Sul numero 21 di Études Carmélitaines (pagg. 90-124), Rudolf Allers pubblica L’amour et l’instinct - Étude psychologique. Siamo nel 1936, Allers vive ancora a Vienna ove l'influsso nazionalsocialista inizia a farsi sentire, seppure lontanamente. Trascorreranno ancora due anni prima che Hitler "annetterà" al Terzo Reich quella che fu la capitale dell'Impero Austriaco, lo stesso periodo in cui Allers si trasferirà negli Stati Uniti per insegnare "psicologia metafisica" alla Catholic University of America. L'attenzione di Allers si rivolge ad un panorama culturale che sino a pochi anni prima era immerso nel Cattolicesimo (come egli stesso ci racconta nello studio sulla Leggenda di Freud), e che da alcuni decenni subiva un processo di secolarizzazione e scristianizzazione, nonché l'influsso di gruppi culturali differenti (come l'ebraismo - Sigmund Freud e Viktor Frankl erano ebrei - e il protestantesimo, seppure in misura ridotta - Alfred Adler aderì al protestantesimo proprio a Vienna). Gli studi tomisti compiuti a Milano - che gli avevano permesso di approfondire l'intuizione maturata durante la Prima Guerra Mondiale, ovvero il fatto che la filosofia tomista costituisse il punto di partenza per l'edificazione di una psicologia in sintonia con la filosofia e la Rivelazione - maturano nelle pubblicazioni degli anni trenta, in cui Allers utilizza i principi aristotelico-tomisti per smascherare alcuni presupposti erronei allora imperanti nella cultura specialistica e popolare. La visione psicoanalista, che dopo una iniziale reprimenda stava pian piano imponendosi nel panorama della psichiatria europea, assieme all'espansione delle filosofie positiviste e marxiste, aveva contribuito a creare alcune credenze erronee circa l'amore e la relazione tra i sessi. La principale di esse era l'identificazione dell'amore con l'istinto o, meglio ancora, la supremazia dell'istinto sull'amore. Una concezione fuorviante che, nonostante la denuncia dei cattolici, ha preso sempre più piede nella cultura del dopoguerra, sino a giungere a quella "rivoluzione sessuale" che solamente la teologia del corpo di Giovanni Paolo II ha saputo pienamente analizzare e contrastare. Il presente testo anticipa e si colloca lungo la traiettoria che troverà in Amore e responsabilità (Marietti, 1980) e Uomo e donna lo creò (Città nuova, 1985) pieno sviluppo.
Cosa dunque trattenere oggi di questo testo apparentemente antiquato e embrionale? Molto a mio avviso. Mi permetto di sottolinearne solo alcuni aspetti, il primo dei quali è l'utilità: il brano di Allers è uno studio squisitamente psicologico. Molto spesso, nel parlare di amore ed affettività con i pazienti, mi sono trovato sguarnito di testi specialistici, dovendo fare ricorso o ai libri esplicitamente cristiani (come il celebre Uomo-donna il caso serio dell'amore di Angelo Scola, ed. marietti, 2002) oppure alla letteratura tout-court (fondamentale I quattro amori di C. S. Lewis, Jaca Book, 1990). Ciò crea, però, una frattura tra la realtà e il dato Rivelato: se davvero l'amore è carità, ad esempio, e non solo istinto, ebbene ciò apparirà ad un livello fenomenologico prima ancora che ad uno teorico. Il processo della conoscenza in ambito antropologico, come scrisse Karol Wojtyla nel celebre Persona ed atto, è un processo che muove dall'atto alla persona ovvero dalla concretezza dell'esperienza alla riflessione sull'esperienza, e non vice versa. Dunque L'amore e l'istinto si rivela uno strumento importante: un testo di un professionista che, con gli strumenti a sua disposizione, riesce a dimostrare alcune semplici verità circa "l'amore dei sessi".
Restare nel confine della psicologia, però, non significa coprirsi gli occhi su ciò che c'è all'esterno. Anzi, tutt'altro. Primo perché la psicologia non è una "scienza autonoma", come la contemporaneità tenta di sostenere. Essa afferisce dalla filosofia e ne è una ancilla (le prime righe del testo rimarcano questa continua sottolineatura che Allers propone). Secondo perché la psicologia basa il proprio lavoro non solamente su di una soggettività opinabile, ma su di un'oggettività verificabile. Il fenomeno psichico deriva ed è determinato dal fenomeno oggettivo a cui si riferisce: "Sono l'ordine e l'essenza degli oggetti trans-soggettivi che determinano l'ordine e la qualità dei fenomeni psichici". Troviamo qui un appunto di metodo fondamentale, dal momento che diverse correnti contemporanee ritengono che il soggettivo abbia supremazia sull'oggettivo, come la posizione costruttivista secondo cui persino la realtà non è un a-priori, ovvero un dato pre-esistente, ma una costruzione del soggetto. Tali autori, volendo accentuare l'importanza della soggettività, dimenticano però che la verità è l'insieme di due momenti: il fatto esterno ed il riconoscimento interiore. Entrambi sono fatti, nel senso ampio del termine, ed è bene considerare entrambi. Ancora una volta è necessario tornare a san Tommaso d'Aquino: veritas est adequatio rei et intellectus (Summa Theologiae I, q. 16 a. 1 co.). Allers conclude così: "Chiunque, studiando un problema di psicologia, si limitasse strettamente alla considerazione dei fenomeni soggettivi, cesserebbe di essere uno psicologo nel vero senso della parola".
Il secondo aspetto che mi pare interessante è la considerazione della sessualità. Il desiderio di unione che caratterizza l'amore dei sessi è il veicolo, il segno, l'indicazione per qualcosa d'altro. Di per se stesso, infatti, l'istinto che porta all'unione fisica non produce l'appagamento che promette: "Esaminando i fatti si nota che questa unione, qualunque soddisfazione doni, lascia ancora il desiderio". Poiché il desiderio mira a qualcosa ancora oltre, qualcosa che il semplice "sesso" non dà. "Qualsiasi cosa facciano, gli sposi non possono compenetrarsi, non possono fondersi l'uno nell'altro". Viene qui alla mente il bel testo di José Noriega, Il destino dell'eros (EDB, 2006), in cui l'autore, professore presso l'Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia, analizza alcuni racconti mitici che sottolineano il limite insoddisfacente dell'unione sessuale. Egli, ad esempio, interpreta il mito dell'androgino in questo modo, ovvero riscontrandovi all'origine un desiderio così forte di compenetrare l'amato da richiedere un intervento esterno, divino, affinché la vera unione possa avvenire. Allers dice: "Una coppia è "una caro" (Mat. 19, 6), mai una persona o ens unum". Perché questo avviene? Perché non è l'altro in quanto altro uomo a poter soddisfare il desiderio umano, bensì Dio stesso (pur attraverso la persona della moglie o del marito, ma non riducendosi ad esse). Cesare Pavese lo aveva sintetizzato efficacemente: "Ciò che un uomo cerca nei piaceri è un infinito" (Il mestiere di vivere, Einaudi, 1952, p. 190).
Il ruolo dell'amore e dell'istinto viene argomentato da più punti di vista. Uno di essi è il rapporto tra la forza che tende a prendere per una soddisfazione egoistica, ovvero il puro istinto, e la forza che invece tende a donare, ovvero il puro amore. La tradizione filosofica aveva distinto l'eros dall'agape per sottolineare la direzione opposta delle due tendenze. L'enciclica programmatica di Papa Benedetto XVI, Deus caritas est (LEV, 2005), aveva però spostato l'accento sulla complementarietà piuttosto che l'oppositività delle due forze. Allers riprende tale aspetto, dicendo: "L'amore può nascere sia da una amicizia pura, sia da una semplice inclinazione della carne; ma ogni vero amore tra due persone di sesso diverso è necessariamente composto da sessualità ed affezione spirituale".
Se dunque la sessualità è solamente una espressione dell'affettività umana che ricerca nell'Infinito la propria realizzazione, allora si impone un cambio di prospettiva: non sono i desideri sessuali a plasmare l'affettività e quindi la personalità, bensì sono la personalità e l'affettività che declinano i desideri nell'ambito sessuale. La visione freudiana prevede che l'evoluzione umana si fondi sulla sessualità: "[...] la personalità di un uomo è prefigurata nella sua sessualità; dalla struttura e dall'evoluzione di quest'ultima dipende la sorte dell'intero uomo". Allers propone invece una inversione: "Ci sembra che la relazione debba essere invertita: l'istinto sessuale si conforma, nelle sue manifestazioni, agli atteggiamenti fondamentali della personalità, di cui segue tutte le alterazioni". Nel suo studio sulle Fantasie sessuali & desiderio di autentica affettività (Studi cattolici n° 625, Marzo 2013, pag. 192-193), Roberto Marchesini dà testimonianza di questa inversione di prospettiva: "Nella mia attività clinica ho potuto verificare l’utilità di un metodo alternativo a quello freudiano, secondo il quale le fantasie sessuali sarebbero il soddisfacimento – mascherato sessualmente – di desideri non sessuali (in genere relazionali o affettivi) [...]". "Per Freud, infatti, il nucleo originario dell’uomo è costituito da impulsi irrazionali di tipo sessuale mentre, come emerge chiaramente nei casi sopra descritti, il bisogno fondamentale che chiede soddisfazione è quello di affermazione, ossia di un amore incondizionato".
Ci sarebbero altri punti da segnalare, in particolare le importanti parole legate alla nevrosi che Allers lascia all'ultimo paragrafo. Al lettore l'iniziativa di evidenziarli ed anche proporli sotto forma di commenti. Nel concludere questa breve presentazione, desidero ringraziare la dot.sa Claudia Sisto che ha tradotto l'articolo dal francese e lo ha reso fruibile al pubblico italiano.
Cosa dunque trattenere oggi di questo testo apparentemente antiquato e embrionale? Molto a mio avviso. Mi permetto di sottolinearne solo alcuni aspetti, il primo dei quali è l'utilità: il brano di Allers è uno studio squisitamente psicologico. Molto spesso, nel parlare di amore ed affettività con i pazienti, mi sono trovato sguarnito di testi specialistici, dovendo fare ricorso o ai libri esplicitamente cristiani (come il celebre Uomo-donna il caso serio dell'amore di Angelo Scola, ed. marietti, 2002) oppure alla letteratura tout-court (fondamentale I quattro amori di C. S. Lewis, Jaca Book, 1990). Ciò crea, però, una frattura tra la realtà e il dato Rivelato: se davvero l'amore è carità, ad esempio, e non solo istinto, ebbene ciò apparirà ad un livello fenomenologico prima ancora che ad uno teorico. Il processo della conoscenza in ambito antropologico, come scrisse Karol Wojtyla nel celebre Persona ed atto, è un processo che muove dall'atto alla persona ovvero dalla concretezza dell'esperienza alla riflessione sull'esperienza, e non vice versa. Dunque L'amore e l'istinto si rivela uno strumento importante: un testo di un professionista che, con gli strumenti a sua disposizione, riesce a dimostrare alcune semplici verità circa "l'amore dei sessi".
Restare nel confine della psicologia, però, non significa coprirsi gli occhi su ciò che c'è all'esterno. Anzi, tutt'altro. Primo perché la psicologia non è una "scienza autonoma", come la contemporaneità tenta di sostenere. Essa afferisce dalla filosofia e ne è una ancilla (le prime righe del testo rimarcano questa continua sottolineatura che Allers propone). Secondo perché la psicologia basa il proprio lavoro non solamente su di una soggettività opinabile, ma su di un'oggettività verificabile. Il fenomeno psichico deriva ed è determinato dal fenomeno oggettivo a cui si riferisce: "Sono l'ordine e l'essenza degli oggetti trans-soggettivi che determinano l'ordine e la qualità dei fenomeni psichici". Troviamo qui un appunto di metodo fondamentale, dal momento che diverse correnti contemporanee ritengono che il soggettivo abbia supremazia sull'oggettivo, come la posizione costruttivista secondo cui persino la realtà non è un a-priori, ovvero un dato pre-esistente, ma una costruzione del soggetto. Tali autori, volendo accentuare l'importanza della soggettività, dimenticano però che la verità è l'insieme di due momenti: il fatto esterno ed il riconoscimento interiore. Entrambi sono fatti, nel senso ampio del termine, ed è bene considerare entrambi. Ancora una volta è necessario tornare a san Tommaso d'Aquino: veritas est adequatio rei et intellectus (Summa Theologiae I, q. 16 a. 1 co.). Allers conclude così: "Chiunque, studiando un problema di psicologia, si limitasse strettamente alla considerazione dei fenomeni soggettivi, cesserebbe di essere uno psicologo nel vero senso della parola".
Il secondo aspetto che mi pare interessante è la considerazione della sessualità. Il desiderio di unione che caratterizza l'amore dei sessi è il veicolo, il segno, l'indicazione per qualcosa d'altro. Di per se stesso, infatti, l'istinto che porta all'unione fisica non produce l'appagamento che promette: "Esaminando i fatti si nota che questa unione, qualunque soddisfazione doni, lascia ancora il desiderio". Poiché il desiderio mira a qualcosa ancora oltre, qualcosa che il semplice "sesso" non dà. "Qualsiasi cosa facciano, gli sposi non possono compenetrarsi, non possono fondersi l'uno nell'altro". Viene qui alla mente il bel testo di José Noriega, Il destino dell'eros (EDB, 2006), in cui l'autore, professore presso l'Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia, analizza alcuni racconti mitici che sottolineano il limite insoddisfacente dell'unione sessuale. Egli, ad esempio, interpreta il mito dell'androgino in questo modo, ovvero riscontrandovi all'origine un desiderio così forte di compenetrare l'amato da richiedere un intervento esterno, divino, affinché la vera unione possa avvenire. Allers dice: "Una coppia è "una caro" (Mat. 19, 6), mai una persona o ens unum". Perché questo avviene? Perché non è l'altro in quanto altro uomo a poter soddisfare il desiderio umano, bensì Dio stesso (pur attraverso la persona della moglie o del marito, ma non riducendosi ad esse). Cesare Pavese lo aveva sintetizzato efficacemente: "Ciò che un uomo cerca nei piaceri è un infinito" (Il mestiere di vivere, Einaudi, 1952, p. 190).
