Dal 16 al 18 Ottobre 2014, l'associazione Medicina e Persona ha organizzato il convegno: Il soggetto ed i percorsi di cura, a cui ha partecipato il professore Martin F. Echavarria. La sua relazione, Soggetto umano e dimensione antropologica, che a breve sarà pubblicata assieme agli atti del convegno, è una lezione magistrale sull'utilità di un approccio "ispirato dall'antropologia di san Tommaso d'Aquino" per la psicologia teorica e pratica. Martin F. Echavarria è il direttore del dipartimento di psicologia presso l'Università Abat Oliba di Barcellona, autore di cinque importanti testi di psicologia cattolica e di numerosi articoli di ineguagliabile valore per chi desidera addentrarsi nella ricomposizione della frattura tra psicologia contemporanea ed antropologia (filosofia) cattolica. Senza alcun dubbio è attualmente uno dei più importanti esponenti della psicologia cattolica del mondo. Lo ringrazio infinitamente per il suo lavoro e la sua vicinanza al nostro impegno.
Soggetto
umano e dimensione antropologica
Martin
F. Echavarria, Universitat Abat Oliba CEU (Barcellona)
1.
Introduzione
Perché
parlare della dimensione antropologica del soggetto umano in sede
psicologica? Non si tratta di un’intromissione indebita della
filosofia o addirittura della teologia nel campo della scienza? Anche
se potrebbe sembrare, in realtà non dobbiamo dimenticare che la
psicologia ha come oggetto l’uomo, per cui la domanda di natura
filosofica e teologica sul soggetto umano è di radicale importanza
per il discorso psicologico. Infatti, anche se poche volte viene
riconosciuto in maniera esplicita, dietro ogni psicologia c’è una
concezione dell’uomo che non è di ordine prettamente
empirico-scientifica, ma filosofica (Echavarría,
2013). Rudolf Allers diceva che dietro tutti i problemi della
psicologia c’è una questione filosofica, metafisica o etica, e
addirittura, teologica. Le principali differenze di metodo e di
contenuto vanno di solito associate a diversi modelli filosofici e
antropologici. Purtroppo, nella maggior parte dei casi tali modelli
non sono compatibili con la visione cristiana dell’uomo. Così lo
diceva Giovanni Paolo II in un discorso ai membri della Rota Romana:
[…]
la visione antropologica da cui muovono numerose correnti nel campo
delle scienze psicologiche del tempo moderno è decisamente, nel suo
insieme, inconciliabile con gli elementi essenziali dell’antropologia
cristiana, perché chiusa ai valori e significati che trascendono il
dato immanente e che permettono all’uomo di orientarsi verso
l’amore di Dio e del prossimo come sua ultima vocazione.
Tale
chiusura è inconciliabile con quella visione cristiana che considera
l’uomo un essere «creato ad immagine di Dio, capace di conoscere e
di amare il proprio Creatore» (Gaudium
et Spes,
12) e nello stesso tempo diviso in se stesso (Ivi,
10).
Le ricordate correnti psicologiche invece partono o dall’idea
pessimistica, secondo cui l’uomo non potrebbe concepire altra
aspirazione che quella imposta dai suoi impulsi o dai condizionamenti
sociali o, per l’opposto, dall’idea esageratamente ottimistica
secondo la quale l’uomo avrebbe in sé, e potrebbe raggiungere da
solo, la sua realizzazione.
(Giovanni
Paolo II, Discorso
ai membri della Rota Romana,
Giovedì,
5 febbraio 1987).
Non
è poi, difficile indovinare quali siano i rappresentanti di queste
psicologie: le scuole pessimistiche sono quelle che considerano
l’uomo come schiavo dei sui impulsi; cioè quelle scuole di
psicologia del profondo che hanno una concezione deterministica della
vita animica dell’uomo; ed anche il comportamentismo radicale, che
concepisce l’uomo come un burattino del suo ambiente. Le scuole
ottimistiche invece sono quelle che, come alcuni psicologi di
orientazione umanistica, sottolineando che l’uomo ha una tendenza
all’auto-realizzazione e alla creatività, lo concepiscono come
completamente autonomo, capace di darsi autonomamente la felicità,
dimenticando che l’uomo dipende dagli altri -soprattutto da Dio-, e
che la sua natura è danneggiata dal peccato originale. Chesterton
diceva che “pessimismo” e “ottimismo”, in fondo non sono
altro che eufemismi per riferirsi alla “disperazione” e alla
“presunzione” che, secondo san Tommaso, sono vizi contrari alla
virtù teologale della speranza. Una psicologia fondata sulla
speranza non si può costruire a partire da una visione distorta
dell’essere umano, un uomo che è allo stesso tempo “immagine di
Dio”, ma pure “diviso in se stesso” come risultato della
caduta, del peccato.
È
urgente, perciò, sviluppare una psicologia che parta da
un’antropologia che sia d’accordo con la visione integrale
dell’uomo –con la sua grandezza e la sua miseria-, che propone il
cristianesimo. Crediamo lo si debba fare non a modo di una lontana
fondazione, ma come qualcosa che penetri dal di dentro la
comprensione psicologica dell’uomo, così come la causa prima è
con più proprietà e profondità causa delle cose di quanto non lo
siano le cause seconde. L’approccio che qui proponiamo è ispirato
dall’antropologia di san Tommaso d’Aquino che, per la sua
profondità, è a nostro parere la più adatta per una fondazione
solida della psicologia. (Echavarría, 2010a).
2.
Persona e personalità
Parlare
sul soggetto umano da un punto di vista antropologico è innanzitutto
parlare del concetto di persona. Non si può comprendere la
personalità umana a partire da semplificazioni schematiche, perché
in essa c’è qualcosa che è impossibile ridurre al solo risultato
di una natura che si esprime nelle sue proprietà naturali e, per
questo, non la si può concepire in modo scientificamente e
statisticamente predicibile, come diceva già Allport (1986). Occorre
avvicinarsi alla vita singolare dell’individuo per cogliere la sua
vita interiore. In ogni persona si nasconde un mistero che nessuna
tecnica umana può svelare del tutto. Pio XII lo sottolineava
lucidamente con queste parole:
Non
sfugge ai migliori psicologi che l’impiego più abile dei metodi
che ci sono, non riesce a penetrare nella regione dello psichismo che
costituisce, per così dire, il centro della personalità e continua
ad essere sempre un mistero. Arrivato a questo punto, lo psicologo
può solo riconoscere con modestia i limiti delle sue possibilità e
rispettare l’individualità dell’uomo sul quale deve dare un
giudizio; dovrebbe sforzarsi per scoprire in ogni uomo il progetto di
Dio e aiutare a svilupparlo nella misura del possibile. La
personalità umana, con i suoi caratteri propri, è infatti la più
nobile e la più ammirevole delle opere della Creazione. (Pio XII,
1958, 174).
Qui
si dice qualcosa che a noi psicologi dovrebbe riempire di timore e di
tremore: lo psicologo lavora con “la più ammirevole delle opere
della Creazione”, la personalità umana. Il suo centro non è un
“oscuro Es”, come Freud sosteneva, un qualcosa di impersonale
(Freud, 1996, 146). Ed è per questo che non è qualcosa di
manipolabile e modellabile a nostro piacimento. È un mistero, un
mistero che si collega a Dio, e che merita di essere trattato con
cura e rispetto. Questo mistero ha come base il carattere personale
della vita umana. Di essa è un elemento primario quella interiorità
dalla quale emana la capacità di farsi carico della propria vita, di
non essere un semplice soggetto passivo delle tendenze che provengono
certamente dall’organismo o dall’ambiente. San Tommaso lo diceva
con queste parole: “L'individuo particolare si trova in un modo
ancora più perfetto nelle sostanze ragionevoli che hanno il dominio
dei propri atti, che si muovono da se stesse e non già spinte
dall'esterno come gli altri esseri” (S.
