che fissa questa osservazione dicendo che la pietra è
“attratta” dalla terra, o anche che ricerca la sua posizione naturale. È una
osservazione che gli animali agiscano in determinate condizioni con regolarità
secondo alcune modalità e che il loro comportamento comporti determinati
effetti; ma è una teoria a sostenere che negli animali “esistono” gli istinti.
Un istinto non viene mai osservato; è una nozione introdotta al fine di avere
un comune denominatore per alcuni tipi di comportamento animale.
Ma l’empirista così come il filosofo
che utilizza queste ultime espressioni è soggetto ad omettere, il primo per
abitudine, il secondo per una fiducia qualche volta non pienamente
giustificata, il ruolo giocato dall’elemento teoretico in espressioni
apparentemente solo descrittive. Questo è vero anche in riferimento ai problemi
di cui si occupano queste pagine.
Riferendosi ad alcuni esperimenti
sull’apprensione del valore di W. Gruehn – di cui si dirà al momento opportuno
– l’autore di uno dei migliori libri conosciuti scrive: “Se Gruehn assume
l’esistenza di una forma elementare di consapevolezza oltre alla sensazione e
alla volontà, sembra che questa forma si basi su di una nozione troppo
rudimentale di sensazione, la cui nozione include solo la piacevolezza e la
spiacevolezza sensoriale. Ma il fenomeno si adatta abbastanza bene alla varietà
delle sensazioni superiori”.[31]
Questa considerazione evidentemente suppone che ci possa essere una forma non
“elementare” di consapevolezza in aggiunta a quelle riconosciute dall’autore e
da molti altri psicologi. D’altronde, non c’è alcuna necessità di restringere
il numero degli stati elementari. Non molto tempo fa, gli psicologi furono
obbligati a riconoscere l’esistenza di un particolare stato di coscienza che
avevano omesso fino ad allora e che avevano davvero scarsa disponibilità a
riconoscere. Ma “i pensieri” si sono dimostrati fenomeni sui generis, non riducibili alle immagini ed alle loro
combinazioni. Potrebbe essere lo stesso nel caso dell’appresione del valore.
Non è senza importanza per la
filosofia della mente umana se i valori siano appresi attraverso una operazione
sui generis o no. Le facoltà sono, come è stato sottolineato prima, distinte
dalle loro operazioni e dai loro oggetti. Se abbiamo sufficienti ragioni per
ritenere una operazione distinta da quelle che si riferiscono ad altri oggetti,
possiamo – forse non concludere ma – sospettare che anche questi oggetti
formino una classe loro propria.
Lo studio sperimentale
dell’apprensione del valore è stato trascurato più di quanto giustifichi
l’importanza del problema. Esistono pochi studi attendibili che prevedono
questo problema. Le ragioni di questo sviluppo non possono essere dettagliate
qui; esse hanno poco a che fare con i metodi sperimentali e lo sviluppo della
psicologia, e molto con i pregiudizi filosofici attivi nelle menti dei più
“non-filosofici” tra gli studiosi dei fenomeni mentali. Più una mente è non-filosofica,
maggiori sono i pregiudizi filosofici di questa mente in numero ed influenza.
Nessuna scienza può essere sicura che la metafisica sia ciò che inconsciamente
e tacitamente suggerisce, come il Prof. A. N. Whitehead giustamente sottolinea.
Tra i pochi studi sperimentali sulla
psicologia dell’apprensione del valore il lavoro di W. Gruehn merita di essere citato
al primo posto. È visto sospettosamente, certamente, da coloro che credono solo
nelle figure. Non ci sono tabelle di correlazione e neppure grafici nel libro
di Gruehn. Esso è, al di là di questi “difetti”, una parte seria ed efficace
della ricerca.[32]
La breve descrizione che segue su come
la mente divenga consapevole dei valori e giunga a valutarli, per raggiungere
un atteggiamento definito nei loro riguardi, si basa soprattutto sulle ricerche
di Gruehn, in parte però anche sulle osservazioni e sulle idee sviluppate dal
sottoscritto.
