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"Una psicologia medica cattolica deve essere una vera sintesi delle verità contenute nei sistemi già esistenti e inaccettabili visto il loro spirito di materialismo puro e le verità della filosofia e la teologia cattolica. Questo lavoro di sintesi non può essere compiuto che da persone istruite e nella medicina o psicologia e nella filosofia, e che possiedono una esperienza pratica e personale assai grande: cioè questo lavoro deve essere fatto da medici, specialisti di psichiatria, dunque da scienziati cattolici laici. (Rudolf Allers, 1936, lettera a P. Agostino Gemelli).

lunedì 1 giugno 2015

ALCUNI RILIEVI SULLE NOZIONI DI "FRUSTRAZIONE", "ADATTAMENTO" E "CONFLITTO" - RUDOLF ALLERS


Alcuni rilievi sulle nozioni di “frustrazone”, “adattamento” e “conflitto” è uno degli articoli più sintetici ed al contempo più profetici di Rudolf Allers. Edito su “Orientamenti pedagogici” (Anno IV – Numero 1) nel lontano 1957 – un momento storico in cui la storia della Chiesa ed il latino erano materie di studio nelle scuole di ogni ordine e grado, i cristiani riempivano le piazze, le chiese e gli oratori, i pensatori ed i politici che si ispiravano al Magistero erano maggioranza nel paese ed occupavano un posto di rilievo nel panorama culturale e sociale mondiale – l’articolo denuncia la presenza di una «concezione relativistica» negli ambiti educativi, ovvero di una filosofia che «nega che ci siano criteri oggettivi e immutabili secondo i quali giudicare la qualità della situazione o delle idee che governano la condotta». Questa «concezione» può essere «ammessa apertamente» ma anche «implicitamente», ovvero nascondersi al di sotto delle azioni comuni e quotidiane, senza neppure essere percepita o coscientemente riconosciuta.
Per Allers il relativismo è una «teoria opportunistica» perché «non tiene conto di principi permanenti ma opera con la nozione di principi – se mai si possa applicare tale termine – i quali mutano continuamente col mutare della struttura sociale, delle condizioni economiche, con l’avanzare della scienza, e così via». Tutto è relativo, non c’è niente di stabile ed immutabile, né eterno. In altre parole: la fedeltà coniugale è un bene per quella coppia, ma non è un bene assoluto. L’aborto è un male per codesta famiglia in simili condizioni, ma non è un male di principio. L’agire pulsioni sessuali contro natura può essere male per un individuo ma bene per un altro. Sono esempi che attingono all’ambito della morale, ma si estendono all’ontologia da cui la morale trae consistenza (secondo il principio aristotelico per cui l’agire è una conseguenza dell’essere, agere sequitur esse). «Ma senza principi permanenti l’uomo è incapace di affrontare la realtà in cui vive». Poiché «cadendo a tale concezione relativistica, egli abbandona tutto ciò che gli può donare certezza e sicurezza in un mondo in divenire». Senza un punto fermo tutto si muove, tutto cambia, e sopraggiunge la paura. «È appunto tale perdita di una base permanente e solida, su cui erigere la struttura della sua vita, che costituisce la causa principale della crescente “insicurezza” che tormenta l’uomo moderno».
A quasi cinquant’anni di distanza, come non poter collegare tali riflessioni al monito del Cardinal Ratzinger, pochi giorni prima di divenire Papa Benedetto XVI, sulla «dittatura del relativismo»? «Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie» (Joseph Ratzinger, Missa pro eligendo romano pontefice, 18 Aprile 2005). Qual'è l'esito di questo «atteggiamento», «cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”»? Insofferenza per l'alterità, insicurezza e disidentità, risponderebbe Rudolf Allers: «È perché non può più trovare la certezza in se stesso che egli diventa insofferente di ogni conflitto, da una parte, e, dall’altra, cerca la sicurezza sottomettendosi alla pressione del gruppo, fino al grado di divenire, per così dire, spersonalizzato, un semplice atomo o elemento di un più grande complesso e, conseguentemente, quasi indistinto dagli altri atomi».
