Il prolifico scrittore e monaco benedettino Anselm Grün ha dato alle stampe un interessantissimo testo (Gesù il terapeuta. La forza risanante delle parabole, San Paolo, 2012, Cinisello Balsamo) nel quale analizza l’operato di Gesù - parabole, parole e guarigioni - da un punto di vista terapeutico: «Ovviamente non farò riferimento ad alcuna “scuola terapeutica”. Gesù non ha inteso dare vita a una propria corrente di psicoterapia. Egli si accostava alle persone guidato dalla sua intuizione, seguendo l’impulso del cuore. Noi non possiamo “copiare” Gesù, possiamo solo lasciarci ispirare e orientare da lui. Egli, infatti, dopo aver alitato sui suoi discepoli il proprio Spirito, diede loro il mandato, in forza di quello stesso Spirito, di guarire i malati e di proclamare il suo messaggio di salvezza. Così la sua forza risanatrice avrebbe continuato a raggiungere e beneficare gli uomini di ogni tempo» (p. 6). Grün pone il focus della sua indagine su di un aspetto ben preciso: «Mi interessa in primo luogo capire come si possa, nel nostro incontro con Gesù, acquisire una nuova, differente immagine di noi stessi. Infatti, dipende in gran parte dalla propria “autoimmagine” se la nostra vita ottiene senso e pienezza» (p. 5). «[…] Occorre che ognuno di noi – vuoi persone in ricerca, oppure guide spirituali o terapeutiche – si proponga un’assidua meditazione delle azioni e delle parole di Gesù, allo scopo di scrutare la nostra autoimmagine e confrontarci con essa. Questa immagine di sé ha sempre a che fare, in certa misura, con l’immagine che si ha di Dio» (p. 9).
Il primo capitolo è dedicato alla “metodologia terapeutica di Gesù nelle parabole” che, secondo Grün, «[…] sono una vera e propria forma di “colloquio terapeutico”. […] Le parabole costituiscono un percorso terapeutico nel quale gli ascoltatori sono invitati ad entrare. Esse non mirano per prima cosa a “istruire”, bensì a guarire le nostre rappresentazioni interiori» (p. 8). E’ questo l’aspetto delle parabole che l’autore vuole evidenziare: «In passato molti commentatori ritenevano che nelle parabole si dovesse ricercare, al di là dell’impianto narrativo, un punto d’arrivo “terzo” (tecnicamente: tertium comparationis), ovvero una frase o un concetto contenente l’insegnamento di fondo del racconto: la cosiddetta “morale della favola”. […] Ma così viene misconosciuta l’efficacia terapeutica delle parabole. Mentre Gesù racconta, si produce nell’uditore un’intima trasformazione. […] Questo cambiamento, riguardante sia la sua visione interiore sia i suoi sentimenti, non accade in forza di una narrazione puramente didattica. A tale scopo occorre l’arte della parabola» (p. 12). E così il monaco benedettino passa in rassegna le parabole di Gesù classificandole a seconda degli aspetti dell’immagine si sé. La parabola dell’amministratore disonesto (Luca 16, 1-8) tocca il tema della colpa e delle compulsioni: «I disturbi compulsivi sono, in ultima istanza, sempre legati alla colpa rimossa. […] Il problema sta nel modo in cui io riesco a rapportarmi con la colpa, in maniera appropriata, così che non venga meno la mia autostima» (p. 14). Dalla parabola Grün ricava «due possibili reazioni. La prima: si vuole “fare qualcosa, impegnarsi concretamente; ci si ripromette, d’ora in poi, di non commettere più errori. Ma ciò porta all’indurimento, alla rigidità: si diventa rigorosi verso se stessi, si giudicano con severità anche gli altri. Una seconda forma consiste nel cercare riconoscimento, approvazione: ci si fa piccoli, si prende un atteggiamento da convertiti, quasi ci si scusa per il fatto di esistere. Ma in questo modo si sperpera ogni residuo di autostima» (p. 15). La parabola della vedova e del giudice “che non temeva Dio” (Luca 18, 1-8) si lega, invece, al tema del giudice interiore; la famosa parabola dei talenti (Matteo 25, 14-30; Luca 19, 11-27) è, invece, attinente alla paura, in particolare al timore del giudizio degli altri, che porta molti a «controllare tutto» (p. 20). La parabola degli operai inviati nella vigna (Matteo 20, 1-16) mette a tema l’invidia: «Quanto più ci paragoniamo agli altri, tanto più ci ritroviamo insoddisfatti« (p. 23). Alle prese con i nemici interni è la parabola del re che muove guerra con diecimila soldati (Luca 14, 31-32), che