Conoscere un autore vuol dire comprenderlo, ossia metterlo dentro, interiorizzarlo (cum-prehendere). Distinguerne quegli aspetti geniali e distintivi dagli inevitabili punti di distanza, retrò, erronei. Si tratta, cioè, di applicare allo studio ed alla lettura quel processo naturale e molto spesso automatico (si potrebbe dire inconscio) che si chiama giudizio: il paragone immediato tra ciò che vediamo nella realtà e quel criterio ultimo, oggettivo, che abbiamo dentro, quello che la Bibbia chiama "cuore". Nell'esercizio del giudizio, e nell'affinare la nostra coscienza nel suo utilizzo, è importante il confronto con i "maestri", con coloro che, avendo fatto lo stesso percorso nostro, ci possono indicare, aiutare, consigliare nello stabilire quello che è il giudizio più vero, più corretto, più oggettivo e personale di fronte ad un oggetto. E' l'idea da cui è nata - nel medioevo - l'uni-versitas, ossia il seguire qualcuno, verso uno.
Nell'ambito della psicologia tali guide, tali giudizi sugli autori e sulle varie correnti non mancano. Basta leggere il manuale di storia della psicologia del Luccio per capire come, al di là di un tentativo di neutralità, esso indichi bene quale sia il punto di vista dell'autore ed il giudizio - in particolare sul cristianesimo e sul medioevo - che ha dato forma alle basi della sua ricostruzione storica.
Mancano, invece, gli insegnamenti in ambito cristiano. Solo recentemente sono stati editi due volumi che, seppur diversamente, hanno l'obiettivo di comprendere e quindi di giudicare il corpus teorico della psicologia (mi riferisco a "Conosciti" di Luis Jorge Gonzales, edizioni Teresianum, 2004, Roma; e "Corrientes de psicologia contemporanea" di Martin F. Echavarria, Scire, 2010, Barcellona).
Questo articolo si colloca all'interno di questo percorso digiudizio ed analizza (parola quanto mai impropria in questo contesto) il lavoro di Jacques Lacan in rapporto al suo personaggio ed al rapporto conflittuale tra la sua teoria ed una concezione cristiana dell'uomo. Ringrazio personalmente l'autrice per la disponibilità accordatami nel pubblicare il suo testo.
Il relativismo morale nella psicologia di Jacques Lacan
Dra. Zelmira Seligman
Pontificia Universidad Católica Argentina
Nel presente lavoro prenderò la teoria di Lacan – psichiatra di famiglia cattolica, nato a Parigi nel 1901 e morto nel 1981 – come paradigmatica del pensiero che, attraverso la psicologia, ha sommerso la cultura occidentale in un relativismo morale chiaramente contrario alle sue radici cristiane. Lacan dice esplicitamente che l’etica della psicoanalisi è opposta al pensiero tradizionale.
Il famoso psichiatra francese propone un “ritorno a Freud”, un ritorno all’ortodossia psicoanalitica. E magari questo è il perché ci sembra importante studiare un autore come Lacan, dato che in lui vediamo le conseguenze della concezione freudiana – che getta le sue radici nella filosofia moderna – quando è assimilata alla mentalità e alla cultura cattolica. L’etica è centrale nell’opera lacaniana perché porta alla luce la vera intenzione di Freud nella realizzazione del progetto di ribaltamento dei valori.
In opposizione alla posizione tomista secondo cui l’ordine morale ha una sussistenza ontologica, metafisica; in Freud è evidente l’influenza del pensiero moderno, soprattutto della teoria della conoscenza di Kant, ed attraverso di essa, per lo meno nello spirito, si possono comprendere la maggioranza delle altre scuole o correnti di psicologia contemporanea. Sostiene R. Brennan: “E’ innegabile l’influenza di Kant nello sviluppo della psicologia moderna. I suoi principi sono come la fonte da cui fluiscono le acque delle moderne tendenze idealiste, agnostiche e materialiste della scienza psicologica. (…) In un certo senso, Kant è il rappresentate ideale dell’uomo moderno, con la sua ignoranza della tradizione, il suo ripudio dell’autorità, la sua enfasi nei valori individuali”.