Nell’ambito delle teorie dell’educazione e, quindi, della prassi terapeutica, la «concezione relativistica» pare ben evidente in tre «enunciati», ovvero le «parole-chiave» del titolo, che, uniti assieme, costituiscono un vero e proprio «sistema pedagogico». «Si suppone da molti che la frustrazione debba essere evitata a tutti i costi, che l’adattamento costituisca la condizione necessaria di una vita soddisfacente, e che in conflitti non debbano esistere affatto». Questo poiché si ritiene che la frustrazione, l’inadattamento e «i conflitti mettono a repentaglio quello stato di comodiamo borghese, che l’uomo moderno si è abituato a identificare con la felicità». Lascio al lettore la disamina degli errori contenuti in tale modo di pensare che, come ogni «concetto delle finalità prossime e remote dell’educazione dipende dal modo in cui viene concepita la natura dell’uomo e la sua posizione di fronte alla realtà, vale a dire, di fronte a si suoi simili e a se stesso». Desidero però concludere questa breve introduzione con un esempio concreto, che in questi giorni ha accompagnato le mie riflessioni ed a cui la rilettura del testo di Allers ha offerto chiarezza. Il pensiero unico che oggi sembra dominare incontrastato sia nella società civile che negli ambiti professionali sostiene che una persona sofferente di attrazioni sessuali indesiderate – come nel caso di un uomo che prova attrazioni per un altro uomo avendone paura, vergogna, fastidio, ripugnanza, ecc. – debba essere accompagnato ad "esplorarsi", ovvero ad accettarsi e vivere in coerenza con ciò che sperimenta. Se dovessimo utilizzare i termini di Allers, potremmo dire che una tale persona prova frustrazione in quanto ha un istinto o pulsione e lo reprime; sperimenta inadattamento poiché si distingue sia dal mondo di chi ritiene le attrazioni per le persone dello stesso sesso incoerenti con la propria natura, sia da chi, al contrario, lo invita a seguire gli istinti (eufemisticamente chiamati “orientamenti”); infine vive diversi conflitti, interni (specialmente, anche se essi sono in genere poco indagati dai rotocalchi) ed esterni, nei confronti della cultura contemporanea che “non lo accetta” (ora è di moda dire “omofobica”, anche se il termine è erroneo – poiché non vi sono i segni di una fobia – ed usato ideologicamente). Ora, mi domando: si aiuta tale persona maggiormente se la si accompagna verso l’adattamento, cioè la fine della frustrazione – causata dalla soppressione degli istinti – e l’appianamento dei conflitti – l’assenza di irrequietezza – oppure, al contrario, se si utilizzano tali frustrazioni e conflitti come indicatori per migliorare il senso di sé e di realtà, favorendo non l’adattamento ma l’emergere di una personalità autonoma, adulta e matura (dunque, come spesso accade, controcorrente, virtuosa e con un pensiero radicato nei principi ultimi da cui trae consistenza)? Guadagnare la libertà significa percorrere un cammino in salita (quasi sempre, per quello che ho potuto comprendere)...ma che soddisfazione giungere sino in vetta! Allora sì che ci si può sentire liberati, non dai rimorsi di coscienza, ma dal dominio dell'istinto e della conformità alla società.
Non abbandoniamoci al pensiero unico, perché disponiamo di tutti gli strumenti per coglierne le aporie e fare il bene.