Il ruolo dell'amore e dell'istinto viene argomentato da più punti di vista. Uno di essi è il rapporto tra la forza che tende a prendere per una soddisfazione egoistica, ovvero il puro istinto, e la forza che invece tende a donare, ovvero il puro amore. La tradizione filosofica aveva distinto l'eros dall'agape per sottolineare la direzione opposta delle due tendenze. L'enciclica programmatica di Papa Benedetto XVI, Deus caritas est (LEV, 2005), aveva però spostato l'accento sulla complementarietà piuttosto che l'oppositività delle due forze. Allers riprende tale aspetto, dicendo: "L'amore può nascere sia da una amicizia pura, sia da una semplice inclinazione della carne; ma ogni vero amore tra due persone di sesso diverso è necessariamente composto da sessualità ed affezione spirituale".
Se dunque la sessualità è solamente una espressione dell'affettività umana che ricerca nell'Infinito la propria realizzazione, allora si impone un cambio di prospettiva: non sono i desideri sessuali a plasmare l'affettività e quindi la personalità, bensì sono la personalità e l'affettività che declinano i desideri nell'ambito sessuale. La visione freudiana prevede che l'evoluzione umana si fondi sulla sessualità: "[...] la personalità di un uomo è prefigurata nella sua sessualità; dalla struttura e dall'evoluzione di quest'ultima dipende la sorte dell'intero uomo". Allers propone invece una inversione: "Ci sembra che la relazione debba essere invertita: l'istinto sessuale si conforma, nelle sue manifestazioni, agli atteggiamenti fondamentali della personalità, di cui segue tutte le alterazioni". Nel suo studio sulle Fantasie sessuali & desiderio di autentica affettività (Studi cattolici n° 625, Marzo 2013, pag. 192-193), Roberto Marchesini dà testimonianza di questa inversione di prospettiva: "Nella mia attività clinica ho potuto verificare l’utilità di un metodo alternativo a quello freudiano, secondo il quale le fantasie sessuali sarebbero il soddisfacimento – mascherato sessualmente – di desideri non sessuali (in genere relazionali o affettivi) [...]". "Per Freud, infatti, il nucleo originario dell’uomo è costituito da impulsi irrazionali di tipo sessuale mentre, come emerge chiaramente nei casi sopra descritti, il bisogno fondamentale che chiede soddisfazione è quello di affermazione, ossia di un amore incondizionato".
Ci sarebbero altri punti da segnalare, in particolare le importanti parole legate alla nevrosi che Allers lascia all'ultimo paragrafo. Al lettore l'iniziativa di evidenziarli ed anche proporli sotto forma di commenti. Nel concludere questa breve presentazione, desidero ringraziare la dot.sa Claudia Sisto che ha tradotto l'articolo dal francese e lo ha reso fruibile al pubblico italiano.
L’amore e l’istinto
Studio psicologico
Preliminari
La
questione della natura dell’amore e dell’istinto, e delle loro
relazioni reciproche, è esaminata qui dal punto di vista della
psicologia. Ciò non esclude digressioni al di fuori dei limiti di
questa scienza; esse sono, al contrario, indispensabili. Ci teniamo a
spiegarci su questo punto, prima di entrare nella materia, per
giustificare il metodo che perseguiamo.
La
psicologia studia i fenomeni mentali. Questi fenomeni sono tutti in
relazione con degli oggetti, reali o ideali, indipendenti dal
soggetto. Sono l’ordine e l’essenza di questi oggetti
tran-soggettivi a determinare l’ordine e la qualità dei fenomeni
psichici. Se scorgiamo, ad esempio, che l’arancione ha il suo
posto tra il giallo e il rosso e che è impossibile collocarlo
altrove, ciò non è dovuto a una proprietà della nostra anima o
dell’atto percettivo, ma alla struttura di una realtà
trans-soggettiva. La forza che ci costringe a formulare le nostre
conclusioni secondo le leggi della logica non è dovuta alla nostra
organizzazione mentale, ma all’ordine che regna al di fuori di noi
stessi e di cui rintracciamo, talvolta a tastoni e talvolta con più
sicurezza, le linee fondamentali. Le emozioni che sentiamo e che
sembrano ben appartenere alla nostra propria natura dipendono anche
da oggetti trans-soggettivi. Il piacere sensuale o estetico,
l’impressione di bontà morale, la gioia causata dall’incontro
dell’amico, o le diverse esperienze emozionali dotate di un accento
negativo – il dolore, il dispiacere, la tristezza, ecc. – tutti
questi stati d’animo dipendono, nella loro esistenza e nella loro
qualità, dalla natura degli oggetti. Una classificazione dei
sentimenti che fosse astratta dall’ordine degli oggetti
corrispondenti – cioè dall’ordine dei valori realizzato in
questi oggetti – sarebbe una cosa essenzialmente impossibile. Tale
impresa può sfociare solo nella sterilità e nella confusione.
Chiunque,
studiando un problema di psicologia, si limitasse strettamente alla
considerazione dei fenomeni soggettivi, cesserebbe di essere uno
psicologo nel vero senso della parola. La psicologia, per sopperire
ai propri doveri, si vede obbligata a oltrepassare i suoi limiti.
Forse è abbastanza paradossale, ma tuttavia è la verità. Noi
stessi, dunque, non potremmo sperare di trattare il nostro argomento,
se non fossimo disposti ad una tale “trascendenza” dalle
considerazioni puramente psicologiche.
Tuttavia
si impone una notazione. Come psicologi non ci è permesso di
cambiare completamente terreno: il punto di partenza deve restare
sempre il fenomeno mentale e ciò che vi possiamo scoprire. La realtà
dell’oggetto in sé non è una questione che la psicologia dovrebbe
porre o risolvere. L’oggetto vi entra solo in quanto oggetto
“vissuto” o esperienza di un soggetto. I problemi gnoseologici o
ontologici non hanno nulla a che fare con la psicologia. Saremmo
forse costretti a parlare di ontologia o assiologia: ma allora
avremmo lasciato la regione della psicologia pura per avventurarci
sul terreno della metafisica.
Lo
stesso atteggiamento si impone allo psicologo di fronte alla
biologia. I fatti biologici non toccano direttamente la psicologia.
Questa scienza non è interessata in quanto tale alle relazioni che
esistono ad esempio tra il temperamento ed il funzionamento delle
ghiandole endocrine. Abbiamo una esperienza del nostro temperamento,
ma di per sé non sappiamo niente della secrezione tiroidea,
surrenale o pancreatica. Le cosiddette spiegazioni dei fenomeni
psichici, come le forniscono la biologia e la fisiologia, non hanno
nessuna importanza per la psicologia che si limita a descrivere e a
analizzare i dati mentali come mentali. Psycologica psychologice,
come dice M. Spranger. Queste spiegazioni, in termini di biologia,
sono, inoltre, nella maggioranza dei casi, delle spirali più o meno
viziose. Anche il “behaviourism” americano che non vuole sentire
niente della coscienza, dell’introspezione, di tutto ciò che, per
uno spirito ingenuo, costituisce l’essenza della psicologia, anche
questa “psicologia oggettiva” (una vera contradictio in terminis)
parlando di “behaviour” di condotta, si basa sulla stessa
psicologia che essa condanna, - la “condotta” essendo qualcosa
che conosciamo solo attraverso la nostra esperienza soggettiva e
personale. La maggior parte di queste spiegazioni che un tempo
costituivano la gloria della fisiologia e di una psicologia che si
credeva tanto più scientifica in quanto abbondava di termini
biologici – non sono altroché traduzioni molto imperfette dei
risultati introspettivi nel linguaggio della fisiologia.
Le
spiegazioni fisiologiche, per dire chiaramente quello che pensiamo,
non hanno nessuna importanza per la psicologia come la concepiamo
noi. Di conseguenza non speriamo affatto di trarre profitto da
osservazioni di “psicologia animale”. Il comportamento di un topo
che vaga in un labirinto non può insegnarci niente sulla psicologia
dell’apprendimento. Il comportamento di una madre scimpanzé verso
il suo piccolo non getta nessuna luce sulla natura dell’amore
materno umano. Osservando un uccello maschio che dispiega le sue
piume davanti alla sua femmina, registrando tutte le fasi
dell’inseguimento del leone per la leonessa, non ci vediamo più
chiaro per quello che riguarda l’amore dei sessi.
Abbiamo
ritenuto indispensabile questa dichiarazione preliminare – che
indica la nostra posizione – perché non ci si stupisca del fatto
che, nelle pagine successive, non diremo nulla dei dati fisiologici.
Vogliamo fare solo della psicologia: descrivere, analizzare quello
che l’osservazione dei fatti psichici ci permette di intravedere.
Aggiungiamo,
per evitare ogni malinteso, che noi non disconosciamo la natura
psico-fisica dell’uomo. Ma neghiamo che sia giustamente la
fisiologia che debba essere considerata come la “scienza”
fondamentale dell’uomo. Naturalmente vi sono delle relazioni tra il
fisico e il morale. Ma non è affatto provato che queste relazioni
siano di una natura tale che il fisico possa fornire una spiegazione
adeguata del morale. Bisognerebbe piuttosto trovare una spiegazione
al di là e del fisico e del morale. Cioè cercare di spiegarli tutti
e due come conseguenze di qualcosa di molto più profondo. Sarebbe il
compito di un’antropologia filosofica o generale. Non sappiamo se
un tale obiettivo sarà mai raggiunto; possiamo solo sperarlo. Ciò
che sappiamo fin troppo bene, è che la preponderanza accordata al
metodo biologico in psicologia ha ritardato il progresso di questa
scienza ed ha contribuito alla confusione attuale.
Avendo
così definito la nostra posizione, cercheremo di precisare le
relazioni tra l’amore e l’istinto. Ma innanzitutto dobbiamo
arrivare a una concezione chiara e distinta di cosa significano i due
tratti. Cominciamo con l’istinto.
I
L’istinto: la parola e la cosa
Consultando
i trattati di biologia o di psicologia, si avrà indubbiamente
l’impressione, che l’istinto sia una cosa ben conosciuta e la cui
esistenza è chiaramente stabilita. Basta, tuttavia, riflettere un
momento per rendersi conto che l’istinto non è e non può essere
un fatto; la parola “istinto” non è il nome di un fatto, ma il
riassunto succinto di una teoria. Non si osserva mai l’istinto, ma
solo delle azioni o delle esperienze, delle forme di comportamento
che rapportiamo a una certa causa comune, perché questi fatti per la
loro identità sembrano averne una sola, e questa causa è chiamata
istinto. La biologia non osserva mai l’istinto: essa registra solo
delle modalità di comportamento. Nemmeno l’introspezione ci mostra
l’istinto: abbiamo solo l’esperienza di essere spinti a fare
certe azioni. E, poiché ci occorre, per soddisfare il nostro bisogno
di spiegazione, una causa, introduciamo il concetto di istinto. Ma
non possiamo sapere se questa cosa chiamata istinto esiste realmente
e come noi l’immaginiamo.
Ci si
è abituati a parlare dell’istinto come se fosse una realtà ben
conosciuta, sicura, indubitabile. Ne è dell’istinto come della
“forza” in fisica. Se ne ha bisogno per potere classificare molti
fenomeni; si tratta in questo caso di teorie molto utili, forse molto
probabili, ma tuttavia non sono che teorie. La gravitazione,
l’elettricità…non sappiamo che cosa sono. Si prenda un trattato
di fisica moderna e si vedrà che la scienza si sforza di eliminare
questi termini e di rimpiazzarli – per quanto possibile – con
equazioni puramente quantitative. Ciò non sarebbe possibile, se
questi termini designassero delle realtà palpabili. Per l’istinto
è assolutamente la stessa cosa.
Ma, se
è così, come dunque si è potuto fare dell’istinto la base stessa
della psicologia? Non si dovrebbe temere di veder crollare tutta la
costruzione, se le fondamenta sono di una natura così ipotetica?
Questo timore non ha affatto, a quanto pare, perturbato la sicurezza
dei costruttori dei sistemi. Non hanno nemmeno notato che le pietre
destinate a sostenere il magnifico edificio non erano che delle forme
vuote. Una certa psicologia biologica, il “behaviourism”, la
riflessologia e, last but not least, la psicoanalisi, si
facevano forti di insegnare una psicologia nuova – ognuna la loro,
si intende – basandosi sui risultati di una esatta biologia –
mentre questi risultati non erano altro che delle parole scelte molto
bene per mascherare l’ignoranza assoluta delle cose essenziali.
Per
capire la situazione attuale della psicologia e anche le idee che
svilupperemo in seguito, dobbiamo fare una piccola digressione che –
benché ci conduca un po’ lontano – sarà tuttavia molto utile.
L’illusione analitica
In
quasi tutte le scienze e già da qualche tempo si parla di “crisi”.
M . Buehler, eminente psicologo di Vienna, pubblicò, nel 1930, un
libro piuttosto noto, intitolato: la crisi della psicologia. Le
scienze naturali sono in stato di ricostruzione (la porta che dà
accesso al loro tempio dovrebbe, secondo M. Eddington, portare
l’iscrizione: chiuso a causa di ricostruzione, accesso proibito!).
