Rudolf Allers |
Se esiste un argomento trasversale e comune a tutte le correnti della psicologia, questo è il tema delle emozioni. Ed è proprio sulle emozioni che la seconda tappa del percorso sulla vis cogitativa si sofferma, con il lungo ed approfondito articolo The cognitive aspect of emotions, comparso per la prima volta sulla rivista The Tomist nel 1942.
La modernità in cui viviamo dà grande importanza alle emozioni. Basta affacciarsi ad una delle numerose produzioni mass-mediatiche per accorgersi che le canzoni mirano a "regalare emozioni", i programmi televisivi devono "emozionare", fino alle lacrime, con storie struggenti ed esasperate, i romanzi vengono costruiti al fine di suscitare "contraccolpi emotivi continui", come se dovessero accompagnare i lettori sulle montagne russe, le news alimentano una sete ininterrotta di "emozionalità", simile ad una ferita che necessita di una quantità di sale sempre più ampia per raggiungere il livello di sensibilità, ecc. Le emozioni hanno di gran lunga soppiantato i temi storici della ragione e della virtù. Sono diventate il nuovo punto focale della società, dei rapporti, della vita psichica. Non sorprende, dunque, se i rapporti d'amicizia e d'amore si formano - e quindi si "sformano" - sulla base di un sentire emotivo, invece che su di un giudizio di valore. Molti filosofi, sociologi e psicologi, con sfumature diverse, hanno descritto tale fenomeno, come F. Botturi: "L'esperienza e la concezione affettive contemporanee si concentrano così sempre più nell'emozionale. Ma l'emozione è autoreferenziale, in essa l'alterità è presente solo come occasione esterna, ed è istantanea, ripetitiva, intensiva. La situazione diviene preoccupante, quando tutta l'affettività tende a risolversi in emozione e l'emozionalismo diviene una forma culturale predominante" (Libertà in relazione, in Famiglia e Dico: una mutazione antropologica, I quaderni della sussidiarietà, Fondazione per la sussidiarietà 2007, pag. 29).
In psicologia un punto di svolta particolarmente importante è avvenuto con la pubblicazione delle teorie di Antonio Damasio. Il celebre neuroscienziato di origini portoghesi ha utilizzato con intelligenza i dati provenienti dalla ricerca clinica e sperimentale per dimostrare che le emozioni svolgono un ruolo importante anche nei processi cognitivi, come quelli implicati nelle decisioni. Damasio ha condotto una campagna contro la filosofia cartesiana che separa nettamente la res cogitans, ossia il pensiero, dalla res extensa, ossia la materia, di cui fanno parte anche le emozioni in quanto risposte dell'organismo. Le emozioni, però, sono la prova che una separazione netta tra le due realtà non è veritiera: esse hanno a che fare e con il corpo e con le componenti cognitive. Damasio ha così sdoganato un dogma razionalista, di tipo illuminista, che intendeva la ragione come "pura" in quanto opposta alla corporeità. Vi sono accenni platonici in questa concezione. Purtroppo, la bontà della critica all'errore di Cartesio si ferma qui. Damasio, infatti, viene portato in fallo dalla stessa filosofia che aveva contrastato: l'abolizione del dualismo, sia in campo metafisico che antropologico, lo conduce ad abbracciare il monismo, ossia il materialismo. Cartesio non negava l'esistenza di una realtà non-materiale, ossia spirituale (res cogitans). La poneva erroneamente in contrasto con la realtà corporea (res extensa). Il materialismo, invece, vuole spiegare la realtà spirituale come emanazione della realtà materiale. Dall'illuminismo razionalista si passa al positivismo scientista. Il passo è breve. Gli effetti di questa concezione metafisica non tardano a creare guai sul piano antropologico: le emozioni vengono innalzate al pari delle potenze cognitive, creando non poca confusione sul ruolo che esse svolgono nello sviluppo e nelle dimensioni propriamente razionali, come il giudizio. Damasio contribuisce così alla confusione generale, diventando persino un'icona dell'emozionalismo e di una falsa rappresentazione antropologica.
Eppure, ottocento anni prima di Damasio, quattrocento prima di Spinoza e più di trecento prima di Cartesio, Tommaso d'Aquino aveva definito l'uomo come un sinolo: un composto di anima e corpo. L'unitarietà del composto e la stretta interrelazione delle sue componenti erano state descritte con accuratezza ben prima dei tentativi contemporanei. Ed è su queste basi che si fonda il contributo allersiano, il quale costituisce un punto d'incontro e di giudizio tra la filosofia tomista e la psicologia contemporanea. Sul piano antropologico è la vis cogitativa la potenza che "entra in gioco" nelle risposte emozionali. Esse nascondono un giudizio di valore - ossia una valutazione - della situazione. Sulla base di questa valutazione Allers dimostra che le emozioni possono essere la strada, in alcuni casi, per il riconoscimento dello "stato ontico", ossia della posizione che l'individuo occupa nell'ordine della realtà.
L'articolo inizia con una descrizione dettagliata ed approfondita di alcune emozioni e del modo con cui esse svelano la posizione dell'uomo nel reale. Nella seconda parte l'analisi procede con svariati approfondimenti, tra cui una importante precisazione sul ruolo che la vis cogitativa svolge nel quadro generale dell'antropologia così come delineata dalla filosofia tomista. Un'antropologia filosofica che dovrebbe essere insegnata nelle facoltà di psicologia in quanto fondamento sicuro anche per le scoperte scientifiche più recenti.
La modernità in cui viviamo dà grande importanza alle emozioni. Basta affacciarsi ad una delle numerose produzioni mass-mediatiche per accorgersi che le canzoni mirano a "regalare emozioni", i programmi televisivi devono "emozionare", fino alle lacrime, con storie struggenti ed esasperate, i romanzi vengono costruiti al fine di suscitare "contraccolpi emotivi continui", come se dovessero accompagnare i lettori sulle montagne russe, le news alimentano una sete ininterrotta di "emozionalità", simile ad una ferita che necessita di una quantità di sale sempre più ampia per raggiungere il livello di sensibilità, ecc. Le emozioni hanno di gran lunga soppiantato i temi storici della ragione e della virtù. Sono diventate il nuovo punto focale della società, dei rapporti, della vita psichica. Non sorprende, dunque, se i rapporti d'amicizia e d'amore si formano - e quindi si "sformano" - sulla base di un sentire emotivo, invece che su di un giudizio di valore. Molti filosofi, sociologi e psicologi, con sfumature diverse, hanno descritto tale fenomeno, come F. Botturi: "L'esperienza e la concezione affettive contemporanee si concentrano così sempre più nell'emozionale. Ma l'emozione è autoreferenziale, in essa l'alterità è presente solo come occasione esterna, ed è istantanea, ripetitiva, intensiva. La situazione diviene preoccupante, quando tutta l'affettività tende a risolversi in emozione e l'emozionalismo diviene una forma culturale predominante" (Libertà in relazione, in Famiglia e Dico: una mutazione antropologica, I quaderni della sussidiarietà, Fondazione per la sussidiarietà 2007, pag. 29).
In psicologia un punto di svolta particolarmente importante è avvenuto con la pubblicazione delle teorie di Antonio Damasio. Il celebre neuroscienziato di origini portoghesi ha utilizzato con intelligenza i dati provenienti dalla ricerca clinica e sperimentale per dimostrare che le emozioni svolgono un ruolo importante anche nei processi cognitivi, come quelli implicati nelle decisioni. Damasio ha condotto una campagna contro la filosofia cartesiana che separa nettamente la res cogitans, ossia il pensiero, dalla res extensa, ossia la materia, di cui fanno parte anche le emozioni in quanto risposte dell'organismo. Le emozioni, però, sono la prova che una separazione netta tra le due realtà non è veritiera: esse hanno a che fare e con il corpo e con le componenti cognitive. Damasio ha così sdoganato un dogma razionalista, di tipo illuminista, che intendeva la ragione come "pura" in quanto opposta alla corporeità. Vi sono accenni platonici in questa concezione. Purtroppo, la bontà della critica all'errore di Cartesio si ferma qui. Damasio, infatti, viene portato in fallo dalla stessa filosofia che aveva contrastato: l'abolizione del dualismo, sia in campo metafisico che antropologico, lo conduce ad abbracciare il monismo, ossia il materialismo. Cartesio non negava l'esistenza di una realtà non-materiale, ossia spirituale (res cogitans). La poneva erroneamente in contrasto con la realtà corporea (res extensa). Il materialismo, invece, vuole spiegare la realtà spirituale come emanazione della realtà materiale. Dall'illuminismo razionalista si passa al positivismo scientista. Il passo è breve. Gli effetti di questa concezione metafisica non tardano a creare guai sul piano antropologico: le emozioni vengono innalzate al pari delle potenze cognitive, creando non poca confusione sul ruolo che esse svolgono nello sviluppo e nelle dimensioni propriamente razionali, come il giudizio. Damasio contribuisce così alla confusione generale, diventando persino un'icona dell'emozionalismo e di una falsa rappresentazione antropologica.
Eppure, ottocento anni prima di Damasio, quattrocento prima di Spinoza e più di trecento prima di Cartesio, Tommaso d'Aquino aveva definito l'uomo come un sinolo: un composto di anima e corpo. L'unitarietà del composto e la stretta interrelazione delle sue componenti erano state descritte con accuratezza ben prima dei tentativi contemporanei. Ed è su queste basi che si fonda il contributo allersiano, il quale costituisce un punto d'incontro e di giudizio tra la filosofia tomista e la psicologia contemporanea. Sul piano antropologico è la vis cogitativa la potenza che "entra in gioco" nelle risposte emozionali. Esse nascondono un giudizio di valore - ossia una valutazione - della situazione. Sulla base di questa valutazione Allers dimostra che le emozioni possono essere la strada, in alcuni casi, per il riconoscimento dello "stato ontico", ossia della posizione che l'individuo occupa nell'ordine della realtà.
L'articolo inizia con una descrizione dettagliata ed approfondita di alcune emozioni e del modo con cui esse svelano la posizione dell'uomo nel reale. Nella seconda parte l'analisi procede con svariati approfondimenti, tra cui una importante precisazione sul ruolo che la vis cogitativa svolge nel quadro generale dell'antropologia così come delineata dalla filosofia tomista. Un'antropologia filosofica che dovrebbe essere insegnata nelle facoltà di psicologia in quanto fondamento sicuro anche per le scoperte scientifiche più recenti.
L’aspetto cognitivo delle emozioni
La
psicologia tradizionale considera gli stati emotivi come i riflessi
consci, per così dire, dei moti degli appetiti sensitivi. Ogni volta
che un valore, incarnato in qualche oggetto particolare, viene
appreso dalla potenza cogitativa (vis
cogitativa) e consegue un
corrispondente moto dell’appetito, si ha nella coscienza una delle
passioni dell’anima (passiones
animae), che varia a
seconda della relazione oggettiva tra il bene e la persona. Forse è
stato troppo poco sottolineato che questa psicologia prende in
considerazione non solo il lato soggettivo, ma anche la situazione
totale in cui si trova la persona. In questo senso, la psicologia
Tomista è veramente “moderna”. È solo di recente che la
psicologia ha scoperto che questa dipendenza degli stati mentali e di
tutto il comportamento si regola sulla situazione generale.
Nella
psicologia tradizionale, la percezione del movente, il bene o il
male, in quanto incarnato in alcuni oggetti, è raggiunta dal quarto
senso interno, la potenza cogitativa (vis
cogitativa).1
La cognizione della bontà o della cattiveria dell’oggetto,
dell’evento o della situazione, precede il moto dell’appetito e,
quindi, la consapevolezza di uno stato emozionale. Benché lontana,
la vecchia concezione concorda con alcune recenti teorie. Tuttavia,
mentre queste teorie concepiscono le emozioni come un semplice
rispecchiamento di un insieme di circostanze biologicamente rilevanti
oppure – come sostiene la famosa teoria di James-Langi-Sergi –
considerano le emozioni come la consapevolezza dei cambiamenti
corporei, mossi da forze biologiche scatenate dalle circostanze
ambientali, la tradizione Scolastica dissente. Un fattore cognitivo
deve entrare in gioco. Per gli appetiti, ed anche per i loro effetti
emozionali, è valida l’affermazione secondo cui niente può essere
voluto tranne quello che è precedentemente noto. Rimpiazzate
“voluto” con “cercato” e l’affermazione si applica agli
appetiti tanto quanto alla volontà razionale.
C’è
una grande divergenza di opinioni riguardo la natura e la definizione
delle emozioni. Il Wittenberg Symposium sui Sentimenti e le Emozioni,
del 1928, elenca tante definizioni quanti sono i partecipanti. E le
cose non sono cambiate da allora. Quindi sembra opportuno riassumere
brevemente la concezione di emozione che soggiace alla presente
discussione.
Un'emozione
è uno stato mentale di natura particolare attraverso cui un
individuo risponde alla presa di coscienza di una situazione
piacevole o spiacevole, o a qualsiasi altro aspetto di una situazione
che implichi bontà o cattiveria. Questa risposta è dell’intero
individuo, mentale e corporale, non solamente della mente o della
coscienza.
Quindi
l’emozione presuppone la presa di coscienza dell’aspetto
valoriale di una situazione. Questa presa di coscienza può essere
semplicemente l’apprensione sensoriale come quella che si trova
anche negli animali e che viene accreditata, dalla psicologia
tradizionale, alla vis
estimativa, una potenza dei
sensi interni. Tale presa di coscienza sensoriale può verificarsi
anche nell’uomo. Tuttavia di solito la consapevolezza del valore,
nell’uomo, è di un ordine superiore, vale a dire una apprensione
intellettuale, fondata sulla presa di coscienza sensoriale di un
valore particolare in quanto incarnato nella situazione.
Le
associazioni corporali associate alle emozioni diventano in parte
consce e colorano la coscienza emozionale. L’emozione può essere
descritta come la coscienza di un cambiamento “che colpisce”
l’intera persona. Si riferisce agli oggetti come cause, non nel
modo della cognizione e neppure in quello dell’appetito.
Al
contrario di alcune idee moderne, la psicologia tradizionale non
attribuisce all’emozione alcuna potenza cognitiva. Non è neanche
la base della valutazione. Né l’ “interesse” né il “piacere”
costituiscono la consapevolezza di un valore o della bontà. Una cosa
è d’ “interesse” perché è buona, o cattiva; non diviene
bella o brutta perché la persona è interessata ad essa. La
filosofia dei valori, come concepita da R. B. Perry,2
è piuttosto un capovolgimento del vero stato delle cose, come la
teoria di James è piuttosto un capovolgimento riguardo la relazione
tra emozione e cambiamenti corporali. Il professor Perry è rimasto
fedele allo spirito del suo maestro.
L’unica
cosa che è indubitabilmente vera è che si ha una stretta relazione
tra la consapevolezza del valore e gli stati emotivi. Questa
relazione è stata interpretata in modo nuovo da due autori. Max
Scheler, nel suo Il
formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori3
ha sostenuto una teoria
della conoscenza emotiva dei valori. Alexius von Meinong ha parlato
di valori come “dignitativi” e come oggetto proprio di una
particolare classe di stati emozionali cognitivi. I valori sono,
secondo questo filosofo, “presentati” alla coscienza attraverso
gli stati emozionali.4
Non è intenzione di chi scrive entrare all’interno di una critica
dettagliata di queste due teorie. Si farà menzione solamente a poche
obiezioni, che apparentemente non si incontrano in queste concezioni.
Per
primo c’è il fatto di cui ha riferito G. E. Moore, il fatto che
valutiamo non solo gli oggetti ma anche i nostri sentimenti. Questa
sottolineatura è stata diretta principalmente contro coloro che
rendono gli stati sentimentali, di piacere o di dispiacere, la vera
base della valutazione. Ma questa non si applica in modo diverso alle
teorie della cognizione emozionale del valore. In entrambi i casi
porta ad un continuo retrocedere. In più, è inconcepibile che uno
stato sentimentale sia percepito da un sentimento di second’ordine.5
In secondo luogo, la prova di una semplice consapevolezza è
evidentemente opposta alla teoria della cognizione emozionale del
valore. Ognuno, probabilmente, è a conoscenza di casi in cui è
cosciente di un valore, incarnato in un oggetto particolare, e
ciononostante non reagisce emotivamente. Possiamo perfettamente
“vedere” il valore di un quadro, e comunque non averne piacere,
non perché, ad es., lo disapproviamo in quanto immorale o qualcosa
di simile, ma perché “ci lascia freddi”. E neppure è vero che
un valore è riconosciuto in un certo momento e non riconosciuto in
un altro, benché le nostre reazioni emotive possano presentare
differenze considerevoli. Una sinfonia non diventa meno bella, anche
per la nostra mente, se non ci attrae nello stato d’animo in cui ci
troviamo in un momento particolare.
Inoltre,
la relazione tra emozioni e valori si rende evidente attraverso la
consapevolezza immediata come se fosse di un tipo diverso dalla
relazione cognitiva tra, diciamo, un oggetto dei sensi ed una
percezione, o una verità intellettuale ed un giudizio. Il linguaggio
tiene conto di queste differenze. Noi vediamo, percepiamo, pensiamo
qualcosa, o pensiamo a “qualcosa”. Ma siamo tristi per o riguardo
a, arrabbiati a causa di, abbiamo vergogna di, siamo preoccupati
circa, e così via. Certamente, il linguaggio non è sempre una guida
affidabile. Ma, dopo tutto, è la cristallizazione, per così dire,
della psicologia popolare e per una certa misura è una testimonianza
delle idee generali dell’umanità.
Scheler
ha enfatizzato molto l’ “oggettività” dei valori e quindi ha
attribuito ai “sentimenti intenzionali”, di cui ha parlato, una
vera capacità cognitiva. È discutibile se questi “sentimenti
intenzionali” possano essere del tutto dimostrati. A questo
scrittore sembra come se fosse sempre possibile una separazione,
attraverso l’analisi introspettiva, da una parte dei sentimenti o
degli stati emotivi, dall’altra della consapevolezza del valore.
L’argomento principale, certamente, è l’accadimento dei due
stati indipendentemente l’uno dall’altro.
Mentre
i filosofi e gli psicologi erano generalmente d’accordo che i
sentimenti fossero “meramente soggettivi” e denotassero solo una
modificazione dell’io come risposta ad alcune affezioni, un
pensatore, che a quel tempo fu a malapena notato, ha sviluppato,
incidentalmente, una concezione davvero differente. Questa concezione
fu elaborata né con un’intenzione filosofica né con una
psicologica. Quest’uomo, che aveva da offrire una nuova
interpretazione degli stati emozionali, non era interessato alle
questioni filosofiche, bensì a quelle religiose. Ma la sua era una
capacità sconcertante di analisi psicologica, eguagliata solo da un
suo contemporaneo che era il suo opposto in altre cose. Il primo
autore è il teologo Danese Sören Kierkegaard; il suo opposto è
Frederick Nietzsche.
Kierkegaard
voleva mostrare come l’uomo potesse essere al meglio quando
realizza pienamente la sua situazione e si abbandona alla grazia
divina. Nietzsche voleva “svelare” le profondità della natura
umana e mostrare l’uomo al suo peggio, sebbene desiderasse
anch’egli sollevare l’uomo dalla sua ignobiltà. Mentre
Kierkegaard aveva concepito l’ascesa dell’uomo dipendentemente
dal riconoscimento dell’essenziale finitezza della natura umana,
Nietzsche sperava che l’uomo si sarebbe sollevato da se stesso
grazie alla sua forza propria. Mentre il primo proclamava, con
un’assiduità ineguagliata, forse, dai tempi dei Padri, che l’uomo
è la creatura del Dio infinito, l’altro esclamava con forza, “Dio
è morto”, e vedeva in ogni religione l’espressione della
codardia e del risentimento.