Alcuni rilievi sulle nozioni di “frustrazione”, “adattamento” e “conflitto”

RUDOLF ALLERS

della Georgetown University, Washington. D. C.


Il noto psichiatra e filosofo intende con le seguenti precisazioni rivedere criticamente quella parte della pedagogia contemporanea — particolarmente americana — che pone come fine immediato ed esclusivo dell'educazione e l'adattamento sociale ed ha orrore dei e conflitti, in quanto necessariamente generatori di e frustrazione emotiva.
L'educazione può essere definita come l'insieme di quei procedimenti, mediante i quali la persona immatura viene preparata alla vita e a quei compiti che le saranno assegnati allorché sarà maturata e sarà entrata nella società come membro autoresponsabile. Di conseguenza, il concetto delle finalità prossime e remote dell'educazione dipende dal modo in cui viene concepita la natura dell'uomo e la sua posizione di fronte alla realtà, vale a dire, di fronte ai suoi simili e a se stesso.
La trattazione di una teoria pedagogica rappresenta evidentemente un tema troppo ampio per essere compreso nell'ambito di un semplice articolo. Tuttavia, è possibile valutare un sistema pedagogico con l'esaminare certe parole-chiave, nelle quali, è presumibile, si rivela lo spirito generale del sistema. Nella letteratura pedagogica contemporanea, specialmente negli Stati Uniti ma non meno altrove, i tre termini enunciati nel titolo mantengono un ruolo prominente. Si suppone da molti che la frustrazione debba essere evitata a tutti i costi, che l'adattamento costituisca la condizione necessaria di una vita soddisfacente, e che il conflitti non debbano esistere affatto. Quest'ultima esigenza si riferisce tanto ai conflitti interiori che a quelli legati all'ambiente. I conflitti interiori sono considerati quasi come segni di una qualche anormalità, e i conflitti con l'ambiente appaiono come i risultati dell'inadattamento, mentre si crede che essi possano scomparire appena si sia raggiunto un perfetto adattamento. In ogni. caso, i conflitti mettono a repentaglio quello stato di comodismo borghese che l'uomo moderno si è abituato a identificare con la felicità.
Tali idee sono ormai ritenute talmente pacifiche dalla maggioranza degli scrittori di teoria e di pratica educativa che non si pensa più di sottoporle al vaglio della critica. Ma qui succede appunto come in tanti altri casi: proprio ciò che è pacificamente accolto, abbisogna di essere riesaminato con maggiore urgenza e severità che non tutto il resto. Sono le affermazioni cosiddette «per sé evidenti» che celano i problemi più seri.
Una seppur breve disamina di codesti tre concetti sarà in grado di provare che i fatti, a cui si riferiscono, sono stati in parte male interpretati e che le conclusioni, che se ne son tratte, sono aperte ad obiezioni piuttosto gravi.

1. È fuori dell'ambito di queste poche pagine l'indagare quali siano le ragioni della generale accettazione dell'idea di frustrazione e dei suoi malefici effetti. È nondimeno certo che tale idea scaturisce da una filosofia naturalistica, la quale è, allo stesso tempo, stranamente ottimistica. Giacché essa suppone che il libero sfogo delle inclinazioni naturali conduca, automaticamente, ad uno sviluppo soddisfacente, mentre al contrario si avranno deviazioni caratteriali qualora a tali inclinazioni non sia permesso di raggiungere la propria meta. A questa concezione ha notevolmente contribuito la dottrina freudiana sugli istinti.
Si crede, cioè, che frustrando l'istinto o le inclinazioni naturali venga a crearsi uno stato, in cui tali forze cercheranno o presto o tardi uno sfogo, determinandosi in tal modo una forma di aggressività antisociale. Questa teoria è fondata sullo studio di adolescenti antisociali, nella cui vita la frustrazione sembra, invero, avere una funzione preponderante. Non è tuttavia affatto certo che il rapporto causale sia proprio quello indicato da tale teoria. Vi sono infatti parecchi aspetti, a cui non si è data la dovuta importanza.
Anzitutto, la frustrazione ha luogo nella vita di tutti i fanciulli; ma non tutti diventano antisociali, aggressivi o criminali. Anche la cura più diligente per evitare frustrazioni non potrà mai riuscire totalmente allo scopo; vi sono azioni con cui il fanciullo può recar danno a sé o agli altri, e che pertanto debbono essere impedite. In secondo luogo, non è affatto certo che l'aggressione costituisca l'effetto necessario di una frustrazione anche di grandi proporzioni. Ché la frustrazione non è di fatto l'unico fattore determinante; altri, e parecchi, sono associati ad essa. P. A. Sorokin, l'eminente sociologo della Harvard University, ha rilevato che possono eventualmente verificarsi altri risultati. Invece di un atteggiamento di rivolta, l'individuo può manifestare disposizioni di mitezza e di docilità; e casi simili non sono del tutto infrequenti. Ma essi non giungono all'attenzione dello psicologo, perché questi individui non causano alcun disturbo sociale, onde non si rende necessario alcun intervento o trattamento clinico. È ancora possibile che l'energia istintiva — per usare il linguaggio degli psicanalisti — cerchi altri sfoghi; per esempio, divenga fonte di varie attività perfettamente compatibili con le leggi della società. Tale possibilità di esito è in parte considerata da Freud quando parla della sublimazione, e vi ha accennato Adler parlando di «aggressione culturale». È infine possibile, in quarto luogo che la frustrazione rivolga l'individuo verso altre mete, per esempio verso la pratica di una moralità rigida. In ogni caso, non si dà prova veramente cogente in favore della tesi degli inevitabili effetti malefici della frustrazione.
Ciò, tuttavia, non equivale a dire che una eccessiva ed irragionevole frustrazione non possa causare vero danno; giacché non si può prevedere quali altri fattori possano entrare in gioco e rendere la frustrazione un grave ostacolo allo sviluppo normale del carattere. Avviene qui quel che succede coi castighi. Il castigo dato saggiamente, con giustizia e in un modo comprensibile al fanciullo, non porterà alcun danno; ma deve essere accompagnato, nell'insieme del processo educativo, da un egualmente saggio riconoscimento del bene del fanciullo. La severità esagerata nell'educazione, il rifiuto di comprensione, l'imposizione di regole che il fanciullo non riesce a comprendere, e soprattutto l'assenza di amore e delle dimostrazioni di affetto da parte degli educatori possono avere e di fatto hanno assai spesso conseguenze disastrose.
Tutto ciò è abbastanza ovvio ed anche facilmente confermato dall'esperienza. Donde la questione del perché mai tale teoria della frustrazione sia venuta a godere così largo consenso. La risposta, tuttavia, sarà differita fino a che abbiamo esaminato anche le altre due idee.