Th.,
I,
q. 29, a. 1, co.). Le parole di san Tommaso contrastano con quelle di
Freud in “L’Io e l’Es”: “Sarà molto utile per noi, a mio
avviso, seguire l’invito di [...] G. Groddeck, che dice sempre che
quello che noi chiamiamo il nostro “Io” si comporta nella vita
passivamente e che, invece di vivere, siamo ‘vissuti’ da poteri
ignoti e invincibili”.
(Freud, 1973, 2707). È chiaro che il soggetto umano è sottomesso
all’influenza dei sui impulsi interni, ma il suo carattere di
persona gli consente, nella maggior parte dei casi, di
autogovernarsi.
Pio
XII, rispondendo agli psicologi che consideravano il soggetto umano
interamente sottomesso ai sui impulsi inferiori, diceva:
Sono
energie di un’intensità forse considerevole, però la natura ne ha
affidato la direzione al centro: all’anima spirituale, dotata di
intelligenza e di volontà, normalmente capace di governare queste
energie. Che tali dinamismi facciano sentire la loro pressione su di
un'attività non significa necessariamente che la costringano (Pio
XII, 1953).
Questa
singolarità e individualità inafferrabile ha dunque il suo
fondamento nel carattere personale dell’essere umano, e non
meramente in fattori puramente biologici o ambientali. Da questo
carattere personale, che emana dal modo interiore e spirituale di
sussistere del soggetto umano, dipende la comprensione profonda
dell’essere umano. Anche se abbiamo certamente una natura, una
natura umana individuale che ci da le nostre capacità comuni agli
altri uomini (nell’ordine mentale, ad esempio, le nostre capacità
cognitive e affettive), ed alcune nostre particolarità molto
importanti (composizione corporea, sesso, caratteristiche fisiche,
inclinazioni temperamentali, talenti, ecc.), comunque -questa stessa
natura- non è la spiegazione immediata e prima del nostro
comportamento come persone. Così lo spiegava un grande filosofo
spagnolo, Francisco Canals:
La
vita umana che consiste nelle azioni non è già pensabile
“biologicamente”; non si può nemmeno dare ragione di essa, nella
sua esistenza concreta – ma soltanto circa le strutture che la
rendono possibile come sviluppo della pienezza dell’essere
personale- dal punto di vista di un’antropologia universale.
Riassumendo la terminologia anteriormente accennata, si direbbe che
ci troviamo dinanzi a ciò che, nella sua esistenza concreta,
apparterrebbe in ogni caso alla “biografia” di ogni uomo come
persona.
In
questa prospettiva, il “principio” della vita umana non va
ricercato nella linea dell’essenza specifica, come forma
costitutiva dell’uomo come tale, ma deve essere caratterizzata,
come principio della vita umana, come il fine e il bene che mette in
moto dinamicamente il suo processo
(Canals
Vidal,
1987,
616-617).
La
vita umana individuale, la vita della persona umana, non può capirsi
soltanto in base alla sua natura, giacché questa si limita a
fornirci soltanto il quadro delle sue possibilità, ma la si capisce
principalmente in base al fine, a quello che ricerca come senso della
sua esistenza. E a questo fine si rivolge tramite le sue elezioni
libere fatte nell’interiorità della sua coscienza.
Qui
arriviamo al nesso profondo che c’è fra le nozioni di persona e di
personalità, con il quale lavora lo psicologo. Se la persona è il
“sussistente distinto nella natura umana” (Tommaso d’Aquino, De
potentia,
q.9, a.4, co.), la personalità umana è l’organizzazione
operativa stabile di un soggetto umano in quanto manifestativa e
completiva del suo essere personale.
Così come l’operare
segue l’essere,
la personalità è espressione della persona. È per questo che il
nome di personalità solo in modo equivoco si potrebbe predicare
degli animali. Di questi si potrà dire che hanno abilità cognitive
naturali e modi naturali di reazione affettiva. Ma, non essendo
persone, l’insieme dei loro tratti operativi non costituisce
personalità.
Persona
e personalità, comunque, non vanno confuse. Questo accade spesso nei
discorsi di molte scuole psicologiche e filosofiche contemporanee
(Echavarría, 2010). Secondo gli autori appartenenti a queste scuole,
fino a quando non si siano formate un complesso di rappresentazioni,
o di apprendimenti, o il linguaggio, o fino a quando l'individuo non
sia socializzato, costui non sarebbe una persona ma una mera entità
biologica impersonale. Solo tramite un processo d’individuazione,
umanizzazione o personalizzazione si diventerebbe persona, e solo a
malapena si continuerebbe ad esserlo fino a quando non si giunga al
deterioramento cognitivo. Queste affermazioni sono radicalmente
sbagliate e false, confondono l’ordine ontologico con quello
operativo, ed hanno gravi conseguenze etiche. Se l’individuo non
socializzato non è persona lo si può trattare come una mera cosa
senza dignità. Ma la realtà è ben diversa. Gli esseri umani sono
persone sin dall’inizio, anche se sviluppano le loro capacità
lentamente, e divengono padroni di sé formando in loro stessi
disposizioni stabili che configurano la loro personalità. Per
questo, per sottolineare il carattere configuratore dello spirito
umano, Pio XII definì la personalità come “l’unità
psicosomatica dell’uomo come condotta e governata dall’anima”
(Pio XII, 1958).
Questo
ci porta a parlare delle cause della personalità umana da un punto
di vista antropologico.
3.
Le quattro cause della personalità
Le
disposizioni naturali (quelle che sono comuni all’intera specie
umana e quelle che sono particolari dell’individuo) sono condizione
dello sviluppo della personalità.
La
personalità si può dividere in due aree: quella delle disposizioni
cognitive e quella delle disposizioni appetitive. Qui i concetti di
disposizione e, soprattutto di abito (habitus,
hexis),
nel senso classico aristotelico di “disposizione difficile da
cambiare”, hanno un ruolo centrale. Le disposizioni cognitive,
nelle personalità pienamente sviluppate, sono gli abiti
intellettuali, soprattutto le virtù intellettuali. Le disposizioni
appetitive costituiscono il carattere, che è l’insieme
organizzato degli abiti operativi pratici di una persona umana
(Echavarría, 2010a). Ma, senza delle capacità cognitive naturali,
che in ciascuno di noi sono molto diverse (ognuno di noi ha i suoi
talenti),
non potrebbero svilupparsi gli abiti intellettuali e cognitivi che
configurano le molteplici “intelligenze” di cui parla la
psicologia di oggi (Gardner, 1993). D’altro canto, senza le
inclinazioni naturali dell’affettività, che costituiscono il
temperamento,
non si potrebbe sviluppare il carattere,
che risulta non solo dall’influenza dell’ambiente, ma soprattutto
dal lavoro personale di auto formazione. Si potrebbe dire che i
talenti naturali si rapportano agli abiti intellettuali, nel campo
della cognizione, come il temperamento si rapporta al carattere, nel
campo degli affetti e i rapporti interpersonali. Attraverso la
formazione di queste disposizioni, la persona umana prende possesso
di sé, e la sua struttura operativa stabile si fa più personale,
più “personalità”.
Senza
la capacità di prendere possesso di sé, non solo in ogni operazione
e condotta, ma pure nel lungo termine, non è possibile essere
responsabile, impegnarsi e donare liberamente se stessi ad un’altra
persona nell’amicizia, e senza di questo non c’è maturità,
felicità, e nemmeno personalità.
Siamo
arrivati a un argomento difficile, ma di grande portata.
Una
discussione classica nel campo della teoria della personalità è
quella sulla causa principale della configurazione della personalità.