l’autore esplica con un esempio: «Una signora, tormentata da ricorrenti e forti attacchi di fame, si puniva imponendosi dei periodi di digiuno. Il sistema funzionava per qualche giorno, ma poi lo stimolo irresistibile tornava a manifestarsi. […] Allo scopo di trasformare l’ingordigia in un’amica potrebbe essere utile questo metodo. Io smetto di lottare contro la fame, non mi colpevolizzo più, non mi punisco col digiuno, ma interrogo la mia avidità per capire che cosa mi vuole dire. A cosa miro quando m’ingozzo di cibo? Forse ho bisogno d’amore? Oppure voglio contrastare sentimenti di rabbia o qualche delusione? O è il bisogno di concedermi qualcosa di gratificante dopo un lavoro faticoso? Queste o simili pulsioni non vanno subito deprecate: dovranno pur voler dire qualcosa. Il problema è come io le possa affrontare diversamente, come possa soddisfarle in maniera più rasserenante, senza che si lascino dietro tracce di vergogna o di cattiva coscienza. Se riesco a interpretare la fame come una pulsione amica, lì pronta a ricordarmi qualche profondo desiderio, allora comincerò a fare a meno della mia avidità. Essa non mi ha più in pungo» (p. 27). La nota parabola del grano e della zizzania (Matteo 13, 24-30) è utilizzata per le persone alle prese con le zone d’ombra, in particolare con atteggiamenti di rigorismo, di perfezionismo e di eccessivo controllo: «Anche noi, molte volte, siamo convinti di avere seminato bene nel campo della nostra anima, e tutt’a un tratto scopriamo delle erbacce» (p. 29). «Chi per eccesso di perfezionismo volesse eliminare dal suo animo e dalla sua condotta ogni forma di imperfezione, potrebbe rendere la propria vita infruttifera» (p. 30). «Questa consapevolezza può preservarci dal pericolo di cadere in un eccesso di rigorismo verso noi stessi e verso il prossimo» (p. 32). «Sovente siamo portati a confrontarci con gli altri e vorremmo essere come loro; oppure ci siamo fatti un quadro ideale di noi stessi e cerchiamo a ogni costi di realizzarlo» (p. 32) Questi casi di ansia per il confronto con gli altri, di idealizzazione di sé, di imitazione, Grün parla di «raffigurazioni illusorie», le quali possono bene essere illuminate dalla parabola della costruzione della torre (Luca 14, 28-30). Mentre per le persone alle prese con le delusioni, e quindi con sentimenti di scontentezza e di elaborazione della fine, l’autore consiglia la parabola del fico infruttifero (Luca 13, 6-9) perché: «Rimane sempre un ultimo brandello di speranza a cui aggrapparsi» (p. 35). Sottolinea, inoltre, un elemento particolare di tale racconto, il letame: «Un’immagine consolante: proprio ciò che a volte in noi consideriamo letame – cioè rifiuto, cosa di poco conto e spregevole – può servire a predisporre il terreno affinché l’albero della nostra vita abbia a produrre buoni frutti» (p. 36). La parabola delle vergini (Matteo 25, 1-13) e quella del convito (Luca 14, 16-24; Matteo 22, 1-14) sono invece inviti all’autorealizzazione, ossia all’esser pronti, vigili, astuti. Con la parabola del seminatore (Matteo 13, 1-9) «Gesù vuole esortarci a scrutare dentro di noi, per scoprirvi la presenza della strada indurita, del terreno sassoso e dei rovi, ovvero la cause che possono rendere arida ed infruttifera la nostra esistenza» (p. 42). Il bisogno di cambiamento, l’invito ad osservare il tempo che passa, e l’importanza delle piccole cose, Grün li ritrova nella bella parabola del lievito (Matteo 13, 33; Luca 13, 20-21): «Che cos’è un pugnello di lievito a confronto di una grande massa di farina? Eppure riesce a farla fermentare tutta» (p. 44). La parabola che «non finirà mai di commuoverci: la storia del “figlio perduto e ritrovato” o anche del “padre misericordioso”» (p. 45) - nota anche come quella del “figliol prodigo”(Luca 15, 11-32) - «[…] prende spunto da due atteggiamenti, due polarità contrapposte […] il figlio più giovane, insofferente delle rigide norme della convivenza, […] il figlio maggiore che non condivide l’atteggiamento misericordioso del padre» (ib.). «Con questa parabola Gesù vuole demolire le resistenze interiori che il nostro inconscio innalza contro la possibilità di un ritorno e di una piena conciliazione» (p. 46). Il pericolo segnalato da Grün è l’orgoglio, ed in particolare il disprezzo