Benché
Nietzsche fosse un acuto osservatore e benché anticipò molte delle
intuizioni psicologiche degli anni successivi, ciononostante si
dimostrò meno abile a stimare le profondità della natura umana di
quanto fece Kierkegaard. La concezione di mente di Nietzsche fu
handicappata dal suo marcato punto di vista naturalistico, dalla sua
prospettiva biologista, dal suo entusiasmo per la scienza e per le
idee evoluzionistiche. Di conseguenza, non poteva non concepire le
emozioni se non come un fenomeno valutabile biologicamente,
indicativo di salute o malattia, di forza o di debolezza, di potere o
di schiavitù. Le idee di Nietzsche, quindi, possono essere
estromesse dall’attuale contesto.
Delle
idee di Kierkegaard, invece, solo quelle che riguardano gli stati
emozionali saranno prese in considerazione. Kierkegaard, come è
stato evidenziato, non era uno psicologo. La sua penetrante analisi
delle emozioni è semplicemente un anello della catena della
riflessione attraverso cui tenta di sviluppare un’antropologia
filosofica, un’idea di uomo basata certamente su principi
filosofici, ma soprattutto sulla verità rivelata e sulla
testimonianza della coscienza. Kierkegaard è introspettivo al
massimo grado, e lo è con un successo inaspettato. La sua visione ha
influenzato scrittori che sono molto lontani dall’appassionata
testimonianza religiosa di Kierkegaard.
Due
emozioni hanno ricevuto un’attenzione particolare nei lavori di
Kierkegaard: l’angoscia e la disperazione. Riguardo alla prima ha
scritto un trattato a parte, Il Concetto dell’Angoscia, e la
seconda è uno dei fondamenti del suo La Malattia Mortale.6
L’autore stesso definisce come “psicologici” questi due lavori.
L’analisi di questi due stati che verrà prodotta di seguito è
largamente dovuta a Kierkegaard, ma anche ad alcuni autori che hanno
fatto dell’angoscia un oggetto speciale di studio e che dipendevano
in molti modi dalle idee del Danese. Sembra superfluo, quindi,
riassumere il punto di vista di Kierkegaard in dettaglio.
La psicologia scientifica non è
influenzata da Kierkegaard o da Nietzsche. Tra coloro che sono
impegnati non tanto nello studio dei fatti e delle operazioni
mentali, quanto della mente o della personalità, alcuni si sono
appropriati consciamente o inconsciamente di molte delle idee
contenute negli scritti di Kierkegaard e di Nietzsche facendole
proprie. La psicoanalisi utilizza diverse nozioni e diversi termini
introdotti da Nietzsche. Una corrente della psicopatologia è
ampiamente alimentata dalle fonti Kierkegaardiane. Freud disse che
non aveva familiarità con alcuno dei lavori di Nietzsche quando
concepì le nozioni di base del suo sistema. La somiglianza, però, è
troppo spiccata per una mera coincidenza. Non abbiamo ragioni per
dubitare dell’affermazione di Freud. Ma, come il sottoscritto ha
sottolineato altrove7,
esistevano molti canali attraverso cui le idee di Nietzsche possono
aver raggiunto Freud ed esser state da lui apprese senza che lui
sapesse da dove queste idee provenissero.
Non
solamente gli psicopatologi e gli psicologi che erano interessati
alle questioni della psicologia scientifica o sperimentale non
avrebbero potuto né voluto replicare, ma anche i filosofi furono
influenzati sia da Nietzsche che da Kierkegaard. Le idee del primo si
diffusero ampiamente. Esse non ci occuperanno qui. Le nozioni di
Kierkegaard divennero visibili nel lavoro filosofico di Martin
Heidegger.8
Di questo lavoro saranno prese in considerazione solo quelle parti
che hanno a che fare con la natura ed il significato degli stati
emozionali. L’analisi più dettagliata di Heidegger è
sull’angoscia. Qualcuno sottolinea altre emozioni che si trovano
incidentalmente.
La filosofia di Heidegger è troppo
complicata per essere anche solo abbozzata.9
La sua interpretazione dell’angoscia è parte integrale del
sistema, ma questa parte può essere staccata dal tutto e può essere
considerata alla luce della psicologia descrittiva. Un breve
riassunto della visione di Heidegger sull’angoscia ci permetterà
di proporre le correzioni e gli ampliamenti che questo punto di vista
sembra richiedere.
Heidegger enfatizza giustamente la
differenza tra paura ed angoscia, come Kierkegaard aveva fatto in
precedenza. La paura, sostiene il filosofo tedesco, è la risposta a
qualcosa di minaccioso (il termine das
Abträgliche
dovrebbe essere
tradotto meglio con “nocivo”) che viene appresa in quanto
proviene da una precisa direzione che è conosciuta come lo è la
cosa minacciosa stessa. Si sta avvicinando; non è ancora qui, ma è
ad una distanza relativamente breve. La paura implica la possibilità
che la minaccia non si realizzerà. Dal momento che l’oggetto
pauroso è conosciuto, esso appartiene al mondo in cui l’uomo
abita.
L’angoscia o l’ansia sono
abbastanza differenti. Ciò che crea angoscia è essenzialmente
l’ignoto, “dove siamo non è a casa”; come dice un’espressiva
parola tedesca, das
Un-heimliche, che dà nome
esattamente al sentimento generico di stranezza, di misteriosità,
che trattiene la mente in una situazione completamente nuova e
sconosciuta. Così come qualcosa di angoscioso è sconosciuto, così
è la direzione e il luogo da cui colpirà. Si può parlare di
un’esperienza di angoscia quando non c’è apparentemente niente
per cui essere angosciati, ad es., nel completo silenzio. Ipsa
quies rerum mundique silentia terrent
(Cf. Valerio Flacco, Argonautica,
II, 41). La ben nota proprietà angosciante del buio totale perdura
qui allo stesso modo. Quindi, l’angoscia ha una caratteristica
avvolgente. È ovunque, non c’è via di scampo, specialmente da
quando l’ignoto angosciante, benché sia ignoto, è anticipato come
inevitabile. È sicuro che colpirà da qualche parte, e colpisce col
potere di annientare. Non colpisce ancora, se no vorremmo che
cessasse, ma non si trova ad una distanza particolare, ci è
immediatamente vicino. In quanto ignoto esso non può essere
localizzato; ciononostante è ovunque, circondandoci, schiacciandoci,
opprimendoci. (L’oppressione è una delle più evidenti
caratteristiche dell’esperienza dell’angoscia, che fornisce a
questo stato il suo nome in Greco, Latino e tedesco, la radice comune
“ang” che si riferisce ad una restrizione o ad un confinamento in
uno spazio troppo angusto).
Heidegger considera quindi due aspetti
dell’angoscia: la mente, o piuttosto la persona, è angosciata per
qualcosa ed è angosciata a causa di qualcosa, ossia, l’uomo è
consapevole – sebbene con una forma peculiare di consapevolezza –
della minaccia e di essere minacciato.10
Ciò
che è minacciato e ciò per cui l’uomo trema, quando è
nell’angoscia, è, secondo Heidegger, l’ “essere nel-mondo”.
Questo essere nel mondo è per questo filosofo il vero e proprio modo
di essere, l’esistenza dell’uomo è essere nel mondo. Questa
interpretazione particolare non sarà discussa per il momento. Però,
è necessario interrogarsi sulla bontà dell’analisi fenomenologica
o descrittiva.
È
vero che l’angoscia anticipa alla persona la possibilità di
annichilimento. Questo annichilimento, contrariamente a quanto
Heidegger sembra suggerire, non è la perdita dell’essere nel
mondo, ma la perdita di valore. Questo diventa chiaro se si esaminano
le modificazioni dell’angoscia. Ognuna di esse ha in comune la
caratteristica di una “caduta” imminente. L’angoscia teme la
caduta da un livello raggiunto o conseguito ad uno inferiore, fino ad
un non valore assoluto che, certamente, è anche il livello della non
esistenza. Ens et bonum,
convertuntur.11
Heidegger
ha una concezione veramente peculiare del das
Nichts, il Nulla. È il
niente e ciononostante è forte abbastanza da minacciare
l’annichilimento. C’è indubitabilmente una relazione tra
l’angoscia ed il Nulla. Ma a chi scrive appare di una modalità
piuttosto differente dall’interpretazione di Heidegger. Il Nulla
non è ciò che minaccia l’annichilimento, come crede Heidegger, ma
il punto a cui l’uomo è guidato da un potere infinitamente
superiore al proprio, e dove l’annichilimento lo aspetta.
L’angoscia ci fa sentire “senza potere”. Ma questa nozione è
senza senso di fronte al Nulla; possiede un significato solo se ci
troviamo di fronte a qualche potere superiore al nostro. Il Nulla non
è ciò che minaccia ma piuttosto il luogo dove siamo minacciati –
se tale espressione mi è permessa. L’angoscia rivela all’uomo la
sua nullità.
Heidegger
ha trascurato non poco questo aspetto, visto che ha dichiarato che
nell’angoscia l’uomo è messo di fronte alla sua finitudine. Ma
la finitudine senza un infinito non ha senso. L’infinito è, natura
rei, il fondamento; il
finito esiste solo a causa di e rispetto all’infinito; è
secondario. Che l’infinito sia “scoperto” solo a partire dal
finito non comporta alcuna differenza. Conosciamo molti esempi in cui
ciò che viene prima nella natura (natura)
è successivo alla nostra conoscenza (quod
nos). E neppure dovremmo
essere distratti dalla forma grammaticale della negazione. Il
linguaggio possiede sempre un nome negativo per ciò che è
effettivamente positivo. “Innocenza” è uno degli esempi più
spiccati.
Nel
comprendere se stesso come essere finito, in quel momento l’uomo
afferra l’infinito, benché in modo vago ed inadeguato. L’infinito
è ciò che minaccia l’annichilimento. L’essere nella sua
pienezza, l’,
mette di fronte l’essere finito e contingente alla necessità di
realizzare la sua finitezza e contingenza.
Però
l’uomo comprende la stretta relazione tra l’angoscia e
l’attitudine alla ribellione. L’essere finito, reso consapevole
della sua finitezza, si rivolta e si impone in un non
serviam. (Qui possono
essere trovate le ragioni dell’angoscia e della vanagloria sfrenata
o ambizione che sono al vertice dei disturbi chiamati nevrotici.
Kierkegaard ha intuito qualcosa di tutto questo, benché non fosse
interessato primariamente alla psicopatologia).
L’angoscia,
allora, dischiude alla persona che sperimenta questa emozione
qualcosa della natura sua propria o dell’uomo. Questa “conoscenza”,
se si merita di essere chiamata in questo modo nei suoi stadi
iniziali, diviene vera conoscenza solo nella riflessione. La
riflessione, però, non è possibile mentre l’angoscia perdura, dal
momento che questa emozione paralizza tutte le attività. La
consapevolezza della finitudine è comunque presente; anche mentre
l’angoscia continua l’uomo è conscio della sua contingenza e
finitudine, benché solo in un modo implicito e non-riflessivo.
Colpisce che qualcosa del genere sia adombrato nelle parole: “La
paura del Signore è l’inizio della saggezza”.
La
consapevolezza della finitudine e contingenza, ossia, della natura
dell’essere creato, spiega anche la stretta relazione tra
l’angoscia ed il sentimento della colpa. L’ansia della coscienza,
nei casi puri, non è semplice paura della punizione. La paura del
servo, dice San Bernardo, è il grado più basso dell’obbedienza.
Tale ansia può sorgere al di là di ogni idea di punizione, proprio
come una buona azione può essere compiuta al di là di ogni
ricompensa. La buona coscienza non implica alcuna idea di ricompensa
futura; il bene non è compiuto con l’obiettivo di essere un
meritevole (bene meritus),
ma con l’obiettivo del giusto e del bene stesso. È il più
perfetto esercizio di libertà, che Sant’Anselmo ha definito così:
“la rettitudine è serva a causa di se stessa” (rectitudo
propter se servata). La
consapevolezza di aver fallito nel preservare questa rettitudine e
così di mantenere la propria posizione nei confronti dell’ordine
della giustizia porta al sentimento della colpa, proprio come la
consapevolezza del fallimento nel riconoscere la posizione nei
confronti dell’ordine dell’essere è all’origine dell’angoscia.
L’angoscia certamente può cessare di esistere, o anche può
smettere di essere possibile, quando l’uomo pienamente realizza il
suo essere come contingente, finito, dipendente, e mantenuto
nell’esistenza dall’infinito potere ed essere in Persona. Superba
anima formidinis ancilla,
come ha detto San Giovanni Climaco. (Incidentalmente, è interessante
notare che tra i diversi pseudonimi che Kierkegaard ha utilizzato,
figura anche quello di Climaco). Tuttavia, potrebbe essere
discutibile se la libertà dall’angoscia possa essere raggiunta in
questa vita. La piena realizzazione ed accettazione di cosa
significhi essere una creatura può essere raggiunta, forse, solo
nella “visione faccia a faccia [di Dio]”.
Kierkegaard
ha scritto copiosamente, in La
malattia per la morte, di
uno stato, che difficilmente si potrebbe dire della mente, piuttosto
della persona umana, che chiama “disperazione”. Infatti, la
parola che utilizza non ha equivalenti in Inglese o in qualsiasi
altro linguaggio a parte quelli di origine germanica.12
È
discutibile se la disperazione così come è concepita da Kierkegaard
possa essere ritenuta una emozione, poiché questa disperazione è
uno stato delle cose essenzialmente ignoto alla consapevolezza.
L’uomo è in uno stato di disperazione, ma non lo sa. Questa
disperazione esiste in due forme: “volendo disperatamente essere se
stessi” e “volendo disperatamente non essere se stessi”. In
entrambi i casi, mi sembra, questa disperazione ha la natura di una
rivolta. Colui che disperatamente vuole essere se stesso desidera
diventare l’assoluto. Questo era il tipo di disperazione di
Nietzsche – “Se Dio esistesse, come potrei sopportare di non
esserlo io stesso”. Quindi, “Dio è morto”. Ma colui che
desidera, con la stessa disperazione, di non essere se stesso, che
desidera quindi di essere trasformato in altro, anch’egli è in
rivolta contro la sua natura ricevuta – dal Fato o da Dio, a
seconda di come vede. Vuole essere di più attraverso il divenire
altro. Entrambe le imprese sono condannate a fallire. Non possono
neppure iniziare, se non in un modo immaginario e fittizio. (Anche
qui, il collegamento con i problemi della psicologia della nevrosi è
evidente). Un’impresa impossibile, obbligata a fallire, il cui
fallimento può essere previsto con assoluta certezza, può
condizionare uno stato di disperazione. Diciamo: “Dispero di
raggiungere mai questo o quell’obiettivo”, perché siamo
consapevoli dell’impossibilità.
Ora,
quello che Kierkegaard chiama disperazione è apparentemente non
l’emozione in sé ma un modo di questo desiderio insensato di
liberarsi di sé, esistenzialmente, diventando altro, o,
essenzialmente, essendo completamente ed esclusivamente se stessi,
ossia, in modo indipendente. L’autore usa la formula “volendo
disperatamente”, indicando così che la disperazione è qualcosa di
insito in questo assurdo tentativo. Ma questa formula lascia aperta
la questione se la disperazione possa trovarsi anche al di fuori
della situazione descritta da Kierkegaard. Egli sembra implicare che
la disperazione e questo forte desiderio siano realmente distinti,
sebbene forse essi non siano separabili nel senso che la disperazione
non esiste indipendentemente da questo forte desiderio. Potrebbe
essere che solo il desiderio causi uno stato di vera disperazione, ma
può anche essere che la disperazione possa essere collegata ad altre
situazioni.
Per
rispondere a questa domanda è necessaria un’analisi della
disperazione veramente completa, reale e programmata, un compito che
non può essere iniziato qui. Una cosa, però, sembra essere sicura.
La disperazione è la risposta della persona ad una situazione finale
che comporta un grande male. Questo è anche il significato che
l’Aquinate conferisce a desperatio.
La disperazione, allora, è un’altra forma in cui l’uomo diventa
consapevole ed affronta l’assolutezza della sua finitudine.
L’aspetto della finitudine così come si rivela nella disperazione
è differente da quello rivelato nell’angoscia, o nell’asia della
coscienza. Questi due ultimi stati rivelano all’uomo il suo stato
attraverso il regno dell’essere e del valore. La disperazione gli
insegna – o potrebbe insegnargli, se non lo fa, come Kierkegaard
indica, si destreggia con qualche trucco per rimanere inconsapevole
del proprio stato di disperazione – il limite del suo potere. Nelle
due forme di disperazione descritte da Kierkegaard è visibile la
catastrofe e la sconfitta finale della “volontà di potenza”,
l’idea centrale di Nietzsche. Molto prima di quando l’uomo possa
evolversi in uno stato superumano, come Nietzsche sperava, egli cade
preda della disperazione.
L’
“origine” dell’angoscia è stata individuata, dagli autori che
possiedono una visione principalmente biologica, nel fatto della
morte ed in tutte quelle situazioni che, comprese consciamente o no,
sono premonitrici della finitudine della vita. Ma sembra accordarsi
maggiormente ai fatti sostenere che l’angoscia della morte (il
termine comune, “paura della morte”, deve essere scartato perché
la morte è essenzialmente ignota) è solo un caso dell’angoscia
generale che è collegata alla rivelazione della finitudine. Che la
vita finisca è solo un aspetto di questa finitudine.
La
finitudine umana presenta un triplice aspetto. È finitudine
dell’essere, e alla sua rivelazione corrisponde l’emozione
dell’angoscia, ed ad un livello meno profondo l’emozione della
paura, dal momento che la situazione spaventosa possiede il carattere
della minaccia in comune con la situazione angosciante.
Secondariamente, la finitudine è la limitazione della realizzazione
dell’ideale, che sia un ideale vero o falso. L’uomo è condannato
a rimanere sempre molto al di sotto di come vorrebbe essere.
Certamente, ci sono molte persone, troppe, che non ammettono mai a se
stesse, ancor meno agli altri, di essere lontani da quello che
vogliono o che un tempo volevano essere. Se ancora ammettono i loro
precedenti ideali, sono propensi a parlarne sorridendo, in un modo
parzialmente pietoso, schernendo la stoltezza delle idee giovanili,
ed enfatizzando quanto più chiari, più sensibili, più consapevoli
di “quale sia realmente la vita” essi siano diventati. Queste
sono persone che, secondo Kierkegaard, sono in uno stato di
disperazione senza conoscerlo. Se fossero diventati consapevoli del
loro stato, avrebbero compiuto il primo passo oltre, proprio perché
la contrizione è il passo attraverso cui l’uomo, aiutato
certamente dalla grazia divina, eleva se stesso al di sopra del
livello in cui commettere il peccato era per lui “naturale”. La
disperazione è l’emozione corrispondente alla finitudine che
risulta evidente nella distanza tra la visione ideale e l’essenza
reale dell’uomo. Se si volesse fare una deroga alla terminologia
adottata da altri, si potrebbe dire che l’angoscia è collegata
alla finitudine dell’esistenza e la disperazione alla finitudine
dell’essenza. Tuttavia, l’uomo non è impotente nel realizzarsi,
nel diventare pienamente se stesso, ossia, nell’attualizzare tutte
le sue potenzialità, ma è incapace di realizzare i suoi obiettivi
nel mondo esterno. Le azioni più grandi, anche se al momento
procurano intensa soddisfazione ai propri creatori, sono
inevitabilmente inferiori rispetto all’ispirazione e
all’aspettativa dipinta nella loro mente. L’incapacità di
affrontare il mondo oggettivo come si vorrebbe, rivela all’uomo un
altro aspetto della sua finitudine, attraverso cui è reso
consapevole che non è in grado di dare forma al mondo, neppure al
mondo degli esseri subumani, secondo i suoi desideri. C’è la
resistenza della materia, delle cose e delle persone; ci sono
condizioni materiali e temporali indipendenti dalla volontà umana.