Ci sono due posizioni principali: quella che sottolinea la centralità
di quello che abbiamo in noi sin dalla nascita (genetica e
congenitamente), e quella che sottolinea l’importanza
dell’ambiente. Oggi, la maggior parte degli autori sostiene che la
personalità è il risultato di entrambi gli elementi, quello
biologico e quello ambientale, e addirittura si insiste sul fatto che
questi due elementi entrano in rapporto tra di loro causandosi
reciprocamente. Così, ad esempio, Millon:
Una
premessa basica di questo testo è che lo sviluppo della personalità
è funzione di un’interazione complessa tra fattori biologici e
ambientali. L’incidenza relativa di ogni gruppo di fattori sullo
sviluppo della personalità di un individuo dipenderà dalla potenza
e cronicità dell’influenza di ogni fattore. Questo certamente
varierà da un individuo ad un altro. Ma mi sembra probabile che i
fattori biologici stabiliscano i fondamenti che guidano lo sviluppo
della personalità, mentre i fattori ambientali agiscono per
modellare la sua espressione. (Millon, 1994).
Tuttavia,
in questa opposizione o rapporto tra natura e cultura si trascura
troppo spesso ciò che è più determinante della personalità umana
come tale: i fattori personali, specialmente il ruolo della volontà
e delle scelte personali.
In
realtà, il problema di questo approccio che riduce le cause della
personalità alla dimensione biologica e all’influenza
dell’ambiente è derivato da un altro problema precedente: quello
della concezione di causalità sottostante. Nella filosofia moderna,
per il rifiuto delle cause finali e formali (strettamente legate tra
di loro), e per l’influenza del meccanicismo, tutta la spiegazione
scientifica fu ridotta all’interazione tra cause materiali e cause
efficienti-meccaniche, e il nome di “causa” fu limitato a queste
ultime. In questo modo, la comprensione multi causale della realtà
fu impoverita, e questo incise specialmente sulle scienze della vita
e particolarmente sulla Psicologia. In contrasto con questa
concezione emerse nel campo del pensiero germanico la distinzione tra
le scienze della natura (Naturwissenschaften)
e le scienze dello spirito (Geisteswissenschaften).
Le scienze della natura intendono trovare le cause (intese come cause
efficienti-meccaniche), cioè “spiegare”. Le scienze dello
spirito, invece, cercano di “comprendere”, rinunciando alla
ricerca delle cause (anche se questo comprendere in fondo non è che
uno spiegare in vista della causa finale). Benché è superiore alla
concezione positivistica, questa maniera di intendere le cose
conserva la riduzione del nome di causa alla sola causa efficiente.
Noi, invece, preferiamo la concezione analogica della causalità,
propria dell’aristotelismo, che distingue almeno quattro sensi
della parola causa. Causa è tutto
quello che interviene nell’essere o nel farsi di un ente.
Nell’essere,
come costitutivo intrinseco di una cosa, come causa materiale o causa
formale; nel farsi, come fattore estrinseco che influisce nella
produzione di una cosa, cioè come causa efficiente o come causa
finale. Così abbiamo quattro cause: materiale, formale, efficiente e
finale. Questo schema delle quattro cause, che è specialmente adatto
per spiegare le sostanze materiali, si può applicare analogicamente
ad altri livelli, come quello psicologico (Rychlak, 1994; Pérez
Álvarez, 2003). Noi lo applicheremo qui alla comprensione della
personalità.
Innanzitutto
dobbiamo chiarire che “causa materiale” non vuol dire qui la base
organica della personalità umana. La nozione di materia è
analogica. Qui ci interessano due sensi di materia: a) la materia ex
qua; e
b) la materia in
qua.
a)
La materia
in
qua
è il soggetto di una forma o qualità. La personalità non è
un’unica qualità, ma un insieme ordinato di qualità. Il soggetto
prossimo di ognuna di esse è la facoltà che questa forma (abito o
disposizione) perfeziona. In ogni caso, siccome tra gli abiti che
costituiscono la personalità c’è un ordine, si potrebbe
considerare che quella facoltà che è la sede dell’abito guida o
principale, è la causa materiale prossima della personalità. Ma
siccome le facoltà a loro volta ineriscono nella persona, il
soggetto ultimo di queste qualità, che insieme costituiscono la
personalità, è la persona stessa, il tutto. Da questo punto di
vista, la persona stessa è la causa materiale della personalità.
Qui “materia” è lo stesso che “soggetto”.
Siccome
molte delle facoltà che sono modificate da disposizioni animiche
hanno a loro volta come soggetto un organo, ne segue che per uno
studio completo della personalità non si può prescindere da tale
fondamento, e che le contingenze e modificazioni biologiche degli
organi delle facoltà alle quali appartiene la disposizione o l’abito
influiscono pure sulla disposizione e, di conseguenza, sulla
personalità. Questo non vuol dire, tuttavia, che tutta la
personalità abbia sede organica, né che sia una mera conseguenza
della base organica che, addirittura, fa parte della causa materiale
(non efficiente) della personalità. La grande domanda è se la
personalità è causata efficientemente dagli influssi fisici
dell’organismo e dell’ambiente, o da altri fattori diversi.
b)
La materia
ex
qua
è l’insieme di elementi dai quali è composto un tutto complesso.
In questo senso, parlare della causa materiale è equivalente a
parlare delle parti dalle quali è composto un tutto: “Le parti di
una cosa sono quelle in cui si divide materialmente un tutto: poiché
le parti stanno al tutto come la materia alla forma; infatti
Aristotele considera le parti nel genere della causa materiale, e il
tutto nel genere della causa formale” (S.
Th.,
III, q. 90, a. 1, co.). Prendendo questo senso della parola “materia”
ampliamente, si potrebbe considerare che la materia della personalità
è ciascuna delle disposizioni o abiti che compongono quell’insieme
organizzato che è la personalità. Tuttavia, solo molto
impropriamente si può parlare in questo caso di “materia” o di
composizione di elementi. In realtà, la personalità non è il
risultato dell’addizione di tratti, come una casa è composta da
ferro e mattoni. Come nell’organismo (Goldstein, 1939) e nella
psicologia della percezione, anche in questo caso è vero che “il
tutto è prima delle parti”. Così lo diceva Rudolf Allers:
Il
carattere e la personalità non si costruiscono a partire da piccoli
pezzi, come un mosaico è costituito da piccoli tasselli. Se qualche
pietrina di questo mosaico non avesse il giusto colore o si fosse
rotta, l’artigiano potrebbe toglierla, gettarla via e sostituirla
con un’altra della stessa misura; solo dovrebbe considerare la
pietrina che sta introducendo, non essendo le altre importanti per
lui. Non c’è connessione reale tra ciascuna delle pietre. È
diverso quello che succede con la personalità umana o il carattere
umano. Per descrivere la sua peculiarità, la psicologia moderna
utilizza il termine “tutto”.
La
principale caratteristica di un tutto è l’intima interrelazione
delle sue parti. Queste sono tanto intimamente unite tra di loro che
nemmeno è possibile chiamarle propriamente “parti”. Una parte ha
una certa possibilità di avere un’esistenza separata; un foglio
strappato da un libro è ancora qualcosa ed esiste da se stesso,
anche se a volte contiene solo frammenti senza senso. E un tratto di
matita su una pagina, o una macchia d’inchiostro non distrugge il
libro al quale questa pagina appartiene. Ma in un vero tutto, c’è
una connessione così intima tra i diversi aspetti –termine
preferibile a “parti”- che nessuno di essi può soffrire
un’influenza senza che tutto il resto sia anche influenzato, e
nessuno di essi è capace di esistere da se stesso, indipendentemente
dal resto (Allers,
2000, 28-29).
Infatti,
la personalità non è composta da parti quantitative e sussistenti
da se. Le sue quasi-parti sono tratti o disposizioni ordinate
gerarchicamente, in modo tale che c’è un tratto principale che si
comporta rispetto agli altri come quello che dà loro forma, e lo
stesso succede con gli altri tratti tra di loro, dai principali verso
i secondari. Se la causa materiale (ex
qua)
della personalità è l’insieme di disposizioni o abiti, la causa
formale
è l’ordine di questi abiti tra di loro. La personalità è una
realtà complessa e non un mero aggregato univoco e piano di tratti
che hanno la stessa importanza; è una realtà ordinata, o meglio,
una pluralità organizzata in base a un progetto, un piano.
