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venerdì 28 luglio 2017

La vita complicata dei figli di coppie gay

Da La Nuova Bussola Quotidiana.it

La vita complicata dei figli di coppie gay

di Stefano Parenti

12-07-2017


“La funzione di padre e di madre è essenziale e costitutiva del percorso di crescita”. È questa la frase “incriminata”, che ha sollevato un polverone attorno allo psicoanalista Giancarlo Ricci, attualmente in attesa di essere giudicato da una commissione deontologica presso l’ordine degli psicologi della Lombardia. In quanto amico e collega non posso che offrirgli tutto il mio sostegno. Indossando gli occhiali dello studioso e del professionista mi chiedo: cosa può dire la psicologia a riguardo dell’affermazione di Ricci? In altre parole, la scienza psicologica – che sappiamo essere molto meno “pura” di tante altre scienze “dure” come la fisica e la biologia – corrobora o confuta l’affermazione sotto accusa?


Da diverso tempo mi interesso di figli senza papà, ovvero di quei bambini e ragazzi che si trovano a crescere in un nucleo familiare composto dalla sola madre, dalla madre e da un nuovo compagno, oppure dalla madre ed un padre che però è assente, fisicamente e/o psicologicamente. Le ricerche che si sono occupate dei “fatherless”, come ho potuto documentare in un libretto dall’omonimo titolo (Fatherless – L’assenza del padre nella società contemporanea, ed. D’Ettoris, Crotone 2015), hanno tutte rilevato dei punteggi svantaggiati per i “senza papà” rispetto ai figli che crescono con una diade genitoriale intatta e partecipe. Sia che vengano indagate le componenti cognitive, che il rendimento scolastico, che gli aspetti relazionali, ma anche l’autostima e più in generale la salute mentale, i fatherless presentano un rischio ben superiore di sviluppare delle difficoltà. Anche molti capiscuola della psicoterapia concordano su questo punto. Sigmund Freud, ad esempio, scrisse: “Non saprei indicare un bisogno infantile di intensità pari al bisogno che i bambini hanno di essere protetti dal padre”. Questo per quanto riguarda la paternità. 

La gran parte degli studi di psicologia infantile, però, si focalizzano sulla funzione materna. Una delle più importanti cornici concettuali, la celebre “teoria dell’attaccamento”, sostiene che un certo tipo di madre, ad esempio una mamma concentrata esclusivamente su se stessa (come le madri adolescenti o le madri depresse) oppure emotivamente ambigua nei confronti del figlio, generi una tipologia di legame di attaccamento del bambino a sé che viene definito “insicuro”. Il bambino con un attaccamento insicuro ha maggiore ansia, più facilità a sviluppare una scarsa autostima in adolescenza e, in prospettiva, un rischio più elevato di dare avvio ad una psicopatologia in età adulta. Il che ci dice che se una mamma è assente il figlio ne risente. Vi è poi un altro stile di attaccamento, che viene chiamato disorganizzato, che tende a svilupparsi in presenza di lutti, di violenze, di incapacità a gestire eventi significativi, tra cui la perdita di una figura di attaccamento.

Questi dati ci forniscono una misura dell’essenzialità della funzione materna e paterna e del loro essere costitutivi nel percorso di crescita dei figli. Ad essi sembrano opporsi le ricerche sull’omogenitorialità, ovvero sulle “coppie” di persone dello stesso sesso che convivono e che adottano un figlio. Quando scrissi Fatherless decisi di non occuparmi di esse poiché gli studi che avevo preso in esame erano viziati da gravi errori metodologici, su cui incombeva l’ombra del fanatismo ideologico, come ha poi confermato Roberto Marchesini (cfr. Genitori omosessuali: e i figli?, Studi Cattolici). 

