Alcuni rilievi sulle
nozioni di “frustrazone”, “adattamento” e “conflitto”
è uno degli articoli più sintetici ed al contempo più profetici di
Rudolf Allers. Edito su “Orientamenti pedagogici” (Anno IV
– Numero 1) nel lontano 1957 – un momento storico in cui la
storia della Chiesa ed il latino erano materie di studio nelle scuole
di ogni ordine e grado, i cristiani riempivano le piazze, le chiese e
gli oratori, i pensatori ed i politici che si ispiravano al Magistero
erano maggioranza nel paese ed occupavano un posto di rilievo nel
panorama culturale e sociale mondiale – l’articolo denuncia la
presenza di una «concezione relativistica» negli ambiti educativi,
ovvero di una filosofia che «nega che ci siano criteri oggettivi e
immutabili secondo i quali giudicare la qualità della situazione o
delle idee che governano la condotta». Questa «concezione» può
essere «ammessa apertamente» ma anche «implicitamente», ovvero
nascondersi al di sotto delle azioni comuni e quotidiane, senza
neppure essere percepita o coscientemente riconosciuta.
Per Allers il
relativismo è una «teoria opportunistica» perché «non tiene
conto di principi permanenti ma opera con la nozione di principi –
se mai si possa applicare tale termine – i quali mutano
continuamente col mutare della struttura sociale, delle condizioni
economiche, con l’avanzare della scienza, e così via». Tutto è
relativo, non c’è niente di stabile ed immutabile, né eterno. In
altre parole: la fedeltà coniugale è un bene per quella
coppia, ma non è un bene assoluto. L’aborto è un male per codesta
famiglia in simili condizioni, ma non è un male di principio.
L’agire pulsioni sessuali contro natura può essere male per un
individuo ma bene per un altro. Sono esempi che attingono all’ambito
della morale, ma si estendono all’ontologia da cui la morale trae
consistenza (secondo il principio aristotelico per cui l’agire è
una conseguenza dell’essere, agere sequitur esse). «Ma
senza principi permanenti l’uomo è incapace di affrontare la
realtà in cui vive». Poiché «cadendo a tale concezione
relativistica, egli abbandona tutto ciò che gli può donare certezza
e sicurezza in un mondo in divenire». Senza un punto fermo tutto si
muove, tutto cambia, e sopraggiunge la paura. «È appunto tale
perdita di una base permanente e solida, su cui erigere la struttura
della sua vita, che costituisce la causa principale della crescente
“insicurezza” che tormenta l’uomo moderno».
A quasi cinquant’anni
di distanza, come non poter collegare tali riflessioni al monito del
Cardinal Ratzinger, pochi giorni prima di divenire Papa Benedetto
XVI, sulla «dittatura del relativismo»? «Si va costituendo una
dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e
che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie»
(Joseph Ratzinger, Missa pro eligendo romano pontefice, 18
Aprile 2005). Qual'è l'esito di questo «atteggiamento», «cioè il
lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”»?
Insofferenza per l'alterità, insicurezza e disidentità,
risponderebbe Rudolf Allers: «È perché non può più trovare la
certezza in se stesso che egli diventa insofferente di ogni
conflitto, da una parte, e, dall’altra, cerca la sicurezza
sottomettendosi alla pressione del gruppo, fino al grado di divenire,
per così dire, spersonalizzato, un semplice atomo o elemento di un
più grande complesso e, conseguentemente, quasi indistinto dagli
altri atomi».
Nell’ambito delle
teorie dell’educazione e, quindi, della prassi terapeutica, la
«concezione relativistica» pare ben evidente in tre «enunciati»,
ovvero le «parole-chiave» del titolo, che, uniti assieme,
costituiscono un vero e proprio «sistema pedagogico». «Si suppone
da molti che la frustrazione debba essere evitata a tutti i costi,
che l’adattamento costituisca la condizione necessaria di una vita
soddisfacente, e che in conflitti non debbano esistere affatto».