2. Si hai «adattamento» quando l'individuo ha assunto, fatto propri le regole e i principi di condotta e di azione, che sono approvati e seguiti dal gruppo in cui egli deve vivere o viene a vivere. Il concetto di adattamento si pone in strano contrasto con quello della prevenzione della frustrazione. Poiché non si può, a rigore, predire a priori, che le forme di vita, a cui l'individuo dovrebbe conformarsi, siano tali da fornir soddisfazione ai suoi istinti e impulsi elementari. Al contrario, è non solo possibile ma probabile che le regole di condotta del gruppo cozzino con certe sue inclinazioni. In altre parole, l'adattamento porta con sé, in molti casi, la frustrazione.
Se un individuo impreparato all'adattamento è gettato improvvisamente in un ambiente che gli impone prestazioni definite e rigorose nei riguardi della condotta, egli non potrà non incontrare gravi difficoltà e trovare l'adattamento talvolta impossibile. Si son dati numerosi casi di sindromi neurotiche insorte evidentemente quando tali individui furono costretti ad arruolarsi nelle forze armate. La loro incapacità di adattarsi alle nuove condizioni, il risentimento contro le forze ambientali frustratrici, uniti all'impossibilità di ritirarsi o di fuggire, causarono un tale grado di rivolta e di tensione interna che l'insorgere dei disturbi neurotici era divenuto perfettamente comprensibile. È degno di nota che tali casi furono osservati non soltanto sotto la tensione del servizio attivo sul fronte, ma non di rado in persone che si trovavano ancora alle prime fasi del servizio militare. La situazione di un campo militare è, ad ogni modo, eccezionale. Nella vita civile è difficile che si abbia un eguale grado di pressione e in molti casi si dà una possibilità di evasione, in quanto l'individuo può tentar di associarsi ad un altro gruppo, cercare un altro lavoro, spostarsi in un altro luogo, e così via. Può tentare, è vero; ma anche in una società di grande mobilità sociale è dubbio se e in quale misura possa riuscire. E ciò diventa tanto più dubbio, quanto più omogenea diventa la forma di vita. Non si può, d'altronde, negare che la tendenza generale del mondo moderno sia proprio di avviarsi verso una sempre maggiore omogeneità. Fatto, questo, che, in certa misura, è dovuto alla standardizzazione e meccanizzazione universale della vita; soltanto nelle zone rurali isolate di un paese continua una certa creatività e produzione individuale. La facilità delle comunicazioni, il costo relativamente basso dei prodotti industriali, e molti altri fattori consimili producono inevitabilmente una crescente uniformità di vita. Questa uniformità non è più quella di uno stile comune che ha le sue radici nella tradizione e muta soltanto lentamente; è l'uniformità dettata dall'era della macchina.
A tale uniformità esteriore corrisponde uno stato analogo in tutti i settori della vita. Anche negli strati della società economicamente più elevati scompare quasi completamente ogni differenziazione. Lo stile comune delle età passate permetteva un grado notevole di varietà individuale; l'uniformità della vita moderna tende a sopprimerne ogni traccia.
La stessa monotonia, che prevale nelle forme esterne della vita, si estende anche alla vita interiore dell'uomo. È il gruppo che dà forma al pensiero e al sentimento individuale. La pressione esercitata dal gruppo ha una forza tremenda; è quasi impossibile opporvisi. Il bisogno di associazione e di riconoscimento è profondamente radicato nella natura umana. Ma la soddisfazione di tale bisogno richiede, nelle condizioni odierne, che l'individuo si conformi il più possibile alle abitudini e ai modi adottati dal gruppo. Quanto più omogeneo diviene il gruppo, tanto più forte si rende la sua intolleranza per qualsiasi deviazione anche minima. Tollera — come ha notato il Professor Riesman dell'Università di Chicago — soltanto le «variazioni marginali». In fondo, uno è costretto a conformarvisi; diversamente, cadrà vittima dell'ostracismo del gruppo. È caratteristico di questa evoluzione che, almeno in molti circoli degli Stati Uniti, esser chiamato «diverso» è espressione di critica e di disapprovazione.
Per cui è comprensibile che l'adattamento appaia come fattore necessario di una vita soddisfacente. Ma che questo sia il caso, non prova evidentemente che la tendenza verso la conformità o uniformità sia accettabile né sia tale che, seguita, possa condurre verso una forma più piena e più reale di esistenza. Anzi, è vero il contrario. Quanto più uniforme diventa la vita, tanto più si impoverisce l'esistenza individuale, privata com'è della sua dinamica originaria e spontanea, e ristretta a quel minimo a cui tutti partecipano.
Se, poi, l'adattamento è tradotto in ideale assoluto, allora sorge il pericolo che sotto la pressione del gruppo l'individuo umano sia forzato a compromessi con la sua coscienza. Accetti come giuste o meno le idee che dominano la vita del gruppo, ciò non ha più importanza; egli è costretto ad accettarle, qualunque sia il caso, se vuole essere considerato membro di fiducia. E siccome il comportarsi continuamente in contrasto con quanto dice la voce della coscienza è intollerabile, e d'altro lato la pressione del gruppo costituisce una forza irresistibile, l'uomo finisce col far tacere la voce della coscienza.