Queste
esperienze, innumerevoli e di diversa intensità, rendono evidente
all’uomo non solo la sua mancanza di potere, il fatto che è ben
lontano dall’onnipotenza, benché possa sognarla, ma piuttosto gli
assicurano di appartenere al mondo. Nessuna esperienza è in grado di
confutare il solipsismo teorico (per quanto mai pratico) quanto la
resistenza incontrata da parte degli altri. E niente dà così
ragione all’interpretazione realistica dell’ “essere nel mondo”
quanto il fatto della durezza e non malleabilità delle cose
materiali. L’importanza dell’esperienza della resistenza per la
giustificazione del realismo è stata enfatizzata recentemente da
diversi pensatori (ad. es., N. Hartmann).
“Essere
nel mondo” significa anche “essere con altri” (Mitsein,
come dice Heidegger). Così, questo vince la solitudine
dell’individuo, qualche volta così tanto che la persona cessa di
essere totalmente se stessa e si perde, inghiottita da “molti”.
(Incidentalmente si può notare che su questo punto non solo
Heidegger è decisamente debitore verso Kierkegaard, ma anche che
esiste una curiosa somiglianza tra le idee di Kierkegaard-Heidegger
da una parte, e di Nietzsche dall’altra. Viene in mente
l’espressione “troppi” di quest’ultimo. Heidegger, per questo
motivo, non è totalmente indipendente da Nietzsche).
In
questo aspetto della finitudine umana c’è una caratteristica che
Kierkegaard ha potuto definire una inversione “dialettica”. Il
fatto che, visto da un solo lato, deprime l’uomo rivelando la sua
finitudine, gli conferisce, visto da un’altra prospettiva, una
sicurezza che non avrebbe mai chiamato sua se fosse stato
perfettamente isolato. È al livello di questa consapevolezza –
che, però, non ha bisogno di essere realizzata ed abitualmente non
lo è in modo esplicito – che si sviluppa la comunione con gli
altri.
È
una delle caratteristiche più spiccate nella filosofia di Heidegger
il fatto che egli si dilunghi spesso sull’aspetto tragico, o al
meno su quello spiacevole, dell’esistenza umana, e che non disponga
di parole né sull’amore né sulla pietà né su qualsiasi altro
della “Sympathiegefȕhle”
a cui Scheler ha rivolto
così tanta attenzione e su cui ha emanato così tanta luce.13
Ma se è vero che gli stati emotivi, benché il loro ruolo possa
essere altro, hanno la funzione di rivelare all’uomo, in un modo
particolare, qualcosa della sua posizione nell’ordine delle cose,
il suo “stato ontico”, e, di conseguenza, della sua natura,
sarebbe estremamente improbabile che solo le emozioni negative, come
l’angoscia o la disperazione, fossero dotato di tale potere.
Parlando
genericamente, sembra che queste emozioni negative impediscano la
conoscenza oggettiva più di quanto facciano gli stati emotivi
positivi. Certamente, esiste una cecità per i fatti nati
nell’ottimismo. Ma la distorsione dell’obiettività scatenata dal
pessimismo di solito va molto più lontano. Non è solo perché
possiede un coraggio maggiore ed un punto di vista più fiducioso che
l’ottimista generalmente si realizza maggiormente del pessimista.
La storia sembra insegnare che i pessimisti non hanno realizzato
nulla di veramente notevole. È anche, e forse principalmente, perché
l’ottimista, fin quando utilizza la sua ragione, possiede una
concezione più vera della realtà.
La
reazione emozionale provocata dalla consapevolezza della resistenza
insormontabile della realtà è, ovviamente, la rabbia. Questo si
accorda con la nozione che il malum
arduum è l’oggetto
proprio dell’appetito irascibile e condiziona la rabbia. Sebbene
questa emozione qualche volta possa liberare forze impreviste nella
persona, è soprattutto rabbia impotente, specialmente quando diversi
fatti che ci rendono arrabbiati appartengano al passato. Che questo o
quello sia avvenuto, sia stato fatto, da se stessi o da altri, è la
ragione più comune per la rabbia. Il fattore tempo, infatti, è una
delle più grandi restrizioni imposte alla volontà umana. L’azione
compiuta, l’evento realizzato, sono al di là di ogni potere umano.
A disfare ciò che è stato fatto è abbastanza spesso il desiderio
del cuore, per non essere mai soddisfatto. Nella rabbia l’uomo è
reso consapevole dell’inesorabilità delle leggi della materia e
del tempo molto più forzatamente che in qualsiasi riflessione ed
analisi. Ma è anche reso consapevole del fatto che lui stesso è
parte di questa realtà a cui rifiuta di essere assoggettato in modo
così caparbio. È reso consapevole del fatto che le leggi che
governano la realtà governano anche la sua propria esistenza.
Per
ripeterlo ancora una volta: quando la passione ha preso possesso
della mente, tale consapevolezza non sorge nella coscienza. Ma
l’esperienza da cui la mente riflessiva può elaborare e, così,
estrarre un tale insight è reale nella situazione emozionale della
rabbia. Lo stesso è vero, rispettivamente, per tutte le altre
emozioni se esse raggiungono una certa intensità. Se esse non sono
così intense da colmare la mente intera, espellendo ogni
ragionamento ed ogni riflessione, un simile insight può svilupparsi
anche mentre l’emozione perdura. D’altra parte, più profonda è
l’emozione, maggiore è la chance che la mente, retrospettivamente,
divenga consapevole dei fatti rivelati.
Quando
l’uomo realizza che è parte della realtà, ed allo stesso tempo
che egli è unico come individuo e come rappresentante della
razionalità nel regno degli esseri, gli è permesso sviluppare
un’altra attitudine, davvero differente, nei confronti della
realtà, l’attitudine chiamata dell’amore. Questa parola è così
ambigua che è estremamente difficile avere a che fare con il suo
oggetto. Primo, all’amore è stato attribuito un senso così vago
dal linguaggio comune che il suo vero significato è piuttosto
confuso. Le persone usano questa parola indiscriminatamente per
riferirsi ad un semplice piacere, come di un qualche cibo, e per le
emozioni più alte che uniscono l’amico con l’amico, l’amante
con l’amato, l’uomo e Dio. Secondariamente, molte modalità di
utilizzare questa parola si fondano su di una denominatio
a potiori. Questo è vero
per l’Eros di Platone, così come per l’amor
in Tommaso d’Aquino. L’amor
naturalis è amore solo per
analogia. Platone, però, ed ancor di più gli scrittori medievali,
avevano in mente le forme più alte e più pure dell’amore quando
avevano attribuito a questo termine un senso così ampio. Nei tempi
moderni un tipo di amore, cioè l’amore che nasce tra i due sessi,
è stato considerato come il solo amore vero e primario, di cui tutte
le altre forme di amore sono modificazioni o derivazioni. Questa
visione è sviluppata fino all’estremo nella psicoanalisi.
È
vero che l’amore, in senso stretto e pieno, si può dire solamente
nei confronti delle persone. L’amore tra l’uomo e la donna,
quindi, è vero amore. Ma da questo non segue che questo particolare
tipo di amore sia l’origine di tutte le altre tipologie. Questa
falsa interpretazione naturalistica è stata criticata da Scheler e
da altri. Il vero amore si può dire essere caratterizzato dalle
seguenti caratteristiche: il vero amore desidera il bene più alto
per l’amato; di sua natura, quindi, non solo ha il desiderare, ma è
necessitato a donare. Altri tratti fondamentali sono riassunti nella
frase contenuta nel capitolo De
Caritate nel trattato De
Adhaerendo Deo.14
Questo passaggio recita: L’Amore porta l’amante fuori di se e lo
mette al posto dell’amato; e colui che ama è con la persona amata
più che con se stesso (Trahit
enim amor amantem extra se et collocat eum in locum amati; et plus
est qui ama tubi amat quam ubi animat).
Quindi, queste parole indicano la natura estatica del vero amore, il
suo movimento verso l’amato, e la sua tendenza ad unire se stessi
con l’amato. Non si può tentare qui una dettagliata analisi
dell’amore. E neppure è intenzione di questo articolo contribuire
alla psicologia descrittiva degli stati emotivi. La loro descrizione
è d’interesse solo per quanto rende visibile in qualche modo l’
“aspetto cognitivo”.
Se
l’angoscia in modo deciso rende l’uomo consapevole della sua
nullità, della sua finitudine e contingenza, l’amore lo rassicura
del suo essere e del suo valore. L’amante ama donare, e solo cos’ha
valore può fare doni. “Bonum
diffusivum sui” non solo
sottolinea una caratteristica della bontà; afferma anche l’unica
fonte da cui ogni dono può originare. Colui che può donare e i cui
doni vengono apprezzati, è reso sicuro del suo valore, e grazie a
questo, a causa della convertibilità dell’essere e del valore, è
anche reso sicuro del suo vero essere. La nullità che,
contrariamente a quello che Heidegger pretende, non è fuori
dall’uomo, ma all’interno, radicata nel suo essere, è vinta e,
ovvero, neutralizzata nell’amore.
La
tendenza a donare non è una semplice “espressione” di amore; è
la natura dell’amore. Desiderare il bene dell’amato
necessariamente porta alla volontà di far partecipe l’amato di
ogni bene che personalmente si apprezza fortemente. L’incapacità
dell’amato di partecipare può diventare un serio ostacolo
all’amore. Qualcuno dice che è stupido per due persone “fatte
l’una per l’altra” non sposarsi perché una, ad esempio, è
un’ardente appassionato di musica mentre l’altro rimane freddo
alle più grandi composizioni. Non è così stupido, dopo tutto.
L’amore vuole dare, e questo significa, dove nessun bene tangibile
è in dubbio, condividere. L’amore può diventare mutilato se viene
deprivato delle sue manifestazioni fondamentali. È vero, molti
matrimoni tra persone che sono ampiamente differenti e non
condividono tutti gli interessi, i piaceri, e gli “amori”, sono
abbastanza felici. Tuttavia, si può dubitare se questi matrimoni
realizzino tutta la felicità di cui le due persone sono capaci.
Molto
si può imparare su queste cose dall’osservazione dei bambini. Essi
non hanno niente di “reale” da donare; non sono in grado di fare
grandi cose, non hanno molte proprietà, e coloro che le hanno sanno
che provengono dalle persone che amano e a cui desiderano dimostrare
il loro amore. Sentono un forte bisogno di tale dimostrazione, che è
più di una semplice dimostrazione. Molte delle emozioni umane, forse
si potrebbe andare oltre e dire molte delle performance della mente,
raggiungono la piena completezza ed effettività solo se vengono
esternalizzate in un modo o in un altro. Ma se un bambino acquisisce
qualcosa da sé, qualcosa non datogli, ma, per esempio, trovato, lui
lo porterà a sua madre o suo padre e renderà l’oggetto un dono.
Potrebbe essere un sasso colorato, o qualsiasi altro oggetto
insignificante. L’innata saggezza dell’amore ha insegnato ai
genitori di non rifiutare un dono simile e di non giudicarlo dal
proprio punto di vista, ma di entrare nello spirito del bambino, di
ammirare quello che lui ammira, di elogiare quello che dona. È un
errore grave e qualche volta anche disastroso sbeffeggiare i doni
infantili dei bambini. Apprezzandoli, si dà al bambino una sicurezza
rigenerata del suo valore personale. Questa è necessaria tanto che,
senza una tale sicurezza, il valore delle altre persone rimane
nascosta alla mente del bambino e, poi, dell’adulto.
In
questo senso, allora, l’amore è il vero antagonista dell’angoscia
(come Kierkegaard ha visto). L’angoscia isola, l’amore unisce.
Una pallida reminiscenza di questa opposizione tra amore ed angoscia
sembra essere in opera nell’istintiva adesione agli altri così
spesso osservata negli stati di angoscia. Ma l’adesione
dell’angoscia è di una natura completamente differente dalla
natura dell’adesione dell’amore. La prima è una pretesa, ed
esprime una domanda mai soddisfatta, perché essenzialmente incapace
di soddisfazione; la seconda è essenzialmente un dare ed un prendere
nello stesso tempo, espressione del movimento verso l’unità,
caratteristica dell’amore.
Sostenere
che le caratteristiche principali dell’amore si applicano anche
all’odio suona paradossale, ma solo fin quando non si penetra al di
sotto della superficie delle apparenze. Infatti, l’odio dà forma
ad un forte legame tra chi odia e l’odiato proprio come l’amore
lo fa tra l’amante e l’amato. Una vita piena di odio per una
persona può essere svuotata di senso se questa persona scompare. Il
vuoto creato da certe circostanze, anche quando la morte della
persona odiata è stata causata proprio da colui che odia, può
diventare così intenso che l’odio originariamente mirato verso una
persona può diffondersi ad altre.
L’odio
è l’opposto dell’amore a livello delle relazioni umane. Ma
l’angoscia è l’opposto di entrambi, certamente più dell’amore
che dell’odio, perché isola e separa l’individuo dai suoi
piaceri. L’odio può diventare anche un legame che unisce diverse
persone contro una persona odiata (cospirazione). L’odio è meno
antagonista dell’angoscia perché alla fine conduce ad aumentare
l’isolamento. Ha un potere corrosivo, e distrugge, a volte
gradualmente, tutte le relazioni d’amore, lasciando l’individuo
solo con il suo odio. Questa può essere una delle ragioni del perché
c’è spesso discordia tra cospiratori. Le ragioni apparenti
sembrano essere altre, come l’invidia, l’ambizione, e il piacere.
L’odio comune, dopo tutto, costituisce un’unità diretta ad un
fine estrinseco, mentre l’amore lega una persona direttamente alle
altre.
Si
dice che l’amore sia cieco. Le madri innamorate sono inconsapevoli
anche dei più grandi difetti dei loro figli. Un amante “idealizza”
la persona amata così tanto da apparire ai suoi occhi come il punto
di paragone di tutto, per quanto mediocre ed insignificante, se non
peggio, possa apparire ad un esterno. La cecità dell’amore viene
accusata di portare a molte delusioni e disillusioni. L’aureola
dell’amato sparisce spesso molto velocemente. Matrimoni d’amore,
riporta lo scettico Montaigne, finiscono in disastro molto più
spesso dei matrimoni di ragione. In quest’ultimo caso c’è una
valutazione oggettiva dell’altro; si entra nella vita matrimoniale
con gli occhi aperti, non rapiti dalla passione e confidando in
un’immagine totalmente fantasmagorica, creata da se stessi.
Tuttavia,
l’affermazione genericamente accettata della cecità dell’amore
necessita di essere corretta. Scheler ha protestato energicamente
contro questa convinzione, e sostiene che “l’amore rende in grado
di vedere”. Chi scrive ha anch’egli sottolineato che l’amore
non sempre acceca, e che può anche essere particolarmente acuto, in
un senso preciso.15
L’amore
vede un oggetto molto più chiaramente che l’occhio oggettivo e
disinteressato dell’osservatore casuale. L’amore scopre le
potenzialità dell’amato. La sua illusione spesso consiste nel
prendere per attualizzato ciò che è ancora potenziale. E la sua
colpa è spesso che, a causa di questa illusione, dimentica il
compito di battersi per il bene più alto dell’amato, ossia, per la
sua perfezione e, quindi, l’attualizzazione delle sue potenzialità.
Infatti, senza una qualche attitudine all’amore non si scoprirebbe
mai il valore delle persone o delle cose. L’amore stesso non è lo
strumento della conoscenza degli oggetti, e neppure dei valori
personali, ma è, per così dire, il medium in cui tale conoscenza
diventa possibile. L’amore rende accessibile alla mente gli aspetti
positivi della realtà che altrimenti può rimanere completamente
inconsapevole del bene, della bellezza, e di tutti i tipi di valore.
In modo simile, anche l’odio e le sue modificazioni, l’invidia o
la gelosia, rendono la vista acuta. A dispetto della sua volontà di
sminuire, di negare i valori nella persona invidiata, l’invidia è
forzata con riluttanza a conoscere questi valori. In effetti essa
vive attraverso questo riconoscimento riluttante.
Forse
si può aggiungere che la realizzazione dell’amore è il correlato,
a livello dell’antropologia filosofica, del comandamento dell’amore
nella morale e nella fede. Soltanto amando se stesso l’uomo può
divenire consapevole dei valori che rappresenta, per quanto
insignificante e vile la sua personalità e statura possano
apparirgli. La psicologia ci insegna quanto grande l’handicap della
perdita della consapevolezza del proprio valore diventi nella
fondazione delle relazioni umane. Colui che non è sicuro del proprio
valore non può amare veramente; egli “non ha nulla da dare” dal
momento che dubita del valore di se stesso e l’amore richiede che
lui dia se stesso. Così, l’amore di sé, nel senso corretto del
termine, è la base su cui l’amore del prossimo si può sviluppare.
H. Bergson ha ragione quando sottolinea che il vero odio
dell’umanità, la vera misantropia, sorge solo quando un uomo ha
prima imparato ad odiare se stesso.
Mentre
l’amore rivela all’uomo il proprio valore, lo rende anche
consapevole dei suoi obblighi nei confronti dei suoi compagni. La
mera realizzazione intellettuale del ricambiare gli altri e il fatto
che l’attualizzazione delle potenzialità umane richiede
soprattutto l’influenza degli agenti umani e sociali non è
sufficiente a produrre un vero senso di obbligazione. Tale senso si
sviluppa solo se c’è una concreta consapevolezza dell’uguaglianza
ontologica e della solidarietà morale dell’umanità. Per accettare
il proprio posto tra questa moltitudine uniforme, è necessario di
nuovo essere sicuri del proprio valore personale.
Sebbene
il ruolo delle emozioni sia stato lungamente frainteso da coloro che
enfatizzano l’incoraggiamento delle reazioni emotive
nell’educazione, essi hanno visto qualcosa di vero. Senza una
qualche emozionalità minima, la conoscenza rimane ampiamente scarsa.
Essendo sicuro del proprio valore, l’uomo può riconoscere i valori
più alti dei propri, senza apprendere questo come una minaccia al
proprio valore ed alla propria esistenza. Senza la capacità di
amare, la vera ammirazione ed il rispetto difficilmente si
sviluppano. Entrambi questi stati emotivi sono risposte, ed allo
stesso tempo sono le condizioni, per il riconoscimento dei valori più
alti.