La
personalità è una organizzazione operativa, cioè ordinata
all’operazione. Nell’ordine delle operazioni, dice la tradizione
aristotelico-tomistica, il principio di spiegazione è il fine, e la
forma è determinata dal fine (causa
finale).
Così, il senso di quell’ordine che è la forma della personalità
viene dato, a sua volta, da un altro ordine, quello della personalità
considerata nella sua totalità in riferimento a un principio
estrinseco, il fine ultimo al quale la persona è orientata. Ogni
abito tende ad un fine o bene proprio. Ma la totalità della
struttura operativa della persona solo si comprende dal fine o bene
che è causa dell’ordine e della gerarchia degli abiti. Così, e al
di là della valutazione che meritino altre opinioni loro, avevano
ragione autori come Stern, Adler, Allers o Rychlak al concepire che
la personalità si capisce dal fine o, come dice Adler, dal “senso
della vita” (Adler, 1970, 20).
Finalmente,
abbiamo la causa efficiente, cioè l’agente che produce la realtà
causata nel soggetto e a partire dagli elementi, in vista del fine.
Dalla
costituzione corporale, particolarmente dal sistema nervoso centrale
e autonomo e dal sistema endocrino, derivano determinate inclinazioni
psichiche che, col tempo, sono modificate entro certi limiti. In
quella modificazione intervengono, certamente, come fattori decisivi,
gli influssi ambientali, ma non come cause efficienti. L’influenza
dell’ambiente non è immediata, ma è mediata da variabili di
natura cognitiva. Pensiamo ad atti dello stesso soggetto che
interpreta a suo modo gli influssi ambientali, così da non essere il
fattore ambientale ad influire, ma la propria cognizione di quel
fattore esterno. Questa cognizione, proponendo qualcosa come un bene
o come un male, mette in moto gli affetti che, se sono ripetuti
frequentemente e con intensità, possono alla fine configurare una
disposizione stabile, sul fondamento e limite delle disposizioni
naturali. Così, sempre è immediatamente il soggetto stesso la causa
principale dello sviluppo delle sue disposizioni. L’ambiente lo è
solo mediatamente e come causa esemplare ed estrinseca.
Alfred
Adler diceva che lo sviluppo della personalità è imprevedibile solo
a partire dalle circostanze esterne e dalle disposizioni
costituzionali. Secondo lui, il fanciullo modella liberamente la sua
personalità a partire da quei fattori che sono gli elementi dei
quali si serve, come materia o strumenti, per costruire la sua
propria personalità in modo libero e creativo.
Questa
legge di movimento si origina nel campo molto limitato dell’infanzia
e si sviluppa entro un margine di elezione relativamente ampio per
mezzo della libera disposizione –non limitata da nessuna azione
matematicamente formulabile- delle energie congenite e delle
impressioni del mondo circostante. L’orientazione e lo sfruttamento
degli “istinti”, “impulsi” e “impressioni” del mondo
circostante e dell’educazione è l’opera d’arte del bambino,
che non va interpretata dal punto di vista di una “psicologia del
possesso” (“Besitzpsychologie”),
ma di una “psicologia dell’uso” (“Gebrauchspsychologie”).
(Adler, 1970, 32-33).
In
realtà, Adler prende qui la parola libertà in un senso ampio e
improprio. È imprevedibile in maniera precisa cosa farà ogni
bambino con tutte queste influenze. Ma fino a che non si sviluppa la
sua capacità di discernimento e, quindi, di elezione, è vero che il
bambino è più mosso, che non agente del suo sviluppo. Il bimbo
riceverà gli influssi dell’ambiente secondo le sue disposizioni
naturali. Poi, pian piano, per l’emergere sempre più evidente
della sua personalità, cioè, della sua capacità di riflessione e
di elezione, il soggetto umano si fa carico di se stesso e forma un
modo di essere, ma da un punto di partenza che lui non sceglie,
costituito dalla sua natura e dalle sue circostanze. E non potrà
farlo pienamente se non conosce se stesso e se non accetta la sua
natura e le sue circostanze particolari. Se questo è vero, la
personalità è il risultato della libertà, ma di una libertà
finita, limitata, che deve essere riconosciuta come tale, e che ha un
punto di partenza che non ha scelto.
Non
vogliamo terminare questa riflessione senza fare riferimento
all’importanza di prendere in considerazione un altro fattore, di
cui non abbiamo fatto ancora menzione perché è quasi sconosciuto
alla psicologia contemporanea: quello soprannaturale. Certamente, non
è un qualcosa che si possa conoscere con una impostazione puramente
scientifico-naturale. Ma non per questo è qualcosa di irreale; anzi,
è un fattore che influisce in maniera molto importante nella
configurazione della personalità, anche se in modo misterioso, come
misteriosa è pure la persona stessa. Pio XII proponeva l’importanza
del soprannaturale per la psicologia proprio in un convegno di
psicologia applicata con queste parole:
Quando
si considera l’uomo come opera di Dio, si scoprono in lui due
caratteristiche importanti per lo sviluppo e il valore della
personalità cristiana: la sua somiglianza con Dio, che procede
dell’atto creatore, e la sua filiazione divina in Cristo,
manifestata dalla rivelazione. Infatti, la personalità cristiana si
fa incomprensibile se si dimenticano questi dati e la psicologia,
soprattutto quella applicata, si espone pure a malintesi ed errori se
li ignora. Perché sono fatti reali e non immaginari o presupposti.
Che questi fatti siano conosciuti tramite la rivelazione nulla toglie
alla loro autenticità, perché la rivelazione mette all’uomo o lo
colloca in posizione tale da superare i limiti di una intelligenza
limitata per abbandonarsi all’intelligenza infinita di Dio (Pio
XII, 1958).
Accanto
agli abiti intellettuali e al carattere acquisito, o in realtà sopra
di essi, ma in intimi rapporti, abbiamo una dimensione della
personalità solo conoscibile attraverso la fede, la dimensione
soprannaturale, che ha come centro le virtù teologali. Se questa
realtà -che anche se rivelata è vera realtà- non si tiene in
considerazione, la personalità reale e concreta, soprattutto se
cristiana, ci diceva Pio XII, no la si può capire. Anzi, la si mal
intende. Quindi, i fondamenti antropologici vanno ricercati non
soltanto nella filosofia, ma anche nella fede e nella teologia.
4.
Normalità e maturità
San
Giovanni Paolo II diceva qualcosa di simile nel n. 112 dell’Enciclica
Veritatis Splendor sul concetto di autorità:
Infatti,
mentre le scienze umane, come tutte le scienze sperimentali,
sviluppano un concetto empirico e statistico di «normalità», la
fede insegna che una simile normalità porta in sé le tracce di una
caduta dell'uomo dalla sua situazione originaria, ossia è intaccata
dal peccato. Solo la fede cristiana indica all'uomo la via del
ritorno al «principio» (cf Mt 19,8),
una via che spesso è ben diversa da quella della normalità
empirica.
La
normalità statistica, ci dice Giovanni Paolo II, può essere, e
molto spesso è, molto lontana da quello che è normale secondo la
volontà di Dio. Giovanni Paolo II parla qui contro l’impostazione
di alcuni teologi moralisti che prendono la norma della moralità da
ciò che è normale secondo le statistiche. Ma le sue parole, insieme
a quelle di Pio XII, possono far riflettere anche gli psicologi, le
cui ricerche si limitano ad essere molte volte di natura statistica.
Le statistiche ci possono far conoscere come stanno le cose, ma non
possono farci conoscere la normalità della personalità umana. Però
la normalità è la regola dell’azione dello psicologo pratico,
specialmente dello psicoterapeuta. D’altronde, dato che la persona
umana è chiamata ad essere responsabile per il fatto stesso di
essere persona, la dimensione morale non può essere accantonata, se
veramente vogliamo avere una comprensione totale, e non parziale,
della sua personalità.