Tuttavia un approfondimento specifico andava svolto, perché negli ultimi tempi le ricerche sull’omogenitorialità sono diventate il portabandiera di concezioni politiche ed ideologiche. A coprire la lacuna ci ha pensato Elena Canzi, psicologa e collaboratrice del Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia dell’Università Cattolica di Milano, la quale ha dato alle stampe un volumetto dal titolo: Omogenitorialità, filiazione e dintorni – Un’analisi critica delle ricerche (Vita e Pensiero, Milano 2017). Sono molto grato alla dottoressa Canzi per aver scritto un testo importante e per averlo fatto nel modo migliore possibile, ovvero attenendosi strettamente alla ricerca scientifica. Nel suo libro non c’è divulgazione, non ci sono argomentazioni filosofiche, teologiche o semplicemente contestuali, ma semplicemente una fredda e lucida analisi della letteratura. Forse è proprio questo atteggiamento, serio e rigoroso, che è mancato al dibattito scientifico, come è emerso dalla vicenda legata al Giornale Italiano di Psicologia, il cui numero dedicato all’omogenitorialità ha sollevato non poche polemiche. 

Il testo della dottoressa Canzi si divide in tre sezioni. Nella prima leggiamo una corposa presentazione scritta da Eugenia Scabini e Vittorio Cigoli, ovvero da due nomi che nel mondo della psicologia non hanno bisogno di presentazioni. La professoressa Scabini è stata per quasi un ventennio preside della facoltà di psicologia presso l’Università Cattolica di Milano, ma soprattutto è stata ancor più lungamente direttrice del Centro Studi e Ricerche sulla Famiglia. Vittorio Cigoli, oltre ad essere uno dei più importanti clinici nell’ambito del famigliare nonché docente universitario, ha diretto l’Alta Scuola Agostino Gemelli sempre dell’Università Cattolica.

Insieme i due “professoroni” non solo hanno portato avanti le ricerche sul famigliare, sia in ambito sperimentale che clinico, ma hanno elaborato un modello teorico dei legami famigliari ed un paradigma in grado di interfacciarsi con gli ambiti della prevenzione e dell’intervento. Basta dire che la loro definizione di “familiare”, frutto di studi antropologici, sociologici e psicologici, risuona oggi in molteplici testi specialistici, italiani e stranieri. Essa dice che: “La famiglia è un’organizzazione che tiene e lega insieme le differenze fondamentali dell’umano: la differenza di stirpe, la differenza di generazione e la differenza sessuale”. È già sufficiente quest’ultimo passaggio per intuire che laddove non vi sia differenza sessuale, difficilmente vi sarà “il famigliare”.

Nella Presentazione del libro, Scabini e Cigoli sono abbastanza espliciti: parlano di “problemi metodologici” riferendosi alle ricerche (p. VII); portano lo sguardo sui “problemi che la situazione di omogenitorialità strutturalmente porta con sé (uno solo è padre o madre e l’altro è il cosiddetto ‘genitore sociale’) con gli inevitabili squilibri che tale doppia presenza dello stesso genitore, unitamente alla ‘diseguaglianza procreativa’, comporta” (p. VIII); e sentenziano che “dal corpus delle ricerche presentate risulta di tutta evidenza la forzatura della tesi della ‘non differenza’” tra bambini di coppie omosessuali ed eterosessuali (p. IX).  Essi denunciano un uso politico della ricerca empirica, la quale “va riconosciuta ed apprezzata per quel che essa è in grado di offrire e non caricata di compiti ad essa estranei come quello di giustificare una nuova concezione antropologica della filiazione” (p. XVI).

L’analisi delle ricerche svolta da Elena Canzi si sviluppa su tre capitoli e si apre con gli studi sulle coppie omosessuali con figli. Il primo nodo che l’autrice affronta riguarda le preferenze ovvero i rapporti preferenziali tra il genitore di nascita e il figlio, “e di conseguenza conflitti, competizione, gelosia, nonché fantasie specifiche tra il genitore di nascita e il cosiddetto ‘genitore sociale’, ossia il partner/coniuge del genitore di nascita che non ha legami genetici con il figlio” (p. 5). Lo “sbilanciamento relazionale verso la madre di nascita” che i figli attestano rispetto alla “madre sociale” è stato riscontrato sia nelle forme linguistiche utilizzate dai bambini di “madri lesbiche in coppia”, che “dicono di essere in difficoltà per l’assenza di un linguaggio adeguato a descrivere la loro situazione”, sia da alcune toccanti interviste strutturate, come quella di una giovane che chiama la madre di nascita “momma best” (p. 6).