Collegato
all’ammirazione c’è lo stupore. “Spiegare” lo stupore come
un effetto di un presunto “istinto di curiosità” è un’impresa
condannata a fallire. Al di là della discutibilità della nozione di
“istinto” ci sono altre ragioni per scartare un’interpretazione
così semplicistica.16
Lo stupore, eventualmente, porta ad un movimento di curiosità e ad
un tentativo di chiarire i fatti che generano stupore. Ma lo stupore
è il primo, e la curiosità è seconda. Platone vide più
chiaramente di questi difensori dell’istinto quando sostenne che lo
stupore era l’inizio della saggezza. Nell’atteggiamento di
stupore l’uomo è reso consapevole dei suoi limiti, ma questa
consapevolezza è differente da quella depressiva attraverso cui
l’uomo è riportato alla sua finitudine. Lo stupore gli rivela la
grandezza dell’essere e, in un certo limite, anche la sua propria
grandezza. È prerogativa dell’uomo il fatto che possa porre
domande.
La
lista degli esempi non può prolungarsi all’infinito. Per quanto
interessante e conclusiva possa essere una lista completa delle
emozioni ed una loro analisi rispetto a questa tesi, ciò vorrebbe
significare una precedente indagine di tutte le emozioni ed un
tentativo di raggrupparle secondo alcuni principi di base. Questo è
possibile, ma rende necessaria una discussione troppo lunga per
essere posta qui. Si farà menzione, quindi, solo ad altre due
emozioni.
La
compassione non è basata, come molti credono, sulla realizzazione di
patimenti e sofferenze che possono colpire se stessi, ma su quelle
riconosciute in un altro. La compassione è una realizzazione del
dolore sofferto da un altro come dell’altro. Non diventa del tutto
fittizia essendo il suo oggetto il soffrire di un’altra persona. La
compassione deve anche essere distinta dalle emozioni scatenate da
una tragedia vista su di una scena. La sofferenza reale di un altro
essere umano non ha la potenza “catartica” che Aristotele
attribuisce alla tragedia prodotta sul palco. La vera compassione non
deve neppure essere confusa con il brivido che proviamo quando siamo
messi di fronte alla sciagura, al dolore, alla sofferenza di ogni
tipo, ed ancor meno al sussulto di disgusto. Queste altre emozioni
molto spesso colorano la compassione e la deprivano della sua natura
pura ed originale. La frequenza della loro mescolanza, però, non
altera la natura essenziale della compassione. E neppure ci deve
sviare la nota di condiscendenza, di superiorità, che così
facilmente si aggiunge alla compassione. La persona sana si sente
superiore, se vuole sentirsi in questo modo, alla persona malata e
disabile. Colui che è in grado di essere caritatevole grazie ai suoi
mezzi, difficilmente può fallire nel sentirsi superiore a colui che
riceve. È abbastanza significativo che apparentemente in tutte le
forme di civiltà colui che supplica assume una postura che lo pone
“sotto” l’uomo in grado di aiutarlo. L’inclinazione e il
desiderio di superiorità sono così forti nell’uomo che essi
spesso distruggono ogni vera compassione.
Un
uomo può aiutare un altro senza provare compassione. Può agire così
al di là di un senso del dovere o di obbligo, o perché considera
una tale azione in accordo alla propria dignità – noblesse oblige
– o perché la vista della sofferenza gli è dolorosa e vuole lui
stesso essere sollevato piuttosto che sollevare l’altro. La vera
compassione probabilmente è rara. Ma lo sono tutte le emozioni
grandi e vere. Il termine “indole” è stato spesso utilizzato nei
confronti delle capacità emozionali. In accordo con questa idea, ci
sono persone che sono particolarmente dotate nel modo di reagire
emozionalmente, come altre lo sono rispetto ai risultati
intellettuali, scientifici, artistici o politici. Infatti, le
differenze individuali che riguardano la reattività emozionale non
sono per nulla inferiori, e forse sono anche più marcate, di quelle
che riguardano altre forze della mente. Le persone capaci di vera
compassione sono eccezioni.
Questo,
però, non riduce l’importanza della compassione per una
comprensione del posto occupato dalle emozioni nell’esistenza
umana. L’insensibilità emozionale di molti è una piccola
obiezione contro l’interpretazione delle emozioni che viene
abbozzata qui, proprio come l’incapacità di comprendere la
matematica superiore o la speculazione astratta è un argomento
contro la classificazione di tali capacità tra le capacità della
mente umana. Si sospetta che l’insensibilità emozionale, per
molti, non sia dovuta ad un’incapacità originale ma piuttosto ad
altri fattori, tra i quali giocano un ruolo preminente la paura di
conseguenze ulteriori e la preferenza per una vita indisturbata.
Senza
dubbio, la compassione rende l’uomo consapevole della sorte
generale del genere umano. Mentre il terrore ed alcune altre emozioni
rivelano all’uomo la sua finitudine individuale, personale, la
compassione fa che lui realizzi la finitudine del genere umano in
generale. Essendo molto più che una semplice considerazione ed un
fremito per la sofferenza di un’altra persona – che lascia l’uomo
nell’isolamento – essa contribuisce alla realizzazione della
solidarietà del genere umano. Assicura l’individuo della sua
“appartenenza”. Egli concepisce se stesso come un membro della
grande comunità del genere umano. È rivelativo che le visioni che
negano l’uguaglianza degli uomini inclinino anche ad una
svalutazione della compassione, che tali ideologie considerano come
una debolezza, un sentimentalismo, ed indegna per la “mente
eroica”17.
La
seconda emozione, i cui commenti chiudono questo breve sommario,
merita particolare attenzione. Il disgusto18
è provocato ogni volta che vediamo, o annusiamo, o gustiamo alcune
cose, eventualmente anche quando le tocchiamo, specialmente cose
fredde e viscide. È, però, discutibile se tutte queste reazioni,
per quanto collegate, siano della stessa natura. È possibile che
debba essere fatta una distinzione tra il disgusto come vera emozione
e il tipo di impressione che noi chiamiamo nauseante.
La
nausea è primariamente una mera reazione vegetativa attraverso cui
l’organismo risponde a sostanze che non vanno d’accordo con lo
stomaco. La nausea è uno stato generale in cui una sensazione
spiacevole da parte dello stomaco, il vomitare o almeno la
propensione a farlo, è in primo piano. Gli altri sintomi corporei,
come la fiacchezza, il sudore freddo, il senso generale di malessere,
sembrano essere fenomeni secondari. Le strette relazioni tra la
cavità orale, il senso del gusto, le sensazioni tattili, la
deglutizione, da una parte, e le funzioni dello stomaco dall’altra
– come mostrato dai vari riflessi secretori rilasciati dalla bocca
–, forniscono una spiegazione al fatto che esistano gusti
nauseanti, anche se non se ne ha mai avuto esperienza in precedenza.
Nella maggior parte dei casi, però, l’effetto nauseante dei gusti
o degli odori sembra fondarsi sull’associazione e sull’esperienza
precedente. È stato ripetutamente osservato che i bambini mostrano
poca riluttanza a cose che un adulto qualificherebbe come nauseanti.
L'emozione
di disgusto è apparentemente condizionata soprattutto dalle
impressioni visive e tattili. Se si considerano i fattori puramente
sensoriali di queste impressioni, c'è poco che possa spiegare
l'effetto particolare che essi hanno su molte persone. La freddezza e
la viscosità, ad esempio, sono sensazioni come molte altre, e non è
intelligibile perché esse acquistino una connotazione così
peculiare. E non è neppure disgustosa, se considerata come un
semplice complesso di impressioni visive, niente di più che colore,
forma, e luogo. Ancora più incomprensibile, se si considerano
solamente i semplici sensa,
è il disgusto che molte persone sperimentano quando vedono il
sangue.
La
reazione di disgusto sembra essere primariamente legata al
decadimento della materia organica o a qualche parte di un organismo
separata dal tutto a cui appartiene. Un braccio amputato è sentito
da molti come una cosa disgustosa mentre non possiede nulla di tale
qualità quando è ancora al suo posto nell'organismo. Le ferite sono
disgustose perché esse indicano fortemente la corruttibilità della
materia organica; esse diventano tanto più disgustose a seconda di
quanto il decadimento diventa visibile (suppurazione). La ferita
pulita come quella provocata dal bisturi del chirurgo è meno
disgustosa che una ferita irregolare e lacerata dovuta ad un
accidente. Lo stesso capello che ammiriamo su di una donna può
apparire disgustoso se lo vediamo cadere e staccarsi da un ornamento.
Si
può dubitare fortemente che gli oggetti disgustosi ricordino
all'uomo la sua corruttibilità. La situazione descritta spesso dai
poeti e dagli scultori del tardo Medio Evo, e ritratta anche in
alcuni famosi dipinti del primo Rinascimento, dà espressione a
questa idea: una lapide che rappresenta un cadavere in
decomposizione, serpenti e vermi che strisciano fuori dalla cassa
coperta solo da residui di carne, e l'iscrizione: “Così appaio, tu
apparirai uguale”; il Trionfo
della morte al Campo Santo
di Pisa, si dice essere un'opera di Traini, che mostra delle persone,
ben vestite, a cavallo, mentre tremano prima di una tomba aperta e
del suo contenuto; anche la leggenda di Buddha che fuggì i suoi
guardiani e, la prima volta che lasciò i confini del suo castello,
incontrò un uomo malato, anziano, e un cadavere, e così prese
consapevolezza, da quest'unica esperienza, della futilità ed
incertezza delle cose terrestri.
Con
alcune persone ogni cosa che ricorda loro del decadimento o della
disintegrazione assume la caratteristica del disgusto. Per loro, una
persona malata, qualsiasi sia il suo disturbo, è essenzialmente
disgustosa. La materia in decadimento e il tutto che si disintegra
diventano senza senso. Chimici e medici sono stati spesso definiti
privi della reazione “naturale” del disgusto, poiché non esitano
a impugnare oggetti che per altri sono assolutamente disgustosi. In
parte questo è certamente effetto dell’abitudine. Ma in parte è
anche dovuto al fatto che le cose disgustose non sono prive di senso
per quegli studenti. Non è la semplice insensibilità che può far
parlare un medico di “un bel cancro”. Si è detto che “una
sostanza chimica fuori luogo è sporco, mentre lo sporco come quello
di un soggetto di una indagine chimica è una sostanza”. Qualcosa
fuori posto è senza senso; per quanto sia pieno di significato,
poiché appartiene ad un tutto più grande, perde la qualità della
disgustosità.
Così
l’esperienza del disgusto evidenzia all’uomo il valore della
totalità. Lo fa, certamente, per contrasto. Ma questo non è un
fatto insolito. Noi apprezziamo l’innocenza specialmente attraverso
l’esperienza della colpa, la salute specialmente grazie
all’esperienza della malattia, e il possesso di molti beni
specialmente quando e perché siamo minacciati dal perderli o li
abbiamo già persi.
Una
caratteristica nel comportamento di disgusto merita un’osservazione.
Il sentimento individuale di essere disgustato proviene della cosa
disgustosa come se fosse pericolosa o, almeno, minacciosa di
contaminazione. In effetti, la cosa disgustosa raramente è
pericolosa o nociva in qualche modo. D’altra parte, c’è una
stretta relazione tra il terrore e il disgusto. Alcune persone si
perdono, dall’esperienza del disgusto, in uno stato mentale che
rassomiglia al terrore. Il disgusto può diventare, in alcuni, così
intenso da sfinire o rendere inabili al movimento. Heidegger potrebbe
dire che al di là della questione del decadimento abita il Nulla. È
vero in alcuni esempi, ma difficilmente lo è in tutti.
Il
disgusto riferisce delle possibilità del decadimento e del declino.
Non è senza un profondo significato che chiamiamo “disgustoso”
il comportamento di un uomo che si abbassa al di sotto del livello
medio dell’umanità. Il dissoluto, l’ubriacone, il sudicione, ed
altri sono “disgustosi” perché pongono davanti ai nostri occhi
una tale possibilità. Alcune persone considerano disgustosi ogni
specie di animale. Questa reazione si osserva anche nei riguardi
delle scimmie, quegli animali che paiono come una caricatura subumana
della natura umana. È anche importante che il limite di ciò che è
qualificato come disgustoso varia considerabilmente con gli individui
e, specialmente, con il loro ceto o con le richieste che fanno a se
stessi ed agli altri. L’attitudine alla compostezza morale che così
facilmente degenera in fariseismo concepisce molte cose come
disgustose che per un'altra mentalità non sono così. Come avviene
per le morali è così anche per altre cose. I concetti di pulizia
variano considerevolmente, e quello che per una persona è
sufficientemente pulito è disgustosamente sporco per un'altra. In
questo atteggiamento l'aspetto positivo del disgusto diviene
evidente. La linea di confine che definisce ciò che è concepito
come disgustoso definisce anche, così per dire, il valore e la
statura della persona.
Così
il disgusto diviene un opposto dell'ammirazione. Se il primo rivela
le possibilità della natura umana sotto di noi, l'ammirazione ci fa
intravedere le possibilità al di sopra di noi stessi. Ma entrambe
sono possibilità della natura umana a cui ognuno partecipa. Il
risultato eccellente o la personalità che merita ammirazione,
quindi, sono di una natura che dà conforto, anche se non pensiamo di
poter raggiungere lo stesso grado di perfezione. Il fatto che ci sono
i santi e gli eroi ci dà una maggiore fiducia nella natura umana, e
così implicitamente in noi stessi.
La
presente discussione sembra aver raggiunto il punto in cui diventa
lecito un riassunto preliminare. Non si pretende che la concezione
delle emozioni avanzata qui definisca l'emozione in ogni dettaglio.
Bisogna ammettere che le emozioni hanno altre funzioni al di là del
rivelare all'uomo qualcosa
del suo “stato ontico”.
Ma si sostiene che questo aspetto delle emozioni sia di enorme
importanza.
La
semplice esperienza delle emozioni non è equivalente ad una piena
conoscenza del loro significato ontologico. Tale conoscenza si
sviluppa solo se la consapevolezza fornita dagli stati emotivi si
eleva, per così dire, al livello della riflessione. Rispetto a
questa, l'emozione è molto simile alla consapevolezza sensoriale. I
semplici sensa
non hanno alcun significato; un sensum
come tale è senza significato. Diventa significativo solo quando
viene sintetizzato con gli altri, ed anche con le memorie e,
soprattutto, con le nozioni intellettuali. Una cosa semplicemente
sentita è solamente lì. Solo quando è riconosciuta come tale
acquista significato. Il riconoscimento in quanto tale significa di
più, nella vita umana, che la consapevolezza che qualcosa è già
stato “visto prima”. Il riconoscimento si esprime chiamando la
cosa sentita “una” cosa di questa o quell'altra natura. Anche se
per la mente cosciente non è niente di più che “una cosa”, il
suo “essere qualcosa” è una nozione astratta. In modo simile, la
“conoscenza emotiva” non fornisce alla mente nessuna conoscenza
definitiva fintanto che non si unisce alla riflessione.
La
rappresentazione degli stati emozionali incontra grandi difficoltà.
È anche discutibile se una tale rappresentazione esista in generale.
Molti hanno sottolineato che il ricordare una situazione emotiva
significa viverla una seconda volta. I dati “oggettivi” della
situazione possono essere rievocati ed immaginati, ma l'emozione non
è un'emozione rievocata; è una emozione veramente riprodotta,
ossia, realmente presente. Sebbene l'intensità dell'emozione possa
essere inferiore nel caso della rappresentazione, spesso è
abbastanza sufficiente da creare uno stato della mente che uguaglia
quello esistito nell'esperienza effettiva. Esistono anche molti
esempi di emozioni di grande intensità che vengono rilasciate da
situazioni puramente immaginarie. (Questo fenomeno rende opportuna
un'analisi degli stati emozionali che si riferiscono alle esperienze
personali, effettive o fittizie, e delle emozioni che si riferiscono
ad altre persone, ad esempio quando si prende parte ad un gioco.
Questo problema, però, è troppo complicato per essere affrontato
qui).
La
riflessione deve spostarsi su di una caratteristica degli stati
emozionali che, pare, non ha ancora trovato l'attenzione che merita.
Il linguaggio comune spesso parla di emozioni “profonde” o
“superficiali”. Gli stessi termini, in verità, sono utilizzati
anche in riferimento all'intuito; ad una persona è attribuito un
intuito più profondo in alcune questioni rispetto ad un'altra.
Parliamo inoltre di profondità e superficialità come attributi
della personalità. Ma sembra che la profondità sia una proprietà
principalmente delle emozioni. Siamo “profondamente” mossi.
Profondo sembra avere differenti significati quando è applicato alla
conoscenza ed alle emozioni. La profondità della conoscenza si
riferisce alla struttura conoscibile delle cose. Ha una conoscenza
più profonda chi conosce maggiormente il rapporto tra il fatto
considerato e gli altri fatti. Quanto più conosce le relazioni
causali, circa il significato del fenomeno e le interconnessioni,
tanto più profonda sarà la conoscenza che possiede. La profondità,
quando viene attribuita alle emozioni, invece, non si riferisce al
mondo “oggettivo”, ma alla persona interessata dalle emozioni. La
profondità non è uno degli strati della realtà – o
dell'ideazione, come potrebbe essere il caso del “non io” - ma
del soggetto stesso.19
Sembrerebbe che l'espressione “profondo”, quindi, sia
maggiormente appropriata quando applicata alle emozioni piuttosto che
ad altre esperienze. Un intuito o una conoscenza “più profonda”,
nel senso comune, è, infatti, “più ampia”, include un gran
numero di relazioni tra termini differenti. È discutibile se l'uso
di “strato” e, in corrispondenza, di “profondo” nei riguardi
degli oggetti di scienza sia legittimo.20
Parlando ontologicamente, quello che è al di sotto della superficie
è il regno dell'essere sostanziale che, indiscutibilmente, è al di
là della portata della scienza. C'è solo un punto nell’intero
campo dell'esperienza possibile dove la mente cosciente afferra la
sostanza stessa, benché tutt'altro che nel modo adeguato, e questo
avviene nell'esperienza di sé. L'auto esperienza non significa, in
questo senso, introspezione, e neppure un'analisi introspettiva
diretta alle “funzioni” o agli “atti”. Benché questo tipo di
auto esperienza sia estremamente valida, molto più di quanto alcuni
psicologi, accecati dai loro ideali per la cosiddetta psicologia
scientifica, siano disposti ad ammettere, essa non è l'immediata
consapevolezza del proprio essere. Il proprio essere rimane, per così
dire, ancora oltre o al di sotto degli atti conosciuti attraverso
l'introspezione più accurata. È negli stati emozionali “profondi”
che la coscienza afferra qualcosa del proprio vero essere.21
Nel
recensire alcune delle attuali teorie sulle emozioni, quelle che
pretendono di fornire una “spiegazione” nei termini della
biologia possono essere scartate. A questo proposito, si è
verificato solo un piccolo progresso da quando Callicles ha proposto
la teoria del piacere come una riparazione o una restaurazione dopo
lo “vuotamento”.22
E neppure necessitano di essere considerate quelle concezioni che
rendono le emozioni indici di vantaggio o di svantaggio. Queste sono
troppo antiche. Originariamente il riferimento era ad uno stato di
perfezione più alto (come in Spinoza: il Piacere è il passaggio
dell'uomo da una perfezione minore ad una superiore). Un'epoca che ha
imparato a considerare le semplici funzioni vitali come le uniche
rilevanti ed è dominata dal materialismo è costretta, ovviamente, a
distorcere il senso originario.