Sembra esistere ovunque una crisi; abbiamo anche trovato
l’espressione: crisi della batteriologia! Questo stato di crisi non
è la conseguenza di un arresto, di una incapacità di procedere
verso nuove scoperte; è una crisi di principi. Lo si vede
particolarmente nella medicina e nella psicologia. C’era un tempo
in cui la medicina si sentiva sicura di sé; essa si era data al
materialismo e vedeva la sua salvezza nell’aderenza stretta alle
idee e all’ideologia delle scienze chiamate esatte. Improvvisamente
la medicina si vide davanti ai problemi, dove le categorie dei metodi
“classici” si mostravano impotenti. L’analisi come metodo, il
concetto dell’elemento come categoria, la psicochimica come ideale,
non sono più raccomandate con l’unanimità del XIX secolo. Il
medico che un tempo dichiarava ironicamente di non avere bisogno
dell’anima, poiché essa non poteva essere trovata nelle sezioni
microscopiche del cervello, si sentiva profondamente confuso: invece
di elementi, la nuova generazione cominciava a parlare di totalità;
un neo vitalismo tendeva a rimpiazzare il dogma materialista; tutte
queste belle frasi, testimonianze di un attivismo scientista,
diventavano problematiche. Ancora ieri ci si rallegrava dei trionfi
della scienza, si era convinti che gli ultimi misteri del mondo
sarebbero stati svelati se non domani, almeno dopodomani. Due formule
– che si sentivano, è vero, molto più dalla bocca dei
volgarizzatori della scienza che da quella dei veri sapienti –
caratterizzano il pensiero di questo secolo. Una era: “non ancora”;
non sappiamo ancora cos’è la vita, l’anima, l’uomo, ma domani
lo sapremo; già abbiamo strappato il velo che nasconde le profondità
del mondo; ancora un po’ di tempo e sapremo la formula magica che
ci aprirà tutte le porte. – Oggi ci sentiamo lontani più che mai
dalla realizzazione di questo ideale. L’altra formula, era:
“nient’altro che”: la vita non è niente altro che un insieme
molto complesso, ma decifrabile in principio, di processi chimici, la
coscienza non è nient’altro che la funzione di cellule nervose, la
storia nient’altro che un gioco di forze economiche, la personalità
nient’altro che il prodotto dell’attività di tali ghiandole e
cromosomi, ecc. ecc.1
Bisogna tenere conto di questa situazione se si vuol capire come la
teoria dell’istinto abbia potuto acquisire l’importanza che le
concedono tanti trattati di psicologia.
Gli elementi il cui insieme costituisce una cosa complessa diventano
manifesti attraverso l’analisi, cioè attraverso una
frammentazione, sia solamente concettuale, o artificiale, come negli
esperimenti di chimica o di fisiologia, sia spontanea, essendo
l’essere complesso dissolto da non importa quale influenza. La
biologia e la medicina inclinano a credere che tutto ciò che è
prodotto da una tale frammentazione è necessariamente un elemento.
Disturbi organici del cervello, per scegliere un caso che colpisce
molto, distruggono alcune funzioni sensoriali o motrici, di cui
spesso non resta che un “rudere”. Questo resto è allora
interpretato non come un elemento qualunque ma piuttosto come un
elemento che sarebbe esistito già, sebbene nascosto, nel tutto della
funzione superiore. Ora un frammento può essere un elemento, non c’è
bisogno di dirlo. Ma non è permesso considerare ogni frammento come
se fosse un elemento in senso stretto. Quando un edifico crolla in
seguito ad un terremoto, quando un ponte è rotto da un’inondazione,
troviamo bene dei frammenti che non sono del tutto degli elementi. La
scossa che fa cadere i muri non distacca uno ad uno i mattoni; del
ponte non resta affatto un ammasso di sbarre di ferro, di catene, di
viti, tali quali come li si è portati per la costruzione.
Sarebbe facile scoprire le fonti di questa idea, secondo la quale la
dissoluzione – almeno in biologia e in psicologia – dovrebbe
mostrarci gli elementi costitutivi. Noi non possiamo intraprendere
qui questa ricerca. Limitiamoci a notare che manca qualsiasi prova a
questa idea. Abbiamo spiegato altrove come questo principio porta a
conclusioni false in materia di fisiologia e di psicologia della
sensazione. Le conseguenze sono ancora più gravi quando si tratta di
funzioni psichiche di un ordine più elevato. Senza averlo forse mai
formulato, expressis verbis, si è adottato il principio
metodologico seguente: la dissoluzione di una funzione complessa,
facendo apparire gli elementi, questi saranno tanto più visibili e
più veri quanto più la dissoluzione sarà stata spinta in avanti.
Quello che è al fondo del fenomeno complesso della personalità, ad
esempio gli elementi di cui essa è l’insieme, devono dunque essere
cercati laddove la personalità, attraverso un processo di
dissoluzione, è caduta a pezzi. Il rovescio di questa tesi è l’idea
che si troveranno i fenomeni più elementari nelle prime fasi di una
evoluzione. La natura umana, ci dicono i partigiani di questa teoria,
si trova nello stato puro dei piccoli bambini o nei selvaggi di una
cultura primitiva, o in uomini in cui la personalità è caduta in
dissoluzione, nei dementi, gli idioti, i pazzi, i criminali. Ma si
darà senza dubbio ragione alle parole del filosofo inglese Bosanquet
quando scriveva, che si ha maggiore possibilità di conoscere la
natura umana attraverso lo studio dei geni, degli eroi, dei santi
piuttosto che attraverso quello delle persone che popolano gli asili
e le prigioni.
L’ossessione dell’inferiore
Il modo di considerare la natura umana che biasima questa citazione è
solo una delle numerose forme attraverso le quali si manifesta una
tendenza generale che, da secoli, avvelena la mentalità occidentale.
Si potrebbe nominarla: lo sguardo dal basso. Ciò che è inferiore,
tutto ciò che si avvicina alla natura bruta o anche morta, è
giudicato come più vero, più naturale, più importante. Si getti
uno sguardo su tante eresie, tanti modi intellettuali, persino
fuggitivi, tante pseudo-filosofie, tante correnti d’idee sociali:
ovunque si incontrerà questa idea funesta che l’inferiore
costituisce il fondo e il centro della realtà, quello che realmente
importa, che il ricercare, sia fare atto di scienza, e che il vivere,
sia conformarsi alle esigenze più vere della natura umana. Un
capovolgimento del pensiero generale si è tuttavia manifestato
dall’inizio del secolo. La rinascita della filosofia a cui
assistiamo – non senza constatare che questa filosofia si impegna
spesso in passi pericolosi – è uno dei segni di questo
cambiamento. Benché la mentalità del XIX secolo non sia ancora
vinta – qualunque cosa dica M. Joel, di Basilea, in uno studio
molto interessante che è apparso alcuni anni fa nei Kantstudien
– e benché le catene di cui il materialismo e tutte queste pseudo
filosofie hanno caricato il nostro spirito non siano ancora spezzate,
si ha diritto di sperare una metanoia,
sperare che il pensiero filosofico, scientifico, generale, saprà
ritrovare la sua via verso le sole fonti capaci di estinguere la
nostra sete di verità, di realtà, di sicurezza.
Chiunque voglia accelerare questo ritorno alla verità dovrà stare
in guardia: adversarius noster circuit quaerens quem devoret.
Noi ci siamo troppo abituati ai modi di pensare che ci furono
insegnati un tempo, che ci furono presentati come i soli ad avere
diritto il nome di scienza; cadiamo facilmente nelle trappole e
diventiamo schiavi della mentalità che vogliamo vincere e che,
persino, crediamo di avere già vinto.
Se non fosse così non si potrebbe comprendere il ruolo che svolge
l’istinto in certe psicologie, persino opposte alle antiche
concezioni biologiche e meccaniche dell’attività mentale.
L’istinto come esperienza vissuta
Dicevamo
che l’esistenza dell’istinto non è un fatto, che non si può
osservarlo. L’istinto, è una teoria compressa in una sola parola.
Quello che si osserva, sono certi comportamenti, detti istintivi, e
certe nostre proprie esperienze nelle quali ci sentiamo come spinti
all’azione.
La
natura delle azioni che attribuiamo generalmente, negli animali,
all’istinto, non deve affatto occuparci qua, dal momento che
l’analisi di questi fenomeni non può insegnarci niente sui fatti
della psicologia umana. Si è dimenticato troppo, nel XIX secolo, che
vi è, tra l’uomo e l’animale più sviluppato, un abisso
insormontabile. Nessuna somiglianza anatomica, in effetti, e nessun
atto, per quanto “intelligente” sia, possono cancellare questo
fatto fondamentale: che vi è storia solo per l’uomo. Gli animali
non conoscono né storia, né progresso, né tradizione. D’altronde
l’intelligenza, esaltata così spesso, delle scimmie antropoidi non
eguaglia affatto quella di un piccolo bambino2.
Ignoriamo assolutamente cosa avviene “nella testa” di un cane o
di una scimmia; non sappiamo nemmeno se lì avviene qualche cosa. M.
Janet per esempio, dubita del fatto che gli animali posseggano
davvero una memoria simile alla nostra. Ad ogni modo, per studiare il
ruolo che l’istinto ha nella nostra vita, possiamo soltanto
ricorrere alla nostra esperienza interiore. Cerchiamo dunque di
scoprire le caratteristiche specifiche dei fenomeni in questione.
Ci
sembra che la psicologia abbia un po’ trascurato il lato
descrittivo quando tratta dell’istinto. Gli scienziati parlano
molto dell’istinto come base della nostra vita mentale, discutono
della sua natura, vogliono depistarlo anche là dove l’introspezione
non ne vede nessuna traccia, ma non si sono presi la briga di
descrivere minuziosamente i tratti che caratterizzano una esperienza
come indubitabilmente istintiva. Non possiamo qui colmare questa
lacuna. Accontentiamoci di indicare alcuni tratti che ci sembrano
essenziali.
La
correlazione tra il fenomeno mentale e l’oggetto di cui abbiamo
parlato agli inizi, si ritrova ugualmente nell’esperienze dovute
all’istinto. Ci sentiamo spinti, vi è “in” noi stessi qualche
forza che ci spinge verso un certo comportamento, ma allo stesso
tempo sentiamo l’attrazione di qualche cosa al di fuori di noi,
siamo coscienti di uno scopo che intravvediamo più o meno
distintamente. Questa attrazione e l’impulso che vi corrisponde non
sono azioni, sono solo fasi preliminari che possono sfociare in
un’azione ma che, almeno agli inizi, non la necessitano. Perché vi
sia azione, occorre un’altra cosa rispetto all’impulso o
all’attrazione. La situazione interiore, nel momento
dell’apparizione di un tale momento istintivo, è essenzialmente la
stessa di quella che precede ogni azione riflessa, cosciente,
volontaria. L’azione istintiva è solo un caso speciale dell’azione
in generale; poiché l’azione volontaria è, indubbiamente, un
fenomeno più sviluppato, di un ordine più elevato, dobbiamo
prenderla come punto di partenza se vogliamo essere fedeli alla
nostra intenzione di guardare le cose “dall’alto” e di evitare
le trappole del metodo opposto.
Azione
vuole sempre dire scelta. Nil volitum quin praecognitum.
Questa praecognitio, tuttavia, non è un atto cognitivo semplice, ma
sempre il risultato di un paragone, di una scelta, di una decisione.
Anche quando crediamo “di non avere scelta”, quando vediamo solo
una linea d’azione possibile, scegliamo quanto meno tra azione e
non azione. Talvolta ne siamo perfettamente coscienti, talvolta è
soltanto la riflessione che ci mostra che è così. Prima di
decidersi, l’uomo che è invitato da una situazione qualunque ad
agire, paragona le possibilità che intravede; sceglie quella che gli
sembra la migliore. In effetti quando si chiede a qualcuno perché
agisce in tal modo e non diversamente, la risposta è sempre: mi
sembra che questo sia meglio. La parola: meglio, o un’altra dello
stesso senso, si applica ad un bene o a un valore. Ogni azione mira
solo alla realizzazione di un valore che il soggetto giudica
superiore a quello realizzato dalla situazione attuale (da cui
l’azione parte e che essa vuol modificare) e superiore a ogni altra
forse ugualmente realizzabile. Inutile fornire esempi. Tutto quello
che facciamo, a cominciare dalle azioni più insignificanti o banali
sino agli atti di abnegazione o di eroismo si riconduce a questa
formula generale: questo è meglio.
L’oggetto
della nostra volontà è sempre un bene o piuttosto la sua
realizzazione. Omne ens appetit bonum. Non potremmo agire, se
non avessimo innanzitutto intravisto, più o meno distintamente, un
bene possibile, e se non avessimo, allo stesso tempo, la coscienza di
poterlo realizzare agendo. Si può forse desiderare l’impossibile,
ma non si può volerlo, nel senso stretto del termine3.
Un’azione
non può dunque essere compresa, se non si studia prima il bene che
essa deve realizzare. Una classificazione delle azioni esige
innanzitutto quella dei beni realizzabili e – poiché una cosa
riveste il carattere di un bene dal momento che essa rappresenta un
valore – una classificazione dei valori. Le azioni istintive
possono essere caratterizzate solo dall'indicazione dei valori che
esse realizzano. Questi ultimi sono facili da determinare: sono
esclusivamente quelle di ordine vitale. I valori vitali hanno la
particolarità di aderire all'organismo stesso; di conseguenza la
loro realizzazione resta, come obiettivo, chiusa nella sfera del
soggetto. La soddisfazione di desideri istintivi produce una
alterazione nel mondo esterno solo per accidens, perché il
fine primario di un'azione istintiva non è di cambiare una
situazione esterna, ma unicamente di soddisfare un bisogno interno.
L'istinto “vuole” solo questa soddisfazione o il godimento che ne
è l'esperienza soggettiva.