di sé e l’autocondanna che ne sono i processi secondari. Il tema del ritrovare ciò che si è perduto, in particolare sé stessi, è tematizzato dalla parabola della donna che possiede dieci monete (Luca 15, 8-10). «Nell’aneddoto della moneta perduta l’accento è posto sul venir meno del nostro “centro interiore”, del nostro “sé”, della nostra identità» (p. 48); «In chiave psicologica si può dire che la moneta è il simbolo del “sé”» (p. 49). «In qualunque modo si legga questa parabola, essa corrisponde a un generale, innato desiderio umano, a una nostalgia profonda: poter ritrovare, prima o poi, ciò che sentiamo d’avere perduto» (p. 51). Le ultime due parabole che l’autore riporta nel primo capitolo sono quella del tesoro sotterrato nel campo e della perla preziosa (Matteo 13, 44-46) entrambe ricondotte alla ricerca del vero “sé”.
Il secondo capitolo è dedicato alla metodologia terapeutica di Gesù nelle sue parole. Come per le parabole, anche per le frasi che Gesù espone nei suoi discorsi Grün precisa che: «In passato, molte parole di Gesù venivano di preferenza intese in chiave moralistica, con l’effetto di trasmettere un senso di sovraccarico e di rigorosità. E questo ingenerava in molte persone l’ansia di non essere in grado di soddisfare le richieste del Cristo» (p. 56). Per Grün, invece, «[…] tutte le volte che una parola del Signore mi disturba, vuol dire che non sono in amicizia né in armonia con me; vuol dire che nutro un’immagine di me, della vita e di Dio non corrispondente a verità, e questo mi procura del danno. Se invece accetto di confrontarmi con la parola di Gesù, l’accolgo e cerco di armonizzare con essa il mio cuore, immediatamente mi diventa comprensibile e gradevole, e mi apre la porta della verità» (ib.). «Ciò che conta è che queste espressioni contengono un significato profondo, in forza del quale possono di volta in volta, nelle varie situazioni della nostra vita, esercitare un’inattesa efficacia» (p. 57). La prima sezione è dedicata alle metafore ed enigmi, ossia «[…] delle vere e proprie “frasi enigmatiche”. Questo espediente – “parlare per metafore ed enigmi” – può contribuire a dare una maggiore efficacia terapeutica alla predicazione di Gesù» (p. 58). Le espressioni analizzate sono (p. 58-62): «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio (Luca 9, 60)»; «Molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi saranno primi (Matteo 10, 31)»; «E’ più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio (Marco 10, 25)» e, su quest’ultima: «La parola di Gesù è come un pungiglione che penetra in me e mi tormenta: sono costretto a domandarmi in quale misura anch’io sono “un ricco”» (p. 62). La seconda sezione è dedicata alle parole che descrivono immagini: «La nostra mente pensa in immagini» (p. 63). Tra le numerose immagini riportate: «Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che vi entrano. Quanto stretta è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e pochi sono quelli che la trovano! (Matteo 7, 13-14). L’invito di Gesù a entrare per la porta stretta significa che ognuno di noi deve saper trovare la strada che gli è stata assegnata […]. La porta larga è quella attraverso cui tutti più o meno facilmente passano. La via stretta è quella che Dio ha predisposto per noi: la via nella quale noi possiamo realizzare la singolare e unica immagine che Dio si è fatta di noi» (p. 65). La terza sezione è per le parole che provocano e sfidano, come queste: «Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, vi dico, ma divisione (Luca 12, 51)» (p. 71). Ed infine le parole che illuminano e infondono coraggio: «Il sabato è stato fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato (Marco 2, 27). […] Ma perché dimenticare che tutti questi metodi e rituali sono “per noi” e che non dobbiamo mai diventarne schiavi?» (p. 77). «Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro (Marco 7, 15). […] Ci occorre, invece, questa solida e ineccepibile espressione di Gesù – quasi scolpita nella pietra – a conferma che le cose negative da cui dobbiamo guardarci sono soprattutto quelle che provengono dal nostro interno. […] E tuttavia c’è in noi uno spazio interiore che non si lascia contaminare dall’esterno, una inviolabile zona di sicurezza» (p. 80).