Le
cosiddette definizioni ideate da H. Spencer per il piacere e per il
dolore e, in un'applicazione più ampia, per le emozioni in generale,
non sono definizioni ma semplici riproposizioni di quello che è
osservabile da chiunque.23
La critica a cui queste cosiddette definizioni furono soggette da
parte di diversi autori24
ha dimostrato che non c’era ragione per ripetere le stesse
banalità. Così E. L. Thorndike, piuttosto che di piacere e di
dolore, parla di soddisfazione e di stimolo fastidioso. Soddisfazione
significa “quello stato che, nel caso degli esseri umani, è
benvenuto, amato, preferito che esista piuttosto che non esista”.25
Non
molto più utili sono le teorie che connettono le emozioni con la
“frustrazione”. Se con questa parola si intende che le emozioni
sorgono quando un movimento appetitivo non trova immediatamente uno
sfogo, allora c'è qualcosa di vero in questa concezione, sebbene non
copra tutti i casi. Specificamente, una tale teoria fallisce nello
spiegare la gioia del possesso. Per inciso, anche questa concezione
ha i suoi predecessori, per esempio nell'idea di Herbart che le
emozioni sorgano dalla mutua inibizione delle “idee”.
Lo
studio psicologico delle emozioni ha sofferto del pregiudizio
generale che i “sentimenti”, il piacere e il dolore, debbano
essere considerati come i fenomeni più semplici e più elementari e
che le emozioni “più elevate” di conseguenza debbano essere
analizzate da tali sentimenti più qualche altro fattore. Questa
concezione si basa sull'assunzione non provata che i “sentimenti
semplici” siano gli stessi in ogni circostanza, ossia, che esista
solo un tipo di piacevolezza o di dispiacere. Le ricerche recenti,
però, hanno mostrato che anche il “semplice” piacere può essere
qualitativamente differente. Il piacere da soddisfazione è di
un'altra natura rispetto al piacere da funzione (come nell'attività
di gioco) o il piacere di creazione.26
Tuttavia,
gli autori che hanno a che fare con le emozioni, nonostante le
differenze d’interpretazione, sono d'accordo su di un punto: le
emozioni sono stati soggettivi, ossia non hanno un rimando diretto al
mondo oggettivo. Esse sono indici, per la coscienza, non delle
situazioni esterne, ma delle situazioni interne. Esse sono
considerate come “stati” del soggetto, o come le manifestazioni
di tali stati alla coscienza. Esse non sono gegenstandlich,
ma zustandlich.27
La
natura delle emozioni come modi del soggetto è riportata in vario
modo a seconda della concezione generale degli autori.
L'introspezione, dice R. S. Woodworth, “rende affascinante”,
sebbene non evidente, la conclusione che i sentimenti siano
atteggiamenti reattivi dell'organismo.28
F. Krueger sostiene che le emozioni sono distinte da tutte le altre
modalità di esperienza ma sono in connessione con esse; esse sono
“qualità complesse della totalità dell'esperienza effettivamente
esistente”.29
A. Willwoll appoggia Krueger, come molti altri autori, ad esempio
Stieler.30
Una caratteristica particolare enfatizzata da E. Raitz de Prentz è
la passività delle emozioni. Esse sono soggettive e sorgono in
conseguenza delle impressioni o delle situazioni senza alcuna
attività da parte del soggetto, come pure risposte.31
Bisogna ricordare il concetto di passiones
animae, il cui termine,
come è noto, si riferisce in senso stretto agli stati emotivi,
sebbene abbia anche un significato generale. È vero che anche in un
atteggiamento puramente recettivo la mente è attiva in modo più
spontaneo che nelle emozioni. La percezione comporta attività,
almeno per il fatto che c'è un girarsi verso l'oggetto,
un'attenzione fissa su di esso, e così via.
C'è,
però, un'altra proprietà delle emozioni che, forse, è più
caratteristica e ci permette di penetrare maggiormente nella natura
di questi stati mentali rispetto alla semplice passività.
Apparentemente gli psicologi hanno grandemente prestato attenzione a
questa proprietà dell'emozione, ma essa è stata portata allo
scoperto da E. Husserl. Mentre ogni altro fenomeno mentale,
specialmente quelli della cognizione, presenta alla mente riflessiva
vari aspetti o lati, questa peculiarità è risultata mancante nelle
emozioni. Husserl, per descrivere gli aspetti mutevoli di altri
fenomeni mentali, usa il termine abschatten,
ossia, essere differentemente colorato, o apparire in differenti
tonalità. Niente del genere è rintracciabile nelle emozioni. “Se
guardo un'emozione, ho qualcosa di assoluto, non ha facce che possano
presentare se stesse come sono in un determinato momento e
diversamente in un altro. Posso pensare in modo vero o falso circa
un'emozione, ma cosa c'è prima dello sguardo è assolutamente nelle
sue qualità, intensità, e così via”.32
E neppure si può negare che in questo “assoluto” la mente sia
consapevole di una modifica, non tanto di se stessa, ma di ciò di
cui la mente stessa è parte e manifestazione. Husserl ha enfatizzato
anche più vigorosamente di Cartesio la certezza dell’ego
cogitans. In questo senso
si pone all’interno della grande tradizione che sorge dal scio
me scire di Sant’Agostino
e conduce, senza interruzione, fino a Cartesio ed a tutti i filosofi
da lui influenzati. Si è trattato di qualcosa di più che semplice
cortesia rivolta alle istituzioni francesi, che lo hanno invitato,
che ha fatto sì che Husserl chiamasse le sue lezioni di Parigi
Meditations Cartésiennes.33
L’espressione
“modificazioni del soggetto” o dell’ego, se si preferisce,
necessita ancora di una chiarificazione. Cosa modifica l’ego, così
che diventi consapevole di esser stato modificato? La caratteristica
della passività inerente agli stati emozionali indica che queste
modificazioni in qualche modo giungono da “fuori”. Questo “fuori”
non dev’essere inteso in senso spaziale. Esso designa l’intero
reame del non io, includendo quindi non solo le cose e le persone, ma
anche le verità e i valori. D’altra parte, gli stati emozionali in
particolare sono personali e “soggettivi”. A quest’ultimo
termine è stata attribuita, nella filosofia moderna, una
connotazione dispregiativa, abbastanza immeritatamente. L’esperienza
soggettiva può essere considerata di minor valore o di minor
importanza solo se si ha precedentemente accertato che la “conoscenza
pubblica”, in grado di essere verificata da chiunque utilizzi i
metodi appropriati, è superiore ad ogni altra conoscenza in tutte le
condizioni. Questa asserzione è molto meno “auto evidente” di
quanto creda l’empirista. L’intera questione della relatività
del valore e l’importanza del “soggettivo” e dell’
“oggettivo” deve essere esaminata nuovamente. Tale esame dovrebbe
costituire il primo obiettivo dell’empirismo. Tale scuola si fonda
sull’importanza della prova, come sempre avviene ogni volta che la
filosofia pretende di correggere e soppiantare l’evidenza del senso
comune. Non è sufficientemente semplice dichiarare che ogni
affermazione non soggetta a “verifica”, modellata secondo lo
schema della scienza, sia ipso
facto “senza senso”.
Fin quando questo reclamo non viene sostenuto da qualche principio
evidente esso stesso è “senza senso”, poiché non può essere
provato da nessun tipo di esperimento. Questo dev’essere tenuto a
mente se si desidera difendere la giustezza di una psicologia di tipo
non “scientifico”. Le discussioni nel modo in cui sono qui
riportate vengono considerate inaccettabili da coloro che sono
assuefatti dall’idolatria della scienza e disprezzano tutte le
altre forme di esperienza.
Dal
momento che le emozioni sono modificazioni dell’esperienza che l’io
ha di se stesso, esse sono, almeno in questo aspetto fondamentale, al
di là della comprensione della psicologia “scientifica”. Di
conseguenza, l’attenta lettura dei libri di testo e delle riviste
piene di ricerche degli sperimentalisti si dimostra futile se il
lettore sta cercando qualche informazione sulla natura degli stati
emozionali. Benché “oggettivi” e “scientifici”, gli
psicologi non possono aiutare a diventare consapevoli dell’esistenza
e del ruolo delle emozioni. Alcuni restringono le loro considerazioni
alla manifestazione apparente delle emozioni, ai cambiamenti corporei
ed al comportamento; altri considerano la situazione completa in cui
l’organismo sviluppa una reazione emozionale. Alcuni si permettono
anche di inserire qualche dato dell’introspezione. Il risultato
delle loro osservazioni ed idee si riassume in questo modo: le
emozioni sopraggiungono ogni qual volta l’organismo si trova in una
situazione che ha qualche influenza sul suo benessere. Le emozioni di
minor intensità si dimostrano di aiuto; se troppo intense esse
possono diventare un ostacolo alla reazione adeguata. Di media
intensità esse rinforzano gli agenti del comportamento appetitivo o
comunicativo. Esse sono indici di “interesse”, di utilità o
pericolosità, o, nell’uomo, di ogni sorta di valore.
C’è
qualche relazione tra l’interpretazione delle emozioni così come
generalmente accettata e le concezioni presentate nelle pagine
precedenti a mo’ di tentativo? La risposta dipende dall’idea che
ci si può fare sulle situazioni in cui l’organismo, o piuttosto la
persona – dal momento che non sappiamo nulla degli stati emotivi
negli animali, di cui possiamo osservare solo il comportamento che
assomiglia al nostro quando sperimentano un’emozione – risponde
attraverso un’emozione. In accordo con la tesi difesa qui, queste
situazioni devono essere di una natura tale da provocare una
comprensione dello “stato ontico” dell’uomo in generale e della
persona individuale in particolare.
A
tale riguardo è interessante che le emozioni si sviluppino con
l’età, e che ci sia un preciso parallelismo tra le capacità
cognitive ed emotive. Questo significa che le emozioni diventano più
differenziate quanto più grande diviene la capacità di distinguere
tra le situazioni. Nei bambini appena nati e fino ad un’età di
circa tre mesi si osserva solo uno schema generale di eccitazione.34
All’età di tre mesi gli schemi reattivi di bisogno, eccitazione, e
piacere sono chiaramente distinguibili. Il bisogno distingue, attorno
all’età di sei mesi, il confine con gli altri corpi. La
sensibilità somatica, dopo tutto, è uno dei risultati
dell’organizzazione sensoriale, e potrebbe ben essere che anche qui
una specie sensibile (species
sensibilis) e l’intero
processo della consapevolezza sensoriale entrino in gioco. Infatti,
possediamo un’immagine del nostro corpo, per quanto di solito non
sia chiaramente sviluppata. Ma essa soggiace a ogni nostra conoscenza
riguardante le posture del corpo e la localizzazione degli stimoli
che toccano il corpo in qualche punto, e può essere disturbata dai
processi patologici.35
La
consapevolezza del corpo, però, non è la consapevolezza di sé.
Quando noi conosciamo noi stessi pensando, non abbiamo una diretta
conoscenza delle funzioni corporali che sono coinvolte. Non importa
se il cervello sia attivo nel pensare, come “organo del pensiero”
o come supporto alla base sensoriale per il pensiero astratto. Il
punto principale è che l’uomo è conscio del suo pensare senza
sapere nulla del suo cervello. In più, noi conosciamo il nostro
corpo come “nostro”, come “appartenente” a noi stessi. Il sé
può essere confuso, nel linguaggio comune, con il corpo. Ma frasi
come “ho bruciato la mia mano”, rivelano la consapevolezza che la
verità esiste anche nella mente comune, non riflessiva, poco
sofisticata.
I
fatti sono stati in qualche modo oscurati dalla proposizione
Cartesiana, specialmente dall’ergo. Questa parola implica che
l’uomo sa di essere se stesso poiché pensa. Apparentemente lo
stato delle cose viene meglio descritto dicendo: cogito
cogitationes meas – io
penso i miei pensieri. Infatti, ognuno dei nostri pensieri – o,
genericamente parlando, dei nostri stati mentali – viene
direttamente e incontestabilmente caratterizzato come “proprio”.
Non c’è bisogno di riflessione su questo fatto; è originariamente
ed assolutamente evidente. Non c’è modo di dubitare anche
“metodologicamente” che ogni stato mentale osservato direttamente
è il mio. La formula Agostiniana “so che sono io che so” (scio
me scire) traduce i fatti
meglio della proposizione Cartesiana.36
Questa
conoscenza o consapevolezza del proprio sé è, però, peculiare. In
modo immediato, essa è solo consapevolezza di essere (o
dell’esistenza, per usare un termine di alcuni filosofi recenti).
L’esistenza come tale non è in alcun modo determinata; l’esistenza
è semplicemente “esserci” o Dasein,
come dice Heidegger. Questo filosofo, infatti, tenta di
caratterizzare l’esistenza con alcune proprietà, o
caratteristiche, o qualsiasi termine sembri appropriato. Heidegger è
perfettamente conscio che tutti questi termini connotano significati
che lui vuole siano esclusi. Egli, perciò, conia per queste
espressioni dell’esistenza il termine “esistenziali”. Da ciò,
per inciso, diventa chiaro che si male interpreta la nozione di
Heidegger di esistenza se si vede in essa la stessa cosa dell’esse
o dell’existere
della Scolastica o di altre filosofie tradizionali. (Le relazioni tra
esse e
Dasein
e la forma che l’intera questione della distinzione tra essenza ed
esistenza assume nella filosofia di Heidegger necessitano davvero di
chiarificazione).
Quello
che Heidegger trascura è che oltre a questi cosiddetti
“esistenziali” ci sono altre determinazioni – o almeno una
determinazione – che sono d’importanza fondamentale. Forse non
trascura questo fatto, ma lo spoglia, a causa del suo punto di vista
generale, del suo significato. Il fatto è che l’uomo è conscio
del valore. Il termine conscio non deve essere indebitamente
accentuato. Non è la stessa consapevolezza con cui conosciamo, ad
esempio, un fatto tangibile o una verità pensabile. Si potrebbe
parlare di “co consapevolezza”, comparabile alla conoscenza
dell’io, che nelle parole di Kant deve accompagnarsi a tutti i
nostri atti mentali. Questo io non è solo lì, non è solo essente,
ma anche essendo dotato di un preciso valore.
Il
merito o il valore implicano una relazione. Questa non va intesa nel
senso banale, e falso, che il valore si riferisce ad una relazione
che si ottiene tra un soggetto ed un oggetto, come se le cose
avessero un valore solo “per me”. La relazione a cui si allude
qui è quella che si ottiene tra i valori. Nessun valore viene
appreso nel perfetto isolamento. Ogni valutazione comporta un punto
di vista sull’ordine complessivo dei valori.
È
stato troppo poco riconosciuto che i nostri giudizi di valore e della
loro importanza poggiano su considerazioni differenti dalle molte
altre che permettono ogni tipo di misura o di classificazione. Le
dimensioni sono giudicate mediante alcune unità con le quali in
paragone tali dimensioni sono maggiori o minori. Il termine “unità”
non significa che in tutte le stime ci riferiamo ad una unità nota e
misurabile; ma la procedura di stima è dello stesso tipo come se
applicassimo un criterio di paragone. Nella valutazione, però,
procediamo in modo abbastanza differente. Nel senso comune la
dimensione inizia da un punto zero; la prima soglia oltre questo
punto definisce l’unità. La valutazione non conosce tale zero. Non
c’è zero nella bontà morale o nella bellezza estetica. E neppure
si può dire, in modo significativo, che un valore morale o estetico
sia così tante volte maggiore di qualche altro valore. Le “misure”
dei valori estetici attraverso fattori accidentali, come il numero
delle persone a cui piace l’oggetto preso in considerazione, o il
prezzo pagato per un dipinto, le copie vendute di un libro, e così
via, non sono vere “misure” del valore estetico.
Cosa
intendiamo quando diciamo, ad es., che un dipinto di Tintoretto vale
di più che uno di Carracci, o che le commedie di Shakespeare sono
“migliori” di quelle di Massinger? Molti risponderanno che un
tale modo di esprimersi indica semplicemente la soddisfazione
maggiore che deriva da una delle due cose sottoposte a paragone.
Anche un'osservazione superficiale è sufficiente per invalidare
questa affermazione, nonostante la sua incessante ripetizione da
parte degli autori della notorietà. È un complimento al senso
estetico ed alla comprensione del pubblico se un'opera d'arte piace a
molti, ma piacere a molti non è necessariamente un criterio di arte.
Se fosse così, la grandezza dell'arte diventerebbe completamente
relativa, così che ciò che era arte ieri non lo è più oggi, ma
potrebbe ritornare ad esserlo domani. La mancanza di senso di tale
opinione è ancora più evidente se rivolta ai valori morali.
Il
giudizio sui valori poggia su di un processo davvero curioso che
potrebbe essere definito l' “apprezzamento che parte dal massimo”.
L'uomo porta in se stesso, per qualche motivo, una “idea” di
valore assoluto, che rappresenta il massimo di ogni classe di valori,
l'assoluta bellezza, l'assoluta bontà. Definendo un dipinto davvero
bello, non affermiamo che esso è distante di così tante misure
dallo zero della bellezza, ma che si avvicina più di tanti altri
alla “bellezza ideale”, benché non abbiamo avuto esperienza di
questo ideale, e neppure l'avremo, almeno non in questo mondo. Lo
stesso è vero per la bontà.
Ogni
valore di cui diventiamo consapevoli è posto, automaticamente come
sembra, in qualche punto su di una scala, la cui fine serve come
punto di partenza. Un oggetto valutabile non è semplicemente
valutabile, ma è sempre quantitativamente valutabile, ossia, è
sempre messo in relazione col massimo del valore.37
Benché il giudizio che inizia dal massimo è, forse, caratteristico
della sola valutazione, il fatto che un dato oggetto denoti, in se
stesso, il suo posto nell'ordine a cui appartiene, non è qualcosa di
eccezionale. È piuttosto l'aspetto generale della conoscenza.
Un'impressione sensoriale non necessita della massima intensità
tollerabile per essere appresa come molto forte. Si suppone che una
persona che non ha mai visto nessun'altra tonalità di rosso, al di
là di un pallido rosa, sia in grado di concepire una maggiore
rossezza, sebbene possa essere incapace di immaginare una tale
tonalità. Esistono analogie con la via
eminentiae a tutti i
livelli dell'essere e dell'esperienza.38
L'auto
valutazione implica, quindi, un'apprensione, benché imperfetta, del
posto che possiede l'individuo, in quanto incarna un preciso valore,
nell'ordine dei valori, l'ordine speciale “personale” e l'ordine
dei valori in generale. Ma il valore non esiste in se stesso; è il
valore di un essente. Giudicando qualcosa noi assegniamo ad essa un
posto non solo nell'ordine dei valori ma anche nell'ordine
dell'essere. È così che il nostro giudizio sulla posizione
ontologica di un essente si basa sulla valutazione o sul valore che
noi percepiamo come appartenente alla cosa piuttosto che sull'analisi
comprensiva delle proprietà della cosa. Siamo guidati in tale
analisi dal valore che abbiamo appreso.