Lacan crede che la psicoanalisi sviluppata da Freud non sia per curare. Ed in questo indovina. Vede nella psicoanalisi due missioni: “costruire una scienza, dell’uomo come soggetto, che sconvolgerà l’intero campo della conoscenza per il suo metodo radicalmente differente, e iniziare gli uomini alla verità, cioè, ridefinire i veri fondamenti etici della psicoanalisi che costruiranno finalmente ‘una etica del nostro tempo’ ”. Questa ‘scienza’ serve a Lacan (e alla psicoanalisi) per il suo progetto legato all’etica, il quale, in fondo, ciò che pretende è affermare la morte di Dio nella vita pratica, e di conseguenza l’allontanamento degli uomini dal loro fine ultimo.
Non dobbiamo dimenticare che Lacan studia Hegel, partecipando per tre anni ad un seminario sulla «Fenomenologia dello Spirito» . Questa filosofia lascia profonde tracce nel suo pensiero, che saranno approfondite lungo tutto il corso della sua vita; non solo nell’ambito dell’idealismo filosofico, ma principalmente nella prassi, nella distruzione – con la inversione – delle verità della fede all’interno dello stesso cattolicesimo. Esponiamo, solo come esempio, l’interpretazione della verità sulla Incarnazione del Verbo che – secondo Lacan – è il principio del male. “Io sono a favore di san Giovanni e del suo «Al principio era il Verbo», però è un principio enigmatico. Significa quanto segue: per l’essere carnale, quel personaggio ripugnante che è l’uomo medio, il dramma comincia solamente quando entra in gioco il Verbo, quando si incarna, come dice la religione, quella vera. Quando il Verbo si incarna le cose iniziano ad andare francamente male. (…) Io a volte penso che sia il principio”.
1) L’inconscio come linguaggio ed espressione del desiderio
Il linguaggio, con il cambiamento del contenuto delle parole, è parte della tecnica di questa psicologia senza Dio o – meglio – contraria a Dio. L’inversione come metodo ispirerà la trattazione degli argomenti, e l’esperienza dell’irrazionale sarà il motore delle condotte che verranno analizzate “dal basso”, ma che dovranno governare tutta la vita dell’uomo.
Come abbiamo già detto, la teoria lacaniana basa le sue fondamenta in un ritorno a Freud, però in relazione alla parola come strumento dell’inconscio. Affermando che l’inconscio è strutturato come un linguaggio, basa la sua teoria del soggetto come significante, e come conseguenza della scissione radicale tra l’essere e il dire.
Per Lacan dal linguaggio si crea qualcosa di nuovo, simbolico, dove si inverte l’ordine del reale, “esorcizzando” Dio, tirandolo fuori, lasciandolo a lato come principio dell’essere e di tutta la realtà.
Per lo psichiatra francese l’uomo non ha essenza né esistenza, è solo “essere-parlante” (parlētre). Dice espressamente che “il fatto stesso di parlare gli facilita la menzogna”. Non c’è essere né realtà, solo questo “parlare” dell’Altro dall’inconscio, e che prende come una consistenza soggettiva quando si realizza il desiderio. In questo modo la psicoanalisi lacaniana invita a vivere l’esperienza del lasciarsi sedurre dall’altro e perdersi, smettere di essere soggetto per fondersi nell’Altro che parla, per sommergersi in una vita falsa, in una pseudo-realtà che – creando un ordine inverso – si oppone alla legge di Dio.
Dice Lacan che all’essere, come lo si intende nella tradizione filosofica, si oppone il fatto che “siamo giocattoli del piacere”. Cioè, siamo sottomessi a qualcuno o qualcosa che non è l’Essere, che – nella tradizione filosofica – è Dio nella sua perfezione. Però è l’uomo stesso che si sottomette a quell’Altro che parla dall’inconscio, e che dopo gli dirige tutta la vita. E questa esperienza deve ripeterla con l’analista, creare quel laccio, per dopo invertire tutta la realtà.
Per Lacan – sempre interpretando Freud – alla radice dell’etica si deve collocare il desiderio e il desiderio che si accompagna alla “mancanza” (faute, colpa, peccato), perché è il desiderio perverso.
Fa riferimento all’opera di Freud «Totem e tabù», e alla colpa originale di cui lì si parla, della quale dobbiamo essere orgogliosi: “dobbiamo lodarci per lei, felix culpa”. Il crimine – per Lacan – consiste nell’ignorare il Male assoluto. L’etica lacaniana predica “la mancanza” (o peccato) come ideale, dunque è l’unica capace di farci scappare dal crimine che è ignorare il male. Per Lacan il fine della psicoanalisi è l’accesso al desiderio del sapere; bisogna conoscere il male, perché è la cosa più profonda dell’uomo.