Questo poiché si ritiene che la frustrazione, l’inadattamento e «i
conflitti mettono a repentaglio quello stato di comodiamo borghese,
che l’uomo moderno si è abituato a identificare con la felicità».
Lascio al lettore la disamina degli errori contenuti in tale modo di
pensare che, come ogni «concetto delle finalità prossime e remote
dell’educazione dipende dal modo in cui viene concepita la natura
dell’uomo e la sua posizione di fronte alla realtà, vale a dire,
di fronte a si suoi simili e a se stesso». Desidero però concludere
questa breve introduzione con un esempio concreto, che in questi
giorni ha accompagnato le mie riflessioni ed a cui la rilettura del
testo di Allers ha offerto chiarezza. Il pensiero unico che oggi
sembra dominare incontrastato sia nella società civile che negli
ambiti professionali sostiene che una persona sofferente di
attrazioni sessuali indesiderate – come nel caso di un uomo che
prova attrazioni per un altro uomo avendone paura, vergogna,
fastidio, ripugnanza, ecc. – debba essere accompagnato ad
"esplorarsi", ovvero ad accettarsi e vivere in coerenza con ciò che
sperimenta. Se dovessimo utilizzare i termini di Allers, potremmo
dire che una tale persona prova frustrazione in quanto ha un istinto
o pulsione e lo reprime; sperimenta inadattamento poiché si
distingue sia dal mondo di chi ritiene le attrazioni per le persone
dello stesso sesso incoerenti con la propria natura, sia da chi, al
contrario, lo invita a seguire gli istinti (eufemisticamente chiamati
“orientamenti”); infine vive diversi conflitti, interni
(specialmente, anche se essi sono in genere poco indagati dai
rotocalchi) ed esterni, nei confronti della cultura contemporanea che
“non lo accetta” (ora è di moda dire “omofobica”, anche se
il termine è erroneo – poiché non vi sono i segni di una fobia –
ed usato ideologicamente). Ora, mi domando: si aiuta tale persona
maggiormente se la si accompagna verso l’adattamento, cioè la fine
della frustrazione – causata dalla soppressione degli istinti – e
l’appianamento dei conflitti – l’assenza di irrequietezza –
oppure, al contrario, se si utilizzano tali frustrazioni e conflitti
come indicatori per migliorare il senso di sé e di realtà,
favorendo non l’adattamento ma l’emergere di una personalità
autonoma, adulta e matura (dunque, come spesso accade,
controcorrente, virtuosa e con un pensiero radicato nei principi
ultimi da cui trae consistenza)? Guadagnare la libertà significa
percorrere un cammino in salita (quasi sempre, per quello che ho
potuto comprendere)...ma che soddisfazione giungere sino in vetta!
Allora sì che ci si può sentire liberati, non dai rimorsi di
coscienza, ma dal dominio dell'istinto e della conformità alla
società.
Non abbandoniamoci al
pensiero unico, perché disponiamo di tutti gli strumenti per
coglierne le aporie e fare il bene.
Alcuni rilievi sulle nozioni di “frustrazione”, “adattamento” e “conflitto”
RUDOLF ALLERS
della Georgetown University, Washington. D. C.
Il noto psichiatra e filosofo intende
con le seguenti precisazioni rivedere criticamente quella parte della
pedagogia contemporanea — particolarmente americana — che pone
come fine immediato ed esclusivo dell'educazione e l'adattamento
sociale ed ha orrore dei e conflitti, in quanto necessariamente
generatori di e frustrazione emotiva.
L'educazione può essere definita come
l'insieme di quei procedimenti, mediante i quali la persona immatura
viene preparata alla vita e a quei compiti che le saranno assegnati
allorché sarà maturata e sarà entrata nella società come membro
autoresponsabile. Di conseguenza, il concetto delle finalità
prossime e remote dell'educazione dipende dal modo in cui viene
concepita la natura dell'uomo e la sua posizione di fronte alla
realtà, vale a dire, di fronte ai suoi simili e a se stesso.