In
qualche modo, questo viene affermato da alcuni autori della
psicologia contemporanea. Ad esempio, Gordon Allport, quando si
chiede come si possono definire la normalità e la maturità, ci
dice:
Non
possiamo rispondere a questa domanda solo in termini di psicologia
pura. Per poter affermare che una persona è mentalmente
sana, normale e matura,
dobbiamo sapere cosa sono la salute, la normalità e la maturità. La
psicologia da sé stessa non può dircelo. È implicato ad un certo
punto il giudizio etico (Allport, 1986, 329).
Allport
elenca sei caratteristiche della personalità normale e matura, anche
se non dice quale ne sia il fondamento: 1) Estensione del senso di
sé; 2) Capacità di stabilire rapporti emozionali; 3) Sicurezza e
accettazione di sé; 4) Pensiero realista; 5) Conoscenza oggettiva di
sé; 6) Avere una filosofia unificatrice della vita.
Questi
indicatori ci sembrano più chiari di quelli elencati, per esempio,
da Millon (1994, 20), puramente pragmatici e conformativi, ma
comunque insufficientemente fondati sulla struttura della persona
umana.
Altri
autori, come Erikson e Fromm, sono andati al di là di questo e hanno
affermato che la personalità umana normale e matura è la
personalità virtuosa (Erikson, 1967; Fromm, 1987). Fromm arriva a
dire perfino che questa è la posizione di Freud, anche se questo non
è vero:
La
caratterologia di Freud implica che la virtù è il fine dello
sviluppo umano. […] La crescita normale […] produrrà il
carattere maturo, indipendente e produttivo, capace di amare e di
lavorare; per Freud, in ultima analisi, salute e virtù sono la
stessa cosa. Ma questo collegamento tra carattere ed etica non è
esplicito (Fromm, 1987, 150).
Quest’idea
è stata approfondita recentemente da Christopher Peterson e Martin
Seligman (Peterson & Seligman, 2004). Questi autori hanno fatto
uno sforzo per riabilitare il concetto di carattere inteso come
struttura abituale che dipende dalla libertà e dalla responsabilità
del soggetto, come concetto fondamentale per capire il comportamento
umano, e specialmente l’uomo maturo e pieno. Dice Seligman:
Qualsiasi
scienza [dell’uomo] che non abbia il carattere come idea basica –o
per lo meno spieghi adeguatamente il carattere e la capacità di
scelta- non sarà mai accettata come spiegazione utile della vita
umana. Di conseguenza, credo sia arrivato il momento di resuscitare
il carattere come concetto centrale dello studio scientifico del
comportamento umano. (Seligman, 2003, 177)
Secondo
Peterson e Seligman, il carattere maturo sarebbe composto da sei
virtù che chiamano “ubique”, perché si trovano nella
maggioranza delle grandi culture dell’umanità. Queste virtù, che
definirebbero la personalità, sono: la sapienza, la giustizia, la
fortezza e la temperanza, l’amore e l’umanità, la spiritualità
e la trascendenza. Non è difficile scoprire dietro questi nomi le
quattro virtù cardinali e, incluso, in modo vago, le virtù
teologali in una versione secolarizzata (Vitz, 2005). Non possiamo
far altro che essere d’accordo con questi autori sul fatto che
queste virtù, bene intese, coprono in modo completo tutti gli ambiti
della personalità: la sapienza, è la maturità nell’ambito
cognitivo, particolarmente nel governo della propria vita, che la
psicologia normalmente attribuisce all’intelligenza intra e inter
personale, e che nel pensiero classico si attribuiva alla prudenza.
La giustizia, si riferisce all’ambito del rapporto armonico della
persona con i suoi simili. La fortezza fa che la persona non
indietreggi davanti alle difficoltà e ai pericoli. La temperanza
modera l’impulsività emozionale. Le altre virtù, riducibili alle
teologali, coprono l’ambito del rapporto della persona con Dio.
Qui
osserviamo una convergenza fra etica e psicologia che già fu
indicata da Josef Pieper (Echavarría, 2004). Il celebre filosofo
tedesco diceva:
[...]
la caratterologia, non importa la tendenza che abbia, tocca l'etica
in punti essenziali, e in questo senso non importa se ha un
fondamento religioso o è autonoma o se è formalista o "materiale",
intellettualista o volontarista. In qualche modo qualsiasi
caratterologia si occupa dell’essere dell’uomo, e ancor più, del
comune e immediato fondamento essenziale di tutte le azioni più
piccole. E giacché qualsiasi etica in qualche maniera è orientata
verso il dover essere dell’uomo, così si rapportano etica e
caratterologia, parlando in modo sommario e provvisorio, come dovere
ed essere. Le due scienze si suppongono vicendevolmente, ambedue
coincidono in ultimo termine sulla domanda riguardo l’essenza
dell’uomo. (Pieper, 1932, 68).
5.
Psicologia antropologica e squilibri della personalità
Discendendo
già al campo clinico, vogliamo riferirci all’importanza
dell’approccio antropologico, dalla visione dell’uomo come
persona ed essere responsabile, per comprendere alcuni disturbi.
Anche se probabilmente di tutti i disordini mentali si potrebbe fare
qualche tipo di lettura antropologica, ci sono alcuni disturbi che
per la loro natura peculiare, non solo si prestano di più a questa
lettura, ma incluso si potrebbe dire che non si possono capire senza
di essa. L’esempio più chiaro lo costituiscono sicuramente le
personalità nevrotiche.
In
qualche modo lo stesso Freud iniziò, forse senza saperlo,
l’interpretazione antropologica delle nevrosi sostenendo che i
sintomi nevrotici sono causati da un conflitto fra la morale e il
desiderio. In questo indirizzo hanno insistito specialmente alcuni
autori che hanno cercato di sviluppare una psicoanalisi
“personalista”, come Viktor E. von Gebsattel, Igor Caruso y
Wilfried Daim. Mi limiterò qui a riassumere solo un paio di idee del
primo periodo fenomenologico-esistenziale di Caruso (più tardi nella
sua vita, cadde nel marxismo). La tesi di Caruso è che i sentimenti
nevrotici di inferiorità, colpevolezza, scrupoli, ecc., sono la
conseguenza dello spostamento di una vera colpa. Vi sarebbe una colpa
reale, che il soggetto non vuole confessare mentre, invece di questa,
il soggetto si auto castiga con dei falsi sentimenti di colpevolezza.
Il Sentimento di colpa rimarrebbe nel fondo della psiche e avrebbe
bisogno di venire a galla in qualche modo. Questo modo sarebbero i
sentimenti di malessere, inferiorità e di colpa nevrotici. Dietro di
tutto ciò si nasconderebbe la superbia di non voler riconoscere la
propria responsabilità. Così lo spiega Caruso:
[...]
i sentimenti nevrotici di colpevolezza (sentimenti di inferiorità,
auto recriminazione, scrupoli, ecc.) sono spesso una maschera che
deve far possibile la “falsa localizzazione”. Il fatto che “la
coscienza più carica durante molti anni non conduca necessariamente
alla nevrosi” non è un argomento contro la presenza della cattiva
coscienza nella nevrosi. Nemmeno il bacillo di Koch rende tubercolosi
a tutti i portatori. Non tutte
le colpe conducono alla nevrosi, ma solo quelle non confessate e, ciò
nonostante, temute. Questa colpa si trova frequentemente nel fatto
che il nevrotico si dichiara colpevole di cose senza importanza
mentre non si rende conto della sua vera colpa. Questa vera colpa è
la superbia,
che consiste nell’identificarsi del neurotico con il suo ideale e
di escludere dalla coscienza i movimenti non compatibili; di questi
movimenti “ignorati” non si sente responsabile. Questa superbia
può essere accompagnata da conati di perfezione e purezza morale: il
desiderio è certamente verso l’esterno, “verso il più in là”,
ma la sua realizzazione con mezzi “di qua” è insufficiente.
Questo spiega che i rapporti tra la colpa e la nevrosi possano essere
trascurati dai teologi, come succede nell’argomento citato. [ ]
L’argomento contro il rapporto tra la colpa e la nevrosi è un
argomento tipicamente nevrotico e trova la sua continuità logica
nella psicoterapia naturalistica, che dichiara nevrotico qualsiasi
sentimento di colpa (Caruso, 1958, 61-62).