Gruehn è un allievo di Girgensohn di
cui ha editato il grande lavoro sulla Psicologia
dell’Esperienza Releigiosa. È un teologo Protestante, pratico nella
psicologia sperimentale. Il metodo da lui adottato è quello denominato
“auto-osservazione sperimentale”, sviluppato per primo da O. Kuelpe e dalla sua
scuola. I suoi osservatori erano principalmente gli studenti di teologia. I
loro giudizi si sono dimostrati essere validi, grazie al loro interesse
personale al problema, ed al training a cui sono stati sottoposti in precedenza.
Le descrizioni dei processi valutativi così come sono stati forniti dai vari
osservatori mostrano una significativa uniformità nelle principali
caratteristiche.
Due di esse meritano particolare
attenzione. Diviene evidente che una valutazione, ad es. una consapevolezza del
valore e del suo grado, possa esistere senza uno stato-sentimento
corrispondente o anche con uno opposto al tipo di valore. È vero, certamente,
che la consapevolezza di un valore positivo è generalmente accompagnata da un
sentimento di piacere. Ma non è vero che una consapevolezza di tal genere
dipenda da un sentimento piacevole come condizione necessaria. Questo fatto può
essere verificato anche con l’osservazione comune, nella media della
popolazione, in condizioni non sperimentali. Ma, per quanto si è prestato
attenzione a questo fatto, esso è stato inserito tra i tanti “auto-inganni”, un
nome comunemente attribuito ad ogni fatto mentale che non rientra in una teoria
preconcepita. Non è per nulla difficile mettere assieme diverse osservazioni
che mostrano che le emozioni – o sentimenti – appaiano come risposte alla
consapevolezza dei valori, ma che quest’ultimo stato possa essere presente ed
il suo oggetto riconosciuto senza l’intervento di alcun sentimento. Le molte
teorie che concepiscono i valori come “semplicemente soggettivi” e che si riferiscono
alle emozioni, senza dubbio stati soggettivi, come le basi della nostra
consapevolezza del valore poggiano su osservazioni insufficienti, o piuttosto
su di un’arbitraria trascuratezza di certi fatti, giudicati non importanti, di
illusione, o nient’altro.
La seconda importante caratteristica
della valutazione scoperta da Gruehn è ciò che chiama “l’atto di
appropriazione” (al contrario di rigetto). Un valore può essere riconosciuto
come tale ed anche essere collocato al suo posto nella scala dei valori, e
ciononostante “lasciarci freddi”. Fin tanto che questo valore non venga
incorporato nella morale della persona o nelle attitudini estetiche, esso
rimane al di fuori, semplicemente presente, senza alcun riferimento al sé. Nel
processo di valutazione c’è un passaggio preciso attraverso cui l’atteggiamento
puramente osservativo cambia in uno corrispondente al tua res agitur. Questo è anche il momento in cui una risposta
emotiva si attiva. È vero, la risposta emozionale spesso appare come
co-istantanea alla consapevolezza dell’oggetto. Ma questo risulta dal fatto che
molte valutazioni sono divenute abituali ed anche che ci sono alcuni valori –
forse è più frequente il caso dei disvalori – che sono comuni ad ogni uomo.
Questo atto di appropriazione è
ritenuto da Gruehn un fenomeno mentale di natura particolare, non riducibile ad
altri, sperimentato in modo chiaramente differente dai sentimenti – anche di
quelli più elevati – e che costituisce l’essenza della vera valutazione.
Malgrado la critica di Froebes, l’esistenza e la peculiarità di questo fenomeno
sembra essere sicura. Quindi dobbiamo considerare questo atto di appropriazione
come un fenomeno “elementare”. Se è così, esso richiede una speciale attività
mentale, e al di sotto di questa attività, una facoltà speciale.
Certamente, ci sono numerosi studi
che enfatizzano il ruolo delle emozioni nel processo di consapevolezza del
valore. Dal momento che non è intenzione dell’autore fornire un resoconto
completo sulla letteratura, questi studi non necessitano di essere considerati.