La trattazione di una teoria
pedagogica rappresenta evidentemente un tema troppo ampio per essere
compreso nell'ambito di un semplice articolo. Tuttavia, è possibile
valutare un sistema pedagogico con l'esaminare certe parole-chiave,
nelle quali, è presumibile, si rivela lo spirito generale del
sistema. Nella letteratura pedagogica contemporanea, specialmente
negli Stati Uniti ma non meno altrove, i tre termini enunciati nel
titolo mantengono un ruolo prominente. Si suppone da molti che la
frustrazione debba essere evitata a tutti i costi, che l'adattamento
costituisca la condizione necessaria di una vita soddisfacente, e che
il conflitti non debbano esistere affatto. Quest'ultima esigenza si
riferisce tanto ai conflitti interiori che a quelli legati
all'ambiente. I conflitti interiori sono considerati quasi come segni
di una qualche anormalità, e i conflitti con l'ambiente appaiono
come i risultati dell'inadattamento, mentre si crede che essi possano
scomparire appena si sia raggiunto un perfetto adattamento. In ogni.
caso, i conflitti mettono a repentaglio quello stato di comodismo
borghese che l'uomo moderno si è abituato a identificare con la
felicità.
Tali idee sono ormai ritenute talmente
pacifiche dalla maggioranza degli scrittori di teoria e di pratica
educativa che non si pensa più di sottoporle al vaglio della
critica. Ma qui succede appunto come in tanti altri casi: proprio ciò
che è pacificamente accolto, abbisogna di essere riesaminato con
maggiore urgenza e severità che non tutto il resto. Sono le
affermazioni cosiddette «per sé evidenti» che celano i problemi
più seri.
Una seppur breve disamina di codesti
tre concetti sarà in grado di provare che i fatti, a cui si
riferiscono, sono stati in parte male interpretati e che le
conclusioni, che se ne son tratte, sono aperte ad obiezioni piuttosto
gravi.
1. È fuori dell'ambito di queste poche
pagine l'indagare quali siano le ragioni della generale accettazione
dell'idea di frustrazione e dei suoi malefici effetti. È
nondimeno certo che tale idea scaturisce da una filosofia
naturalistica, la quale è, allo stesso tempo, stranamente
ottimistica. Giacché essa suppone che il libero sfogo delle
inclinazioni naturali conduca, automaticamente, ad uno sviluppo
soddisfacente, mentre al contrario si avranno deviazioni caratteriali
qualora a tali inclinazioni non sia permesso di raggiungere la
propria meta. A questa concezione ha notevolmente contribuito la
dottrina freudiana sugli istinti.
Si crede, cioè, che frustrando
l'istinto o le inclinazioni naturali venga a crearsi uno stato, in
cui tali forze cercheranno o presto o tardi uno sfogo, determinandosi
in tal modo una forma di aggressività antisociale. Questa teoria è
fondata sullo studio di adolescenti antisociali, nella cui vita la
frustrazione sembra, invero, avere una funzione preponderante. Non è
tuttavia affatto certo che il rapporto causale sia proprio quello
indicato da tale teoria. Vi sono infatti parecchi aspetti, a cui non
si è data la dovuta importanza.