D’altro
canto, e prima di Caruso, Alfred Adler aveva posto a base del
carattere nevrotico la vanità, l’orgoglio e l’ambizione. Adler
sosteneva che il nevrotico ha un profondo sentimento di inferiorità,
di insufficienza, di imperfezione e di incompletezza, che gli causa
una enorme angoscia, e cerca di fuggire da questo sentimento con un
eccesso di auto affermazione, mettendosi alla ricerca di ciò che lui
chiama “sentimento di personalità”, di essere superiore agli
altri. Siccome al suo interno coesisterebbero allo stesso tempo un
ideale perfezionista per il quale dovrebbe essere superiore agli
altri, e i sentimenti di fondo di incapacità, il nevrotico, che si
sviluppa sul percorso inautentico dell’egocentrismo, ha sempre
paura del fracasso ed entra in shock,
quando non può posporre l’incontro con qualcuno dei tre grandi
problemi della vita: il matrimonio, il lavoro e l’amicizia. Il
nevrotico cercherebbe costantemente di evitare queste situazioni, per
poter conservare la sua sensazione di superiorità e non rendersi
conto del suo “essere al di sotto”. “La psiconeurosi è il
risultato della vanità e il suo obiettivo finale è di preservare
l’individuo dalla collisione fra il suo obiettivo nella vita e la
realità” (Adler, 1994, 302).
Idee
simili le troviamo in psicoanalisti come Karen Horney, come si deduce
dal seguente testo:
Con
tutti i suoi vigorosi sforzi verso la perfezione e con tutto il suo
credere nella perfezione già acquisita, il nevrotico non ottiene ciò
di cui ha più disperatamente bisogno: fiducia in se stesso e
rispetto verso se stesso. La grandiosa posizione che potrebbe
raggiungere, la fama che potrebbe acquisire lo farà diventare
arrogante ma non gli darà sicurezza interiore. Ma tutti questi
sentimenti di euforia collassano facilmente quando manca questo
supporto, quando sbaglia o quando deve bastarsi da solo. Lo sviluppo
nevrotico si indebolisce nel nucleo del suo essere. Diventa alienato
da se stesso e diviso. Invece di una solida fiducia in sé, ottiene
un regalo brillante di valore discutibile: l’orgoglio nevrotico.
(Horney, 1950).
Si
trovano idee simili anche in Albert Ellis, quando afferma che dietro
lo squilibrio psichico ci sono idee irrazionali di un “dover
essere” perfezionista. Ellis va più oltre e dice che il suo
approccio più che psicologico è filosofico, perché aiuta la
persona a raggiungere una nuova filosofia di vita (Ellis e Grieger,
2000).
Dialogando
con Adler, Pieper indicava il componente etico dell’atteggiamento
egocentrico, come contrapposto all’abbandono fiducioso in sé
stesso, che è l’atteggiamento moralmente e psicologicamente
salutare:
La
caratteristica essenziale che serve da denominatore comune a tutti i
più diversi tipi di nevrosi sembra esser un "ego-centrismo"
dominato dall’angoscia, una volontà di sicurezza che si chiude
esclusivamente in sé stessa, una incapacità di “abbandonarsi”
che nemmeno per un momento smette di trovarsi al centro del suo
sguardo: insomma: questa specie di amore alla propria vita che porta
esattamente alla perdita di essa. È sintomatica la circostanza, in
qualche modo casuale, che gli attuali caratteriologi siano ricorsi
più di una volta in maniera esplicita all’adagio: “Chi ama la
sua vita, la perderà”. Perché all’infuori del suo immediato
significato religioso, questo adagio costituisce la più letterale
espressione del dato che la caratteriologia e la psichiatria abbiano
saputo costatare: “Il rischio a cui si espone l’io è tanto più
grave quanto maggiore sia la sollecitudine con la quale si cerca la
sua protezione” (Pieper, 1988, 208).
Rudolf
Allers, proseguì le riflessioni di Adler in una prospettiva
esplicitamente antropologica. Questo autore presenta il problema a
partire dalla domanda sulla responsabilità:
Il
soggetto, è responsabile, in qualche modo, del suo stato? Una
psicologia strettamente medica può andare oltre, non essendole forse
necessario trovare una risposta per portare a buon fine il
trattamento. Ma una psicologia che contempla la totalità della
personalità –psicologia che potremmo chiamare “antropologica”-
deve prendere coscienza di questo problema. Personalmente, sono
convinto che non saremo mai capaci di farci un’opinione esatta
della natura dei disturbi nevrotici se vogliamo eludere questa
domanda limitandoci a considerazioni psicologiche. Il problema della
responsabilità è chiaramente di tipo morale. Ma non si può capire
la struttura della condotta, sia quella che sia, senza considerare i
fini perseguiti dal soggetto, i valori che vuole realizzare tramite i
suo atti, cioè, il suo atteggiamento riguardo le leggi e i fatti
morali (Allers, 1937, 140).
Riprendendo
in qualche modo queste riflessioni Pio XII, in un altro discorso,
questa volta ai partecipanti di un congresso di psicologia clinica,
affermava quanto segue:
C'è
un malessere psicologico e morale, l'inibizione dell'io, di cui la
vostra scienza si occupa di disvelare le cause. Quando questa
inibizione penetra nel dominio morale, per esempio, quando si tratta
di dinamismi come l'istinto di dominazione, di superiorità, e
l'istinto sessuale, la psicoterapia non potrà, senza dubbio,
trattare questa inibizione dell'io come una sorta di fatalità, come
una tirannia della pulsione affettiva, che scaturisce dal subcoscio e
che scappa assolutamente al controllo della coscienza e dell'anima.
Che non si abbassi frettolosamente l'uomo concreto con il suo
carattere personale al rango del bruto animale. Nonostante le buone
intenzioni del terapeuta, gli spiriti delicati risentono fortemente
questa degradazione al piano della vita istintiva e sensitiva. Che
non si trascurino troppo le nostre osservazioni precedenti
sull'ordine del valore delle funzioni e il ruolo della sua direzione
centrale. (Pio XII, 1953, 281-282).
Con
questo testo, Pio XII dice chiaramente che i dinamismi di cui parlano
Freud e Adler, l’istinto sessuale e la volontà di potere, non sono
forze che ci obblighino necessariamente a un tipo di condotta.
L’inibizione dell’io che produrrebbero, non è inevitabile. Si
deve ricordare che malgrado la loro forza, l’essere umano è
costituito in modo tale da potere, con l’aiuto della grazia,
governare se stesso. Per questo motivo, Pio XII dice che si debbono
preferire i procedimenti che tendono a dirigere, formare ed educare a
quelle tecniche che sommergono l’individuo nel caos della sua vita
immaginativa e istintiva,:
Sarebbe
meglio, nel dominio della vita istintiva, concedere più attenzione
ai metodi indiretti ed all’azione dello psichismo cosciente
sull’insieme dell’attività immaginativa ed affettiva. Questa
tecnica evita le devianze segnalate. Tende a fare chiarezza, curare e
dirigere; influenza anche la dinamica della sessualità, su di cui si
insiste tanto, e che si incontrerebbe o anche si incontra realmente
nell’inconscio o nel subconscio
(Pio XII, 1952, 783-784).
Oggi
questo approccio classico è stato in gran parte sostituito da
un’approssimazione tecnica che ha dato certi risultati in alcuni
disturbi clinici specifici, ma che ha perso profondità e finezza per
quanto riguarda la comprensione dell’intimità dell’essere umano.