Lo psichiatra francese fa riferimento alla «Etica nicomachea» e pone Freud nella posizione opposta ad Aristotele. Quest’ultimo crede nel fine, nella felicità che si trova nel bene e nel Bene Supremo. Freud non nega che l’uomo cerchi la felicità, ma questa è impossibile da raggiungere; l’uomo è il desiderio.
L’Angelico – d’altra parte – dice che tutti gli uomini appetiscono la felicità, la quale si incontra nel fine ultimo. Se tutti concordano nel desiderare tale fine, nella situazione concreta, non tutti hanno la stessa idea su che cosa consista. Per San Tommaso la felicità deve essere “il bene perfetto e sufficiente” dell’uomo. Certamente in questa vita non è raggiungibile la perfetta beatitudine, però è possibile averne una parte, che è la felicità imperfetta. E così afferma l’Angelico: “l’ultima e perfetta prosperità che speriamo nella vita futura consiste totalmente nella contemplazione. Ma la beatitudine imperfetta, quale in questa vita è possibile raggiungere, consiste principalmente nella contemplazione, secondariamente nell’attività della comprensione pratica, che impone l’ordine nelle azioni e passioni umane, come dice il Filosofo”.
Lacan, basandosi sull’esperienza morale, colloca la genesi della dimensione morale nel desiderio, nella “funzione feconda del desiderio”. Il desiderio muove la vita psichica (che è movimento) da peccato a peccato. La psicoanalisi ha come obiettivo il placare la colpa di un uomo che è perverso: “Si tratterebbe di un addomesticamento del godimento perverso fondata, da una parte, nella dimostrazione della sua universalità e, dall’altro, nella sua funzione”.
Secondo Lacan la scoperta fondamentale di Freud fu la legge dell’incesto (con il conflitto edipico), perché questo vuol dire che l’uomo non può operare il bene, poiché è irraggiungibile. E il bene è irraggiungibile, perché l’uomo desidera sempre il proibito. E questo male-desiderio – o desiderio del male – è essenziale, è il fondamento della morale, di tutto il movimento dell’uomo. Lacan loda la «Critica della ragion pratica» di Kant, poiché è il libro di riferimento nelle basi etiche della psicoanalisi. Il Sommo Bene è proibito per l’uomo, perché non può né soddisfare né essere raggiunto.
Lacan critica la posizione aristotelica di un padrone che “sfugge dal lavoro” per dirigersi verso la contemplazione, nella ricerca della verità. La verità cercata nell’esperienza concreta, non è quella di una “legge superiore” – dice Lacan -, è una verità liberatrice, una verità particolare. “Che cosa può essere che cerchiamo nell’analisi se non una esperienza liberatrice? (…) Il Wunsch [desiderio] non ha la caratteristica di una legge universale, ma al contrario quella della legge particolare”. Questo è ciò che deve compiere colui che si psicoanalizza, liberarsi dalla verità e vivere secondo il desiderio, però il desiderio perverso che conosce il Male.
E riafferma che il desiderio ultimo, che l’individuo scopre come motore della sua condotta, è quello che Freud chiamò “desiderio dell’incesto”. Per Freud la legge è collegata con la sua proibizione e violazione. L’uomo è la sua libertà e questo si rende manifesto quando si libera trasgredendo, soprattutto la legge naturale.
I comandamenti – aggiunge Lacan – si incontrano in relazione con “la parola”, e questa rende possibile la menzogna. Poiché “passiamo il nostro tempo violando i dieci comandamenti e precisamente per questo motivo una società è possibile”. La vita psichica è una violazione delle norme. L’uomo vive continuamente la simulazione, la menzogna, l’inganno, e questo è ciò che chiama “amor cortese” o falso. Esplicita questo con la seguente formula: “A livello incosciente il soggetto mente. E questa menzogna è il suo modo di dire circa la verità”. Ricordiamo che l’inconscio è strutturato come un linguaggio: “in questa funzione antinomica tra la legge e il desiderio, la parola condiziona”. Nella parola risiede una delle pietre angolari della condizione umana, perché le permette di invertire la realtà con la menzogna come verità.