Anzitutto, la frustrazione ha luogo
nella vita di tutti i fanciulli; ma non tutti diventano antisociali,
aggressivi o criminali. Anche la cura più diligente per evitare
frustrazioni non potrà mai riuscire totalmente allo scopo; vi sono
azioni con cui il fanciullo può recar danno a sé o agli altri, e
che pertanto debbono essere impedite. In secondo luogo, non è
affatto certo che l'aggressione costituisca l'effetto necessario di
una frustrazione anche di grandi proporzioni. Ché la frustrazione
non è di fatto l'unico fattore determinante; altri, e parecchi, sono
associati ad essa. P. A. Sorokin, l'eminente sociologo della Harvard
University, ha rilevato che possono eventualmente verificarsi altri
risultati. Invece di un atteggiamento di rivolta, l'individuo può
manifestare disposizioni di mitezza e di docilità; e casi simili non
sono del tutto infrequenti. Ma essi non giungono all'attenzione dello
psicologo, perché questi individui non causano alcun disturbo
sociale, onde non si rende necessario alcun intervento o trattamento
clinico. È ancora possibile che l'energia istintiva — per usare il
linguaggio degli psicanalisti — cerchi altri sfoghi; per esempio,
divenga fonte di varie attività perfettamente compatibili con le
leggi della società. Tale possibilità di esito è in parte
considerata da Freud quando parla della sublimazione, e vi ha
accennato Adler parlando di «aggressione culturale». È infine
possibile, in quarto luogo che la frustrazione rivolga l'individuo
verso altre mete, per esempio verso la pratica di una moralità
rigida. In ogni caso, non si dà prova veramente cogente in favore
della tesi degli inevitabili effetti malefici della frustrazione.
Ciò, tuttavia, non equivale a dire
che una eccessiva ed irragionevole frustrazione non possa causare
vero danno; giacché non si può prevedere quali altri fattori
possano entrare in gioco e rendere la frustrazione un grave ostacolo
allo sviluppo normale del carattere. Avviene qui quel che succede
coi castighi. Il castigo dato saggiamente, con giustizia e in un modo
comprensibile al fanciullo, non porterà alcun danno; ma deve essere
accompagnato, nell'insieme del processo educativo, da un egualmente
saggio riconoscimento del bene del fanciullo. La severità esagerata
nell'educazione, il rifiuto di comprensione, l'imposizione di regole
che il fanciullo non riesce a comprendere, e soprattutto l'assenza di
amore e delle dimostrazioni di affetto da parte degli educatori
possono avere e di fatto hanno assai spesso conseguenze disastrose.
Tutto ciò è abbastanza ovvio ed
anche facilmente confermato dall'esperienza. Donde la questione del
perché mai tale teoria della frustrazione sia venuta a godere così
largo consenso. La risposta, tuttavia, sarà differita fino a che
abbiamo esaminato anche le altre due idee.
2. Si hai «adattamento» quando
l'individuo ha assunto, fatto propri le regole e i principi di
condotta e di azione, che sono approvati e seguiti dal gruppo in cui
egli deve vivere o viene a vivere. Il concetto di adattamento si pone
in strano contrasto con quello della prevenzione della frustrazione.
Poiché non si può, a rigore, predire a priori, che le forme di
vita, a cui l'individuo dovrebbe conformarsi, siano tali da fornir
soddisfazione ai suoi istinti e impulsi elementari. Al contrario, è
non solo possibile ma probabile che le regole di condotta del gruppo
cozzino con certe sue inclinazioni. In altre parole, l'adattamento
porta con sé, in molti casi, la frustrazione.