Il terzo ed ultimo capitolo si focalizza sulla metodologia terapeutica di Gesù nei racconti delle guarigioni. Nel paragrafo introduttivo Grün evidenzia che: «Già gli evangelisti, da parte loro, hanno in qualche modo sistematizzato i metodi terapeutici di Gesù. Ognuno di loro esprime una propria visione e comprensione della malattia e della guarigione […]. Si può dire, ad esempio che per Marco la malattia è sempre conseguenza di una possessione diabolica. […] Oggi, in base alle nostre nozioni psicologiche, i demoni corrispondono a certi modelli nevrotici di vita, ai complessi psichici, alle idee fisse che impediscono una chiara visione della realtà. […] In quanto giudeo-cristiano, l’evangelista Matteo vede sempre un collegamento tra malattia e peccato. […] Le guarigioni narrate da Luca sono generalmente compiute da Gesù in giorno di sabato. Per questo evangelista – di prevalente cultura greca – la malattia è una deformazione dell’uomo, un attacco alla sua dignità, un’alterazione dell’armonia dell’anima. […] Quanto all’evangelista Giovanni si potrebbe dire che per lui la malattia è una dimostrazione che l’uomo ha perduto il contatto con la sua divina sorgente» (p. 86-88). Molte sono le guarigioni di Gesù, e Grün le suddivide per gruppi. Il primo (p. 89-97) contiene gli episodi in cui Gesù interviene di sua iniziativa, in cui trovano posto la «guarigione della suocera di Pietro»; «l’uomo con la mano paralizzata»; «la donna curva e l’uomo idropico»; «la guarigione del paralitico», di cui commenta: «Lo scopo [del guaritore] non è eliminare tutti i sintomi della malattia, ma aiutare a convivere con essi» (p. 97). Il secondo gruppo (p. 97-109) contiene gli episodi in cui i malati si presentano a Gesù: «la guarigione di un lebbroso»; «la guarigione dei dieci lebbrosi», di cui Grün commenta: «Questo racconto ci illumina ulteriormente sui metodi terapeutici di Gesù. Egli indirizza i lebbrosi sulla via già prescritta dalla legge e dalla religione. Così deve fare anche una guida spirituale: non indicare o chiedere al suo assistito prestazioni straordinarie, ma incoraggiarlo a vivere la propria quotidianità secondo le norme e le consuetudini suggerite dalla sua tradizione di fede» (p. 193); «l’indemoniato di Gerasa»; «il mendicante cieco Bartimeo», il quale «viene mandato per la sua strada: non è stato Gesù a operare la guarigione, bensì la sua stessa fede. Perché una guarigione possa compiersi, occorre che il malato riponga piena fiducia nel terapeuta o nella guida spirituale. Ma non è il medico che ci guarisce: è la nostra fiducia a metterci in contatto con le energie sananti presenti nella nostra anima» (p. 108). Il terzo gruppo guarigioni (109-120) include i momenti in cui i malati sono presentati a Gesù: la «guarigione del paralitico», dalla cui vicenda Grün osserva: «Ci sono persone che sarebbero pronte a risollevarsi e riprendere il loro cammino, ma solo a condizione di sentirsi sicure di sé, senza difetti, quasi perfette: fino allora rimangono come paralizzate. Ma in questo modo si tagliano fuori dalla loro autentica realtà umana. L’uomo è perennemente fragile e incompiuto, sempre in via di miglioramento, e così deve accettarsi. Solo quando è disposto a modificare il suo schema di vita, a rivedere certi punti divista, allora anche i sintomi corporei possono venire sanati. Perciò la terapia non mira a curare in primo luogo i sintomi fisiologici, essendo questi, la maggior parte delle volte, manifestazioni di disagi ben più profondi» (p. 110). Sempre riferito a quest’episodio, Grün delinea un vero e proprio percorso per la guarigione: «Similmente al paralitico, anche noi quando siamo oppressi dall’ansia ci affidiamo volentieri a qualcuno in grado di offrirci luce e sostegno. Gesù, invece, mi rimanda preferibilmente a me stesso. Io per primo devo stabilire un colloquio con le mie paure, interrogarle sulla loro origine, su quali invalidanti ragioni di fondo si radicano. Solo quando il mio modo di vedere la