Comunque, il dibattito rispetto il rapporto tra squilibrio psichico e
moralità si è di nuovo aperto nel campo dei cosiddetti “disturbi
della personalità”. Un autore canadese, Louis Charland, della
University of Western Ontario, sostiene che i disturbi della
personalità del cluster B, a differenza di quelli del cluster A e
del cluster C, sono di natura morale (Charland, 2006). Lo
dimostrerebbe in primo luogo il linguaggio usato per definirli, pieno
di qualificativi di tipo morale. Ma soprattutto, il fatto che per il
trattamento di questi disturbi è necessaria una specie di
conversione morale, una volontà profonda e sostenuta di cambiamento
del modo di essere. Dal canto suo, Peter Zacchar, della Auburn
University at Montgomery, e Nancy Potter, della University of
Louisville, partendo da un’etica della virtù, sembrano difendere
la possibilità di una doppia natura di questi disturbi, a seconda
dell’approccio che ricevano. La etica della virtù suppone che il
soggetto, tramite le sue azioni libere plasmi il suo carattere. Da
questo si potrebbe arrivare a un modo di esser che, da una
valutazione clinica potrebbe essere considerato come un disturbo
(Zachar & Potter, 2010a; Zachar & Potter, 2010b). La cosa più
significativa è ciò in cui le due posizioni coincidono: il
carattere morale dei disturbi del cluster B. D’altro canto è
significativo che la teoria filosofica della virtù, non solo stia
iniziando a influire sulla psicologia della personalità e dello
sviluppo, ma anche sulla clinica. Indipendentemente dalle nostre
considerazioni riguardo a questa discussione, è interessante
osservare ciò che segue: i disturbi della personalità non sono per
sé stessi patologie, ma modi anormali di essere che di solito si
associano a disturbi clinici. Questa anormalità può avere molte
cause, parlando genericamente le stesse cause che incidono nella
conformazione di qualsiasi personalità: ambientali, biologiche,
personali, fra le altre. Non ci sembra per questo un controsenso il
ricercare anche in esse una dimensione morale. Di fatto, vari
disturbi della personalità, l’istrionico, l'evitante e
l’ossessivo-compulsivo, coincidono con le classiche personalità
nevrotiche, isteriche, fobiche e anancastiche. D’altro canto,
sebbene le personalità del cluster A sembrano muoversi in prossimità
dello spettro schizofrenico, ci pare interessante segnalare la
prossimità esistente tra determinati difetti di alcune delle virtù
basiche e alcuni disturbi dei cluster B e C. I disturbi del cluster
B, con la loro caratteristica impulsiva, assomigliano ai disturbi
contrari alla temperanza, la cui specificità è la moderazione
dell’impulso affettivo. I disturbi del cluster C, con la loro
ansietà e timore, si avvicinano invece ai disturbi contrari alla
virtù della fortezza. Per questo, al di là dei procedimenti tecnici
di intervento specifico, ci sembra importante sottolineare la
possibile utilità dell’educazione in queste virtù specifiche per
trasformare in meglio queste personalità. Su questo percorso stiamo
lavorando attraverso la direzione di varie tesi sull’egocentrismo
inteso come tratto patogeno, e della teoria della virtù nella sua
applicazione alla psicoterapia, indirizzo che seguono anche altri
autori (Moncher, 2001; Titus & Moncher, 2009; Vitz, 2009).
Tanto
dal punto di vista della clinica classica della personalità
nevrotica, quanto da quello dei disturbi della personalità, ci
ritroviamo con un intimo rapporto tra disposizioni morali e
squilibrio psichico. Questo affonda le sue radici, dal punto di vista
teologico, sulla ferita della natura umana conseguenza del peccato
originale. Così lo aveva osservato già Rudolf Allers:
La
nevrosi sorge dall’esagerazione che ha luogo nella divergenza –che
esiste in qualsiasi vita umana- tra la volontà e la possibilità di
potere. In altre parole: è un risultato della situazione puramente
umana, così come è costituita nella natura ferita. Può anche dirsi
che, orientata verso ciò che è morboso e perverso, è
conseguenza della ribellione della creatura contro il suo essere
naturalmente finita e impotente.
(Allers, 1952, 80).
Paul
Vitz, d’altro canto vede nello squilibrio psichico la
manifestazione delle vicissitudini del peccato originale (Vitz,
1989). A sua volta, il teologo Jean-Claude Larchet, specialista in
teologia della malattia, afferma che a conseguenza del peccato
originale e personale, ogni uomo è disposto allo squilibrio
psichico, anche se non sempre questo si manifesta sotto forma di una
patologia specifica. Lo squilibrio psichico sarebbe, così,
conseguenza di una più radicale malattia spirituale.
[…]
la vita psichica non può essere considerata come un semplice gioco,
meccanico, di forze delle quali vi sarebbe bisogno di controllare la
potenza e l’armonia. E lo psicoterapeuta non dovrebbe essere
ritenuto come un equivalente di ciò che è l’ortopedico o il
cardiologo riguardo al dominio somatico. […] La mancanza d’armonia
introdotta dalle passioni nell’esercizio delle nostre facoltà è
una mancanza d’armonia non solo spirituale ma anche psichica.
(Larchet, 2005, 16-17).
L’uomo
caduto è necessariamente vissuto dalle passioni [si legga: vizi]
anche se queste si trovano in proporzioni differenti nei differenti
individui. Così come abbiamo appena visto, si può dire che ogni
persona sviluppa una patologia psichica in rapporto alla sua
patologia spirituale. Ma nella maggioranza degli uomini, questa
patologia psichica non si manifesta sotto forma di disturbi
percettibili o di malattie identificabili. (Larchet, 2005, 19).
Per
questo, in questa stessa linea, affermava Pieper che l'etica della
quale ha bisogno la psicoterapia è specialmente quella fondata in
modo soprannaturale, perché l’aspirazione a mantenere un mero
equilibrio naturale, più che liberare dall’angoscia, predispone ad
essa. Un perfezionismo naturalista è nevrotizzante per se stesso:
In
certo modo si rivela una cosa senza senso l’aspirare a mantenere
l’ordine interiore per se stesso e proporsi come fine la pura
conservazione dell’io in quanto tale. All’estremo di questa
finalità “pura”, ma naturale, si trova la temperanza dell’avaro,
che, come dice San Tommaso, evita la immoralità per le spese che
comporta. È evidente che qui non vi è nessuna virtù. Ma sappiamo
anche che il lavoro medico è debole quando agisce da solo, per
promuovere nella persona malata una moderazione con garanzie di un
risultato permanente. Giustamente si accusa qualsiasi trattamento
psicoterapeutico che non abbia una fase metafisica o religiosa, del
fatto che i suoi risultati sono “un imborghesimento circondato da
timorose cure e avvelenato da un vuoto sconsolante”. E questo, è
chiaro, non ha nulla da vedere con la pace sostanziale che concede la
vera temperanza. Questo fracasso non è qualcosa che succeda
fortuitamente, ma deve sopraggiungere per necessità. […] In altre
parole: il mantenimento dell’io non è realizzabile mentre lo
sguardo si mantiene su ciò che è esclusivamente umano. (Pieper,
1988, 227-228).
Conclusioni
La
concezione antropologica del soggetto umano in sede psicologica si
basa sul carattere personale dell’essere umano. Come persona, il
soggetto umano, anche se è sottomesso a influenze importanti che
provengono dalla sua natura e da ciò che lo circonda, è capace di
auto governarsi e di formare se stesso, modellando la sua personalità
e il suo carattere. Per questo, la persona umana adulta è, nella
maggior parte dei casi, e a seconda delle diverse circostanze
personali, responsabile tanto del suo agire, quanto del suo modo di
essere. Senza l’assunzione della propria responsabilità non c’è
crescita umana. Questa visione della persona umana come essere
responsabile ha conseguenze tanto nella concezione della personalità
normale, che non può essere intesa a prescindere da questa
dimensione, quanto addirittura nella concezione di alcune forme di
squilibrio psichico come le personalità neurotiche e alcuni disturbi
della personalità. Qui soltanto abbiamo voluto fornire un panorama
generale e un progetto, che dovrebbe svilupparsi nei dettagli per
mezzo di studi e ricerche specifiche, realizzate in vista di una
antropologia integrale.
Bibliografía
Adler, A. (1994). El
carácter neurótico.
