Dal 27 al 29 Ottobre prossimi si svolgerà a Seveso il convegno degli Operatori Psicosociali dell'Associazione Medicina e Persona, in collaborazione con la Diocesi di Milano. Due anni fa, il precedente convegno ha ospitato il professor Martin F. Echavarria nella sessione di apertura (abbiamo pubblicato sul blog il suo intervento: "Soggetto umano e dimensione antropologica"). Il convegno di quest'anno si annuncia particolarmente interessante per due motivi. Il primo è il tema principale, che vuole riflettere sul "confine" che esiste tra il guaribile e l'inguaribile: il medico e lo psicoterapeuta è chiamato a prendersi cura solo degli aspetti guaribili, secondo una visione medicalista della restitutio ad integrum, oppure anche del fatto che vi sono condizioni inguaribili o che, pur guarendo, lasciano una traccia? Ovvero che esiste una "domanda di salvezza dentro la richiesta della salute", come ebbe a sintetizzare il Cardinale Angelo Scola che chiuderà proprio i lavori del convegno. Il secondo motivo consiste nel fatto che, come due anni fa, anche l'ambito della psicologia cattolica ha un suo spazio specifico, in particolare una sessione dal titolo: "Speranza e domanda di senso: il senso religioso nella cura e nella psicoterapia". L'obiettivo è di mettere a tema come il senso religioso interviene nell'ambito della terapia e, quindi, in che modo lo psicoterapeuta - sulla base di una sana antropologia preventivamente formulata - interviene nella prassi. Ospiti relatori il dot. Domenico Bellantoni, psicoterapeuta, e il dot. Carlo Alfredo Clerici, psichiatra. L'invito rivolto a tutti è di iscriversi e di partecipare! Di seguito il razionale del convegno e la sintesi della sessione. Iscrizioni. Brochure. Programma relazioni. Sessioni parallele.
Razionale
Una traiettoria di lavoro, sviluppata
negli anni da operatori psico-sociali e aperta ai fattori umani della cura
nelle diverse professioni sanitarie e nelle molteplici esperienze sul campo, si
confronta con la fragilità, la crisi morale, i cambiamenti culturali di una
generazione, i bisogni tuttora diffusi nella popolazione per riscoprire il
senso e i modi del curare .
Vi è oggi una tendenza forte alla
ricerca del benessere, che si identifica con quell’attenzione alla propria
salute quanto mai diffusa e promossa nella cultura attuale che non di rado si
materializza nel culto del corpo in senso igienistico o estetico ed è centrata
sul rapporto con se stessi. Il che favorisce atteggiamenti individualistici e
ripiegamenti narcisistici (a volte persino riconoscibili in espressioni sintomatiche),
alimentando aspettative crescenti quando non impossibili. Il rischio è
coltivare una sorta di illusione onnipotente, la continua ricerca di una
posizione impossibile, quella incombente aspettativa di un “mondo perfetto” che
denota l’attuale “incapacità di fare amicizia con l’imperfezione delle cose
umane” (Ratzinger, 1986).
Cultura, confine, corpo, rapporto:
parole che aprono a una prospettiva più ampia e a un’ipotesi opposta: che il
legame tra una vita buona e la cura
stia in una relazione, in una domanda. La cura implica che uno si muova e si
rivolga a un altro stabilendo una relazione di cura, che di norma si svolge nel
tempo e spesso sconfina tra corpo e mente. Sono coinvolti dei soggetti. Persone
che incontrano sofferenza e malattia e si confrontano con la condizione umana sottesa:
il timore di non poter guarire, di un’improbabile restitutio ad integrum, tra
speranza di guarigione e rifiuto del cambiamento, tra fiducia nella cura e
resistenze. Gli operatori nel prendersi/aver cura dell’altro sfidano il rischio
di affrontare tutto questo, che comprende lo “scarto” implicito nell’esperienza
umana del dolore o del limite inaccettabile e insieme del desiderio di durare
per sempre.
L’uomo quindi, provocato dalla malattia,
si pone il problema del senso e, mentre cerca di ritrovare il benessere,
domanda di essere accolto in una relazione di cura. Qui il curante lo incontra
e, a sua volta, si domanda come può occuparsi positivamente di quella persona.
E anche se può farlo in un ambito di libertà. Come tener conto di tutta la
complessità di motivazioni e condizioni presenti in entrambi i soggetti, curati
e curanti, chiamati a condividere nel bisogno il senso? È possibile non
lasciare nell’intenzionale e nelle dichiarazioni di principio la ricerca di una
posizione critica, adeguata al desiderio di curare, tanto più all’interno di
una cultura dominante come l’attuale piena di regole ma relativista,
medicalizzata ma ambivalente rispetto alla cura?
Il pensiero corre ai molti problemi sul
tappeto comuni ai vari ambiti della medicina, dall’eccesso di indagini
diagnostiche all’estensione delle cure che va dai trattamenti estetici alla
grave disabilità, alla demenza, alla cronicità residua dopo la riabilitazione, fino
all’evoluzione cronica delle malattie divenuta normalità. Come non scartare chi
è nel bisogno, saper assistere, valorizzare le esperienze, incontrare le
persone e la famiglia? Francesco (2015) considera proprio questo “il tempo del
ritorno all’essenziale per farci carico delle debolezze e delle difficoltà”.