Ma è degno di nota il fatto che Gruehn non sia, di gran lunga, l’unico autore
che parla di una consapevolezza non-emotiva dei valori. Tra i filosofi che
trattano della questione deve essere citato D. v. Hildebrand che rifiuta l’idea
che le emozioni siano la base delle nostre valutazioni e della nostra
conoscenza dei valori.[33]
O. Stapledon sostiene un punto di vista simile.[34]
Recentemente E. Eller ha messo in evidenza che la consapevolezza del valore
appartiene alla natura della cognizione e non del sentimento. Per questo
autore, il fatto della tentazione è una dimostrazione conclusiva
dell’oggettività delle vanità. “Se l’uomo volesse generare fuori da sé il mondo
delle vanità, non permetterebbe mai quel doloroso andare avanti ed indietro in
quanto condizionato dalla tentazione”.[35]
G. F. Moore ha sottolineato un
fatto, certamente osservato comunemente, ma di solito negato dagli psicologi
empirici. Dice: “Non solo la piacevolezza di uno stato non è in proporzione al
suo valore intrinseco; ma può anche aggiungersi positivamente alla sua
volgarità”.[36]
Ma difficilmente è possibile nutrire due sentimenti che si contraddicono e che
coesistono in un’unica mente. Se il valore dipende dal sentimento, la
situazione a cui alludeva Moore si verificherà difficilmente. È abbastanza vero
che “rimarrà sempre pertinente chiedere se il sentimento stesso sia buono”.[37]
E se questo è il caso, la teoria emozionale dei valori necessiterebbe di un
secondo sentimento attraverso cui il valore del primo, presumibilmente
determinando la consapevolezza, diviene noto alla mente. Così risulterebbe un
retrocedere infinito.
Anche B. M. Laing riferisce il fatto
che è il valore come appreso che ridesta il desiderio, e non il desiderio su
cui il valore è fondato.[38]
La discrepanza tra l’emozione ed il valore conosciuto di una cosa o di
un’azione è enfatizzato anche da L. R. Ward.[39]
In modo più chiaro la dipendenza delle emozioni dai valori precedentemente
conosciuti è evidenziata da J. Laird, che parla anche di incompatibilità delle
emozioni contraddittorie mentre è abbastanza possibile che lo stesso fatto
possa essere appreso nei suoi differenti aspetti di valore e di disvalore. “Il
dolore piacevole…può essere un disvalore come
dolore, e, un valore come piacevole”.[40]
Se, tuttavia il disvalore del dolore fosse trasmesso alla mente da un
sentimento di spiacevolezza, e il valore da un sentimento di piacere, una
situazione di tal genere potrebbe non esistere.
Lo psicologo Th. Ribot sostiene che
nella consapevolezza del valore ci sia, al di là di un fattore emotivo, un
fattore che descrive come “somigliante al puro concetto intellettuale”.[41]
M. E. Clarke, benché dubitando se esista un esempio di consapevolezza del
valore privo di elementi emozionali, dichiara che in tale fenomeno entra un
apprendimento non-intellettuale del valore che non è la cognizione “nel senso
ordinario…perché non è una questione intellettuale”.[42]
L’autore, tuttavia, non trae l’ovvia conclusione che i fatti che riferisce
necessitano l’assunzione di una facoltà non-intellettuale e ciononostante
cognitiva.
Nessuna espressione, forse, riassume
lo stato delle cose meglio del commento che
S. Tommaso fa, quando scrive che una cosa è amata per il fine e non solo
per l’effetto su di noi.[43]
Il bene, dice altrove,[44]
è ciò che cade per primo nell’apprensione
della ragione pratica. Questa
ragione, anche se è considerata un aspetto dell’intelletto, non può operare
senza che si riferisca a cose o
azioni particolari. L’apprensione del bene
particolare deve essere affidata ad una facoltà in grado di entrare in contatto
con il particolare.
È caratteristico dello spirito che
domina la psicologia contemporanea che l’elemento del valore, la valutazione, e
simili siano praticamente assenti da tutte le dissertazioni. Correlata a questa
cecità per i fatti che riguardano i valori è la riluttanza degli psicologi
moderni a riconoscere l’esistenza della volontà come fenomeno mentale
particolare. Ma nessuno può negare che la decisione, l’intenzione, la volizione
esistano proprio come esperienze definite che ognuno vive nella propria mente.