Qui la cosa importante è il linguaggio che, secondo Lacan, si struttura attorno al vuoto, perché è una costruzione artificiosa. Permette di andare molto al di là del bene e del male, rende possibile una separazione dell’essere, una divisione tra il vero essere e la creazione della propria legge. Crea ex-nihilo, perché al divincolarsi dell’essere, genera una legge che segue la propria volontà isolata dalla realtà, la quale sommerge l’uomo in questo “ruminare sui propri pensieri” senza considerare la sua natura e il suo fine di perfezione.
2) Conseguenze dell’agire secondo il desiderio
A differenza di Freud che era ateo e materialista e per il quale la morte era solo il ritorno all’inanimato, Jacques Lacan, con la sua formazione cattolica, imposta la dinamica psichica tra la vita e la morte, tra il peccato (la mancanza, difetto, amartìa) e il compimento della legge naturale. Per lui l’uomo è-per-la-morte, perché respinge i beni, non può essere felice, la sua vita è una tragedia. Questo è il paradosso: è vivo però si scontra con la morte dell’anima.
Lacan manifesta chiaramente che l’etica della psicoanalisi, la sua dimensione morale (che è l’oggetto proprio di questa disciplina), si riferisce all’azione che è mossa dal desiderio perverso (contrario al proprio bene), principio dell’agire, che mette l’uomo in relazione con il Giudizio Finale, il trionfo della morte, l’inferno. Per questo Lacan dà tanta importanza alla Legge, però la propria legge, la legge della realizzazione del desiderio, che alla fine è un desiderio di morte.
Pone il desiderio e la legge in relazione dialettica, in modo che la Legge accende il desiderio, che diventa desiderio di morte. Dio sa che l’uomo ha un desiderio perverso e di conseguenza gli dà la legge per impedirgli questo godimento. La trasgressione è necessaria, nel contesto lacaniano, per accedere al godimento, per il quale serve la legge, quando c’è la sua violazione. Però il piacere cambia completamente il senso della legge morale, perché la legge serve per promuovere il peccato e ciò è possibile, grazie al desiderio, è possibile godere molto di più di quanto stabilisce la legge. La dottrina della legge del piacere egoista, inserita nel “mistero del desiderio” perverso, porta al vuoto più terribile e culmina quando “vediamo profilarsi all’orizzonte l’idea di un supplizio eterno”.
Per questo a Lacan piace citare frequentemente l’opera di Sade. L’accumulo degli orrori che compaiono in Sade evidenzia l’importanza di questo desiderio perverso che si trova in relazione alla ricerca di soddisfazione del proprio potere, e che entra in gioco nel voler andare molto più in là di tutta la legge naturale, nel cercare questo eccesso come modalità di trasgressione. Però riconosce che questa “problematica del desiderio”, che fa “retrocedere l’uomo davanti ai beni”, ha come correlato necessario la distruzione (che in Freud si incontra connessa alla pulsione di morte).
Il famoso psichiatra francese ritorna spesso a Sade e alle sue mille immagini che esprimono questo desiderio perverso, però anche al fantasma della sofferenza eterna. Lacan pensa che la posizione creazionista, quel partire dal niente (ex-nihilo), significhi che ciò che è non può ritornare niente. E giustamente lo mette in relazione al tema di Sade e il male del peccatore incallito, il quale supera la legge, e che a volte affronta il problema del male per sempre. Se l’uomo potesse tornare al nulla, potrebbe smettere di soffrire, però ciò che ora è, non può tornare al nulla dal quale giunse.
In una dura critica alla “etica tradizionale” aristotelica rivolta al bene, Lacan pone le azioni che devono essere secondo il desiderio (al “desiderio si oppone l’etica tradizionale”) che disciplina la legge personale, in un giudizio etico che è in relazione al Giudizio Finale, dove ci sarà il “trionfo dell’essere-per-la-morte”. Questo è la caratteristica fondamentale del comportamento in vita, il quale terminerà nella morte finale, che è la dannazione.