Altri temi importanti sono quelli del denaro, secondo cui “i figli nati tramite donazione di seme dicono di sentirsi disturbati dal ruolo ricoperto dal denaro nel proprio concepimento” (p. 8), e del rapporto con le famiglie di origine e la rete amicale: “l’unico elemento di criticità che la letteratura sul tema ha evidenziato”. Benché l’apporto della ricerca, qui come in tutto il campo dell’omogenitorialità, sia parziale ed ancora insufficiente, “dai pochi dati a disposizione sembrerebbe che le coppie omosessuali con figli siano meno supportate dalle famiglie di origine e più esposte all’isolamento e al misconoscimento da parte dei parenti” (p. 10). 

Col secondo capitolo il testo raggiunge il cuore della vicenda, descrivendo le ricerche sui figli delle coppie omosessuali. “Nella stragrande maggioranza dei casi i campioni utilizzati non sono rappresentativi della popolazione” (p. 13). Molti studi utilizzano, infatti, dei questionari self-report per la raccolta dei dati, ovvero delle domande sullo stato dei figli compilati dalla coppia genitoriale omosessuale. È facile intuire i rischi a cui tali strumenti si espongono: “Nel caso dei genitori omosessuali, specie quelli che pianificano il figlio, è lecito supporre che, avendo essi investito moltissimo in questa causa e avendo una notevole pressione a dimostrare la propria adeguatezza, tenderanno a mostrare ed enfatizzare prevalentemente gli aspetti positivi della loro esperienza familiare” (p. 14). “Tutto questo ci deve rendere cauti nella generalizzabilità dei risultati” (p. 13). Vediamone alcuni.

Per quanto riguarda il comportamento di genere, “i figli di genitori omosessuali nel loro percorso di costruzione dell’identità sessuale e di genere possono trovarsi in difficoltà, poiché, se eterosessuali si trovano a dover gestire una situazione in contrasto con il modello genitoriale, se omosessuali ne deludono le aspettative. D’altra parte, anche nei confronti dell’ambiente sociale, sentono di dover esibire standard comportamentali d’eccellenza per confermare la ‘normalità’ della loro famiglia e ciò tende a provocare in loro un senso d’inadeguatezza” (p. 17). Circa l’orientamento sessuale, l’autrice riassume così le ricerche: “Nonostante la disparità dei dati di ricerca esposti e la difficoltà a commentarsi, vista la eterogeneità dei campioni coinvolti, sembra comunque di poter rintracciare un trend comune, ossia una maggior probabilità di atteggiamenti e comportamenti omosessuali (già vissuta, o anche solamente immaginata) nei figli cresciuti da genitori omosessuali” (p. 19).

Un altro aspetto significativo è il benessere psicologico, che spesso ricorre nel can can mediatico sull’omogenitorialità. A riguardo la Canzi commenta: “Innanzitutto si evidenzia un quadro certamente complesso e non univoco per cui diventa davvero difficile sostenere che non esista alcuna differenza tra i figli di genitori omosessuali e i figli di genitori eterosessuali”. Ed aggiunge: “è altresì vero che, ad oggi, le ricerche non sono in grado di dare riposte chiare e definitive sullo stato di salute complessivo di questi ragazzi” (p. 27).