Queste
valutazioni seguono le leggi loro proprie che sfidano, in un senso,
il “razionale”, ossia, ogni dimostrazione comparabile con i
metodi della scienza. Ci sono principi evidenti che non possono
essere ridotti a principi più fondamentali. Così, l'ovvia
superiorità delle persone al di sopra delle cose è un principio
evidente. Esso può essere correlato, certamente, ai principi
ontologici e metafisici. Ma se diciamo che, ad. es., la persona umana
possiede una dignità più grande di tutte le cose materiali, a causa
della sua natura razionale, siamo portati a chiederci quali siano i
fondamenti della maggiore dignità della natura razionale. E
procedendo oltre, arriviamo alle considerazioni che sostengono il
valore maggiore di una sostanza semplice, spirituale ed immortale, o
il valore maggiore della cognizione degli universali, o il valore
maggiore dell'auto-determinazione. Alla fine dobbiamo ricorrere ai
principi ultimi ed evidenti della valutazione.39
Tuttavia,
il fatto che la valutazione sia posteriore agli intuiti più
fondamentali non comporta il sostenere che il valore o la bontà
antecedono l’essere o la verità. Sebbene una tale opinione possa
essere sostenuta, ed è stata sostenuta40,
non può essere dimostrata da un semplice riferimento agli atti della
mente umana o, se si preferisce, della persona umana. La valutazione
ed il suo oggetto proprio, il valore, possono essere antecedenti solo
nei riguardi di noi stessi.
Così,
sembra che la valutazione sia al vertice di tutte le nostre posizioni
nei confronti della realtà, includendo il nostro sé.41
La
valutazione, però, deve essere considerata come una vera operazione
cognitiva; non può essere collocata tra le potenze appetitive. È
possibile, se si vuole, chiamarla “precosciente”, sebbene sia
probabilmente più corretto parlare di una cognizione pre-riflessiva
o non riflessa. Non c’è dubbio che la cognizione non riflessa, non
solo dei valori, occupi un posto importante nella vita umana. Una
grande parte delle nostre prestazioni, del nostro orientamento ai
contesti, e simili tratti di condotta sono originariamente non
riflessi, o sono diventati così attraverso un’automatizzazione
secondaria. Le impressioni ricevute dai sensi sono immediatamente
utilizzate per la regolazione del comportamento, senza che siano
fatti oggetto di riflessione.
Si
deve distinguere tra “preconscio” e processi non riflessivi della
mente. Gli eventi mentali su cui la ragione non accende la sua luce
non sono ancora, per questa ragione, “inconsci” o “preconsci”.
Il fallimento nel discriminare tra i vari livelli delle attività
mentali – specialmente il livello sensoriale e razionale – ha
indotto molti ad estendere irragionevolmente il campo dell'
“inconscio”. Molte cose sono state chiamate con questo nome che,
in verità, non sono inconsce ma subrazionali, non “fuori” dalla
coscienza, ma semplicemente non pienamente realizzate, dal momento
che tale realizzazione richiede la riflessione e, quindi,
un'operazione da parte delle facoltà razionali.
Il
fatto di una consapevolezza o cognizione non riflessa implica una
particolarità ulteriore che può sollevare un'obiezione contro i
punti di vista proposti. Le risposte emozionali non sono solo
“irrazionali” nel senso che sono indipendenti e antecedenti ad
ogni controllo intellettuale. Esse sono “irrazionali” anche nel
senso di essere abbastanza spesso irragionevoli, infondate, ed
incontrano disapprovazione dagli altri tanto quanto da se stessi.
Le
emozioni non sono giudicate da standard loro propri. Un'azione è
giudicata secondo i principi che regolano l'azione in generale; è
considerata giusta o sbagliata. Un'affermazione è vera o falsa,
secondo i principi dell'ordine del concreto o dell'astratto.
Un'emozione, però, è giustificata o non lo è. Essa non è né vera
né falsa, né giusta né sbagliata in se stessa. È “in armonia”
con la situazione oggettiva, oppure no. Il tipo di situazione non è
un contenuto affermato dalla stessa emozione, ma è constatato da
un'analisi generalmente conseguente, realizzata dalle potenze
cognitive. È sbagliato sentirsi contenti a causa della sfortuna di
un altro; ma la contentezza percepita come tale non è sbagliata, e
neppure è giusta. È sbagliata solo in date circostanze. È
giustificato se ci si sente afflitti a causa della perdita di una
persona cara; non è giustificato essere tristi a causa della perdita
di un oggetto “amato”. L'afflizione stessa, però, non è
giustificata né ingiustificata. Così, le emozioni non conoscono
nessun principio regolativo intrinseco. Esse occupano il proprio
posto in un ordine che non è esso stesso emozionale o direttamente
collegato all'emozione. L'ordine secondo cui le emozioni si ritiene
che siano giustificate o che non lo siano è l'ordine sia dei valori
morali che di quelli estetici.42
Non
si può dubitare che le emozioni spesso sopraggiungano senza una
situazione oggettiva che fornisca una ragione sufficiente per un
certo tipo di risposta emozionale o di qualsiasi altro tipo. Questo
fatto sembra rendere discutibile la visione proposta qui, ossia, che
l’uomo, nell’emozione, diventi consapevole del suo “stato
ontico”. Se le emozioni sono così frequentemente fuori luogo e non
della giusta tipologia, esse non possono essere considerate come una
fonte affidabile di un qualche tipo di consapevolezza. Ancor di più,
le emozioni sono definite “meramente soggettive” per diverse
ragioni, tra cui una deve essere riportata in questo contesto. Alla
stessa situazione oggettiva gli uomini rispondono in modo molto
differente. L’emozione come uno stato attraverso cui l’uomo
diventa consapevole del suo “stato ontico”, rivelerebbe
differenti aspetti ad ogni individuo.
Questa
obiezione, però, la si può affrontare con due considerazioni.
Primo,
si deve essere attenti a non confondere l’” obiettività” di un
processo cognitivo con l’ “affidabilità”. Una prestazione
cognitiva può essere attaccata da molti pericoli di errore, e
rivelare così, in certe condizioni, il vero stato delle cose e così
essere “oggettiva”. Il fatto che gli sbagli o che gli errori
avvengano, in se stesso, non è un argomento decisivo contro
qualsiasi metodo o procedura.
Secondariamente,
l’inaffidabilità delle emozioni, considerate nel loro aspetto
cognitivo, può non esistere del tutto. Non c’è bisogno di una
stretta correlazione tra alcune situazioni oggettivamente definite e
delle emozioni ugualmente ben definite. Affinché l’uomo diventi
consapevole, per mezzo di uno stato emotivo, del suo “stato
ontico”, l’unica condizione è che ci siano le emozioni. Lo
“stato ontico”, infatti, è antecedente ed indipendente da ogni
particolare situazione. Questo stato, di conseguenza, è
immutabilmente lo stesso qualsiasi sia la situazione. Anche
un’emozione ingiustificata può rivelare questo stato. La potenza
rivelatrice, ad es., della vergogna, è la stessa se si prova
vergogna perché si ha commesso un peccato, o perché si è colpevoli
di una rottura delle regole convenzionali. Se o no la risposta
emozionale particolare sia giustificata non abolisce il fatto che
un’emozione di questa o quell’altra natura sia stata esperita. Se
abbiamo paura di un pericolo reale o immaginario, la paura è in
entrambi i casi la stessa esperienza. O, come un famoso psichiatra
una volta pose la questione: “Se sogni una tigre, la tigre è
fittizia, ma la paura è reale”. Noi possiamo amare una persona
“indegna del nostro amore”. Ma quello che l’amore ci può
rivelare rispetto allo “stato ontico” dell’uomo può diventare
evidente qualunque sia la natura dell’amato e per quanto infondato
il nostro atteggiamento possa essere.
Ci sono altri atteggiamenti emotivi
che, attraverso la loro vera natura, sono sempre ed essenzialmente
ingiustificati, come l’odio. L’odio, nel vero senso del termine,
è diretto contro le persone. Noi “odiamo” altri oggetti solo in
un senso metaforico, o personificandoli (come possiamo “odiare”
un cavallo che è la causa di un incidente ad una persona amata), o
utilizzando la parola “odio” al posto del più corretto
“detestare”. Il sentimento d’odio può anche propagarsi da una
persona odiata ad altre cose ad essa collegate, proprio come l’amore
rende preziose ed amabili cose che noi associamo con l’amato, come
segno del ricordo. Per quanto totalmente ingiustificate, queste
emozioni possono rivelare qualcosa dello “stato ontico”
dell’uomo.
È
abbastanza corretto parlare delle emozioni come stati “soggettivi”.
Non hanno un diretto riferimento agli oggetti che sono conosciuti
dalle potenze cognitive. In realtà è necessario ideare un termine
particolare per designare l’ “oggetto” di cui gli stati
emozionali mediano la conoscenza.43
La
soggettività delle emozioni, così, non può essere trasformata in
un argomento contro la funzione cognitiva prevista qui. Quello che è
conosciuto non è che ciò che attraverso l’emozione particolare è
effettivamente rilasciato. Giustificata o no, l’emozione mantiene
il suo carattere e il suo riferimento ontico.
Un’altra
obiezione, però, apparentemente porta un peso maggiore. Ci sono
emozioni che possono essere dette “spurie” e possono dirsi
mancanti della caratteristica di uno stato mentale “genuino”. La
nozione di stati mentali genuini e non genuini è stata proposta da
W. Haas e A. Pfaender. Uno stato genuino è uno in cui la persona
vive, ovvero, nella sua totalità, mentre uno stato mentale
non-genuino permette a vari “strati” di consapevolezza di
rimanere non integrati. Un uomo che ripone assiduamente tutta la sua
attenzione al suo lavoro, ma nella cui mente c’è un’ansia
costante, per esempio, per il suo figlio malato a casa, è in uno
stato non genuino. Questo termine non connota un giudizio; è
semplicemente descrittivo. E neppure implica una differenza di
“intensità”; un uomo può essere maggiormente attento in un modo
non genuino rispetto ad un altro che si trova in uno stato genuino.
C’è tuttavia un certo tipo di
emozioni non genuine in cui si perde la maggior parte della loro vera
natura. Quello a cui si è alluso potrebbe essere meglio
esemplificato dall’abitudine o attitudine della “sentimentalità”.
Una persona sentimentale non solo reagisce emozionalmente in un modo
ingiustificato – ossia, fuori proporzione con l’evento che
scatena l’emozione – ma le sue emozioni sono percepite come
frivole da un osservatore, ed in qualche modo distorte, come se
fossero alterate dalla loro direzione originale ed appropriata da un
agente segreto all’interno della mente di questa persona.
L’impressione di frivolezza, abbastanza curiosamente, può
persistere nonostante una grande esibizione delle manifestazioni
emozionali. Questo è vero anche per certe personalità anormali,
solitamente qualificate come “isteriche”.
Le
emozioni di una persona sentimentale non sono genuine perché questo
tipo di persona è così auto-centrato e così dedito alla continua
contemplazione di se stesso – frequentemente nella modalità
dell’autocommiserazione – che non sarà mai capace di uno stato
di coscienza veramente integrato. Lo stato emozionale non si
impadronirà mai di una tale persona. Il suo modo di esperire le
emozioni è parallelo al modo in cui alcune persone apparentemente
amano l’arte, la musica, o la poesia, laddove in verità l’unica
cosa che essi amano è la loro capacità di piacere. Esse sono, per
metterla piuttosto crudamente, continuamente in ammirazione di se
stesse per la propria comprensione dell’arte, ecc. è come se
stessero continuamente dicendo a se stesse: “Come meravigliosamente
io apprezzo questo”. E così, sono focalizzate principalmente su se
stesse e per nulla sull’oggetto. Questo oggetto è per loro una
semplice opportunità per mostrare, per lo più di fronte
all’audience della propria consapevolezza, la loro capacità di
apprezzamento. La persona sentimentale si comporta allo stesso modo.
Basta ascoltare le sue ripetute assicurazioni che la sua è una
natura estremamente emotiva e sensibile per diventare consapevoli del
forte elemento di egocentrismo. Le reazioni emozionali di tali
persone sentimentali sono spesso inadeguate, fuori proporzione. Essi
piangeranno lacrime amare, ad esempio, a causa della sofferenza degli
animali, si opporranno empaticamente e irragionevolmente contro ogni
tipo di esperimento eseguito sul “povero coniglio”, e saranno
totalmente impassibili per il fatto che ci sono bambini affamati,
persone che vivono nei bassifondi affollati.
Ognuno
probabilmente conosce tali tipi. Essi colpiscono anche l’osservatore
casuale in quanto artificiali, non veri, come se fossero attori. Essi
stessi, tuttavia, credono nella profondità e nella genuinità delle
loro emozioni. Se, però, queste emozioni non sono realmente come
essi credevano che fossero, possono esse rivelare a tali individui
qualcosa della loro posizione ontica? Si impone da sola una risposta
negativa. Ma, allora, come si può credere alle sue emozioni? Se la
persona sentimentale illude se stessa, ognuno può trovarsi nella
stessa condizione. Egli può conoscere così poco quanto il
sentimento individuale conosce la realtà delle sue emozioni.
Chiunque basandosi su qualunque conoscenza che può raccogliere
attraverso le sue esperienze emotive può essere seriamente fuorviato
e giungere a conclusioni che mancano di ogni validità oggettiva. Di
conseguenza, tutte le conclusioni tratte dall’esperienza emozionale
non possono essere certe, e devono essere scartate. A questo
ragionamento si può controbattere che la stessa distinzione
evidenziata prima, si applica anche qui, vale a dire quella tra
oggettività ed affidabilità.
Secondariamente,
bisogna ammettere che non ogni esperienza qualificata dal soggetto
come emozione profonda e genuina può essere accreditata di queste
proprietà. Potrebbe essere vero che non ci siano criteri sicuri
attraverso cui un soggetto sarebbe in grado di verificare la
genuinità delle sue emozioni, sebbene ciò ammetta alcune
restrizioni. Ma c’è il fatto che le emozioni non-genuine e frivole
siano riconosciute come tali dall’osservatore. Certamente non da
ogni osservatore, e forse da nessuno in alcuni casi. Il semplice
fatto, però, che una tale “diagnosi” sia del tutto possibile non
ci deve far dubitare dell’asserzione che nessun criterio affidabile
possa essere trovato.
Uno
di questi criteri consiste nell’effetto che l’emozione ha sulla
totalità della vita e della personalità di colui che sperimenta
l’emozione. A titolo illustrativo è possibile riferirsi al ben
noto errore degli psichiatri naturalisti nel considerare come
patologiche ogni tipo di visione o di fenomeno estatico,
semplicemente perché gli stati, apparentemente della stessa natura,
avvengono in persone mentalmente malate. Tuttavia, c’è un’enorme
differenza. Lo stato estatico di origine soprannaturale – o anche
un’estasi naturale come accade a volte agli artisti – esita in un
innalzamento della vita, in un passo ulteriore in avanti e in alto
nel dispiegarsi della personalità, un arricchimento della mente. Lo
stato patologico, invece, è un sintomo di disintegrazione
progressiva della personalità.44
In
modo simile, le emozioni vere e genuine, anche quelle di natura
depressiva, hanno, o almeno possono avere, un’influenza positiva
sulla personalità. Il dolore ed il cordoglio spesso hanno
accresciuto la comprensione dell’uomo di se stesso e della natura
umana. Ed anche le emozioni negative hanno tale influenza. La
personalità sentimentale non diventa più ricca, più profonda, più
perfetta, indulgendo in emozioni non genuine. Piuttosto, più a lungo
questa abitudine persiste, più superficiale tale persona diventa.
Inoltre, gradualmente perde la capacità di un vero riconoscimento
dei valori. Ogni cosa gli appare come ugualmente importante, perché
reagisce agli eventi più insignificanti con quello che considera una
profonda emozione. Così, non è in grado di reagire con un’intensità
maggiore quando emerge una ragione seria, poiché egli ha, per così
dire, speso la sua energia emozionale in troppe occasioni
insignificanti. Egli ha deplorato così tanto la perdita di un
animale domestico che la sua reazione non può essere più forte
quando sua madre muore. Una tale degenerazione del senso dei valori
non può che diventare una tendenza verso un graduale impoverimento
della personalità.
Le
emozioni vere, pienamente sviluppate e genuine sono probabilmente
tanto rare quanto tutte le altre cose perfette. Non ogni persona è
in grado di sperimentare l’emozione così che la sua esperienza
diventi una vera rivelazione dello “stato ontico”. Tuttavia,
questo non nega la capacità di una conoscenza tale a coloro che, per
natura o per altre ragioni, sono incapaci di emozioni profonde e
genuine. Il fatto che una emozione non raggiunga uno stadio perfetto,
fraintendendo lo stato imperfetto per la cosa reale, non è un grande
ostacolo.45
L’uomo in qualche modo è consapevole del ruolo fondamentale
giocato dalla emozioni nella sua vita, e spesso ammette a se stesso,
seppur difficilmente, di provare vergogna nel perdere la più alta
emozionalità. Egli può trasformare questo difetto in una virtù e
diventare uno stoico. O può chiudere i suoi occhi e convincere se
stesso che le sue esperienze emozionali molto imperfette sono tutto
ciò che si può aspettare. Se, però, realizza dove si trova, può
ottenere la stessa conoscenza di chiunque sia capace delle risposte
emotive più intense e profonde.
Deve
essere fatto un riferimento, in questo contesto, ad un punto toccato
prima. Ogni tipo di esperienza che esiste in differenti gradualità
permette alla mente di concepire livelli non attualmente
sperimentati. (L’aspetto psicologico come quello ontologico della
via eminentiae
merita uno studio più approfondito di quello che può essere svolto
qui. Ma il fatto è facilmente appurato, anche se la sua
interpretazione, a livello ontologico e psicologico, può presentare
alcune difficoltà). Questa “estrapolazione” oltre il livello
attualmente sperimentato permette all’uomo di afferrare, se in un
modo meno impressionante, ma ancora adeguato, la vera natura
dell’emozione che esperisce. L’unica condizione – ma è
difficile da adempiere – è che un uomo sia perfettamente onesto
nei riguardi di se stesso e che sia disposto a sottoporre le sue
emozioni ad un esame così da scoprire se siano genuine e
giustificate, o mancanti di genuinità e collegate ad oggetti che non
giustificano il tipo di risposta. L’ostacolo più grande,
certamente, è la vanità dell’uomo. Questo è il caso più
frequente, dal momento che l’emozione, essendo caratterizzata come
soggettiva e personale, sembra “appartenere” più alla persona in
sé che alle idee, alle immagini, ai concetti e a fenomeni simili,
che sono collegati al mondo oggettivo. All'uomo non piace riconoscere
che è stato ingannato dalle apparenze, o portato all'errore nei suoi
giudizi; ma gli piace ancor meno riconoscere che i suoi “sentimenti”
sono sbagliati.
Sembra
giusto enfatizzare ancora una volta che lo stato emozionale non
supplisce in se stesso una vera conoscenza dello “stato ontico”.
L'emozione è solo un medium attraverso cui (l'id quo) una tale
conoscenza diventa possibile. La conoscenza risulta da una successiva
riflessione sullo stato emozionale ed il suo “riferimento
oggettivo”. Ci sono analogie a questo nel campo della conoscenza
sensoriale. Una semplice consapevolezza dei sensa,
o dei sensi che sono in qualche modo stimolati [affected,
ndr], non equivale alla
cognizione.
Ad
es., sebbene la minaccia da parte di una potenza infinita,
l'imminenza o, almeno, il possibile annientamento dell'essere
contingente e finito sia “trasmessa” nell'emozione del terrore,
questa implicazione diventa un contenuto della consapevolezza solo
attraverso la riflessione. Quindi niente può essere più di errore
che il rimuovere o anche solamente lo svalutare l'importanza della
ragione per l'uomo, che governa la sua vita e perfeziona la sua
personalità. Al contrario, la ragione rimane l'unica luce che guida
che ci rende in grado di vedere le cose come esse sono, la loro
natura universale, e di concepire gli intenti e gli obiettivi da
raggiungere con la nostra volontà.