realtà sarà radicalmente cambiato, quando mi deciderò ad apprezzare maggiormente me stesso, senza più l’illusione di dover essere sempre perfetto e sicuro di me…, allora potrò con facilità risollevarmi e affrontare con rinnovata energia il cammino della vita» (p. 111); seguono la «guarigione del sordomuto»; la «guarigione di un cieco»; «il centurione di Cafarnao». Il quarto gruppo (120-126) raduna le guarigioni che avvengono «nell’incontro»: «l’indemoniato di Cafarnao» la cui guarigione «[…] è un invito a interrogarci sulla nostra personale immagine di Dio» (p. 123); «il cieco dalla nascita». L’ultimo gruppo (127-134) raggruppa quattro casi in cui «Gesù pratica la terapia familiare» dai quali Grün evince alcuni nodi concettuali inerenti i ruoli, i legami, le difese, i giochi delle parti. Infine l’ultimo paragrafo getta una «visione d’insieme sui metodi terapeutici di Gesù» (p. 134): «In prima istanza, non è la metodologia che guarisce, bensì la partecipazione schietta e comprensiva del terapeuta alla situazione di chi s’affida alle sue cure» (p. 135). «Gesù si lascia coinvolgere profondamente con le situazioni dei malati che incontra, si fa loro “prossimo”. Ha come un fiuto particolare per le reali necessità delle persone e tratta ciascuna nel modo più appropriato, senza vincolarsi a una prassi preconfezionata» (ib.). «[…] non dipende solo da noi se l’incontro risulterà benefico oppure no; questa consapevolezza deve sollevarci dalla pressione di dover portare infallibilmente il nostro cliente alla guarigione. Alla resa dei conti, la guarigione è sempre un dono, per non dire un miracolo» (p. 136). «In ognuno di noi sono presenti forze autoguaritive. Mediante la sua parola e il suo contatto, Gesù fa entrare la persona in relazione con la sua sorgente interiore, con le sue risorse più profonde, dalle quali può attingere abbondantemente. Gesù confida nella autosananti energie presenti nell’uomo. Egli non vuole fare tutto da solo» (p. 137).
Nelle riflessioni conclusive, l’autore ribadisce che: «nell’incontro con Lui anche oggi sperimentiamo la forza guaritrice che da Lui continua a emanare» (p. 141). «Gesù, anche quanto parla del peccato e delle colpe che possono contaminare il cuore dell’uomo, non trascura mai di richiamarsi a quel nucleo profondo che il male non è comunque in grado di corrompere» (p. 143).
Giudizio. Il libro di Grün è un testo divulgativo, che ha il merito di essere facilmente leggibile da chiunque. Può annoverarsi tra quelle (poche) pubblicazioni presenti in letteratura che tentano un incontro tra il mondo della psicoterapia e la teologia, in particolare l’esegesi. Gesù il terapeuta si aggiunge, infatti, ai saggi di Hanna Wolff (Gesù psicoterapeuta, ed. Queriniana, 4° ed. 2007), di Helmut Jaschke (Gesù. Il guaritore, ed. Queriniana, 1997), di Bernard Tyrrell (Gesù luce che guarisce, ed. San Paolo, 1998). A differenza dei primi due, ed in particolare del primo con il quale condivide la prospettiva junghiana, il libro di Grün risulta più strutturato: in primo piano viene messa l’opera di Gesù, mentre solo sullo sfondo compare l'interpretazione dell’autore. Dunque si rivela assai più didascalico: le sezioni sono divise per argomenti, ed ogni argomento viene trattato sino all’esaustività. Inoltre gli aspetti della psicologia del profondo sono intesi come uno sguardo in grado di spiegare gli effetti delle azioni di Gesù, senza che l’autore abbia la pretesa di definire la sua prospettiva come univoca o esaustiva (a differenza, invece, di molti altri esponenti del pensiero psicoanalitico che si sono cimentati in imprese simili, come ad esempio Eugene Drewermann). Molti sono gli aspetti della psicoterapia che Grün analizza da vicino. Mi permetto di segnalarne tre, dei quali sono rimasto piacevolmente sorpreso. Il primo è la lettura della parabola, della metafora, dell'aneddoto, della similitudine e persino dell’enigma come strumento finalizzato al cambiamento: «Le parabole costituiscono