È
importante notare che l'istinto sessuale, come esperienza vissuta,
non aspira affatto alla “conservazione della specie” o alla
procreazione di figli. Dei suoi fini (che, si dice, siano perseguiti
dalla “natura” che si “servirebbe” dell'istinto sessuale per
realizzarli) niente appare né nel fenomeno mentale del desiderio, né
in quello dell'atto, né in quello della soddisfazione. Il motivo
primario di un'atto sessuale è il desiderio di soddisfarsi, di
liberarsi di una tensione; il fine primario è solo una situazione
che permette di raggiungere questa conservazione. Parlando della
conservazione della specie come “obiettivo” dell'istinto
sessuale, ci si rende colpevoli di un equivoco della parola obiettivo
o di un antropomorfismo eclatante.
Gli
istinti aspirano solo alla soddisfazione o al godimento che li
accompagna. Il piacere di soddisfazione ha un carattere particolare,
specifico, molto diverso dagli altri piaceri di cui abbiamo
esperienza. Eccoci arrivati a un punto importante: se vi sono dei
piaceri diversi e se ciascuno di loro possiede una nota assolutamente
specifica, è a priori inverosimile, per non dire impossibile, che in
fondo a tutti i nostri piaceri vi sia la soddisfazione dell'istinto
come fenomeno o elemento originale. In effetti, è impossibile che
una qualità assolutamente nuova possa scaturire dall'alterazione di
un'altra qualità.
La
psicoanalisi del signor Freud presuppone che tutti i nostri piaceri,
anche quelli attaccati alle funzioni più nobili del nostro spirito,
siano solo prodotti di una mutazione del nostro istinto. Ma la scuola
freudiana ha veramente trascurato troppo i dati dell'introspezione4.
Questa insegna che ci sono almeno tre modi diversi di piacere che si
distinguono l'uno dall'altro e per la loro nota specifica e per il
loro svolgimento: il piacere di soddisfazione (dell'istinto), il
piacere di funzione (del bambino che gioca), il piacere di creazione
(causato dal compimento di un'opera). Avere ignorato questo fatto
importante è un grave errore che la psicoanalisi ha commesso. La
visione un po' troppo semplicistica che riguarda tutti i fenomeni
mentali come prodotti di una trasformazione dell'istinto – che essa
considera quasi come la materia prima di questi fenomeni – non
avrebbe mai potuto svilupparsi, se si fosse tenuto conto dei dati
della psicologia descrittiva. Questo è tanto più vero, che non solo
le sfumature emotive, ma anche i ritmi secondo cui si svolge
l'emozione sono completamente diversi in queste tre modalità di
piacere. Il bisogno istintivo causa una inquietudine, un turbamento
talvolta profondo, una tensione, spesso dolorosa, che però non è
sempre un dispiacere puro. Il momento della soddisfazione è
accompagnato da un piacere acuto, di durata piuttosto corta, e
seguito da una caduta rapida dello stato emotivo. Una stanchezza, un
bisogno di riposo, un benessere tranquillo sostituiscono l'agitazione
(si pensi ad esempio all'agitazione emotiva dopo un pasto). Il
desiderio di soddisfazione aspira a un tale culmine di godimento, e
tutto il suo sviluppo è diretto verso il momento supremo. Il piacere
causato dal gioco si comporta in modo diverso. L'osservazione dei
bambini che giocano lo dimostra al meglio, ma si ritrova la stessa
nota nel gioco degli adulti. Nel gioco non vi è acme, la situazione
non chiede nessuna soluzione. Sono la funzione, l'occupazione,
l'attività stessa che generano il piacere, che spingono a continuare
quasi infinitamente. Il gioco non finirebbe se non intervenissero
delle influenze estranee o la stanchezza. Non vi è un punto
culminante né una fase di riposo, di quiete reattiva. Infine il
piacere che proviamo nel momento della creazione di un'opera mostra
un aspetto nuovo. Qualche volta vi è uno stato di culmine che
tuttavia non è necessariamente quello del compimento, ma piuttosto
quello della nascita di un’idea chiara e distinta. Terminando la
nostra opera ci sentiamo spesso come liberati da un peso; ma non è
una tranquillità felice: è piuttosto un sentimento di vuoto. Siamo
liberati, ma ci troviamo anche di fronte ad un vuoto interiore, non
sappiamo cosa fare. L'inquietudine, assopita più o meno durante il
lavoro, ritorna e ricomincia a turbarci.
Questa
descrizione che abbiamo fatto a grandi tratti basterà tuttavia a
mostrarci le differenze enormi tra questi tre modi del piacere. Ce ne
sono forse ancora altri: è sufficiente in questa sede aver fatto
emergere i caratteri essenziali. Ci sembra completamente impossibile
che uno di questi tre modi sia al fondo degli altri due; non si
potrebbe immaginare come una tale trasformazione si sarebbe potuta
avverare.
II
Differenze essenziali tra l’amore e l’istinto
Se le
differenze qualitative tra i modi del piacere formano un ostacolo
insuperabile per ogni teoria che vorrebbe conoscere solo uno di
questi modi e farne il rudimento univoco degli altri, la difficoltà
è enormemente più grande, quando si tratta di relazioni tra
l’istinto e l’amore. Queste due esperienze e le due condotte che
le corrispondono sono talmente diverse l’una dall’altra, che
sembra completamente impossibile trarre la seconda dalla prima. Le
azioni che vengono emanate dall’amore hanno un carattere
essenzialmente “trascendente” di fronte all’attività
biologica; il loro scopo è situato radicalmente al di fuori della
sfera individuale del soggetto, mentre lo scopo dell’istinto resta
essenzialmente legato all’immanenza e si realizza all’interno
dell’organismo. Tra questi due caratteri c’è un abisso; chiunque
se ne sia reso conto non può immaginare una metamorfosi affettiva
nel corso della quale l’istinto diverrebbe amore. Qualunque sia la
relazione tra l’intinto e l’amore, essa non può mai essere
interpretata in modo da vedere nell’amore un istinto sviluppato o
coltivato.
La
teoria che fa dell’istinto il germe e l’essenza dell’amore
sembra molto inverosimile a uno spirito ingenuo; come dunque, ci si
domanda, tutto quello che si chiama amore potrebbe identificarsi con
l’istinto? Passi se necessario per l’amore dei sessi, dove almeno
l’istinto gioca un ruolo incontestato. Ma vi è l’amore materno,
quello del prossimo, della natura, dell’arte, della patria, della
scienza, di Dio…, noi diciamo di amare un brano di musica, un
paese, una cosa, un’idea. Certi autori pensavano che bisognava
trovare una fonte unica per tutte queste forme d’amore e scoprirne
l’unità innata; tali altri negavano ogni somiglianza e vedevano
nella denominazione comune solo una equivocazione; altri ancora
parlavano di “modi amoris” che consideravano emanante da un solo
amore che si manifesterebbe in un modo diverso secondo i suoi
oggetti. Le lingue moderne, in effetti, sembrano conoscere solo
questa parola: amore, mentre l’antichità ne aveva tre a
disposizione: eros, filia, agape,
oppure: amor, dilectio, caritas. (Si veda l’approfondimento di R.
P. Raitz von Frentz, J. J., Scholastik 1929). Un nome comune,
tuttavia, utilizzato per cose diverse può naturalmente essere un
equivoco puro e semplice; ma può darsi anche che dietro questo
equivoco si nasconda qualche relazione essenziale. Occorre dunque
esaminare più da vicino questi “modi amoris”5.
Il
pensiero aristotelico-tomista vedeva l’essenza dell’amore nel
desiderio del più grande bene dell’essere amato. L’agostinismo
conservando e sviluppando, qui come altrove, le idee del platonismo e
del neo-platonismo, poneva in prima linea “l’oltrepassamento di
sé” nel soggetto amante e il movimento verso l’unione con
l’essere amato6.
Vediamo
dunque tre tratti di cui l’insieme caratterizza l’amore, per così
dire, completo. Questi tre tratti, tuttavia, non hanno tutti la
stessa importanza o la stessa dignità, perché sembra, che si possa
egualmente parlare d’amore anche là dove il movimento verso
l’unione è assente o persino impossibile. Si può ben amare la
scienza o una idea senza volere né potere unirsi con esse. Ma
l’autotrascendenza di me amante e il desiderio del bene dell’essere
amato devono esserci, perché si possa parlare d’amore, anche in un
senso solamente metaforico. Chiunque ami realmente la verità, o la
scienza, o la sua patria desidera il bene della cosa amata: che la
verità sia riconosciuta dappertutto, che la scienza faccia dei
progressi, che la gloria e la felicità della patria crescano. E ogni
amore vero è pronto a donarsi, a dimenticarsi, a perdersi per e
nella cosa amata. Qualche volta forse questo carattere lo si vede
appena; ma ne restano sempre delle tracce. Perlomeno, un
atteggiamento che deve poter portare il nome d’amore è
incompatibile con la negazione del valore appartenente all’oggetto.
Non si
può amare un oggetto se non dopo aver percepito il suo valore. Ma,
d’altra parte, non si scorge il valore, o tutto il valore, di un
oggetto senza amarlo. L’amore – come si diceva una volta e come
sottolineato oggi da Scheler – rende perspicaci, e non ciechi. Vi è
in ciò una reciprocità causale molto complessa tra il movimento
della conoscenza e quello dell’appetito. Se la natura umana non
fosse così “piena di contraddizioni” e se essa non fosse
indebolita nelle sue posizioni nei confronti del bene, la percezione
di un valore genererebbe immediatamente un atto di amore, o piuttosto
questi due atti si fonderebbero in uno solo7.
L’istinto,
al contrario, è in verità cieco. Non vede affatto la personalità
totale, ma la guarda esclusivamente dal punto di vista della
soddisfazione. Non vuole mai il bene dell’altro; cerca solo di
raggiungere il proprio scopo. Non può scoprire altro valore se non
quello che corrisponde al godimento della soddisfazione8.
Ecco dunque una prima differenza essenziale e profonda tra l’amore
e l’istinto. Una seconda consiste in questo: l’amore, volendo il
bene supremo dell’essere amato, e realizzandosi nell’abbandono di
se stessi, ha una tendenza chiaramente altruistica; il “trahit
extra se” ne è la nota caratteristica. Non si può descrivere
la natura dell’amore meglio di quanto non facesse San Paolo: “non
quareti quae sua sunt”. L’istinto al contrario, non fa altro
che cercare quae sua sunt.
Queste
due differenze sono così grandi che ogni teoria che stabilisca una
identità tra i due fenomeni diventa molto problematica. Se l’istinto
è un “elemento” contenuto nel tutto del fenomeno amore, non può
essere che un elemento tra molti altri che hanno un’origine molto
diversa. Ma l’istinto, preso separatamente, non può bastare a una
teoria dell’amore.
III
Unione istintiva e unione d’amore
Si
obietterà, forse, che uno dei tratti che noi dicevamo essere
essenziali per l’amore appartiene tuttavia anche all’istinto: il
desiderio di unione. L’istinto sessuale aspira, si dirà,
all’unione fisica. Ma bisogna ben chiedersi se questa unione è
realmente in sé lo scopo dell’istinto. Ci sembra, che l’istinto
desideri solo la soddisfazione e che l’unione fisica sia solo un
modo o il modo per eccellenza, per ottenere la soddisfazione
completa. Nelle diverse perversioni sessuali – manifestazioni più
o meno patologiche dell’istinto – la soddisfazione completa è
ottenuta tramite atti talvolta molto diversi dall’unione carnale.
L’esistenza di queste perversioni sembra dimostrarci che il vero
scopo dell’istinto, non è l’unione in se stessa, ma il piacere,
strettamente soggettivo e “egoista” che accompagna l’amore.
Quando un uomo desidera realmente l’unione e non solo la
soddisfazione che ne deriva, non ci troviamo più di fronte
all’istinto puro: l’amore vi si trova già mescolato.
L’unione
nuziale, senza dubbio, sembra essere qui sulla terra l’immagine di
unione per eccellenza. Non vi è, tra due esseri umani, intimità,
comunione più immediata e più profonda. Ma questa unione è
veramente la realizzazione dell’idea di unione propria dell’amore,
è il culmine di quello che l’amore immagina sognando l’unione
con l’essere amato? È dubitabile e per ragioni forti.
Esaminando
i fatti si nota che questa unione, qualunque soddisfazione doni,
lascia ancora il desiderio. Essa calma senza alcun dubbio tutti i
bisogni dell’istinto; ma questa comunione, questa identificazione
di due esseri, questa volontà di essere ricevuti in un altro, tale
quale la concepisce l’amore, non vi si trovano. Qualsiasi cosa
facciano, gli sposi non possono compenetrarsi, non possono fondersi
l’uno nell’altro. Una barriera insormontabile li separa. Sarebbe
facile riportare numerose parole con le quali tante persone –
uomini e donne – si lamentano del fatto che le gioie fisiche del
matrimonio, malgrado ogni godimento comune, malgrado l’abbandono
supremo, non possono soddisfare il desiderio di unione. L’acme del
piacere fa dimenticare, per un momento, che l’unione non è affatto
realizzata; ma appena passato questo momento, ciascuno degli sposi
ridiventa cosciente della sua individualità, dell’impossibilità
di uscire realmente da se stesso. Benché gli sposi dicano: “noi”
in un senso più profondo rispetto ad ogni altra coppia, questo “noi”
resta sempre un plurale! Una coppia è “una caro” (Mat. 19, 6),
mai una persona o ens unum.
In
effetti, nessun individuo, e la persona umana meno degli altri, può
perdere, forse anche solo per un momento, la propria esistenza e
ritrovarla dopo. L’uomo può perdere la coscienza di se stesso,
sentirsi, attraverso qualche fantasmagoria della sua immaginazione,
immerso in un altro, ma gli è perfettamente impossibile uscire da se
stesso. Quando l’esaltazione è passata e ritorna la piena
coscienza, la disillusione è grande e talvolta dolorosa.