Se la psicologia pretende che non ci sia la volontà, deve spiegare come e
perché questa convinzione generale si presenti. Poco è stato fatto riferendosi
all’influenza dei nomi e sostenendo che la “sostantivizzazione” renda la
convinzione dell’uomo nell’esistenza come una “cosa” di qualcosa che possiede
un nome. Poco è stato fatto, perché allora bisogna chiedere perché nessuno è
giunto ad essere considerato come una cosa. Tutte queste spiegazioni portano a
spostare la questioni ad un altro livello, e non c’è mai alcun tipo di
risposta. È lo stesso per i valori. Dicendo che sono “meramente soggettivi” e
che sono attribuiti alla realtà solo per qualche errore della mente o per
qualche habitus della mente, non si ha una spiegazione valida. I valori sono
sperimentati; essi sono parte della realtà non meno che ogni altra qualità. Se
tutte le qualità sono ritenute “soggettive”, non si progredisce, perché la
questione rimane la stessa nella soggettività.
Ora, se c’è un’operazione mentale sui generis attraverso cui diventiamo
consapevoli dei valori, allora diviene più plausibile la supposizione che ci
siano oggetti particolari che corrispondono a questa operazione ed una facoltà
particolare che li permette.
Gruehn, quando riassume i suoi studi
sperimentali, non è interessato a questi problemi, e neppure pensa nei termini
della psicologia Tomista. L’esistenza o non esistenza di una facoltà non è qualcosa
che potesse aver considerato. E neppure conosceva, probabilmente, la nozione di
vis cogitativa. Ma le sue
affermazioni sembrano essere in perfetto accordo con quello che ci si possa
aspettare basandosi su questa nozione.
Le scoperte dello psicologo, però,
sono piuttosto suggestive. Se è vero che il compito della vis cogitativa, secondo S. Tommaso, o almeno i suoi principi, non è
limitato all’apprensione dell’utile o del pericoloso e di poche altre relazioni
tra un dato oggettivo e la persona, ma si estende alla consapevolezza di ogni
valore particolare, realizzato o in grado di realizzarsi in un oggetto
particolare, o situazione, allora sembrerebbe che la scoperta di questo atto di
appropriazione possa essere considerata una prova dell’operatività di questo
senso interno.
Molte questioni, di maggiore o
minore importanza, sono correlate a queste questioni. È già stato evidenziato
che ci sono alcuni problemi che aspettano una chiarificazione. Molto lavoro
dovrà essere compiuto fino al momento in cui l’approccio scientifico e filosofico
ai problemi della mente saranno riuniti e saranno resi effettivamente
cooperativi. Ma sembra non senza importanza essere consapevoli di alcuni
parallelismi tra le questioni sollevate in entrambi i campi. Le posizioni nella
filosofia e nella psicologia contemporanea puntano alla stessa direzione. Il
divario tra questi due tentativi dell’uomo di comprendere la realtà e se stesso
apparentemente può diventare meno ampio. Potrebbe essere gettato un qualche
tipo di ponte. La comprensione reciproca è la condizione necessaria per la
cooperazione. Ma nessuna cooperazione potrà mai essere portata avanti fin
quando il filosofo ignora le azioni dello psicologo, e quest’ultimo pensa che
sia poco importante cosa dice il primo.
[4] Alcune osservazioni
pertinenti si possono trovare in R. Allers, “Uebur einige Untersechiede des
ein- und beidaeugigen Sehens”, Sitz. Ber.
Wieners Akad Z. d. Wiss. Naturwiss. Klasse, 1935, CXLIV, p. 33 ed in R. Allers u. E.
Schoemer, Ueber den “Wettstreit der Hoerfelder”, ibid., p. 401.
[5] G. P. Klubertanz, “The Internal Senses in the Process
of Cognition”, The Modern Schoolman,
1941, XVIII, p. 29.
[9] Ad es., Giovanni di San
Tommaso, Cursus Philosophicus, ed. Reiser, Taurin, 1937, vol. III, p. 385,
b. 14 (IV, q. 12, a, 1).
[12] II-II, q. 49, a. 2 ad
3um. La maggior parte della terminologia di questa questione sembra essere
stata presa dai traduttori Latini dei filosofi Arabi. L’espressione vis aestimativa, cogitativa, ratio, e collatio si trovano in Avicenna,
Alfarabi, ed Averroé e sono usati anche da Sant’Alberto che si riferisce a
questa potenza come capace di scelta, di comprendere la convenienza e la non
convenienza. Cogitativa quae est actus rationis conferentis
de particularibus.
A. Schneider, Die Psychologie Albert des
Grossen, Muenster, 1903, p. 165 (Beitr. Z. Gesch. D. Phil. D. MA. 5,
H. 3-5). L’uso del termine cogitativa
per la facoltà umana ed aestimativa
per la potenza nelle bestie si trova eguale in Avicenna ed Alfarabi.