Infatti, se oggi è necessaria una
riflessione non superficiale su cosa vuol dire curare, altrettanto si impone
l’esigenza di strumentare le sue possibili modalità attuative nei diversi
contesti, età, ambiti di lavoro, resistendo ai rischi di abbandono della
clinica. In altre parole, il dono, l’offerta di un “primo passo, non privo di
rischio, che costruisce le relazioni personali” (A. Scola, 2015) può
rappresentare l’inizio sempre rinnovato del percorso della cura, che certo richiede
esemplificazioni di metodologie ed esperienze che ne promuovano la continuità e
l’efficacia nella pratica.
Obiettivo del Convegno dunque è di
ridefinire le relazioni di cura e di aiuto all’interno delle diverse pratiche
di salute - psico-sociali e non solo - e di focalizzare le caratteristiche che
facciano della cura un’azione legittima e richiesta al servizio delle persone e
delle relazioni nel contesto della società attuale, offrendo punti di
riferimento imperfetti ma utili a orientare l’intervento degli operatori, dei
soggetti sociali, della comunità e delle sue istituzioni.
Speranza e domanda di senso: il senso religioso nella cura e nella psicoterapia
Interventi di D. Bellantoni, C. A. Clerici
Coordinamento: S. Parenti, A. Emolumento
Il rapporto tra la psicologia e il cristianesimo è
divenuto problematico con la modernità. «Anche
se poche volte viene riconosciuto in maniera esplicita, dietro ogni psicologia
c’è una concezione dell’uomo che non è di ordine prettamente empirico-scientifica,
ma filosofica», ha ribadito
il Professor Martin Echavarria all’ultimo convegno. Il Professore ha citato un
importante brano di San Giovanni Paolo II, che aggiunge: «La visione antropologica da cui muovono
numerose correnti nel campo delle scienze psicologiche del tempo moderno è
decisamente, nel suo insieme, inconciliabile con gli elementi essenziali
dell’antropologia cristiana». Come cattolici impegnati nella
psicoterapia sentiamo dunque l’esigenza di una psicologia, teorica e pratica,
che affondi le proprie radici nell’antropologia cristiana e non in altre
concezioni. Vogliamo evitare il rischio di una scissione: da una parte l’adesione formale alla vita di fede –
attraverso la comunione fraterna, l’accostamento ai Sacramenti, la preghiera,
ecc. – e dall’altra l’adozione di concezioni e strumenti estranei (se non
opposti) a quella stessa vita.
Abbiamo così deciso di riscoprire i fondamenti della concezione cristiana
dell’uomo addentrandoci nella proposta educativa di don Giussani il quale,
coniugando l’antropologia tomista con gli accenti della modernità, ha posto in
evidenza: il primato della realtà sulle preconcezioni soggettive (realismo vs.
razionalismo); il desiderio di felicità insito nell’uomo (cuore e teleologia);
la ragione e il giusto rapporto con l’emotività (moralità); l’esperienza come
luogo di riconoscimento della verità (oggettività vs. soggettività). Giussani suggerisce
che il senso religioso sia la forma secondo
cui gl’interrogativi sul significato delle cose diventano esistenziali, cioè divengono
compiutamente domanda di felicità. Essa è insita nell’uomo originalmente, ma
viene provocata e suscitata dall’impatto col reale, che spesso sembra non
rispondere, o persino negare, la possibilità di una piena soddisfazione. I
limiti della realtà – l’impossibile da modificare – avviano prepotentemente le
domande del senso religioso. Ci siamo così resi conto che ogni domanda di cura
racchiude una domanda di senso o di salvezza, come dice il Cardinale Scola. Ci
sembra che una clinica fondata sul senso religioso – e non solamente sulla ricerca del benessere, o del potenziamento, o della
ristrutturazione, ecc. – attui nella prassi le premesse teoriche di una sana
antropologia ed al contempo ricucia la frattura tra la psicologia e la vita di
fede.
Il tema della speranza e della domanda di senso
religioso nella cura assume grande interesse anche rispetto al punto di
osservazione dei cappellani ospedalieri, come dimostra la ricerca condotta
all’Istituto Nazionale Tumori di Milano da don Tullio Proserpio. Lo studio evidenzia una
correlazione determinante tra speranza e qualità della vita e della cura in un
contesto oncologico, mostrando un nesso non
sempre evidente: dalla ricerca emerge infatti che, oltre alla componente
clinica, psicologica e sociale, anche quella religiosa e spirituale assume un
ruolo cruciale nella configurazione della speranza come fattore determinante
tanto nella relazione con i caregivers, quanto nella tenuta delle
relazioni affettive, quanto nel miglioramento complessivo dell’efficacia di
quella cura.
Come emerge il senso religioso in terapia? In che
modo accedere ed intervenire a tale livello nell’ambito professionale? Quali
modifiche produce all’abituale modus operandi col paziente?
In che modo fattori extraclinici come la dimensione
spirituale o, più esplicitamente, la fede e la preghiera alimentano la speranza
e interagiscono con il percorso delle cure del paziente?
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