3. La potenza del gruppo è tanto più invincibile in quanto l'uomo Moderno è asservito a ciò che si può chiamare la «idolatria della comodità». La vita ideale non è più la vita onesta, ma la vita comoda che scorre liscia e non coinvolge più l'uomo in gravi conflitti. Tale atteggiamento trova un alleato nella concezione di molti psichiatri. secondo cui i conflitti, almeno la maggior parte di essi, denotano una certa mancanza di equilibrio mentale. Essi credono' altresì che una persona sana è quella libera da ogni sorta di ansietà, eccettuate naturalmente quelle che nascono da situazioni di fatto; ma le preoccupazioni, i problemi che non si possono risolvere con espedienti pratici, appaiono a tali psichiatri come altrettanti sintomi.
È questo generale rifiuto ad affrontare i problemi e ad elaborarne le soluzioni o ad ammettere, quando non si possa trovare una soluzione, le proprie limitazioni, che ha contribuito in misura notevole a dare importanza agli esperti di qualsiasi campo, particolarmente tuttavia agli psicologi, agli psichiatri e agli psicoclinici. È ovviamente vero che molte questioni richiedono una conoscenza specializzata, che l'uomo medio non può possedere; onde gli è necessario ricorrere allo specialista per consiglio competente. Da ciò, nondimeno, non segue che la stessa cosa si debba ripetere per tutti i problemi: ve ne sono parecchi, a cui l'individuo può e deve rispondere da se stesso e con responsabilità propria.
Mentre si danno preoccupazioni e conflitti, che sono indubbiamente di natura patologica e che debbono essere considerati come indici di una personalità squilibrata o neurotica, non è lecito concludere da questo che una persona normale dovrebbe essere libera da ogni conflitto né che tutti i problemi, che preoccupano il neurotico, debbano considerarsi come sintomi. Ogni problema deve essere valutato sulla base del suo significato oggettivo e può essere «autentico» problema tanto in una persona anormale che in una persona normale.
È pertanto errato concepire come fine dell'educazione l'immunizzazione, per così dire, della persona contro i problemi e i conflitti. Particolarmente questi ultimi sono inevitabili, e un'educazione, che realmente prepari alla vita autentica, deve tener conto di questo fatto.
È facile scorgere come il concetto della prevenzione dei conflitti si trovi strettamente connesso con l'altro dell'adattamento. Poiché, quanto più l'individuo si conforma alle regole che governano la condotta comune del gruppo, con tanto minor probabilità egli potrà cadere in conflitti insorgenti da condizioni esterne. Inoltre, se i principi che governano il gruppo sono accettati nella loro totalità, la decisione viene, in molti casi, formulata in anticipo; per cui l'individuo non ha che da seguire la regola accettata, da comportarsi come «ciascuno» si comporterebbe, e non ha più da preoccuparsi per decidere sul giusto o sull'ingiusto.
Si potrebbero e si dovrebbero aggiungere ancora molte altre cose su questo punto. Ma le precedenti osservazioni possono forse bastare a sollevare la questione sulla concezione generale - se si vuole, sulla filosofia - che sottostà a queste idee pedagogiche.