[13] Q. d. de Ver., q. 22, a. 13c: «…uno
modo secundum quod competit suae naturae, alia modo secundum quod competit
naturae superioris agentis. Impressio enim superioris agentis manet in
inferiori, et ea hoc inferius agens non solum agit notione propria sed actione
superioris agentis».
[14] Q. d. de Ver., q. 10, a. 5c: «…alio
modo secundum quod motus qui; est ab anima ad res incipit a mente et procedit
in partem sensitivam, prout mens regit inferiores vires, et sic singularibus se
immiscet mediante ratione particolari quae est potentia quaedam individualis
quae alio nomine dicitur cogitativa».
[15] Q. d. de Ver., q. 25, a. 2c: «…tam ex parte apprehensivarum
virium quam ex parte appetitivarum sensitivae partis aliquid competit sensibili
animae secundum propriam naturam; aliquid vero secundum habet aliquam modicam participationem
rationis, attingens ad ultimum eius in sui supremo».
[16] Summa Theol., I, q. 81, a. 3c. «Loco autem aestimativae virtutis est in homine,
sicut supra dicitur, vis cogitativa quae dicitur a quibusdam ratio particularis
eo quod est collativa intentionum individualium. Unde ab ea natus est moveri
appetitus sensitivus. Ipsa autem ratio particularis nata est moveri et dirigi
secundum rationem universalium unde in syllogisticis ex universalibus
propositionibus concluduntur conolusiones singulars».
[17] Ibid. «… deducere universalia principia in conolusiones
singulares non est opus simplicis intellectus sed rationis; ideo irascibilis et
concupiscibilis magis dicuntur obedire rationi quam intellectui».
[20] Q. d. de Ver., q. 10, a. 5 ad 4um. Intellectus s. ratio cognoscit in universali finem ad
quem ordinet actum ooncupiscibilis et actum irascibilis imperando eos. Hanc
autem cognitionem universalium mediante vi cogitativa ad singularia applicat.
[21] In III Sent., d. 26, q. 1, a.
2c «…quod apprehendit (animal) illas intentiones quae non cadunt suo sensu ...
hoc est sensitivae panis secundum quod attingit rationem».
[24] In VI Eth., 1. 1. Alio
modo possunnt accipi contingentia, seccundum quod sunt in particutari et sic
variaiUa sunt nec cadit super sa inteilectus nisi mediante potentiis
sensitivis. Unde inter partes animae sensitivae ponitur una potentia quae
dioitur ratio particularis.
[25] In I Met., 1. 1. Experimentum
enim est ex collatione plurium singularium in memoria receptorum. Huiusmodi
collatio est homini propria et pertinet ad vim cogitativam.
[27] C. Fabro, “Knowledge and Perception in
Aristotelic‑Thomistic Psychology,” The New
Scholasticism, 1938, XII, 337.
[29] Giovanni di San Tommaso, Cursus
philosophicus, ed. Reiser,
Taurin., 1937, III, 242, h. 32. (Phil. nat., IV, q. 8, a. 1.) (Aestimativa)
in homine dicitur cogitativa quia cum aliqua collatione et discursu
cogitat ei format intentiones, eo quod intentiones ex coniunctione ad
intellectum modum quemdam discursivum participant. Questo autore accredita la vis cogitativa
della capacità di apprendere altre relazioni in aggiunta a quelle dell’utilità,
ecc., dal momento che cita tra i suoi oggetti anche la relazione di somiglianza,
ibid., a, 4 (p. 265, b. 21).
[30] Giovanni di San Tommaso, Cursus
Philosophicus, ed. Reiser,
Taurin., 1937, III, p. 265b. ff. (Phil. Nat., IV, q. 8, a. 4).
[31] J. Froebes, Lehrbuch de experimentellen
Psychologie, 3d. ed., Freiburg i. B., 1929, Vol. II, p. 284.
[39] L. R. Ward, Philosophy of Value, New York,
1930, p. 135. (Anche in Cath. Univ. Diss., Washington, D.C., 1939.)
[42] M. E. Clarke, “Cognition and Affection in the
Experience of Value,” Jour. Phil., 1938, XXXV, 5.
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