Se un individuo impreparato
all'adattamento è gettato improvvisamente in un ambiente che gli
impone prestazioni definite e rigorose nei riguardi della condotta,
egli non potrà non incontrare gravi difficoltà e trovare
l'adattamento talvolta impossibile. Si son dati numerosi casi di
sindromi neurotiche insorte evidentemente quando tali individui
furono costretti ad arruolarsi nelle forze armate. La loro incapacità
di adattarsi alle nuove condizioni, il risentimento contro le forze
ambientali frustratrici, uniti all'impossibilità di ritirarsi o di
fuggire, causarono un tale grado di rivolta e di tensione interna che
l'insorgere dei disturbi neurotici era divenuto perfettamente
comprensibile. È degno di nota che tali casi furono osservati non
soltanto sotto la tensione del servizio attivo sul fronte, ma non di
rado in persone che si trovavano ancora alle prime fasi del servizio
militare. La situazione di un campo militare è, ad ogni modo,
eccezionale. Nella vita civile è difficile che si abbia un eguale
grado di pressione e in molti casi si dà una possibilità di
evasione, in quanto l'individuo può tentar di associarsi ad un altro
gruppo, cercare un altro lavoro, spostarsi in un altro luogo, e così
via. Può tentare, è vero; ma anche in una società di grande
mobilità sociale è dubbio se e in quale misura possa riuscire. E
ciò diventa tanto più dubbio, quanto più omogenea diventa la forma
di vita. Non si può, d'altronde, negare che la tendenza generale del
mondo moderno sia proprio di avviarsi verso una sempre maggiore
omogeneità. Fatto, questo, che, in certa misura, è dovuto alla
standardizzazione e meccanizzazione universale della vita; soltanto
nelle zone rurali isolate di un paese continua una certa creatività
e produzione individuale. La facilità delle comunicazioni, il costo
relativamente basso dei prodotti industriali, e molti altri fattori
consimili producono inevitabilmente una crescente uniformità di
vita. Questa uniformità non è più quella di uno stile comune che
ha le sue radici nella tradizione e muta soltanto lentamente; è
l'uniformità dettata dall'era della macchina.
A tale uniformità esteriore
corrisponde uno stato analogo in tutti i settori della vita. Anche
negli strati della società economicamente più elevati scompare
quasi completamente ogni differenziazione. Lo stile comune delle età
passate permetteva un grado notevole di varietà individuale;
l'uniformità della vita moderna tende a sopprimerne ogni traccia.
La stessa monotonia, che prevale nelle
forme esterne della vita, si estende anche alla vita interiore
dell'uomo. È il gruppo che dà forma al pensiero e al sentimento
individuale. La pressione esercitata dal gruppo ha una forza
tremenda; è quasi impossibile opporvisi. Il bisogno di associazione
e di riconoscimento è profondamente radicato nella natura umana. Ma
la soddisfazione di tale bisogno richiede, nelle condizioni odierne,
che l'individuo si conformi il più possibile alle abitudini e ai
modi adottati dal gruppo. Quanto più omogeneo diviene il gruppo,
tanto più forte si rende la sua intolleranza per qualsiasi
deviazione anche minima. Tollera — come ha notato il Professor
Riesman dell'Università di Chicago — soltanto le «variazioni
marginali». In fondo, uno è costretto a conformarvisi;
diversamente, cadrà vittima dell'ostracismo del gruppo. È
caratteristico di questa evoluzione che, almeno in molti circoli
degli Stati Uniti, esser chiamato «diverso» è espressione di
critica e di disapprovazione.
Per cui è comprensibile che
l'adattamento appaia come fattore necessario di una vita
soddisfacente. Ma che questo sia il caso, non prova evidentemente che
la tendenza verso la conformità o uniformità sia accettabile né
sia tale che, seguita, possa condurre verso una forma più piena e
più reale di esistenza. Anzi, è vero il contrario. Quanto più
uniforme diventa la vita, tanto più si impoverisce l'esistenza
individuale, privata com'è della sua dinamica originaria e
spontanea, e ristretta a quel minimo a cui tutti partecipano.
Se, poi, l'adattamento è tradotto in
ideale assoluto, allora sorge il pericolo che sotto la pressione del
gruppo l'individuo umano sia forzato a compromessi con la sua
coscienza. Accetti come giuste o meno le idee che dominano la vita
del gruppo, ciò non ha più importanza; egli è costretto ad
accettarle, qualunque sia il caso, se vuole essere considerato membro
di fiducia. E siccome il comportarsi continuamente in contrasto con
quanto dice la voce della coscienza è intollerabile, e d'altro lato
la pressione del gruppo costituisce una forza irresistibile, l'uomo
finisce col far tacere la voce della coscienza.