Un'ulteriore
questione dev'essere presa brevemente in considerazione. Potrebbe
sembrare, a prima vista, come se parlando di un “aspetto cognitivo”
degli stati emozionali venisse suggerita una nuova forma di
cognizione che non potrebbe trovare posto nel sistema della
psicologia tradizionale. Sembra come se fosse postulata una facoltà
cognitiva di cui la teoria generalmente accettata è ignorante.
Questa impressione, però, si fonda su di un malinteso. Non solo il
punto di vista sostenuto in questo articolo non introduce alcuna
nuova facoltà dell'ordine cognitivo, ma esso può essere sostenuto
in modo coerente solo se le nozioni sulle facoltà della natura umana
sono mantenute proprio come vengono insegnate dalla psicologia
tradizionale.
Le
emozioni (o le passiones
animae) sorgono – secondo
l'interpretazione tradizionale – come correlati dei movimenti degli
appetiti sensoriali. Questi appetiti vengono stimolati dalla
consapevolezza dei beni o dei mali, concepiti nell'oggetto
particolare o nella situazione che l'individuo sta attualmente
affrontando. Questa consapevolezza è il risultato della potenza
cogitativa (vis cogitativa).
Tale senso interno, quindi, è la facoltà che media la cognizione
implicata nell'emozione. È stato dimostrato altrove (si veda la nota
1) che la valutazione è un'azione della vis
cogitativa. Ogni
apprensione sotto l'aspetto della bontà poggia sull'attività di
questa facoltà. Questa è stata trascurata ed alcuni autori sono
stati costretti da questa incuria a costruzioni piuttosto
imbarazzanti, come, ad es., l'accreditare le facoltà appetitive di
una capacità cognitiva.
Un
qualche dubbio potrebbe prevalere riguardo le origini della
consapevolezza del valore di sé. È poco probabile che un senso,
anche uno dei sensi interni, sia in grado di rendere la persona
stessa un oggetto della cognizione. Tuttavia, questo problema non
diverge in alcun modo da quello della consapevolezza dell'esistenza
individuale.46
Prima
di riassumere i punti di vista suggeriti, a titolo di prova, sembra
raccomandabile sottolineare che il ruolo delle emozioni così come
considerato non è l'unico che questi stati mentali giocano
nell'economia totale della vita dell'uomo e nelle sue relazioni con
il non-io. Le emozioni realizzano diversi altri compiti.
Una
conoscenza dei valori attraverso gli stati emozionali, accreditandoli
di “intenzionalità”, è una finzione, forzata da alcuni filosofi
e psicologi dalla loro incapacità di considerare diversamente
l'apprensione dei valori. Qui la nozione della vis
cogitativa occupa un posto
importante che è lasciato vuoto dalle moderne concezioni
psicologiche. Il fatto, però che le emozioni come tali non siano
l’id quo i valori sono conosciuti non impedisce loro
dall'esercitare un'enorme influenza sui nostri atteggiamenti nei
confronti dei valori. C'è un'influenza reciproca (che procede avanti
ed indietro, così per dire) delle emozioni ed i movimenti correlati
degli appetiti sensitivi da una parte, e l'azione della vis
cogitativa dall'altra.
L'aspetto del valore delle cose appreso da questa potenza rilascia un
movimento desiderativo, e l'emozione corrispondente,
alternativamente, rende la facoltà cognitiva più sensibile
all'oggetto di valore. Sebbene i valori possano essere riconosciuti
senza una conseguente risposta emotiva, non c'è dubbio che questi
valori siano appresi con maggior chiarezza se una tale risposta ha
luogo. Di questo fatto, una spiegazione potrebbe essere data nei
termini dei punti di vista suggeriti qui. Tuttavia, una discussione
su questo punto è meglio riservarla per un altro luogo.
Secondariamente,
le emozioni agiscono sugli appetiti come fattori di rinforzo. Non è
forse possibile parlare in modo generico della priorità
dell'emozione e dei movimenti degli appetiti come fenomeni consci.
Apparentemente, ci sono occasioni in cui la mente è conscia prima di
una emozione e quindi di qualche desiderio, che allora si dice essere
condizionato dallo stato emozionale; e ci sono occasioni in cui la
sequenza sembra essere opposta, il desiderio o brama47
sorge per primo, e l'emozione segue.
In
quest'ultimo caso, l'emozione è certamente sperimentata come un
rinforzo del movimento desiderativo. Questa sembra essere anche la
principale funzione dell'emozione. Essa agisce, se un tale paragone
sembra possibile, come una valvola di rinforzo in un apparecchio
radiofonico.
Le
correnti deboli che arrivano nella parte ricevente dell'apparecchio
(l'antenna) vengono rinforzate così da poter causare delle
vibrazioni udibili nella parte afferente, ad es., l'altoparlante. Le
emozioni allo stesso modo sono difficilmente il motivo agente che
determina l'azione o il comportamento (con l'eccezione, certamente,
delle forme puramente espressive del comportamento). Le cause
dell'azione sono i valori come appresi nel mondo oggettivo o nel
non-io. Ma questi valori, come appresi, di solido possiedono una
forza dinamica troppo piccola per rilasciare un qualche tipo di
energia d'azione. La loro efficacia deve essere resa più grande
dall'intervento, o dall'inserimento, delle emozioni. Questo è
particolarmente vero dei valori che devono essere appresi come
qualcosa di più che una reazione ad una semplice piacevolezza.
Alcuni
autori, tra cui M. Scheler e N. Hartmann meritano di essere
menzionati, sostengono che più alto sia un valore minore diventi la
capacità di determinare il comportamento. Questo è vero in senso
descrittivo, ma non dice nulla, come questi filosofi sostengono,
sulla natura dei valori più alti, o per questa questione, su alcun
valore. Infatti, per quanto rari siano tali casi, sappiamo di persone
a cui un valore come la verità teoretica attrae tanto fortemente
quanto i valori sensoriali attraggono la maggioranza delle
personalità comuni. Ancora rari, ma più numerosi dei casi riportati
prima, sono coloro che reagiscono con notevole intensità agli alti
valori morali, persone per cui la sofferenza delle loro amate
creature “significa di più” che la più grande opera d’arte o
il più intenso piacere sensoriale, o anche la gratificazione della
vanità.
Dal
momento che le eccezioni non confermano, ma piuttosto invalidano ogni
regola, possiamo sicuramente sostenere che non c’è una regola che
sostiene l’inutilità dei valori più elevati. Non sono i valori
più alti che sono inutili, è la persona umana che è indifferente.
Queste, ovviamente, sono affermazioni completamente differenti:
l’efficacia dei valori più alti è negata, non in modo assoluto,
ma solo in alcuni casi (non simpliciter, ma solo secundum
quid).
Alcune
persone che hanno sviluppato una comprensione particolarmente
profonda dei valori possono agire in accordo con questa sola
comprensione, senza che intervenga l’emozione. Ma questi sono casi
eccezionali. La persona comune reagisce ai valori solo se un’emozione
corrispondente di forza sufficiente viene suscitata. Pertanto è
davvero desiderabile che le emozioni vengano considerate
nell’educazione, ma è un errore rendere lo sviluppo della vita
emozionale come un traguardo dei provvedimenti educativi.
L’ultimo
aspetto importante delle emozioni è senza dubbio quello che è stato
considerato fondamentale dai filosofi più o meno orientati in modo
naturalistico, l’aspetto ossia che connette l’emozione con lo
stimolo o le situazioni che incoraggiano o mettono in pericolo la
vita. Questo può essere vero in alcuni casi, può essere vero in
particolare per le bestie, ma non è vero in modo assoluto e generale
per l’uomo. Molti degli stati emozionali dell’uomo non hanno un
collegamento diretto con la conservazione o con il mantenimento della
vita. Una tale relazione deve essere costruita, e di solito è
costruita sulla base delle nozioni evoluzionistiche. Se una tale
spiegazione funzioni o meno, non c’è bisogno che sia indagato qui.
Dal punto di vista della psicologia descrittiva, almeno, non vi è
quasi alcuna indicazione di una tale connessione.
Per
riassumere brevemente le principali idee presentate nelle pagine
precedenti: si sostiene che le emozioni rendano evidente alla mente
lo “stato ontico” dell’uomo, ossia, il posto che occupa
nell’ordine dell’essere. Questa conoscenza, in quanto mediata
dall’emozione, è irriflessa e giunge a chiarezza e certezza solo
attraverso la riflessione sulla totalità della situazione emozionale
quando, conseguentemente, l’intelletto si è focalizzato su questa
situazione. L’aspetto cognitivo dell’emozione non appartiene
all’emozione in quanto tale ma alla potenza cogitativa, le cui
apprensioni rilasciano lo stato emozionale. L’oggetto proprio di
questa apprensione è il lato valoriale dell’essere. I valori non
sono appresi semplicemente come questo o quel valore, ma sempre e
necessariamente come valori di questa o di quella grandezza. Un bene
di ordine inferiore non è colto come il bene più alto possibile,
anche se nessun bene maggiore sia stato ancora sperimentato. Con
questa connotazione del posto occupato da un dato valore esistono
analogie anche in altri campi dell’esperienza.
L’emozione,
però, non semplicemente rivela l’aspetto valoriale di un oggetto o
di una situazione. Questo viene fatto concretamente dalla vis
cogitativa, sia che
consegua una risposta emozionale sia che non consegua. Le emozioni
sono state definite come “meramente soggettive”. Questo non è
vero, in quanto hanno qualche tipo di “riferimento oggettivo”. È
vero, però, in quanto come stati emozionali rivelano la relazione
particolare del soggetto con l’ordine dei valori e così con il
valore proprio del soggetto.
L’uomo
è in grado di raggiungere una visione del suo “stato ontico”
anche attraverso il semplice ragionamento senza che le emozioni
necessariamente intervengano. L’emozionalità di una consapevolezza
immediata o sperimentale è, certamente, molto più grande. In questo
giace una parte dell’importanza che una vita emozionale ben
sviluppata ha per il dispiegarsi della personalità. La semplice
emozione, un semplice abbandono negli scompigli emozionali, senza che
si aggiunga l’attività chiarificatrice dell’emozione, è più
dannosa che buona. Per quanto l’emozione possa essere importante, è
ancora la luce della ragione che si dimostra l’unica guida
affidabile.
Le
emozioni, come rivelatrici dello “stato ontico”, indicano
principalmente la finitudine della natura umana. Se quello che esse
rivelano viene correttamente compreso, l’uomo diventa più conscio
della sua posizione come creatura, come essere finito e contingente.
Allo stesso tempo, è sollevato dall’idea depressiva che la
conoscenza della finitudine, della contingenza e dell’assoluta
dipendenza può indurre. Egli quindi realizza che in nessun luogo la
sua posizione è stata meglio definita che nelle parole del Salmo
Ottavo: “Cos’è l’uomo?”. L’uomo è niente; egli non è
degno che Dio si ricordi di lui. Eppure è stato fatto poco meno
degli angeli. La sua posizione è così alta nell’ordine degli
esseri creati che quasi raggiunge il livello della natura angelica.
Mentre
le emozioni depressive e, comunemente parlando, negative rivelano
all’uomo la sua nullità, il suo vero “non essere” – in
confronto all’Essere Stesso – le altre emozioni lo rassicurano
sul suo valore. Il terrore, minacciando l’annichilimento e
rivelando la sua intrinseca possibilità, vigorosamente evidenzia
all’uomo la sua finitudine, il limite, il suo essere niente,
sebbene egli sia qualcosa. Ma l’amore, e tutte le altre emozioni
che rivelano all’uomo la sua capacità di valere, la sua
possibilità di crescita, e l’indistruttibilità del suo valore,
nonostante il riconoscimento di valori più grandi di quelli che lui
può chiamare suoi, queste emozioni significano non solo
arricchimento di vitalità, non solo gioia e piacere, ma anche il
lieto riconoscimento dell’ordine dei valori al cui interno l’uomo
occupa, paradossalmente, un posto così importante.
Rudolf
Otto, nel suo libro sul Sacro,
parla dei vari aspetti della natura Divina: Dio come il mysterium
tremendum, il mysterium
fascinosum, e così via. La
speculazione razionale può infatti condurci a simili concezioni. Ma
noi trepidiamo non semplicemente perché sappiamo che c’è una
ragione per tremare, e non amiamo semplicemente perché sappiamo che
c’è una ragione per amare. La nostra fede può essere
intellettualmente perfetta, eppure essere “fredda”. La
convinzione razionale può essere sufficiente alla volontà per
determinare se stessa nei confronti di un atto di fede e
dell’obbedienza alla legge divina. La ragione può anche
convincerci della finitudine della nostra natura e dell’esistenza
di Dio. La ragione, così, può contribuire anche alla conversione. E
la fede necessita di non essere meno forte, la convinzione di non
essere meno radicata, la volontà di obbedire ai comandamenti non
meno efficace, per ogni mancanza della risposta emozionale.
L’emozione non è una conditio
sine qua non per la vita
religiosa. Se così fosse, non potrebbe essere garantita alcuna
costanza ed alcuna continuità a questa vita, dal momento che le
emozioni dipendono da così tanti fattori al di là di ogni controllo
della volontà cosciente.
D'altra
parte, una vita emozionale ben sviluppata può contribuire molto
all'approfondimento degli atteggiamenti religiosi. Non è vano, ad
esempio, che il dono delle lacrime sia elencato tra le grazie
particolari accordate da Dio ad alcune persone elette. E neppure non
è senza profondo significato che i santi siano, comunemente
parlando, tanto grandi nei riguardi delle loro risposte emozionali
quanto di altre azioni. La gioia poetica di San Francesco di Assisi,
l'originale brio di San Filippo Neri, l'amore ardente per i poveri e
per i sofferenti caratteristica così universale delle personalità
dei santi, come molti altri tratti noti nell'agiografia, necessitano
solo di essere menzionati per rendere evidente la stretta relazione
tra una vita perfetta ed una capacità per una solida risposta
emozionale.
La
risposta emozionale, però, è solida quando è “giustificata”,
ossia, proporzionata alla situazione oggettiva a cui risponde. Un
semplice culto dell'emozionalità, come fine a se stesso, causerà
più danno che bene nel cammino verso la vita perfetta. Anche
l'emozione, al di là della sua importanza, della sua spontaneità,
della sua carica, deve essere soggetta al controllo delle facoltà
razionali. Non è l'emozione stessa che decide sulla sua giustezza o
erroneità. Un tale giudizio viene approvato solo dalla ragione. Qui
come altrove è alla retta ragione che appartengono i giudizi ultimi,
ed è alla buona volontà che compete l'esecuzione.
1
R. Allers, “The Vis
Cogitativa and Evaluation,” The
New Scholasticism, XV (1941), p. 195
(tr. It. “La Vis Cogitativa e la valutazione” in
Psicologia e Cattolicesimo, Giugno 2013, cfr.
http://www.psicologiacattolicesimo.blogspot.it/2013/06/la-vis-cogitativa-e-la-valutazione-di.html)
2
Per una critica della filosofia dei valori di Perry, cf. H. E. Cory,
“Value, Beauty and Professor Perry”, The Thomist, IV
(1942), 1.
3
Halle a. S.: M. Niemeyer, 1916. Apparso prima nel Jahrbuch für
Philosophie und phaemomenologische Forschung di Husserl [in
italiano, San Paolo, Milano 1996; oppure: Bompiani, Milano 2013, con
testo tedesco a fronte].
5
G. E. Moore, Principia ethica.
6
Il concetto dell’angoscia, 2007, editore SE, Milano. La
malattia mortale, 2008, editore SE, Milano.
8
Essere e Tempo, 1929, tr. It. Mondadori, Milano, 2011. Cos’è
la metafisica?, 1929, tr. it. Adelphi, Milano, 2001.
9
Heidegger è eccessivamente difficile da leggere, anche per chi ha
una perfetta familiarità con la lingua tedesca. Gli articoli
pubblicati da W. H. Cerf, “An Approach to Heidegger”, e da W. H.
Werkmeister, “An Introduction to Heidegger’s Existential
Philosophy”, Philosophy and Phenomenological Research, I
(1940), 177, and II (1941), 79, sono utili per una prima
comprensione.
10
La modalità di Heidegger di utilizzare la lingua tedesca è
peculiare e spesso arbitraria. Conferisce nuovi ed insoliti
significati ad alcuni termini e ne conia di nuovi. Qualche volta
l’uso che fa delle parole getta una luce inaspettata su
significati che abitualmente vengono ignorati. Ma qualche altra
volta il lettore difficilmente può evitare la sensazione che molte
delle frasi di Heidegger, specialmente di carattere ontologico,
siano in verità solo miscugli del linguaggio. Questo diviene
evidente ogni volta che si tenta di tradurre le idee di Heidegger in
una lingua diversa dal tedesco. Allora le affermazioni che presenta
come ovvie diventano più che discutibili. Werkmeiester,
nell’articolo menzionato nella nota (9), esprime un punto di vista
simile.
Si è tentati di chiedersi perché e come un
filosofo di indubbia capacità, spassionatamente interessato ai
problemi dell’essere, debba fare così tanto affidamento su di una
evidenza così marginale come è il significato delle parole. Questo
può essere parzialmente spiegato ricordando che Heidegger è il
pupillo di Husserl. Quest’ultimo crede che ogni modalità di
esperienza appartenga e corrisponda ad un modo di essere, almeno nel
senso di esse intentionale. Quale possa essere stata la
concezione ontologica fondamentale di Husserl non è un problema di
questa discussione.
L’altra ragione, che può essere assunta
con un buon motivo, deve essere trovata all’interno dello sviluppo
e del lavoro dello stesso Heidegger. Uno dei suoi primi scritti,
quello grazie a cui ha ricevuto la venia legendi in
filosofia, ha a che fare con il linguaggio. Il titolo è Die
Kategorien und Bedeutungslehre des Duns Scotus (Tubingen Mohr,
1916). Il tema è un’analisi della Grammatica Speculativa,
un trattato che figura tra gli scritti di Duns Scoto, ma il cui
autore, come M. Grabmann fu in grado di dimostrare, è Tommaso di
Erfurt (Thomas Erfordiae) del quattordicesimo secolo (Grabmann,
Mittelalterliches Geistesleben, Vol I. Munich: M. Hueber,
1926). Incidentalmente, Grabmann menziona un fatto che può servire
come spiegazione per l’errore di attribuzione. Tommaso era rettore
i un convento apud Scotus ad Erfurt, e così lui stesso
divenne Scotus. Curiosamente, Heidegger ha ignorato questa
connessione.
I trattati De Grammatica Speculativa o
De Modis Significandi contengono un riferimento alla stretta
corrispondenza tra modi di essere, di comprendere, e di esprimersi.
Questa idea è mantenuta anche dagli autori che, attraverso la loro
adesione al nominalismo e, di conseguenza, alla visione che le
parole siano segni arbitrari (signa ad placitum) – mentre i
concetti sono segni naturali (signa naturalia) – devono
abbandonare la stretta corrispondenza tra i concetti o i loro modi,
e le parole.