Dice Lacan: “la questione della realizzazione del desiderio si forma necessariamente dalla prospettiva del Giudizio Finale”. Per questo autore, il fondamento della realizzazione del desiderio è di fronte e in vista di questo Giudizio Finale che sarà di condanna. Aver realizzato il desiderio perverso vuol dire introdurre la morte nella propria vita. Implica la futura e perpetua sofferenza nell’inferno, raffigurato – secondo Lacan – da Sade come il tempo senza fine per i tormenti del condannato. Però per questo sono necessarie due cose che si relazionino con la seconda morte o morte dell’anima: il linguaggio, ciò che “non è”, il luogo della menzogna, e la libido che pone una barriera affinché tutto sia dimenticato e possa tener acceso il piacere “negli istanti fugaci”.
Il sessuale nasconde l’infelicità radicale. Però ancor di più della passione carnale, è più importante che il soggetto riesca a compiere “la sua legge”, trasgredendo quella di Dio. La psicoanalisi deve dirigersi ai beni terreni, in modo che questi completino la domanda di felicità che porta il paziente. Però per questo bisogna distruggere la relazione con Dio ed attenersi alle conseguenze che assumono la morte dell’anima, la dannazione. Seguire il desiderio è immergersi nel “giubilo diabolico”, perché in alcuna maniera si sa – e questo è crudele – che termina nel supplizio eterno, benché si godi di un piacere fugace.
L’uomo compie la sua propria legge secondo il proprio desiderio, e questo lo porta alla sfida di oltrepassare tutti i limiti possibili, di avventurarsi in tutti gli eccessi, ma lo mette di fronte anche alla morte dell’anima nel Giudizio Finale, al supplizio senza fine. Si cerca il desiderio perverso per l’impotenza del desiderio naturale, dice Lacan. Vediamo chiaramente come, senza la grazia, l’uomo non può compiere in pienezza la legge naturale, e così viene visto da questi autori. Soprattutto da Lacan che ha conosciuto la vita cristiana molto profondamente.
Lacan dice che l’etica della psicoanalisi è un’etica tragica, perché il male è un bene e l’agire non conduce al fine ultimo, però realizza la soddisfazione del desiderio. Senza dubbio, è una tragedia perché riceve la sua punizione, che è la morte. Allora questo deve fare la psicoanalisi: che l’uomo abbia coscienza dell’esperienza del peccato, che in ultima istanza è esperienza della propria morte, della morte causata dalle sue azioni. Questa concezione non solo si allontana dall’etica aristotelica, ma anche – esplicitamente – Lacan la oppone all’etica della felicità. E il fondamento è che il peccato è il “bene di tutti”, ciò che “tutti” possono fare.
Lacan non nega Dio, ma non lo riconosce come Bene Assoluto o Bene Supremo, perché crede che in Dio ci sia il male. Per mezzo della psicoanalisi abbiamo esperienza del fatto che il Bene Supremo non esiste, perché risulta evidente che l’atto psichico esiste dal negativo (il difetto che ridesta il desiderio perverso), dal male che tutto raggiunge e porta alla “realizzazione” dell’individuo, però anche alla morte (per questo l’uomo è-per-la-morte). C’è una morte doppia: la morte reale (biologica) e la morte “preferita, assunta” che è in relazione all’odio per il creatore che fece l’uomo debole ed inadeguato.
Conclusione: non c’è dubbio che il pensiero di Lacan mostri la profonda disperazione che – disgraziatamente – incontriamo in molte persone del nostro tempo, quelle che hanno assimilato il pensiero relativista moderno, in una società che ha conosciuto la verità del cristianesimo. L’uomo che oggigiorno vuole vivere secondo il suo desiderio e trasgredire la Legge di Dio, seguendo “la sua legge”, affronta l’irrimediabile morte dell’anima e il suo spaventoso “supplizio senza fine”. E questo fa sì che la vita abbia un peso insopportabile, una sofferenza terribile ed oscura (coperta molte volta dalla soddisfazione dei desideri), però che affiora di volta in volta con sintomi psichici inequivocabili.
Chissà se per questo motivo S.S. Benedetto XVI ritenne necessario regalarci l’Enciclica «Spe Salvi», in cui riprende la prospettiva del giudizio finale come criterio di ordine delle azioni, dove è inclusa tutta la nostra realtà presente. Colui che ha speranza, vive in un modo differente. “Il Giudizio di Dio è speranza sia perché è giustizia, sia perché è grazia. […] la grazia consente a noi tutti di sperare e di andare pieni di fiducia incontro al Giudice che conosciamo come nostro « avvocato », parakletos”.