Barcelona: Planeta – DeAgostini; tr. It. Il
temperamento nervoso,
Astrolabio, 1978; Il
carattere dei nevrotici,
Newton Compton, 2008.
Adler, A. (1970). El
sentido de la vida.
Barcelona: Miracle; tr. It. Il
senso della vita,
Newton Compton, 2012.
Adler, A. (1961).
Práctica
y teoría de la Psicología del Individuo.
Buenos Aires: Paidós; tr. It. Prassi
e teoria della psicologia individuale,
Astrolabio, 1949.
Allers, R.
(2000). Self
Improvement,
Colorado:
Roman Catholic Books.
Allers, R. (1952).
Naturaleza
y educación del carácter.
Barcelona: Labor; tr. It. Psicologia
e pedagogia del carattere,
a cura di R. Titone, SEI, 1961.
Allers, R. (1937).
Aridité symptôme et aridité stade. Études
Carmélitaines,
22, 132-153.
Allport, G.W. (1986).
La
personalidad. Su configuración y desarrollo.
Barcelona: Herder.
Canals Vidal, F.
(1987). Sobre
la esencia del conocimiento.
Barcelona: PPU.
Caruso, I. A. (1958).
Análisis
psíquico y síntesis existencial.
Barcelona: Herder.
Charland,
L. C. (2006). The
Moral Nature of the Cluster B Personality Disorders. Journal
of Personality Disorders, 20,
2, 119-128.
D’Avenia,
M. (1992).
La
conoscenza per connaturalità in San Tommaso d’Aquino.
Bologna:
Edizioni Studio Domenicano.
Echavarría, M.F.
(2013). Corrientes
de psicología contemporánea.
Barcelona: Scire.
Echavarría, M.F.
(2010a). La
praxis de la psicología y sus niveles epistemológicos según santo
Tomás de Aquino.
La Plata: Ediciones de la Universidad Católica de La Plata.
Echavarría, M.F.
(2010b). Persona y personalidad. De la psicología contemporánea de
la personalidad a la metafísica tomista de la persona. Espíritu,
LIX, 139, 207-247.
Echavarría,
M.F. (2004). Ética
y psicoterapia según Josef
Pieper. Sapientia,
LIX 393-403.
Erikson,
E. (1967). Ética
y Psicoanálisis.
Buenos Aires: Hormé.
Eysenck, H.J. (1959).
Estudio
científico de la personalidad.
Buenos Aires: Paidós.
Filloux, J.C. (1971).
La
personalidad.
Buenos Aires: EudeBA; tr. It. La
personalità,
Cisalpino, 1993.
Freud, S. (1996).
Obras
completas, vol. XXIII.
Buenos Aires: Amorrortu; tr. It. Opere,
Bollati Boringhieri.
Freud, S. (1973).
Obras,
vol. 3. Madrid: Biblioteca Nueva.
Fromm, E. (1987).
Ética
y psicoanálisis.
México: Fondo de Cultura Económica.
Gardner,
H. (1983). Frames
of Mind: The Theory of Multiple Intelligences.
New York: Basic Books; tr. It. Formae
mentis, saggio sulla pluralità dell’intelligenza,
Feltrinelli 2013.
Goldstein,
K.
(1939). The
Organism. A Holistic Approach to Biology Derived from Pathological
Data in Man.
New
York: American Book Company; tr. It. L’organismo,
Fioriti, 2010.
Juan Pablo II
(1987).
La
incapacidad psíquica y las declaraciones de nulidad matrimonial.
Discurso al tribunal de la Rota Romana. Acta
Apostolicae Sedis,
LXXIX, 1453-1459; tr. It. L’incapacità
psichica e le dichiarazioni di nullità matrimoniali,
Discorso al tribunale della Rota Romana.
Hall, C.S. y Lindzey,
G. (1980). La
teoría personalística. Allport.
Buenos Aires: Paidós; tr. It. Teorie
della personalità,
Bollati Boringhieri, 1986.
Hergenhahn, B. R.
(2001). Introducción
a la historia de la psicología.
Madrid:
Thomson.
Horney,
K.
(1950).
Neurosis
and Human Growth:
The Struggle Toward Self-Realization. New York: W.W. Norton &
Company Inc; tr. It. Nevrosi
e sviluppo della personalità,
Astrolabio, 1981.
Lagache,
D. (1993). L'unité
de la psychologie. Psychologie expérimentale et psychologie
clinique.
Paris : Presses Universitaires de France; tr. It. Introduzione
alla psicologia,
Newton Compton, 1972.
Larchet,
J.C. (2005). L’inconscient
spirituel.
Paris : Les Éditions du Cerf; tr. It. L’inconscio
spirituale,
San
Paolo, 2006.
Millon, Th. (1994).
La
personalidad y sus trastornos.
Barcelona: Martínez Roca.
Peterson, Ch. &
Seligman, M.E.P. (2004). Character
Strengths and Virtues: A Handbook and Classification.
New York: American Psychological Association & Oxford University
Press.
Moncher,
F. J. (2001). A psychotherapy of virtue: Reflections on St. Thomas
Aquinas' theology of moral virtue. Journal
of Psychology and Christianity,
20, 332-341.
Pérez Álvarez,
M. (2003). Las
cuatro causas de los trastornos psicológicos. Madrid:
Editorial Universitas.
Pieper, J. (1988).
Las
virtudes fundamentales.
Madrid-Bogotá:
Rialp; tr. It. La
giustizia,
Morcelliana, 2000; La
prudenza,
Morcelliana, 1999; La
temperanza,
Morcelliana 2002; La
fortezza,
Morcelliana 2001.
Pieper,
J. (1932). Sachlichkeit und Klugheit. Über das Verhältnis von
moderner Charakterologie und thomistischer Ethik. Der
katolische Gedanke,
68-81.
Pío XII (1958).
Alocución a los participantes al XIII Congreso Internacional de
Psicología aplicada. Acta
Apostolicae Sedis,
L, 268-282; tr. it. in Pio
XII: discorsi ai medici,
Orizzonte medico, 1960.
Pío XII (1953).
Alocución a los participantes al V Congreso Internacional de
Psicoterapia y de Psicología clínica. Acta
Apostolicae Sedis,
XXXXV, 278-286; tr. it. in Pio
XII: discorsi ai medici,
Orizzonte medico, 1960.
Pío XII (1952).
Alocución a los participantes al I Congreso Internacional de
Histopatología del Sistema Nervioso. Acta
Apostolicae Sedis,
XXXXIV, 779-789; tr. it. in Pio
XII: discorsi ai medici,
Orizzonte medico, 1960.
Rychlak,
J. F. (1994). Logical Learning Theory: A Human Teleology and Its
Empirical Support. Lincoln, NE: University of Nebraska Press.
Seligman,
M.E.P. (2003). La
auténtica felicidad.
Barcelona: Bergara; tr. It. La
costruzione della felicità,
Sperling & Kupfer, 2003.
Titus, C. S. and F.
Moncher (2009).
A Catholic Christian Positive Psychology: A Virtue Approach.
Edification:
Journal of the Society for Christian Psychology,
3, 1, 57-63.
Vitz,
P.C. (2009). Reconceiving
Personality Theory from a Catholic Christian Perspective
Edification: Journal of the Society for Christian Psychology,
3, 1, 42-50.
Vitz,
P.C. (2005). Psychology in Recovery. First
Things,
151, 17-22.
Vitz,
P.C. (1989). The vicissitudes of Original Sin: a Reply to Bridgman
and Carter. Journal
of Psychology and Theology,
17, 9-12.
Zachar, P. &
Potter, N.N. (2010a). Personality
Disorders: Moral or Medical Kinds Or Both? Philosophy,
Psychiatry, & Psychology,
17, 2, 101-117.
Zachar, P. &
Potter, N.N. (2010b). Valid
Moral Appraisals and Valid Personality Disorders. Philosophy,
Psychiatry, & Psychology,
17, 2, 131-142.
Nessun commento:
Posta un commento