un percorso terapeutico nel quale gli ascoltatori sono invitati a entrare. Esse non mirano per prima cosa a “istruire”, bensì a guarire le nostre rappresentazioni interiori» (p. 8). «Ciò che conta è che queste espressioni contengono un significato profondo, in forza del quale possono di volta in volta, nelle varie situazioni della nostra vita, esercitare un’inattesa efficacia» (p. 57). Tale concezione è ben presente in diversi approcci psicoterapeutici, come quello ipnotico, ericksoniano, psicodinamico immaginativo, i quali sfruttano il "pensare per immagini" per raggiungere le risorse interne al paziente. Il secondo aspetto, quasi in conseguenza, è la “resource orientation” con la quale Grün legge l’atteggiamento di Gesù. C’è una positività nell’intendere l’umano, poiché esso nasconde sempre una sorgente di bene – spesso inconscia – dalla quale è possibile una ripartenza: «In ognuno di noi sono presenti forze autoguaritive. Mediante la sua parola e il suo contatto, Gesù fa entrare la persona in relazione con la sua sorgente interiore, con le sue risorse profonde, dalle quali può attingere abbondantemente. Gesù confida nelle auto sananti energie presenti nell’uomo» (p. 137). L’idea della “risorsa”, delle “forze di auto guarigione”, è conforme con diverse impostazioni cliniche: penso ad esempio all’epistemologia umanistica, all’approccio relazionale-simbolico, all’esistenzialismo. Si tratta di un aspetto che spesso, in psicologia, è foriero di contraddizioni e di presupposti erronei, ad esempio l’idea di una natura “automaticamente” buona – concezione di origine roussoviana –; di un inconscio saggio e più importante della razionalità – concezione naturalistica e istintivistica –; di “farcela unicamente con i propri mezzi” – concezione antropocentrica e pragmatista. Ma Grün, pur non entrando nel merito delle questioni filosofiche, risponde: «La mia fede deve rafforzare il cliente nella fede in se stesso; mala mia fede non può sostituire la sua. Egli deve anche essere disposto a credere in se stesso, e inoltre a credere che è Dio che opera il miracolo della guarigione» (p. 138). Il terzo aspetto è l’accento posto sulle convinzioni personali. Esse influenzano direttamente la salute, più di quanto la psicologia contemporanea voglia ammettere: «Con quelle storie Gesù cercava di comunicare agli uditori una nuova immagine di Dio, nonché una differente visione di se stessi. Infatti, false concezioni su Dio e una erronea immagine di sé condizionano negativamente il modo d’intendere e condurre la propria esistenza» (p. 13). «Solo quando [l’uomo] è disposto a modificare il suo schema di vita, a rivedere certi punti di vista, allora anche i sintomi corporei possono venire sanati» (p. 110). Non possono che venire alla mente le parole di Rudolf Allers, il quale ha dedicato un articolo all'importanza delle convinzioni (La psichiatria ed il ruolo delle credenze personali, in www.psicologiacattolicesimo.blogspot.com) ed in più occasioni ha ribadito: «Non mi sono fino ad ora mai imbattuto in un caso di nevrosi, che non rivelasse in fondo, un problema metafisico non risolto, come conflitto e problema finale; per così designare il problema che tratta della posizione dell’uomo in generale, non importa se la persona in questione sia religiosa o no, cattolica o non cattolica» (R. Allers, Psicologia e pedagogia del carattere, SEI, Torino, 1961, pag. 295). Non mancano, nel testo, alcuni punti deboli, che potrebbero riassumersi nella stringata univocità di lettura ed interpretazione delle parabole e nell’accento spiccatamente junghiano di alcuni passaggi discutibili (ad es. «Dobbiamo saper scoprire la perla – il nostro “sé”, il nucleo prezioso della nostra identità personale – proprio nelle ferite della nostra vita. A quel punto, la ferita continuerà a esistere, ma non farà più male» p. 54). Ma tali criticità sono del tutto marginali, e non inficiano un’opera che allo psicoterapeuta cattolico può fornire un aiuto importante.