L’abitudine piuttosto singolare di
Heidegger di trattare un’ambiguità nelle parole come se si
riferisse necessariamente a un duplice fatto ontologico, e la sua
abitudine di creare molti idiomi e molte particolarità del
linguaggio, può essere ricondotta alle idee di cui fu imbevuto
quando studiava il trattato di Thomas Erfordiae. Questo è molto
probabile poiché avendo a che fare completamente con “Scotus”
tenta di modernizzare il più possibile le nozioni medievali. Scopre
strette somiglianze tra i punti di vista dell’autore medievale ed
alcune idee moderne, in particolare Husserliane. Così, la fusione
di una delle sue fondamentali intuizioni filosofiche con la
concezione modista, sembra costituire una spiegazione non
improbabile.
11
Questa e molte delle seguenti citazioni riassumono brevemente uno
studio maggiormente dettagliato che il sottoscritto ha pubblicato
anni fa. “Zur Phaenomenologie und Metaphysik
der Angst”, Religion und Seelenleben,
VII (1932) 157-165. (Proc. of the Section of Psychology,
Deutscher Kathol. Akademikerverband).
12
Non è inutile osservare le espressioni utilizzare dai vari
linguaggi per fatti così fondamentali come la disperazione. Il
latino, certamente, è la fonte della parola Inglese e Francese, ed
anche di quella Italiana o di qualsiasi altra lingua romanza. Il
Greco possiede diversi termini, uno che semplicemente significa
“perdita di speranza”, ma due che forse sono particolarmente
caratteristici della mentalità Greca. Essi riferiscono infatti
dell’incapacità di comprendere (),
o l’insolubilità della situazione ().
Il termine Tedesco, però, è Verzweifelung, che implica la
nozione di doppio (zwei) e di dubbio (Zweifel), e così
indica che nella disperazione non c’è alcuna soluzione possibile,
che ogni dubbio sull’esito è risolto, che il terribile evento o
stato è divenuto irrevocabilmente reale. Che questo sia un aspetto
della disperazione non sfugge all’Aquinate, che dice che la
disperazione, eccedendo la misura della paura (mensura timoris),
si verifica quando non c’è chance che avvenga qualsiasi
cambiamento. Ma la psicologia popolare, o la mentalità prevalente
delle persone, evidentemente ha percepito differenti caratteristiche
specifiche un po’ qui ed un po’ lì.
13
Wesen und Formen der Sympathiegefühle,
2d ed. Bonn: Cohen, 1923 [tr. it. Essenze e forme della
simpatia, Città Nuova, Roma, 1980].
14
Riportata tra i lavori di S. Alberto, ma, nei fatti, come M.
Grabmann ha dimostrato, di Giovanni di Kastl, un Benedettino che
scrisse alla fine del quattordicesimo secolo o nei primi anni del
quindicesimo. Mittelalterliches Geisteslaben, Vo. I. Munich:
M. Heuber, 1926, pag. 489-525.
15
M. Scheler, op. cit., nota (12); R. Allers, Psychologie
des Geschlechtslebens, Munich, Reinhardt, 1922, anche in:
Handbuch der vergleichenden Psychologie, ed. G.
Kafka, vol. III, ibid.
16
Sull’istinto si veda: K. Goldstein, The
Organism, New York, Amer Book Co.,
1939; e dello stesso autore: Human
Nature in the Light of Psychopathology,
William James Lectures, Cambridge, Mass. Harvard University Press,
1940. Inoltre Bierens de Haan, Der
Instinkt, Leiden, 1940.
17
Per un’analisi completa e penetrante della compassione, si veda il
lavoro di Max Scheler citato nella nota (12).
18
Esistono pochi studi sul disgusto. L’articolo di G. Kafka: “Zur
Psychologie des Ekels”, Zschr. Ang. Psych., XXXIV (1929),
1, merita di essere menzionato, sebbene la teoria ivi proposta –
ossia che il disgusto sia ultimamente collegato e radicato nella
sessualità – sia inaccettabile. Cf. J. Hirsch, Ekel und
Abscheu, ibid., 472.
19
È davvero necessario sottolineare che la profondità a cui ci si
riferisce qui non ha nulla a che fare con la profondità di cui “la
psicologia del profondo” si vanta. La profondità di cui parla
questa psicologia, ad es. la psicoanalisi, è della stessa natura
della profondità della conoscenza. Gli “strati” che la
psicoanalisi considera come la costruzione della personalità umana
sono concepiti nei termini della scienza e non dell'esperienza.
20
Si può essere d'accordo con la pretesa avanzata dal “Circolo di
Vienna” in un pamphlet programmatico che dichiara le intenzioni
generali del gruppo: “La scienza”, essi scrivono, “non conosce
profondità; si mantiene decisamente alla superficie del fenomeno”.
La scienza, nel senso stretto in cui questo termine viene usato, può
non essere certamente in grado di penetrare al di sotto della
“superficie”. Ma quest'affermazione ha un significato filosofico
solo se prima si assume che la conoscenza esiste solo grazie ed
attraverso la scienza. Tale affermazione, però, non appartiene essa
stessa alla scienza ma alla filosofia. Un pensatore che rinnega alla
scienza, giustamente, la capacità di vedere al di sotto della
superficie e allo stesso tempo sostiene che la scienza sia l'unica
forma legittima di conoscenza, commette un serio errore logico, e
parla di cose di cui, secondo il suo stesso principio, non può
sapere nulla.
21
Questo spiega il perché così tante persone abbiano una precisa
avversione per ogni tipo di emozione profonda e si affannano per
fuggire ogni situazione che potrebbe avere come esito una modifica
vera e profonda del loro essere. Esse sono mortalmente spaventate
dall'incontrare se stesse. Kierkegaard ha fatto alcune osservazioni
veramente pertinenti anche su questo argomento. I mezzi attraverso
cui vengono evitate tali esperienze sono molteplici. Descriverli è
il compito della psicologia, o dell'antropologia. Quanto meno
qualcuno è sicuro di essere una persona vera o di possedere un vero
valore, quanto più si sforzerà di sfuggire la “discesa verso
l'inferno dell'auto conoscenza”, per usare un'espressione con cui
Kant ha dato il nome a quello che lui credeva fosse la condizione
necessaria per ogni ascesa verso una conoscenza superiore o forma di
esistenza.
22
Gorgia, 494b; si veda anche Timeo, 64a 65b;
Aristotele, Etica Nicomachea, VII, 14, 1154a25 ff. Solo tali
teorie si ritiene che abbiano una relazione con i particolari
problemi in discussione.
25
E. L. Thorndike, “A Pragmatic Substitute for Free Will”. Essays
in Honor of W. James, New York, 1908,
pag. 588. La natura tautologica di questa “definizione” è
stata sottolineata, ad esempio, da H. Cason, “The Pleasure Pain
Theory of Learning”, Psychologica Review, XXXIX (1932),
440.
26
Aver trascurato consistentemente questi fatti è uno degli errori
più seri che compiono gli psicoanalisti. Essi considerano il
piacere da soddisfazione, come equivalente al raggiungimento di uno
scopo istintivo, l'unica forma di piacere. Cf. i commenti del
sottoscritto su questo punto, The Successful Error, New York,
1940, Sheed and Ward, p. 137.
27
Questa caratteristica può essere assente nei sentimenti semplici,
specialmente di tipo sensoriale. Ma le emozioni sono modi della
persona, nonostante i loro riferimenti a fatti o situazioni og
gettive.
30
A. Willwoll, Seele und Geist,
Freiburg i. B., Herder, 1938, pag. 119; G. Stieler, “Die
Emotionen”, Arch. f. d. gesamte
Psychologie, 1925, L, 343.
32
E. Husserl, Ideen zu einer reinen
Phaenomenologie und phaenomenologischen Philosophie,
Halle, a. S., M. Niemeyer, 1913, pag. 81.
34
G. M. Stratton, “Excitement as Undifferentiated Emotion”,
Symposium On Feeling and Emotions,
ed. C. Murchison, Worcester, Mass., 1928, Clark University
Press.
35
Molti anni fa il sottoscritto ha descritto tali disturbi di
“autotopognosia”. L’immagine del proprio corpo, come una
cornice di riferimento per la consapevolezza della nostra postura,
ecc., è stata chiamata, da altri, lo “schema corporeo”. R.
Allers, “Uber Storungen der orientierung am eigenen Korper”,
Zentralblatt f. Nervenheilkunde,
1909.
36
Recentemente R. Honigswald ha sottolineato l’importanza del fatto
“io so che io so” e dell’indefinito prolungamento di cui
questa affermazione è capace. Certamente, non c’è un regresso
infinito, perché l’ “io so” è ad ogni passo lo stesso. Cf.
Prinzipien der Denkpsychologie, 2° ed., Leipzig, Teubner,
1928.
37
Sembra possibile costruire, utilizzando questi ed altri criteri di
valutazione, una dimostrazione “assiologica” dell'esistenza di
Dio. Tale tentativo è stato fatto da M. Scheler, Der Formalismus
in der Ethik und die materiale Wertethik, Halle a. S., Niemeyer,
1916. Le speculazioni di questo filosofo, però, sono guastate dalla
sua non comprensione delle idee di sommum bonum e di ens
realissimum. Egli infatti argomenta che la riflessione
assiologica conduce alla nozione di sommum bonum, mentre la
speculazione metafisica termina con il concetto di ens
realissimum, ma che non ci sia un'evidenza convincente, da
trovarsi nella ragione, per l'identità delle due nozioni. La
mancanza di chiarezza in questi punti spiega in qualche modo il
perché Scheler, successivamente, sia giunto alla concezione
impossibile di un Dio in divenire; Die Stellung des Menschen im
Kosmos, Darmstadt, 1929, Reichel.
38
I fatti a cui si allude, per quanto il sottoscritto può verificare,
sono stati sottolineati per primo da J. Pikler in un numero di
Schriften zur Anpassungtheorie des Empfindungsvorganges,
specialmente quello in cui si discute la legge di Weber, Leipzig,
1919-1929, Barth. Si veda anche Ch. Hartshorne,
Philosophy and Psychology of Sensation,
Chicago, 1934, University of Chicago Press; J. P. Ledvina, A
Philosophy and Psychology of Sensation, with Special Reference to
Vision, Washington, D. C., 1941,
Catholic University of America Press. Apparentemente senza
essere influenzato dai pochi psicologi che hanno tali punti di
vista, D. W. Pratt ha sviluppato un’interpretazione simile delle
sensazioni, specialmente nel campo dell'udito. Si veda il suo
Aesthetic Analysis, New York, 1936, Cromwell.
39
Questi principi ultimi non possono essere discussi qui. Sebbene si
possa non essere d'accordo con le affermazioni che compie in tutti i
passaggi, i riferimenti di M. Scheler a riguardo, nel suo grande
lavoro sull'etica, meritano pienissima attenzione.
40
Le idee presentate in questo articolo hanno una certa somiglianza,
come il sottoscritto ha scoperto mentre stava ultimando il suo
scritto, ai punti di vista di H. Guthrie, Introduction au
problème de l’histoire de la philosophie, Parigi, 1937,
Alcan. La somiglianza, che il sottoscritto percepisce, è più
apparente che reale. Le concezioni ontologiche del Dot. Guthrie non
possono essere affrontate qui. Sarebbe necessaria un’attenta
analisi per giungere ad una chiarezza sufficiente nei riguardi della
nozione del Dot. Guthrie di una priorità del valore in quanto posta
contro quello che lui chiama l’approccio matematico-logico in
filosofia. Nel presente contesto, dobbiamo trattare esclusivamente
l’aspetto cognitivo delle emozioni e l’ontologia solamente per
quanto alcuni riferimenti alla metafisica possano aiutare a
comprendere meglio le ragioni del perché gli stati emozionali
giochino un ruolo così importante nella piena comprensione della
situazione “ontica” dell’uomo.
41
Da un’ulteriore riflessione, sembra essere necessariamente così.
La valutazione essendo il risultato della vis cogitativa, che
non solo co-opera nel configurare la forma finale della
consapevolezza sensoriale e il fantasma ma, come ratio
particularis, è un fattore essenziale in tutte le azioni
particolari, è il vero perno dell’atteggiamento e del
comportamento. Le sue azioni cognitive, quindi, non possono che
essere al vertice di tutti gli atteggiamenti nei confronti della
realtà.
42
I fatti riportati sopra costituiscono, come fra parentesi può
essere sottolineato, un'obiezione che non può incontrarsi in
qualsiasi teoria che rende i valori, nella loro cognizione ed
esistenza, dipendenti dalle emozioni. Se fosse l'emozione stessa a
costituire il valore, il fatto di una emozione “ingiustificata”
non potrebbe essere osservato.
Potrebbe essere che la gioia che una persona
prova, eventualmente a causa della sconfitta del suo nemico,
differisca nel tipo di gioia che la stessa persona percepisce quando
incontra il suo amato. L'esistenza di una tale differenza
qualitativa può essere ammessa in considerazione della stretta
correlazione tra le parti oggettive e soggettive nei fenomeni
mentali. Ma questa non è la questione. La questione è piuttosto se
l'individuo, mentre fa esperienza di una tale gioia, sia consapevole
della differenza. Che questo non sia il caso lo si può supporre da
molte osservazioni ed anche dalla mancanza di un vocabolario
corrispondente.
Il giudizio che altri, o eventualmente, il
soggetto stesso può pronunciare su di una tale emozione
“ingiustificata” non si fonda su di un'altra emozione. Se ci
sentiamo scontenti perché abbiamo reagito in un modo
ingiustificato, ci sentiamo in questo modo a causa del giudizio che
abbiamo formulato sul nostro comportamento. Ma il giudizio non si
basa su di una seconda emozione.
Queste considerazioni, incidentalmente, hanno
attinenza con la questione grandemente discussa del ruolo delle
emozioni e della loro educazione. Sviluppare l'emotività, o la
capacità delle reazioni emotive, fare attenzione alle emozioni del
bambino, è giusto solo se, allo stesso tempo, si fa attenzione che
le emozioni sorgano in occasioni che giustifichino una tale
reazione. Non ha senso sviluppare, ad. es., una capacità di
entusiasmo se la mente non è diretta verso le cose che meritano
entusiasmo.
Le reazioni estetiche senza un senso educato
ed una comprensione della vera arte non hanno valore.
Dal momento che l'uomo facilmente reagisce in
modo emozionale a situazioni che, per loro natura, non giustificano
una simile reazione, il controllo è tanto importante quanto lo
sviluppo. Ci sono molte occasioni in cui rimanere fermi è
sbagliato. Ma ce ne sono probabilmente non di meno in cui reagire in
modo emotivo è ingiustificato, o che richiedono un altro tipo di
risposta emotiva rispetto a quella che una mente non educata è
probabile che fornisca.
43
A. v. Meinong ha tentato di superare una simile difficoltà
terminologica. Egli usa il nome di “oggetto” per il correlato
intenzionale della percezione, e il nome di “oggettivo” per il
correlato dei giudizi (das Objectiv). Agli stati orectici
corrisponde il “desiderativo”, ed alle emozioni, come è stato
sottolineato prima, il “dignitativo”. Dal momento che la teoria
della “presentazione emotiva” dei valori sembra inaccettabile al
sottoscritto, non gli è possibile adottare i termini di Meinong. Ma
il tentativo del filosofo Austriaco merita di essere ripetuto. Una
buona quantità di incomprensione probabilmente potrebbe essere
evitata, se “oggetto” non fosse usato indiscriminatamente per le
cose sensate e per la relazione appresa intellettualisticamente, tra
i termini (Sachverhalte), ed in molti altri modi. Neppure l’
“esistenziale” di Heidegger può essere utilizzato, a causa
delle connotazioni particolari che questo termine possiede in quel
sistema filosofico. La conoscenza mediata dall’emozione, come
interpretata qui, non si riferisce a “tratti” o
“caratteristiche” dell’esistenza o all’essere esistente in
sé, ma al luogo che questo essere occupa nell’ordine delle cose
in generale, specialmente visto come l’ordine dei bona. Il
sottoscritto ammette che i suoi tentativi di escogitare un nome
adatto hanno fallito.
44
Uno degli esempi più significativi di questa incapacità di
apprezzare le cose non strettamente del campo speciale dello
psichiatra può essere trovata nel nuovo libro del Dot. G. Zilboorg,
A History of Medical Psychology, New York, 1942, Norton.
Questo autore non esita a qualificare Socrate, tra tutti gli uomini,
uno schizofrenico perché “sentiva le voci”, la voce del suo
daimonion. Fino ad ora noi eravamo soliti vedere gli
psichiatri naturalisti parlare degli stati nevrotici e psicotici dei
santi; ora i filosofi stanno subendo anch’essi la loro diagnosi.
Tuttavia, deve essere evidenziato che non tutti gli psichiatri,
anche se sono lontani dal dire di credere in cose soprannaturali,
commettono tali errori stupidi e superficiali. Il famoso psichiatra
Francese P. Janet, per esempio, ha riconosciuto che nessuna
personalità isterica può sviluppare il carattere e neppure essere
responsabile dei risultati di cui la vita di Santa Teresa di Gesù
dà testimonianza.
45
È decisamente necessario evidenziare che “perfezione” come è
utilizzato qui si riferisce esclusivamente allo stato di pieno
sviluppo. Una cosa è perfetta se essa è tutto ciò che può essere
secondo la sua natura. Non ci si propone, ovviamente, alcune
connotazione morale.
46
Qualsiasi altra dettagliata discussione sull'origine della nostra
conoscenza di noi stessi viene qui esclusa. Una tale discussione
significherebbe un'analisi completa dei molti fattori che sono stati
accreditati alla possibilità di fornire alla mente una tale
conoscenza. La somesthesia principalmente è stata
riconosciuta responsabile, sebbene ci siano diverse ragioni che
scoraggino una tale teoria. Per le finalità previste in questo
articolo è sufficiente sottolineare che una conoscenza del valore
di sé non è in alcun modo più misteriosa – che non significa
che non ci sia alcun mistero coinvolto – di una conoscenza della
propria esistenza. Forse è un fatto definitivo, non suscettibile di
ulteriori analisi o delucidazioni, che l'uomo semplicemente conosca
se stesso come esistente ed in possesso di un indubbio valore. Il
problema, allora, diventa non semplicemente come l'uomo conosce la
sua esistenza ed il suo valore, ma come giunge all'opinione sulla
sua esistenza in quanto collegata ad altri esseri esistenti, e sul
suo valore in quanto paragonato all'ordine dei valori, specialmente
dei valori personali. Su quest'ultimo problema le discussioni delle
pagine precedenti, il sottoscritto azzarda a sperare, hanno gettato
una qualche luce.
47
Sarebbe bene se la relazione del “desiderio” nel senso usuale
della parola con il desiderium, come elencato dall'Aquinate
tra le passiones animae, potesse essere chiarificato. Ma
anche questa questione deve essere scartata a causa della lunga
analisi che richiede.
Carissimi,
RispondiEliminainnanzitutto complimenti per l'opera meritoria: si tratta di autore eccezionale anche per chi, come me, è sostanzialmente digiuno di certi temi (sono laureando in giurisprudenza).
Avrei bisogno del vostro aiuto: mi piacerebbe citare nella tesi alcuni passi di questo articolo. Possiedo già "psicologia e cattolicesimo", ma, nello specifico, questo articolo farebbe proprio al mio caso.
Sarebbe possibile riuscire a reperire l'originale?
Vi lascio la mia mail: luigip6@hotmail.it
Scusate la scarsità di dettagli, vi spiegherò tutto in coversazione - mail.
Grazie mille
Buona domenica
Luigi