In
questi casi l’uomo ha coscienza, con una intensità particolare,
della solitudine, caratteristica essenziale della sua esistenza.
Anche l’intimità più grande con un altro, anche fosse quella
dell’unione nuziale, non gli permette di arrivare fino alle
profondità supreme di un altro sé né di aprirgli le fonti più
nascoste del suo essere. Vi è una piena soddisfazione sul piano
dell’istinto, ma non vi è appagamento completo per i desideri
dell’anima.
Questa
solitudine è qualche cosa di più profondo rispetto alla banale
sensazione di isolamento di cui si lamentano gli uomini quando non
hanno un compagno, quando non trovano l’aiuto che si aspettano,
quando si credono incompresi. La solitudine che noi consideriamo qui
è una caratteristica costitutiva dell’esistenza della creatura e
una conseguenza necessaria della sua struttura ontologica. L’essere
razionale ha questo di particolare, che la sua esistenza e la sua
essenza si riflettono nella sua coscienza. La solitudine sentita è
il correlato soggettivo dell’isolamento ontologico. Quando due
esseri finiti si toccano, non si tratta in quel caso del contatto di
due sostanze; vi sono solo gli accidenti che, direttamente, agiscono
l’uno sull’altro. Noi non abbiamo nessuna conoscenza immediata
delle sostanze, noi le immaginiamo come se fossero “dietro” gli
accidenti9.
L’uomo,
dunque, è ben cosciente della sua esistenza e quindi del suo essere
come sostanza. Non dobbiamo qui discutere la delicata questione se
abbiamo una conoscenza vera e propria della nostra sostanza o
solamente una intuizione immediata e semplice della nostra
sostanzialità; nei due casi quello che sappiamo di noi stessi basta
a risvegliare in noi la sete di un contatto sostanziale, il desiderio
di toccare – per così dire – la sostanza dell’altro, di
annullare le distanze che ci separano. Questo desiderio, almeno fin
quando si rivolge ad un essere finito, non può mai essere appagato.
Rinchiuso nei limiti del suo essere l’uomo non può veramente
oltrepassarli; il superamento di se stessi resta un ideale che,
fluttuando nell’infinito, indica la via nella quale l’amore
potrebbe trovare la sua realizzazione suprema. Non dimentichiamo che
la definizione: trahit amor amantem extra se, si trova nel
trattato: De adhaerendo Deo!
In
effetti, che l’amore, atteggiamento dell’io, sia capace di
portare l’uomo a trascendere il proprio io, è una cosa
inimmaginabile. Perché l’io sia tratto fuori da se stesso, è
indispensabile l’intervento di una forza estranea all’io. Questa
forza, l’amore può esercitarla solo se è, non solo l’atto, la
passione, l’atteggiamento del sé, ma un essere in cui l’io e
l’amore si fondono. Bisogna che sia l’Amore sostanziale e non una
modificazione di un essere essenzialmente differente da lui.
Quando
si tratta di questo amore, di Dio, l’unione può essere realizzata
(non dalle proprietà della nostra natura, ma dalla grazia che
proviene dall’alto) a un tale grado che nessuna unione qui in basso
potrebbe mai produrre. La realizzazione dei desideri che l’amore
risveglia nell’anima è possibile solo nell’amore di Dio e
attraverso un soccorso concesso alla nostra impotenza dalla bontà
dell’Altissimo.
Non di
meno l’amore terreno che si avvicina di più all’ideale è sempre
– ma con le restrizioni che abbiamo già indicato – l’amore dei
sessi. Ecco la ragione per cui le descrizioni delle estasi dell’amore
mistico contengono delle espressioni tratte dal linguaggio dell’amore
terreno. Molti autori hanno creduto di poterne trarre la conseguenza
– piuttosto assurda – che l’amore mistico fosse solo una
trasformazione o persino una maschera dei fenomeni erotici. Ma il
nostro linguaggio è molto povero e insufficiente, anche quando si
tratta dell’amore di un amante o di una madre. È per questo che le
parole di un amante o anche quelle delle madri degenerano così
facilmente in un balbettio puerile. Di fronte ai grandi avvenimenti
della vita, a grandi passioni, a grandi impressioni che ci toccano
fino al fondo del nostro essere, torniamo tutti bambini. Ma non vi è
nessuna ragione per fare dell’amore mistico un fenomeno erotico o,
peggio ancora, sessuale.
Dicevamo
che l'amore dei sessi è più o meno la più grande realizzazione
dell'amore che conosciamo sulla terra. Forse l'amore materno si
avvicina ancora di più all'ideale; ma resta, in larga misura,
unilaterale; il bambino non può amare né con l'intensità, né con
l'abbandono di se stesso, che necessiterebbe al suo amore, perché
sia uguale a quello della madre. Nell'amore dei sessi vi è comunque
un ostacolo assai grave – e forse sempre all'origine – che gli
impedisce di diventare una realizzazione dell'ideale; questo
ostacolo, è proprio l'istinto.
IV
La scelta e il sacrificio criteri differenziali tra l'istinto e l'amore
Abbiamo
già spiegato che tra l'amore e l'istinto vi è una differenza
notevole e anche essenziale. L'istinto cerca solo la propria
soddisfazione; niente gli è altrettanto estraneo quanto il quaerere
quae non sua sunt, il che, al contrario, costituisce l'essenza
dell'amore. L'amore vuole solo donare, l'istinto vuole solo prendere.
Per l'amore è naturale sacrificarsi, l'istinto per sua natura cerca
di impossessarsi della sua preda. M. Paul Haeberlin, di Basilea, nel
suo libro sul matrimonio, nota – molto giustamente, per quanto ci
sembra – che non bisogna voler costruire la comunità matrimoniale
sul terreno della sessualità, ma piuttosto conservarla malgrado
quest'ultima. Vi è dunque, contrariamente a quello che si crede
generalmente, un antagonismo profondo tra l'istinto e l'amore, benché
uno e l'altro, nella vita dei sessi, siano inestricabilmente
mescolati.
Una
teoria, dunque, che facesse scaturire l'amore dall'istinto e vedesse
in quest'ultimo una fase preliminare del primo ci appare
assolutamente impossibile ed in contraddizione flagrante con i dati
della realtà. Vi sono, naturalmente, relazioni molto strette tra
l'istinto e l'amore; ma non sono quelle che esistono tra il germe e
il fiore fiorito, né tra il rudimento indifferenziato e il fenomeno
complesso. Vedremo a breve, come devono essere definite queste
relazioni. Per il momento constatiamo soltanto che la situazione è
molto più complicata di quanto non si pensi in generale.
Il
Vangelo ci dice che non vi è amore più grande di come che dona la
vita per i suoi amici. È dunque la grandezza del sacrificio, che
diventa, in qualche modo, una misura dell'amore (se tuttavia è
permesso applicare termini di quantità all'amore o a ogni altro
fenomeno psichico). L'istinto, naturalmente, non conosce sacrifici.
Può sacrificare un'altra cosa, anche la felicità dell'altro, a se
stesso, per ottenere la sua soddisfazione; ma è incapace di
sacrificare se stesso. Nel campo dell'istinto non vi è né scelta né
decisione, né sacrificio. Bisogna che vi sia scelta perché vi sia
sacrificio. Perché sacrificare vuole sempre dire: rinunciare, di
fronte a due beni possibili, a uno di essi, perché l'altro è
giudicato più grande. Si può sacrificare solo ciò che si considera
come un bene, e anche come un bene importante. Laddove non vi è
rinuncia a un bene desiderabile in favore di un altro che si
considera più elevato, non si può parlare di sacrificio.
L'istinto
non conosce scelta, e di conseguenza non conosce sacrificio né vero
conflitto. È possibile che all'istinto si presentino due oggetti
egualmente desiderabili e che non possa ottenerli tutti e due
insieme. Ma c'è solo una teoria troppo naturalista che fa dei
“tropismi” o delle reazioni istintive delle azioni primitive;
l'azione, presupponendo il giudizio, la scelta, la decisione,
appartiene a un piano molto più elevato di quello delle sue funzioni
biologiche. Tra due o più attrazioni, indirizzandosi all'istinto, vi
può essere antagonismo, ma non conflitto. Chi parla, come lo fa il
freudismo, di un conflitto tra istinti dimostra la sua incapacità in
materia psicologica: non ha capito né la natura dell'istinto né
quella del conflitto. Gli istinti, come tali, possono rafforzarsi o
inibirsi reciprocamente; si comportano come le forze in fisica, di
cui calcoliamo la risultante seguendo lo schema del parallelogramma.
Gli istinti, essendo per definizione dei dinamismi dovuti
all'organizzazione dell'essere vivente, si avvicinano più alla
natura delle forze meccaniche, che a quella delle forze spirituali.
La categoria del conflitto non può essere applicata quando si tratta
dell'istinto.
L'istinto
può, naturalmente, creare un conflitto, quando il suo oggetto si
presenta alla nostra coscienza contemporaneamente ad un altro oggetto
che appartiene ad un livello assiologico più elevato. Ma allora non
vi è conflitto di istinti ma questa situazione ben conosciuta; ci
troviamo di fronte ad un bene molto attraente ma giudicato inferiore
di rango, e un altro, riconosciuto come più elevato, ma che non ha
affatto la stessa capacità di attrazione. Questa situazione sfocia o
in una decisione contro la pulsione istintiva o in un arretramento
davanti alle difficoltà che sono da vincere per trionfare
sull'istinto: video meliora proboque, deteriora sequor.
Cediamo
troppo spesso all’istinto, anche quando vediamo chiaramente che il
bene che esso desidera è di rango inferiore; e crediamo di sentire
una forza più grande che proviene dall’obiettivo dell’istinto.
Si è pensato di poter concludere che la forza attrattiva di un
valore crescesse in modo inversamente proporzionale alla dignità di
questo valore. Questa asserzione è lungi dall’essere giusta.
Innanzitutto il numero di casi – ammettendo anche che sia in favore
di questa tesi (cosa che si ignora) non può servire da argomento in
tale materia. Bisognerebbe analizzare ogni caso per sapere che cosa
significhino realmente un’azione, una decisione. Del resto la tesi
che combattiamo non sarebbe nemmeno provata, se effettivamente la
maggior parte degli uomini si decidesse, regolarmente, per l’istinto
e contro il bene più elevato.
Supponiamo
che in un paese vi siano 999 uomini affetti da tubercolosi e
solamente uno che non ne fosse toccato. Si concluderà che “l’uomo
normale” è colui i cui polmoni sono rosi dalla malattia? Il
normale non si confonde con la media. Se dunque, in
media, l’uomo si decide per l’istinto, questo non prova né che
egli possa fare diversamente, né che i valori elevati siano per
natura deboli. Basta che un solo uomo si sia deciso, ogni volta o una
volta per tutte, a scegliere il valore elevato e a rifiutare,
malgrado ogni attrazione, lo scopo proposto dall’istinto, per
provare la falsità della tesi citata. E non si saprebbe dubitare che
questo caso si realizzi non solo una volta, ma molto spesso. Ciò che
dicevamo alcune pagine fa, riferendoci alle parole di Bosanquet, si
applica anche al problema in questione.
V
Natura delle relazioni tra l’istinto e l’amore
Quali
sono, infine, le relazioni tra l’amore e l’istinto? L’istinto
sessuale è, senza dubbio, un “momento” indispensabile nell’amore
dei sessi. Se l’istinto non vi entra, ci troviamo a che fare con
un’altra cosa, rispetto all’amore dei sessi, forse un’amicizia
o persino un amore intenso del prossimo, ma non l'attitudine
specifica che lega l’uomo alla donna10.
Quello che un romanziere spirituale ha chiamato “amicizia amorosa”
è forse più vicino all’amore che all’amicizia; non è meno vera
l'esistenza, tra due persone di sesso diverso, di un’affezione così
vergine d’inclinazioni sessuali da sentirsi disturbata, nel suo
ritmo puramente fraterno, quando entra in gioco la sessualità. In
altri casi, l’istinto, mal interpretato, può imporsi per l’amore.
Un gran numero di matrimoni più o meno infelici ha origine dal fatto
che i due coniugi pensano di amarsi, mentre si stimano solo o si
divertono insieme o hanno gli stessi interessi. Questa illusione
nasce da alcune spinte puramente istintive che sentono ogni tanto.
Ciò mostra la necessità di saper distingue tra amore ed istinto.
L’amore può nascere sia da una amicizia pura, sia da una semplice
inclinazione della carne; ma ogni vero amore tra due persone di sesso
diverso è necessariamente composto da sessualità ed affezione
spirituale11.
Ciò è vero anche, quando la componente sessuale dell’amore (il
che capita talvolta nelle ragazze giovani) non è riconosciuta come
tale; quando saranno donne sapranno, in retrospettiva, identificare i
loro sentimenti di allora.
Poiché
la sessualità è un elemento indispensabile dell’amore sei sessi e
poiché non può, come abbiamo visto, esserne l’essenza, eccoci di
fronte a un problema apparentemente molto difficile; non sarebbe
così, se la psicologia moderna non avesse escluso, come pure tante
altre discipline, di informarsi sulle soluzioni possibili presso una
sana filosofia e se fosse rimasta in contatto con la realtà. Un
fenomeno molto curioso – il cui studio sarebbe un compito molto
interessante per uno storico – è questo: il pensiero moderno si è
abituato a considerare come necessariamente identiche le condizioni
necessarie all’esistenza di una cosa e l’essenza, il nucleo
interno che comanda l’evoluzione di questa cosa. Un esempio: la
teoria della discendenza assicura che gli organismi che popolavano
una volta la terra sono non solo i predecessori, ma anche gli
antenati degli organismi che sono arrivati dopo. Non discutiamo la
legittimità di questa teoria. Notiamo solo, che la successione delle
forme di vita, permette un’altra interpretazione, che potrebbe o
rimpiazzare quella di Lamarck o di Darwin, o essere ad essa
coordinata. Gli animali, in effetti, non potevano esistere prima che
ci fossero piante di cui potessero nutrirsi. L’uccello non può
vivere senza avere mosche, vermi o pesci, ecc. ecc.. L’esistenza di
specie inferiori è una condizione sine qua non di quella
delle specie superiori.