3. La potenza del gruppo è tanto più
invincibile in quanto l'uomo Moderno è asservito a ciò che si può
chiamare la «idolatria della comodità». La vita ideale non è più
la vita onesta, ma la vita comoda che scorre liscia e non coinvolge
più l'uomo in gravi conflitti. Tale atteggiamento trova un alleato
nella concezione di molti psichiatri. secondo cui i conflitti, almeno
la maggior parte di essi, denotano una certa mancanza di equilibrio
mentale. Essi credono' altresì che una persona sana è quella libera
da ogni sorta di ansietà, eccettuate naturalmente quelle che nascono
da situazioni di fatto; ma le preoccupazioni, i problemi che non si
possono risolvere con espedienti pratici, appaiono a tali psichiatri
come altrettanti sintomi.
È questo generale rifiuto ad
affrontare i problemi e ad elaborarne le soluzioni o ad ammettere,
quando non si possa trovare una soluzione, le proprie limitazioni,
che ha contribuito in misura notevole a dare importanza agli esperti
di qualsiasi campo, particolarmente tuttavia agli psicologi, agli
psichiatri e agli psicoclinici. È ovviamente vero che molte
questioni richiedono una conoscenza specializzata, che l'uomo medio
non può possedere; onde gli è necessario ricorrere allo specialista
per consiglio competente. Da ciò, nondimeno, non segue che la stessa
cosa si debba ripetere per tutti i problemi: ve ne sono parecchi, a
cui l'individuo può e deve rispondere da se stesso e con
responsabilità propria.
Mentre si danno preoccupazioni e
conflitti, che sono indubbiamente di natura patologica e che debbono
essere considerati come indici di una personalità squilibrata o
neurotica, non è lecito concludere da questo che una persona normale
dovrebbe essere libera da ogni conflitto né che tutti i problemi,
che preoccupano il neurotico, debbano considerarsi come sintomi. Ogni
problema deve essere valutato sulla base del suo significato
oggettivo e può essere «autentico» problema tanto in una persona
anormale che in una persona normale.
È pertanto errato concepire come fine
dell'educazione l'immunizzazione, per così dire, della persona
contro i problemi e i conflitti. Particolarmente questi ultimi sono
inevitabili, e un'educazione, che realmente prepari alla vita
autentica, deve tener conto di questo fatto.
È facile scorgere come il concetto
della prevenzione dei conflitti si trovi strettamente connesso con
l'altro dell'adattamento. Poiché, quanto più l'individuo si
conforma alle regole che governano la condotta comune del gruppo, con
tanto minor probabilità egli potrà cadere in conflitti insorgenti
da condizioni esterne. Inoltre, se i principi che governano il gruppo
sono accettati nella loro totalità, la decisione viene, in molti
casi, formulata in anticipo; per cui l'individuo non ha che da
seguire la regola accettata, da comportarsi come «ciascuno» si
comporterebbe, e non ha più da preoccuparsi per decidere sul giusto
o sull'ingiusto.
Si potrebbero e si dovrebbero
aggiungere ancora molte altre cose su questo punto. Ma le precedenti
osservazioni possono forse bastare a sollevare la questione sulla
concezione generale - se si vuole, sulla filosofia - che sottostà a
queste idee pedagogiche.
* * *
Non occorre molta perspicacia né una
lunga indagine per scoprire che alla base di codesta sedicente
nuovissima e modernissima teoria dell'educazione si trovano concetti
derivati dal passato. La concezione generale, su cui si fonda questa
teoria pedagogica, è cioè attinta dalle idee filosofiche proprie
dell'Illuminismo. Non che le concezioni del secolo XVIII siano state
risuscitate nella loro integrità; ma è pur vero che certi concetti
fondamentali di tale filosofia sono rimasti dominanti.
Infatti, l'idea che la frustrazione
debba essere evitata implica la supposizione che il giovane essere
umano sia destinato a svilupparsi automaticamente, diciamo così, nel
modo migliore, soltanto che la natura umana non sia repressa. Il che
non è altro che l'idea che J. J. Rousseau s'era formato della natura
umana: l'uomo è essenzialmente buono, è la società che lo
corrompe. Si permetta alla natura umana di svolgersi senza indebite
restrizioni, e l'effetto sarà assolutamente soddisfacente.