Altri dati interessanti sono quelli che riguardano il rapporto dei figli con i genitori: “Particolarmente problematico sembra essere il caso dei figli maschi di donne lesbiche che paiono in difficoltà a dare valore al proprio genere probabilmente in relazione al fatto che le loro madri vivono la contraddizione di rifiuto del maschio (in quanto lesbiche appartenenti alla comunità lesbica) e di doversene prendere cura (in quanto madri di figli maschi)” (p. 35). Le cose non vanno meglio quando vengono indagati i rapporti con i coetanei: “in sintesi possiamo dire che la situazione di disagio di questi ragazzi è di tutta evidenza nei confronti dei pari, soprattutto durante l’adolescenza. […] I dati che la ricerca mette a disposizione […] mostrano che, anche all’interno di contesti in cui da diversi anni sono state introdotte legislazioni favorevoli all’unione omosessuale, i figli di genitori omosessuali devono comunque affrontare problemi specifici e il disagio che vivono è più complesso, profondo, doloroso e attraversato da sentimenti di colpa e di vergogna” (p. 34).

Il terzo capitolo si focalizza sull’adozione ed in particolare sui criteri di valutazione dell’idoneità delle coppie aspiranti. “Gli operatori sociali, infatti, sono chiamati a tutelare l’interesse del minore adottabile e a valutare le competenze genitoriali delle coppie, la loro capacità, seppur prospettica (ed è questo a rendere il compito assai difficile), di rispondere alle esigenze di minori che hanno spesso subìto separazioni traumatiche e/o vissuto contesti di crescita non adeguati” (p. 45).

Le coppie di persone con tendenze omosessuali presentano delle differenze significative nell’ambito dell’esclusività sessuale: “non tutte le coppie dello stesso sesso sono monogame – riporta Canzi, citando la ricercatrice Abbie Goldberg -. Infatti, i dati a nostra disposizione affermano che l’esclusività sessuale non è la norma, specialmente tra le coppie di uomini gay, dove le percentuali di relazioni multiple si attestano attorno al 50-60%” (p. 45). Numeri davvero importanti. Anche la stabilità della coppia omosessuale è differente da quella eterosessuale: “Alcuni studi hanno documentato che i tassi di dissoluzione delle relazioni di coppie omosessuali con figli sono maggiori rispetto a quelle eterosessuali coniugate con figli” (p. 46).

Un altro elemento molto delicato da affrontare nel percorso di valutazione di idoneità è la salute mentale e fisica, che “sappiamo influire in modo rilevante sul benessere dei figli” (p. 46). “Alcune ricerche hanno messo in luce che nella popolazione omosessuale rispetto alla popolazione generale vi sono maggiori incidenze di alcune patologie psicologiche, come disturbi dell’umore e d’ansia, nonché la presenza di pensieri e/o atti suicidari […] e di comportamenti a rischio come consumo di alcool e di fumo” (p 46). Un ulteriore aspetto è la carenza di supporto sociale da parte delle famiglie di origine: i genitori adottivi omosessuali “riportano di ricevere meno sostegno da parte della famiglia di origine” (p. 46). In conclusione: “L’adozione da parte di coppie omosessuali si configura quindi come un quadro molto complesso, in cui bambini e ragazzi si trovano a fronteggiare diverse situazioni di rischio e sono impegnati in compiti di sviluppo ‘aggiuntivi’ rispetto sia ai coetanei non adottati, sia ai coetanei adottati da coppie eterosessuali”.

L’ultima parte del volume riporta delle preziose schedature delle principali ricerche analizzate. Il lettore può così verificare di persona le argomentazioni dell’autrice. Nel complesso il testo sembra suggerire che crescere con due mamme e due papà non sia proprio la stessa cosa dell’avere una famiglia tradizionale. Al di là di ciò che dice la stampa mainstream. Forse non si è ancora dimostrato che “la funzione di padre e di madre è essenziale e costitutiva del percorso di crescita”, come ha sostenuto Giancarlo Ricci. Da due premesse negative non si giunge ad alcuna conclusione affermativa, recita la quinta regola del sillogismo ripresa anche dalla dottoressa Canzi nel testo. Capire che Mario non è un pesce, non vuol dire dimostrare che sia un uomo. Però, è pur vero che si tratta già di un passo importante.

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