Così,
la vita vegetale è il “fondamento”, la condizione della vita
animale. Ma non ne consegue che le piante siano gli antenati degli
animali. Applichiamo questo punto di vista al nostro problema. Dal
fatto che l’istinto sessuale, o le sue manifestazioni, siano
necessarie perché si possa parlare di amore dei sessi, non si deve
né si può concludere che questo istinto sia una fase rudimentale
dell’amore, fase che conterrebbe l’amore come il germe contiene
la pianta12.
L’amore
dei sessi presuppone l’istinto, ma l’amore non si sviluppa
dall’istinto. La relazione tra l’istinto e l’amore somiglia in
qualche modo a quella tra la materia e la forma. Una cosa
appartenente a un certo piano o livello dell’essere può,
rivestendo una nuova forma, essere elevata a un livello superiore. È
ad esempio il caso dell’artista quando crea una statua di pietra. È
il caso della volontà quando si appropria degli appetitus
sensitivi, per trarne – per così dire – l’energia del suo
atto. È infine il caso dell’istinto, quando è “ricevuto”
nella totalità dell’amore.
Il
ruolo dell’istinto, come momento necessario dell’amore dei sessi,
non si limita tuttavia affatto a quello della “materia”.
L’istinto o le sue manifestazioni diventano, inoltre, un mezzo di
espressione per l’amore. Il filosofo tedesco G. Rimmel chiamava i
fenomeni erotici le “manifestazioni più periferiche” dell’atto
d’amore, che emana esso stesso dal centro della personalità.
L’espressione
è una categoria fondamentale in psicologia; essa non è suscettibile
di un’analisi ulteriore. Vista dall’esterno, essa appartiene al
genere dei “segni”13:
è una realtà diversa da quello che significa e attraverso la quale
diventiamo coscienti della cosa significata. Ogni azione umana è, a
parte il suo scopo mediato, l’espressione di un atteggiamento
interiore. M. Buehler, di Vienna, nella sua teoria del linguaggio, fa
notare che ogni enunciato verbale presenta un “aspetto” triplice.
Esso significa o rappresenta qualcosa; nomina l’oggetto, formula un
pensiero, un giudizio, esso racconta un fatto. È ciò che M. Buehler
chiama “Darstellung”. Ma la parola si rivolge sempre a qualche
uditore e tende a provocare in lui una risposta o una reazione; come
tale, la parola si presenta come “provocazione” o scoppio
(“Appell” o “Ausloesung”). Infine, colui che parla sia che lo
voglia o meno, la sua parola svela sempre all’interlocutore – o a
un osservatore – qualcosa del suo atteggiamento interiore, della
sua situazione emozionale nelle sue diverse sfumature. Ci
“inganniamo” facilmente, quando parliamo. È quasi impossibile
ingannare assolutamente un osservatore perspicace. Ogni parola è
così manifestazione, e della presente situazione interiore e della
personalità totale, delle sue disposizioni o habitus (“Kundgabe”).
Quello
che le analisi ingegnose di M. Buehler hanno dimostrato riguardo alla
parola si verifica anche in tutto il comportamento. Ogni condotta
contiene un elemento oggettivo: lo scopo che persegue; esso ha (quasi
sempre in effetti, e senza eccezione, essendo l’uomo per sua
essenza un “animale socievole”) una importanza sociale; di regola
esso diventa l’espressione di una situazione interiore. Ciò si
applica non solo alle condotte espressive, come il gesto, la mimica,
le variazioni esteriori che accompagnano le nostre emozioni; ma anche
ad ogni comportamento possibile. Vi è dunque una correlazione più o
meno stretta tra stato d’animo e fenomeno espressivo; quest’ultimo
diventa, inoltre, tanto più rivelatore, quanto più l’emozione a
cui serve d’espressione è più intensa e più semplice. Le
manifestazioni dell’istinto sessuale sono, in questo senso, delle
espressioni dell’amore sentito per un individuo dell’altro sesso.
Ogni espressione, tuttavia, esprime non solo lo stato emotivo attuale
ma anche, come dicevamo prima, la personalità totale. La condotta
erotica diventa così una espressione degli atteggiamenti
fondamentali della personalità. Non che l’istinto sia la base e la
causa di questi atteggiamenti. C.-G. Jung, di Zurigo, quando ancora
aderiva strettamente alla dottrina freudiana, formulò il punto di
vista psicoanalitico più o meno in questo modo: la personalità di
un uomo è prefigurata nella sua sessualità; dalla struttura e
dall’evoluzione di quest’ultima dipende la sorte dell’intero
uomo. Ci sembra che la relazione debba essere invertita: l’istinto
sessuale si conforma, nelle sue manifestazioni, agli atteggiamenti
fondamentali della personalità, di cui segue tutte le alterazioni.
Abbiamo osservato molte volte che l’intensità dei desideri, la
forma della soddisfazione, il posto che la sessualità occupa nella
vita, che tutto questo – considerato dalla psicoanalisi, e da altre
dottrine naturaliste, come invariabile, dovuto alla “costituzione
sessuale”, radicata negli strati organici – è capace di una
alterazione, di una rivoluzione profonda dal momento in cui,
attraverso una qualsiasi influenza (conversione, guarigione
psicoterapeutica, choc emotivo), la personalità cambia, adotta una
nuova posizione davanti alla realtà, al prossimo, alla religione.
Non si può né trattare, né educare la sessualità presa in modo
isolato; occorre sempre rivolgersi all’uomo totale. Una pedagogia
sessuale, l’abbiamo spiegato altrove, non esiste; è possibile solo
una educazione totale della personalità. È la stessa cosa per la
psicoterapia; per riuscire occorre che essa si impadronisca della
personalità intera, che abbisogna di una rieducazione, di un
cambiamento delle sue posizioni fondamentali.
L’istinto
compie il ruolo che può avere nella vita umana solo quando è
sottomesso all’amore, e diventa mezzo di espressione e di
realizzazione. Senza allontanarsi troppo dalla realtà, si potrebbe
anche chiamare l’istinto lo strumento di cui l’amore si serve per
arrivare fino alla persona amata. La sessualità, dicevamo già
quindici anni fa - nel nostro libro sulla psicologia sessuale - è il
canale prestabilito attraverso il quale il flusso dell’amore potrà
scorrere.
VI
Amore maschile ed amore femminile
Permetteteci
qualche parola sulle particolarità dell’amore nei due sessi. Si
può affrontare questa questione sotto due aspetti: sia a partire
dalla biologia (basandosi sulle differenze anatomiche e fisiologiche
tra i due sessi), sia prendendo direttamente come punto di partenza
dall’essenza della personalità dell’uomo e della donna. Il
secondo processo ci sembra preferibile, perché è molto difficile
descrivere una esperienza interiore dove entra in gioco solo
l’istintività. Non vi è dato introspettivo, per quanto
“elementare” sia, che rifletta solo la nostra costituzione
psicologica; la nostra personalità intera si trova implicata in
ciascuna delle nostre impressioni soggettive. Cercheremo dunque di
tracciare qui l’immagine dei tratti essenziali della natura
maschile o femminile, presa, non solo nel suo fondamento istintivo,
ma nella sua totalità carnale e spirituale14.
Il
sentimento dell’amore, le sue forme, i suoi ritmi è diverso nella
donna rispetto all’uomo. Un buon numero di malintesi e di
sofferenza proviene dall’idea di un’identità di amore tra i due
sessi. Una donna che domanda d’essere amata da suo marito
esattamente come lei ama lui, un uomo che desidera ritrovare con la
sua donna un amore qualitativamente eguale al suo non possono che
andare incontro ad una profonda delusione. Tutti e due proveranno di
non essere amati – ma lo sono spesso fortemente, sebbene non se ne
accorgano, perché ignorano le differenze essenziali tra la natura
maschile e quella della donna, differenze che, necessariamente, si
manifestano anche nel modo di amare.
Le
caratteristiche specifiche dell’amore nei due sessi dipendono dalle
differenze delle due nature. Si è creduto di trovare la radice di
queste differenze nella vita emozionale che si dice essere più
sviluppata nella donna. Questa, nelle sue azioni, nei suoi pensieri,
in tutta la sua condotta, sarà determinata dall’emozione, secondo
alcuni psicologi, piuttosto che dalla ragione o da qualche
considerazione oggettiva. Le donne sono considerate come prive di
logica. Ma, se si osserva più da vicino, si nota che lo spirito
femminile non manca del tutto di logica; spesso le donne si mostrano
davvero capaci di seguire, non solamente una catena di sillogismi, ma
anche di servirsene correttamente. È dunque falso che esse non
possano pensare logicamente; si direbbe piuttosto che esse non lo
vogliono o che esse non vi si interessano. Non è vero neanche che
l’emozione domina sempre nella vita della donna. Vi sono molti casi
in cui vi sarebbero ottime ragioni per scatenare un’emozione
eccessiva e in cui la donna, malgrado tutto, si comporta molto
ragionevolmente, senza perdere la testa, senza lasciarsi andare alla
disperazione; si rifletta un attimo su tutto ciò che una madre è
capace di fare, quando si tratta di suo figlio. Naturalmente, molte
madri commettono errori e agiscono assai poco ragionevolmente. Ma vi
sono anche uomini che dimostrano mancanza di riflessione o di ragione
in una situazione difficile o disturbante.
La
differenza essenziale tra i due sessi non deve, secondo noi, essere
ricercata nello sviluppo più o meno grande di una certa funzione o
di un certo aspetto della vita mentale. Questa differenza deve avere
le sue cause negli strati più profondi della personalità.
Lo
psicologo olandese Heymans, ex professore dell’università di
Groningen, ci sembra abbia intravisto il punto principale, sebbene
non lo osservi tanto quanto occorrerebbe. Basandosi sui risultati di
un’indagine che comprendeva parecchie migliaia di persone, arriva
alla conclusione seguente: la donna s’interessa, spontaneamente,
solo ai casi individuali, e non alla legge, alle generalizzazioni,
alla formula concettuale (il che costituisce il tratto più
caratteristico della mentalità maschile). Crediamo che questa
formula abbia bisogno di una leggera modifica. Ecco cosa diciamo: lo
spirito della donna si dirige innanzitutto verso le persone, quello
dell’uomo verso le cose. La persona umana, è l’individuo, il
singulare; la cosa, è l’elemento generico che si presta
maggiormente all’astrazione o alla generalizzazione. Questo
interesse delle donne per il caso singolo, per l’individuo umano ha
probabilmente le sue radici nel fatto fondamentale della disposizione
alla maternità. La relazione tra madre e figlio è assolutamente
unica per la sua essenza e per le sue manifestazioni. Un legame
misterioso unisce questi due esseri che, prima della nascita del
figlio, erano uniti corporalmente. Quando questo legame corporale
cessa di esistere, viene rimpiazzato da una prossimità mentale di
cui non si possono trovare equivalenti altrove. Alcune donne tuttavia
sanno amare un uomo in un modo quasi analogo e possono penetrare fino
alle profondità più intime della sua anima e indovinare i movimenti
più segreti. In generale, l’uomo è incapace di una tale forza
indovina; se a volte la possiede, sarà forse un amante eccellente,
ma non un rappresentante del tipo maschile. Del resto, i tratti
essenziali della virilità mancano spesso a tali uomini.
L’amore
è la forma più perfetta della relazione tra due persone umane. Una
volta risvegliato nel cuore di una donna, risponde ai desideri e alle
facoltà essenziali della sua natura, molto più che nell’uomo.
Non
dimentichiamo che, tra le donne, vi sono enormi differenze
individuali. Molte di loro senza dubbio non sono capaci di un amore
vero e profondo. Ma non bisogna giudicare la natura femminile secondo
la media statistica e nemmeno secondo la maggioranza dei casi. Non
bisogna cercare l’essenza dell’amore femminile nell’atteggiamento
di una donna civettuola per la quale l’amore è forse solo un
gioco, o di un’altra che si è stancata presto del suo amante o di
una terza che gli è infedele, ecc.; per scoprire la natura
dell’amore femminile, occorre alzare lo sguardo verso le eroine
dell’amore di cui parlano la storia e la leggenda. Le lettere della
Signora Lespinasse ci insegnano più cose sull’amore che tutta la
cronaca scandalosa dei nostri giorni (allo stesso modo abbiamo
un’idea molto più corretta della fede studiando la vita di
Sant’Agostino, che non raccogliendo fatti sull’atteggiamento
religioso degli abitanti di una città moderna).
Una
donna che ama realmente è riempita del suo amore. Tutto ciò che fa
o pensa è immerso, per così dire, nella luce del suo amore. Sia che
lavori, o che si occupi delle cose della vita quotidiana, di scienza
o di arte, ella si sente sempre unita all’essere amato, anche se
non ci pensa espressamente. Ella non può mai dimenticarlo
completamente. L’uomo, al contrario, dimentica; in mezzo agli
affari che lo tengono occupato, agli interessi che persegue, alle
idee da cui è posseduto, non pensa alla donna amata. Indubbiamente,
spesso questo pensiero passa attraverso la sua coscienza, come un
chiarore fuggitivo, ma è tutto qui. “Non pensi mai a me quando sei
in ufficio, in laboratorio, in fabbrica…” è un lamento proferito
assai spesso dalle donne. Esse hanno perfettamente ragione, per
quanto riguarda il fatto osservato; esse si ingannano se vi vedono il
segno di un amore insufficiente o che diminuisce. L’amore maschile
non è più debole di quello della donna; è diverso. È più facile
per l’uomo darsi a una cosa che a una persona.