È pure di derivazione rousseauiana il
concepire questa vita «sodisfacente» come quella che è del tutto
libera da conflitti. Qui, la teoria della integrità essenziale della
natura umana è fusa con le idee derivate dalla ideologia del
«progresso». Benché la storia non abbia confermato la fiducia
entusiastica nella natura umana che aveva caratterizzato il secolo
XVIII e che aveva proclamato, con le parole di Condorcet, la
«indefinita perfettibilità dei poteri dell'uomo», l'uomo moderno
ha trovato difficile, anzi impossibile, abbandonare tale convinzione.
La scienza, è vero, non ha adempiuto le promesse fatte un tempo, e
pochi oggi credono ancora che la fisica e le sue alleate siano in
grado di offrire una panacea ai mali del nostro tempo; ma il ruolo di
salvatrice del mondo è oggi affidato alla «scienza sociale», che è
considerata da molti allo stesso modo con cui la fisica era stata
vista dagli uomini del 1750 (il primo volume de La grande
Encyclopédie apparve nel 1751). Si tratta, infatti, non di un
mutamento di principi, ma solo di uno spostamento di accento. Onde, è
convinzione quasi unanime che l'accelerato progresso delle scienze
sociali ci aiuterà a risolvere problemi quali la delinquenza
giovanile, l'«inadattamento», la frequenza crescente dei disturbi
mentali e neurotici, le tensioni tra individui e gruppi, e chissà
quante altre cose... È ovvio che noi ci muoviamo ancora entro i
confini dell'ottimismo illuministico.
Si è spesso osservato che questo
ottimismo è, almeno in parte, una reazione contro la buia e triste
dottrina che il Protestantesimo e, in certa misura, il Giansenismo
avevano formulato sulla natura umana. L'idea di una corruzione totale
e irreparabile della natura dell'uomo, secondo quanto insegnavano i
Luterani e gli altri, fu occasione di una rivolta non ingiustificata;
ma questa rivolta oltrepassò, come spesso avviene, i giusti termini
e finì con la negazione della dottrina del peccato originale. È
precisamente, come crediamo, questa posizione che ancora oggigiorno
determina le idee pedagogiche da noi menzionate.
È conforme all'ideologia del
«progresso» il considerare ogni nuovo emergente stato della società
e della cultura come migliore, per la semplice ragione che esso è
l'ultimo prodotto di un movimento incessante e inesauribile verso un
sempre migliore stato di cose. Ciò presupposto, ne segue
evidentemente che l'adattamento e la piena accettazione della
situazione effettuale costituiscono quanto di più utile vi possa
essere allo sviluppo ulteriore dell'individuo e della società. Ma
una simile conclusione si basa su un sofisma: ammette tacitamente che
il detto progresso abbia luogo dappertutto e sotto ogni aspetto con
lo stesso ritmo e nella stessa misura. Ora, è ovvio che si può ben
dare una pausa in tale processo, che a motivo del ritmo ineguale di
evoluzione nei vari settori dell'esistenza umana, sorgano disarmonie
e situazioni, adattarsi alle quali non sarebbe più nella linea del
«progresso» ma costituirebbe anzi un arresto in esso. In altre
parole, la teoria del progresso e dell'adattamento non giustifica in
alcun modo la incondizionata accettazione delle situazioni
attualmente esistenti e il conformarsi ad esse.
Che facilmente si passi sopra a queste
considerazioni, è il risultato della concezione relativistica
ammessa apertamente o implicitamente, la quale nega che si diano
criteri oggettivi e immutabili secondo i quali giudicare la qualità
della situazione o delle idee che governano la condotta del gruppo.