* * *

Non occorre molta perspicacia né una lunga indagine per scoprire che alla base di codesta sedicente nuovissima e modernissima teoria dell'educazione si trovano concetti derivati dal passato. La concezione generale, su cui si fonda questa teoria pedagogica, è cioè attinta dalle idee filosofiche proprie dell'Illuminismo. Non che le concezioni del secolo XVIII siano state risuscitate nella loro integrità; ma è pur vero che certi concetti fondamentali di tale filosofia sono rimasti dominanti.
Infatti, l'idea che la frustrazione debba essere evitata implica la supposizione che il giovane essere umano sia destinato a svilupparsi automaticamente, diciamo così, nel modo migliore, soltanto che la natura umana non sia repressa. Il che non è altro che l'idea che J. J. Rousseau s'era formato della natura umana: l'uomo è essenzialmente buono, è la società che lo corrompe. Si permetta alla natura umana di svolgersi senza indebite restrizioni, e l'effetto sarà assolutamente soddisfacente.
È pure di derivazione rousseauiana il concepire questa vita «sodisfacente» come quella che è del tutto libera da conflitti. Qui, la teoria della integrità essenziale della natura umana è fusa con le idee derivate dalla ideologia del «progresso». Benché la storia non abbia confermato la fiducia entusiastica nella natura umana che aveva caratterizzato il secolo XVIII e che aveva proclamato, con le parole di Condorcet, la «indefinita perfettibilità dei poteri dell'uomo», l'uomo moderno ha trovato difficile, anzi impossibile, abbandonare tale convinzione. La scienza, è vero, non ha adempiuto le promesse fatte un tempo, e pochi oggi credono ancora che la fisica e le sue alleate siano in grado di offrire una panacea ai mali del nostro tempo; ma il ruolo di salvatrice del mondo è oggi affidato alla «scienza sociale», che è considerata da molti allo stesso modo con cui la fisica era stata vista dagli uomini del 1750 (il primo volume de La grande Encyclopédie apparve nel 1751). Si tratta, infatti, non di un mutamento di principi, ma solo di uno spostamento di accento. Onde, è convinzione quasi unanime che l'accelerato progresso delle scienze sociali ci aiuterà a risolvere problemi quali la delinquenza giovanile, l'«inadattamento», la frequenza crescente dei disturbi mentali e neurotici, le tensioni tra individui e gruppi, e chissà quante altre cose... È ovvio che noi ci muoviamo ancora entro i confini dell'ottimismo illuministico.
Si è spesso osservato che questo ottimismo è, almeno in parte, una reazione contro la buia e triste dottrina che il Protestantesimo e, in certa misura, il Giansenismo avevano formulato sulla natura umana. L'idea di una corruzione totale e irreparabile della natura dell'uomo, secondo quanto insegnavano i Luterani e gli altri, fu occasione di una rivolta non ingiustificata; ma questa rivolta oltrepassò, come spesso avviene, i giusti termini e finì con la negazione della dottrina del peccato originale. È precisamente, come crediamo, questa posizione che ancora oggigiorno determina le idee pedagogiche da noi menzionate.
È conforme all'ideologia del «progresso» il considerare ogni nuovo emergente stato della società e della cultura come migliore, per la semplice ragione che esso è l'ultimo prodotto di un movimento incessante e inesauribile verso un sempre migliore stato di cose. Ciò presupposto, ne segue evidentemente che l'adattamento e la piena accettazione della situazione effettuale costituiscono quanto di più utile vi possa essere allo sviluppo ulteriore dell'individuo e della società. Ma una simile conclusione si basa su un sofisma: ammette tacitamente che il detto progresso abbia luogo dappertutto e sotto ogni aspetto con lo stesso ritmo e nella stessa misura. Ora, è ovvio che si può ben dare una pausa in tale processo, che a motivo del ritmo ineguale di evoluzione nei vari settori dell'esistenza umana, sorgano disarmonie e situazioni, adattarsi alle quali non sarebbe più nella linea del «progresso» ma costituirebbe anzi un arresto in esso. In altre parole, la teoria del progresso e dell'adattamento non giustifica in alcun modo la incondizionata accettazione delle situazioni attualmente esistenti e il conformarsi ad esse.
Che facilmente si passi sopra a queste considerazioni, è il risultato della concezione relativistica ammessa apertamente o implicitamente, la quale nega che si diano criteri oggettivi e immutabili secondo i quali giudicare la qualità della situazione o delle idee che governano la condotta del gruppo. Vale a dire, questa teoria moderna è fondamentalmente opportunistica: non tiene conto di principi permanenti ma opera con la nozione di principi — se mai si possa applicare tale termine — i quali mutano continuamente col mutare della struttura sociale, delle condizioni economiche, con l'avanzare della scienza, e così via.
Ma senza principi permanenti l'uomo è incapace di affrontare la realtà in cui vive. Cedendo a tale concezione relativistica, egli abbandona tutto ciò che gli può donare certezza e sicurezza in un mondo in divenire. È appunto tale perdita di una base permanente e solida, su cui erigere la struttura della sua vita, che costituisce la causa principale della crescente «insicurezza» che tormenta l'uomo moderno. È perché non può più trovare la certezza in se stesso che egli diventa insofferente di ogni conflitto, da una parte, e, dall'altra, cerca la sicurezza sottomettendosi alla pressione del gruppo, fino al grado di divenire, per così dire, spersonalizzato, un semplice atomo o elemento di un più grande complesso e, conseguentemente, quasi indistinto dagli altri atomi. Mentre i fautori della cosiddetta educazione «progressiva» credono appassionatamente di aver aperto la via ad un più pieno sviluppo dell'individuo e, di conseguenza, ad una vita più felice, ciò che di fatto hanno compiuto è che hanno spianato la strada ad una società egualitaria e, quindi, in fondo, totalitaria.
Poichè l'uomo nel suo orgoglio ha cercato di emanciparsi dall'insegnamento autoritativo, da un codice morale la cui verità e validità sono garantite dalla legge naturale e dalla Rivelazione, e siccome ha cercato di porsi come la «misura di tutte le cose», egli ha minato le fondamenta stesse del suo essere ed è divenuto vittima dell'angoscia, dell'incertezza, della disperazione. Invece di vedere le inevitabili difficoltà e i conflitti di una esistenza finita come occasioni per provare a sé e ai suoi simili la sua intrinseca dignità, egli non cerca che di scansare tutto questo il più possibile. E siccome manca di un principio su cui appoggiarsi, egli si abbandona alla pressione del gruppo e si trasforma in una personalità «etero-diretta» (Riesman).