Le
manifestazioni dell’istinto sessuale sono, in qualche modo, il
riflesso di queste profonde differenze della natura dei due sessi. Il
lato erotico ha un ruolo più importante nella vita di una donna, una
volta che ella ne è divenuta cosciente. Non che la donna sia più
sensuale, in generale, dell’uomo; non si tratta di differenze di
quantità. La più grande importanza che hanno le esperienze erotiche
per la donna è dimostrata in modo notevole dalle osservazioni
raccolte dalla Sig.ra Hetzer, dell’Istituto di psicologia di
Vienna. Seguendo la vita di un certo numero di giovani donne, la
Sig.ra Hetzer ha potuto constatare che un’erotizzazione precoce
faceva sparire tutti gli altri interessi, mentre le giovani ragazze
nate dallo stesso stato sociale, che, per caso o di proposito, non si
erano ancora svegliate alla vita sessuale, restavano interessate a
molte cose. Non è lo stesso per la giovinezza maschile. Là,
l’esperienza sessuale, anche precoce, non sembra danneggiare allo
stesso modo la vita dello spirito, l’interesse oggettivo e
scientifico, ecc.
Non
possiamo approfondire qui questa questione. Ma alcune osservazioni
che abbiamo potuto svolgere bastano a indicare la via in cui devono
orientarsi le nostre ricerche.
VII
Finalità sacrificale dell'istinto
Bisogna
precisare ora il ruolo dell'istinto come elemento della personalità
umana.
Innanzitutto
l'istinto, come abbiamo spiegato prima, ha la funzione di realizzare
alcuni valori vitali. Inoltre esiste per servire l'amore come mezzo
di espressione e di realizzazione. Ma c'è ancora un'altra funzione
nell'insieme della personalità. Designamo quest'ultima con una
formula breve e, ne siamo molto coscienti, piuttosto paradossale:
l'istinto esiste per fornire un alimento al sacrificio. Ecco ciò che
rimproverano alla morale cristiana tutte quelle dottrine che, nel
nome della natura e della libertà, preconizzano una nuova morale
sessuale. Ma ciò che chiamano natura, non sono altro che le sue
funzioni più primitive. Ciò che esigono nel nome della libertà, è
piuttosto il libertinaggio; ciò che presentano come una morale nuova
è in realtà solo una morale molto antica, pagana e molto primitiva.
La
primitività in effetti è molto di moda ai nostri giorni. J. J.
Rousseau scriveva: “Torniamo alla natura!” e questa parola ebbe
un successo enorme alla fine del XVIII secolo e all'inizio del XIX
secolo: “Torniamo alla primitività” sembra essere il leit-motiv
di molte correnti d'idee contemporanee.
L'ammirazione
per l'arte nera – senza dubbio molto interessante ma poco adatta a
succedere a quella di Donatello, di Rembrandt o di Watteau –
testimonia questa tendenza nel campo estetico, come la dottrina di un
Bachofen in sociologia, la speculazione fantasiosa di un Klages in
psicologia, la filosofia detta dell'esistenza in metafisica, la
glorificazione del sangue e della razza in politica. Si scopre, senza
difficoltà, la stessa mentalità, lo stesso primitivismo come motore
di diverse polemiche contro la morale cristiana – in generale – e
particolarmente quando si tratta del problema sessuale.
I
difensori della nuova morale si spaventano soltanto nel pronunciare
la parola sacrificio. E il loro spavento aumenta ancora, quando
questa parola viene applicata all'istinto sessuale. Ma niente è più
contrario alle esigenze della personalità umana, “più umano”
che un tale orrore del sacrificio. Poiché Dio è amore e l'uomo è
creato ad similitudinem et imaginem Dei occorre che la facoltà
di amare sia un tratto essenziale della natura umana. Chiunque fosse
realmente privato di questa facoltà sarebbe posto fuori
dall'umanità. Ma amare vuol dire: essere pronti al sacrificio.
Potere e persino volere fare sacrifici è dunque un tratto essenziale
della natura umana. Chiediamo anche al bambino che sappia
sacrificarsi; non solo perché si trovi preparato alla vita, che gli
porrà limiti molte volte, ma anche perché divenga realmente un
essere umano, perché sviluppi in sé quelle qualità essenziali che
fanno dell'uomo un essere così diverso da tutto ciò che esiste
sulla terra.
I
valori si presentano all'uomo non solo scaglionati secondo la loro
dignità oggettiva, ma anche differenziati secondo una seconda
dimensione: quella dell'attrazione che esercitano sul sé. I valori
corrispondenti alle tendenze primarie del sé esercitano
un'attrazione più grande. Il sentimento di bisogno imperativo che
caratterizza l'istinto testimonia questo primato attrattivo dei
valori oggettivamente più bassi. Ciò che la teologia ci insegna ad
essere la conseguenza del peccato originale (l'obnubilazione
dell'intelligenza e l'indebolimento della volontà) può essere
considerato come un'introduzione di questa seconda dimensione
nell'ordine dei valori.
Perché
l'uomo realizzi ciò che vi è di più elevato nella sua natura
bisogna che possa opporre la sua volontà agli impulsi e ai desideri
che corrispondono solo alla parte inferiore del suo essere. Anche gli
ammiratori più eminenti del “naturale”, anche gli avvocati più
accaniti della cosiddetta nuova morale, non oseranno contestare che
esistano al di sopra dei valori vitali altri valori che attendono di
essere scorti e scelti.
Ma
queste persone sono affascinate dall'idea che la cosa “elementare”
possa essere solo la cosa più reale e più preziosa. Considerano
dunque come qualcosa di nocivo per la vita ogni azione che sembri
contrastare le tendenze primitive. Non vedono, che questa natura
umana che esaltano tanto trascende infinitamente il mondo organico.
L'inclinazione più sentita da tutti, ma alla quale si conforma solo
una minoranza, di aspirare all'ideale, di realizzare valori sublimi,
di ottenere beni che non muoiono dal momento che li si possiede,
questa inclinazione non potrebbe trovarsi ovunque, in tutte le razze,
in tutti i secoli, in ogni cultura, se essa non appartenesse alla
natura stessa dell'umanità. Restringere la natura umana a ciò che
essa ha in comune con gli animali, significa dimostrare una povertà
di giudizio e una mancanza veramente spaventosa verso la realtà.
VIII
Conflitto e nevrosi
Ci
resta da dimostrare – contro l'interpretazione freudiana che vede,
nella rimozione dell'istinto, l'unica causa degli incidenti nevrotici
– in quale misura i conflitti che nascono dalla non soddisfazione
dell'istinto possono scuotere la salute psichica dell'individuo. - Se
le difficoltà inerenti tali conflitti non vengono considerati come
una “ingiustizia”, come “qualcosa che non dovrebbe esistere”
l'equilibrio mentale non ne risentirà. I conflitti non sono, in se
stessi, causa di perturbazione morale. Lo diventano soltanto quando
l'individuo, invece di accettare la vita così com'è – cioè più
o meno irta di difficoltà – prende un atteggiamento di rivolta
contro la propria sorte.
Nessuna
esperienza agisce di per se stessa su di noi, essa agisce a seconda
dell'interpretazione che le conferiamo. Lo stesso avvenimento può
produrre effetti diversi in due uomini, a seconda dell'atteggiamento
che adottano davanti ad esso. Vediamo soccombere un uomo in una
situazione che un altro sopporta senza esserne spezzato. Vi sono dei
deboli e vi sono degli eroi. Vi sono anche periodi storici dove anche
la debolezza diventa un atteggiamento quasi generale15.
Per
molti aspetti il nostro secolo merita di essere collocato in questa
categoria. Una gran parte dell'umanità occidentale sembra dominata
dal desiderio di trovare i modi per vivere senza nessun dolore,
nessuna pena, nessuna difficoltà. L'ideologia delle utopie sociali
come quella dei nuovi sistemi di educazione e di psicoterapia sogna
un avvenire dove non vi sarebbe né conflitto né combattimento, né
turbamento interiore. La psicoanalisi, animata da un opportunismo
piuttosto curioso, sembra credere che evitando le rimozioni malsane e
impedendo a certi avvenimenti d'ingombrare l'inconscio e di formarvi
dei complessi, si possa arrivare ad una vita dove non vi sarebbero
nevrosi e dove i conflitti sarebbero ridotti al minimo. Abbiamo già
mostrato l'assurdità di questa concezione: il conflitto risulta
dalla struttura ontologica della personalità umana; è necessario al
suo sviluppo morale16.
Questa
rivolta contro la sofferenza e contro il combattimento interiore
proviene da una mentalità molto contraria a quella che deve
caratterizzare lo spirito cattolico. Certamente nessuna creatura
vivente vuole soffrire; la vita si accanisce con tutta la sua forza
contro la sofferenza e la morte. Ma al cristiano è dato di essere
più di una semplice creatura vivente; dotato di intelligenza e di
volontà, può vincere la sofferenza, benché non possa ucciderla;
può dargli un senso o, meglio, scorgerne il senso, se non nella
vita individuale almeno in quella dell'umanità. Non bisogna in
effetti che l'individuo desideri conoscere il senso della propria
vita; si tratta di un desiderio insensato: il senso di una vita
individuale, se mai si rivela, appare solo dopo la morte, perché
ogni esistenza costituisce un tutto indivisibile, e il senso di
questo tutto non saprebbe manifestarsi nel frammento che è la nostra
vita quaggiù – questa vita di cui noi non conosciamo né
l'evoluzione futura né l'epilogo eterno. Non possiamo capire fino in
fondo né ciò che siamo, né ciò che facciamo, né ciò che
soffriamo.
La
volontà di penetrare il segreto della nostra esistenza è una forma
di quella superbia che fu origine dei nostri mali. Il principio
del cader fu il maledetto superbir (Dante). Da questa superbia
che vuole, oggi come allora, essere uguale a Dio, nasce la rivolta
che – dirigendosi contro l'essenza stessa del nostro destino di
creature – è l'atteggiamento più pericoloso e il più nocivo.
Non è
possibile spiegare qui come questo atteggiamento di rivolta
interiore, che il soggetto non riconosce generalmente come tale,
costituisce il fattore d'importanza centrale nell'evoluzione delle
nevrosi17.
L'oggetto della rivolta non è un fatto isolato, una sofferenza, un
conflitto, ma il fatto totale di essere solo una creatura, limitata
nel suo potere, nella sua esistenza, nei suoi diritti. Malgrado le
migliaia o milioni di anni che sono passati da quando il serpente
spinse i primi uomini alla rivolta, le parole del demonio non hanno
smesso di farsi sentire segretamente nelle profondità del nostro io:
eritis sicut Dii.
In
principio, si sfugge alla nevrosi solo quando si accetta la
situazione umana così com'è. Ci occorre, come si è molto ben
detto, il “coraggio dell'imperfezione”; dobbiamo riconoscere la
nostra debolezza, accettare di essere solo creature, finite, deboli,
limitate, impotenti, consegnati a forze imprevedibili. Se vi si
riflette, si vede che l'uomo, circondato com'è da altri uomini, di
cui ignora il pensiero, dal mondo, di cui non può dominare
definitivamente le forze, dall'ignoto che, dietro una barriera assai
sottile di cose conosciute, alza costantemente la sua testa
spaventosa, di fronte a problemi incessanti che riappaiono più
numerosi quando uno dei due è stato risolto, - quest'uomo, dico, a
cui ogni momento ricorda l'incertezza della propria esistenza, si
trova in una situazione perfettamente uguale a quella di un bambino,
che per la sua debolezza, la sua ignoranza degli esseri e delle leggi
del mondo, per la sua incapacità di prevedere, diventa preda del
terrore, a meno che non possa rifugiarsi nelle braccia di persone che
gli ispirano fiducia e un sentimento d'insicurezza. Questa situazione
del bambino e dell'adulto è tanto più pungente quanto la loro
ignoranza è più grande.
Occorre
che l'uomo accetti la sua situazione. Essa conviene alla sua natura.
Se volesse rivoltarsi contro di essa questa rivolta equivarrebbe al
rifiuto della propria natura. Ma l'uomo non è obbligato ad accettare
semplicemente la sua situazione, con tutte le sue paure, i suoi
pericoli, le sue minacce; gli è stato concesso, come bambini, di
potersi rifugiare in un luogo dove può sentirsi in sicurezza, dove
può avere fiducia, dove sa che lo aspetta l'amore. Per arrivare a
quel punto, tuttavia, bisogna essere semplici come un bambino. Si
dice che i nevrotici siano di natura complicata; potrebbe essere più
giusto dire che le nature complicate sono minacciate dalla nevrosi.
Per
restare fermi davanti ai conflitti, alle difficoltà, alle
tentazioni, bisogna essere semplici. Per guarire una nevrosi non vi è
bisogno di un'analisi che discenda nelle profondità dell'inconscio
per trarre non so quali reminiscenze, né di una interpretazione che
veda modificazioni o maschere dell'istinto nei nostri pensieri, nei
nostri sogni ed atti. Per guarire una nevrosi occorre una vera metanoia, una
rivoluzione interiore che sostituisca all'orgoglio l'umiltà,
all'egocentrismo l'abbandono. Divenuti semplici, potremo infine
vincere l'istinto con l'amore, il quale costituisce – se gli è
veramente dato d'espandersi – una forza meravigliosa e invincibile.