Vale a dire, questa teoria moderna è fondamentalmente
opportunistica: non tiene conto di principi permanenti ma opera con
la nozione di principi — se mai si possa applicare tale termine —
i quali mutano continuamente col mutare della struttura sociale,
delle condizioni economiche, con l'avanzare della scienza, e così
via.
Ma senza principi permanenti l'uomo è
incapace di affrontare la realtà in cui vive. Cedendo a tale
concezione relativistica, egli abbandona tutto ciò che gli può
donare certezza e sicurezza in un mondo in divenire. È appunto tale
perdita di una base permanente e solida, su cui erigere la struttura
della sua vita, che costituisce la causa principale della crescente
«insicurezza» che tormenta l'uomo moderno. È perché non può più
trovare la certezza in se stesso che egli diventa insofferente di
ogni conflitto, da una parte, e, dall'altra, cerca la sicurezza
sottomettendosi alla pressione del gruppo, fino al grado di divenire,
per così dire, spersonalizzato, un semplice atomo o elemento di un
più grande complesso e, conseguentemente, quasi indistinto dagli
altri atomi. Mentre i fautori della cosiddetta educazione
«progressiva» credono appassionatamente di aver aperto la via ad un
più pieno sviluppo dell'individuo e, di conseguenza, ad una vita più
felice, ciò che di fatto hanno compiuto è che hanno spianato la
strada ad una società egualitaria e, quindi, in fondo, totalitaria.
Poichè l'uomo nel suo orgoglio ha
cercato di emanciparsi dall'insegnamento autoritativo, da un codice
morale la cui verità e validità sono garantite dalla legge naturale
e dalla Rivelazione, e siccome ha cercato di porsi come la «misura
di tutte le cose», egli ha minato le fondamenta stesse del suo
essere ed è divenuto vittima dell'angoscia, dell'incertezza, della
disperazione. Invece di vedere le inevitabili difficoltà e i
conflitti di una esistenza finita come occasioni per provare a sé e
ai suoi simili la sua intrinseca dignità, egli non cerca che di
scansare tutto questo il più possibile. E siccome manca di un
principio su cui appoggiarsi, egli si abbandona alla pressione del
gruppo e si trasforma in una personalità «etero-diretta»
(Riesman).
Queste nostre osservazioni sono
evidentemente ben lontane dall'esaurire l'argomento; esse non
intendono che indicare alcuni aspetti di una situazione infinitamente
complicata, la quale deve essere affrontata da coloro che ancora
credono che la vita dell'uomo deve essere governata da principi
immutabili, per quanto mutevole possa presentarsi la situazione
reale. Quando si sia data la dovuta attenzione a questi problemi, non
si sarà più inclini ad accettare, senza critica, le idee della
pedagogia contemporanea. Ciò non equivale a dire, tuttavia, che le
nuove idee non hanno nulla di buono; v'è molto, naturalmente, che ha
un indiscusso valore e che può, anzi deve, essere incorporato in una
teoria dell'educazione. Ma non senza previo diligente esame, non col
pregiudizio che bisogna tenersi al livello dei tempi a qualunque
costo.
Rigettare tutto quanto è nuovo, è
altrettanto ingiusto quanto l'accettarlo indiscriminatamente. Un
mondo in mutamento esige per certo modi sempre diversi di
trattamento. Una cosa sola non può mai mutare: i principi ultimi ed
eterni. Ma non si deve dimenticare che essi sono principi e non
regole determinanti un dato comportamento in ciascuna situazione
concreta. La legge morale non cambia, né cambierà la natura umana.
Ma ogni nuovo stato della società pone problemi nuovi, i quali non
possono risolversi applicando meccanicamente regole che avevano
efficacia in condizioni assai diverse. La prudenza e la saggezza
consigliano di essere altrettanto critici delle cose a cui si è
abituati quanto di quelle che sono nuove, e di ascoltare la
raccomandazione dell'Apostolo: « Provate tutto, ma tenete il
meglio».
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