Queste nostre osservazioni sono evidentemente ben lontane dall'esaurire l'argomento; esse non intendono che indicare alcuni aspetti di una situazione infinitamente complicata, la quale deve essere affrontata da coloro che ancora credono che la vita dell'uomo deve essere governata da principi immutabili, per quanto mutevole possa presentarsi la situazione reale. Quando si sia data la dovuta attenzione a questi problemi, non si sarà più inclini ad accettare, senza critica, le idee della pedagogia contemporanea. Ciò non equivale a dire, tuttavia, che le nuove idee non hanno nulla di buono; v'è molto, naturalmente, che ha un indiscusso valore e che può, anzi deve, essere incorporato in una teoria dell'educazione. Ma non senza previo diligente esame, non col pregiudizio che bisogna tenersi al livello dei tempi a qualunque costo.
Rigettare tutto quanto è nuovo, è altrettanto ingiusto quanto l'accettarlo indiscriminatamente. Un mondo in mutamento esige per certo modi sempre diversi di trattamento. Una cosa sola non può mai mutare: i principi ultimi ed eterni. Ma non si deve dimenticare che essi sono principi e non regole determinanti un dato comportamento in ciascuna situazione concreta. La legge morale non cambia, né cambierà la natura umana. Ma ogni nuovo stato della società pone problemi nuovi, i quali non possono risolversi applicando meccanicamente regole che avevano efficacia in condizioni assai diverse. La prudenza e la saggezza consigliano di essere altrettanto critici delle cose a cui si è abituati quanto di quelle che sono nuove, e di ascoltare la raccomandazione dell'Apostolo: « Provate tutto, ma tenete il meglio».




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