Ma per
arrivare a questa semplicità, a quest'atteggiamento ingenuo verso il
mondo e se stessi, occorre fare entrare in gioco la seconda delle
grandi forze messe a nostra disposizione dalla bontà divina: la
verità. Queste due forze, la verità e l'amore, sono le sole ad
essere invincibili. Per liberarsi dalle catene che ci attaccano ai
valori inferiori, per poter resistere alle tentazioni che sorgono
così frequentemente da fuori e da dentro, per restare fermi
attraverso gli inevitabili conflitti dell'esistenza, non bisogna
fidarsi dello stoicismo che in fondo è solo una forma raffinata
dell'orgoglio, né darsi alla ricerca di cause incoscienti, perdute
in una nebulosa lontana di un passato problematico. Come in filosofia
o in psicologia non vi è punto di vista più pericoloso, così in
materia di psicoterapia o di ascesi, di quello che abbiamo nominato
“lo sguardo dal basso”. Bisogna alzare gli occhi verso le altezze
della nostra vita, e dell'essere in generale.
Non
comprenderemo mai niente della natura umana, come essa è veramente,
se continuiamo a guardarla come elevata un po' al di sopra della
natura degli animali. La capiremo molto meglio – senza poter
tuttavia risolverne l'enigma – se la guardassimo come posta un po'
al di sotto di quella degli angeli. Il programma di un'antropologia
filosofica, scienza ancora appena abbozzata, alla quale è attribuito
il dovere di “spiegare” la natura umana, non può essere
riassunto meglio se non dalle parole del salmista: Quid est homo
quod memor es eius? Aut filius hominis quoniam visitas eum? Minuisti
eum paulo minus ab angelis, gloria et honore coronasti eum; et
constituisti eum super opera manuum tuarum (Ps. VIII, 5-7).
1
In fondo all’ottimismo di questo orgoglio scientifico (che in
effetti sembrava giustificato, poiché poteva basarsi sui progressi
veramente stupefacenti della scienza e della tecnica) c’era un
tendenza che, già da secoli, dominava sempre più la mentalità
occidentale. Come abbiamo fatto altrove, si potrebbe dare il nome a
questa tendenza: l’elementismo o la predominanza dell’elemento.
Essa s’accrebbe dopo quel secolo felice che vide la sintesi
grandiosa elaborata dal genio di San Tommaso d’Aquino. Il
nominalismo, reazione degli spiriti incapaci di vivere sulle altezze
del sistema tomista, aprì la via all’elementismo e al
materialismo, modificazione grossolana a tuttavia conseguenza
inevitabile delle tesi nominaliste. A partire dal XIII secolo
diventa sempre più visibile un declino dello spirito filosofico. Si
è persa l’unità formale dell’essere complesso, si è
attribuita l’esistenza all’elemento piuttosto che al composto.
Più tardi, l’elementismo servì meravigliosamente i progressi
delle scienze naturali. La concezione atomista e altre ipotesi
costruite per facilitare l’analisi quantitativa, il calcolo
infinitesimale che è solo l’espressione matematica di questo modo
di vedere la realtà, sembrarono, per la grandezza dei risultati
ottenuti, avere acquisito il diritto di considerarsi come “il”
metodo scientifico kat'exochen.
Sfortunatamente non si volle porre la questione del diritto: si
accettò, colpiti dal progresso e dalla speranza che provocava,
l’analisi e la quantificazione come via regia verso la
conoscenza della realtà. Certi contemporanei di Galileo osarono
opporre qualche resistenza all’invasione della “nova scientia”
nei campi riservati a metodi completamente diversi; ma le loro voci
non furono affatto ascoltate: fu vano, per esempio, che Cremonini
fece la critica dell’analisi galileiana e delle sue applicazioni
in ontologia. La frase molto conosciuta di Galileo, che bisognava
misurare tutto quello che era misurabile, e rendere misurabile
quello che non lo era ancora, divenne il programma della scienza in
generale. L’atomismo fu introdotto nella sociologia da Hobbes, da
Hume e dalla scuola sensista nella psicologia. L’idea di applicare
il metodo quantitativo e matematico allo studio della via mentale
non fu che l’ultima conseguenza di questa evoluzione. La
“psico-fisica” inaugurata da G. Th. Fechner e coltivata da Wundt
e dai suoi successori è la pronipote del nominalismo occamiano.
2
Un critico molto giudizioso delle teorie di M. Koheler ha fatto
notare che, nel “pensiero” delle scimmie, manca la negazione.
3
Per i dettagli della psicologia della volontà rimandiamo allo
studio magistrale di R. P. Lindworsky, S. J., Der Wil, 3°
ed. Leipzig, 1929.
4
Forniremo dopo la pubblicazione della grande opera del nostro amico
Roland Dalbiez l'opinione dei nostri collaboratori sulla dottrina e
la tecnica di Freud. (Nota della redazione).
5
Non portano ad un gran profitto, a nostro avviso, le definizioni che
ci lasciano gli autori moderni, sia psicologi, sia filosofi. La
maggior parte di esse sono lontane dal soddisfarci; alcune sono
talmente arbitrarie, che nessuno potrebbe riconoscere l’amore tale
come lo si prova o lo si osserva. (Si veda per esempio la
definizione dell’amore in Spinoza!). Molti autori hanno fatto
delle sottolineature ad effetto su questo tema dove noi abbiamo
lasciato delle descrizioni più o meno dettagliate, più o meno
felici dell’amore. Ci sono delle osservazioni molto ingegnose per
esempio in Stendhal e delle analisi molto sottili in Scheler. Ma si
troveranno, per quello che ci sembra, delle osservazioni molto più
preziose negli autori del medioevo.
6
Questa idea è stata formulata molto bene nel “De adhaerendo Deo”,
un piccolo trattato molto conosciuto che figura tra le opere di S.
Alberto Magno, ma il cui vero autore è, come il Sig. Grabmann, di
Monaco, ha potuto provare, un monaco benedettino del XIV secolo,
Giovanni di Kastl. Nel capitolo: De caritate si trova il
seguente passaggio: Trahit enim amor amantem extra se et collocat
eum in locum amati, et plus est qui ama tubi amat, quam ubi animat.
7
Si può obiettare che l’amore debba essere cieco, perché si
sbaglia molte volte e perché molto spesso arriva il disincanto. Ma
l’errore non consiste per nulla nel fatto che l’amante si
inganni vedendo dei valori non esistenti nella persona amata, ma in
quanto crede già realizzate quelli che sono solamente ancora nello
stato di possibilità. La perspicacia dell’amore gli fa
intravvedere quello che l’essere amato potrebbe essere, se si
avverassero tutti i suoi valori possibili; ed il bisogno di
desiderare il bene più grande della persona amata attraverso una
idealizzazione così facile per l’uomo – che crede facilmente di
avere tra le mani delle realtà mentre ha soltanto delle possibilità
– conduce a questa illusione. L’amore non s’inganna sulla
natura dei valori, ma sul loro modo di essere. Lo sguardo dell’amore
discerne delle qualità laddove lo sguardo disinteressato o scettico
non ne vede nessuna. È per questo che una personalità
apparentemente insignificante può acquistare una importanza
eccessiva agli occhi di un altro che lo ama. Perché l’amore
scopre non solo le qualità che hanno a che fare immediatamente con
le relazioni tra le due personalità, ma tante altre che non
riguardano affatto queste relazioni.
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È interessante che per la dottrina freudiana – che conosce solo
l’istinto e fa dell’amore un istinto trasformato – la
personalità amata non esiste affatto; in questo sistema,
essenzialmente solipsistico, non vi è alcuno spazio per una seconda
personalità in riferimento al soggetto. Sebbene la psicoanalisi non
abbia mai professato questa opinione, essa non di meno scaturisce
dalla logica interna del sistema. È sufficiente, come prova,
riflettere un poco sul termine con il quale la psicoanalisi designa
la personalità amata: la chiama “l’oggetto” della sessualità,
della libido, o persino dell’amore.
9
Si vedano su questo le osservazioni così profonde e particolarmente
attuali di S. Tommaso nel suo trattato De ente et essentia.
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Sottolineiamo, en passant, che la sola presenza dell’eccitazione
sessuale non è un criterio sufficiente di amore dei sessi; ci sono
delle relazioni tra due persone di sesso differente, in cui
l’istinto gioca un ruolo capitale, senza che vi sia vero amore.
11
Questa non esclude, pertanto, che vi sia un’amicizia davvero pura
tra due persone di sesso differente!
12
È molto pericoloso confondere questi due punti di vista, perché si
arriva così a conclusioni molto sbagliate. Il concetto di
evoluzione stesso deve essere impiegato con prudenza. Appartiene in
primo luogo alla biologia ed è là che ha il suo senso proprio.
Ogni altra applicazione di questo termine avviene per metafora o per
analogia. Ora, ogni trasposizione analogica esige, pena arrivare a
conclusioni insostenibili, un’analisi minuziosa che precisa allo
stesso tempo la sua portata e i suoi limiti. Si arriva ad esempio a
delle teorie eccessive quando si applica il concetto di evoluzione,
come si presenta in biologia, alla successione di stadi di culture o
di strutture sociologiche. La stessa cosa per la psicologia. L’idea
biologica dell’evoluzione non è applicabile in psicologia, perché
nessun fenomeno mentale ne “contiene” un altro al modo di un
germe.
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Per l’analisi del concetto di segno rimandiamo alle pagine assai
conosciute di M. Husserl, Logische Untersuchungen, t. II; ma
si studieranno con profitto anche gli scolastici, non solo i
trattati intitolati De modis significandi, ma anche i
rispettivi passaggi delle opere dei grandi maestri.
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La psicologia comparata dei sessi, sulla quale possediamo molti
trattati, presenta una particolarità curiosa. La descrizione
dell’animo femminile è basata su quella della natura maschile,
come se la donna fosse solo una variazione dell’essere umano in
generale, la cui essenza sarebbe realizzata dall’uomo. L’esempio
che colpisce di più di questo atteggiamento ci viene dato, forse,
da un piccolo articolo sulla sensibilità cutanea nei due sessi; vi
troviamo una osservazione di una ingenuità veramente deliziosa: la
soglia della sensibilità nella donna è subnormale! L’autore
vuole dire che ha trovato una soglia più bassa nella donne rispetto
agli uomini – ma perché “subnormale”? Perché suppone
semplicemente che le condizioni osservate nell’uomo debbano
fornire la norma assoluta: posto ciò, le varianti femminili
diventano necessariamente anormali! Invece di considerare ognuno dei
sessi come una manifestazione della natura umana, che sarebbe
l’unica visione permessa da una scienza neutra ed oggettiva, la
psicologia comincia con lo studio delle proprietà maschili, le
erige come norma e colloca tutto ciò che essa trova di diverso tra
le anomalie. La psicologia sessuale fa la stessa cosa. Essa è, in
verità, da rifare, perché le osservazioni che si trovano nella
maggior parte dei trattati sono assolutamente insufficienti. Una
delle ragioni di questa insufficienza è quella che abbiamo appena
indicato. Un’altra, non meno importante, è l’elementismo e la
visione “dal basso”. Gli “elementi” potrebbero essere gli
stessi nei due sessi e la “totalità” distinguersi profondamente
l’uno dall’altro. Non ce ne si accorge tenendo lo sguardo fisso
sugli elementi.
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Gli oggetti che teme la debolezza sono naturalmente variabili; si
troveranno molti uomini capaci di eroismo in una certa situazione e
deboli in un'altra. Ve ne sono alcuni, ad esempio, che non temono
alcun pericolo, da parte degli uomini o delle cose, ma che tremano
davanti alle loro mogli. Ve ne sono altri che rischiano la vita
attraversando ghiacciai sconosciuti o scalando scogliere e che,
tuttavia, non riescono a decidersi di andare dal dentista. Un tale
uomo sfiderà un pericolo momentaneo, ma si comporterà come un
bambino piccolo quando si tratterà di sopportare una lunga
malattia. Vi sono epoche della storia e periodi della cultura come
gli individui. Ciò che viene indicato come sopportabile varia di
secolo in secolo, di popolo in popolo. Gli eroi di Omero urlavano
quando li colpiva un dolore; il selvaggio indiano si copriva di
gloria sopportando senza lamentarsi torture spaventose. I tempi
moderni sembrano soffrire di una idiosincrasia rispetto ad ogni
dolore morale. Gli uomini d'oggi sembrano volerlo evitare
addirittura di più del dolore fisico. E quando il dolore morale è
diventato inevitabile cercano di evitarlo trattandolo come un
sintomo, il che, in verità, implica una concezione degradante della
sofferenza. Ricordiamo il caso di una madre che, alcune settimane
dopo la morte inaspettata della sua unica figlia, è venuta a
consultarci perché era triste. Le sembrava – e più ancora al suo
entourage – che questa tristezza dovesse essere qualcosa di
malato; quelle persone non concepivano più la grandezza della
perdita di un essere caro, non comprendevano più la maestà della
morte e non riuscivano ad immaginarsi che qualcuno fosse (per
settimane!) pieno di dolore e di tristezza. Ecco un caso estremo, ma
non meno tipico, poiché esso mostra, esagerandolo, un tratto molto
diffuso tra gli uomini dei nostri giorni.
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Questo miraggio di un'esistenza infine liberata dai conflitti nasce
da una mentalità eguale all'ideologia del marxismo. Le strutture
delle teorie di Freud e di Marx si rassomigliano molto. In entrambi
i casi domina lo sguardo “dal basso”, il ruolo che svolgono gli
istinti in Freud corrisponde esattamente a quello delle forze
economiche in Marx, e la vita psichica cosciente appare come una
“sovrastruttura” nei confronti degli istinti, che sono gli unici
reali, allo stesso modo che, nel marxismo, la cultura nei confronti
della realtà economica.
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Abbiamo insistito su questo punto nel nostro libro sull' Evolution
de la personnalité morale, 4 ed. Freiburg, Herder, 1935.
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