E' uscito un interessante studio sul mito, per opera di Agnese Pisoni, una teologa genovese che ne intercetta i fondamenti e li riconnette (in modo sano) all'ambito della psicologia. S'intitola Un silente ritorno al mito, perché la psicologia non può fare a meno del racconto epico (Nuova Delphi Libri, 104 pp., 15 euro), ed ha parecchie cose da insegnare sia a chi si occupa di miti, sia agli psicologi. Ai primi, poiché sono chiamati a riconoscere il valore del mito per l'educazione dell'uomo. Ai secondi, e specialmente a questi ultimi, per il recupero di una dimensione "naturale" che sembra essere silente, come dice il titolo del libro, oppure fuorviante (pensiamo al rapporto poco equilibrato di Jung con gli archetipi). Abbiamo intervistato l'autrice per capire di più.
Agnese lei affronta e lega assieme due tematiche, quella del mito e della psicologia, che raramente vengono affrontate da una prospettiva squisitamente cristiana (in genere è terreno per i discepoli di Jung). Da dove nasce questo interesse?
Di solito a queste domande rispondo "mi piace perché mi piace", è una banale preferenza, comunque provo a dire in breve cosa mi affascina di questi argomenti e cosa me li fa preferire ad altri.
Ho un'estrema curiosità per i simboli che l'essere umano utilizza e che spesso fa senza accorgersene: l'essere umano in ultima analisi vuole amare, essere amato, comprendere ed essere compreso e, per motivi che possiamo intuire (paura, diffidenza, ecc.), lo fa a zig-zag, inciampandosi, usando un linguaggio non-lineare, iperbolico.
Il mito è simbolo pedagogico e serve per dire il non-dicibile, o meglio: i simboli servono per dire e non dire, perché l'espressione di una teoria non è padagogica, perché, come esprimo nel libro, non è storia; piuttosto lo è il non-dire, ovvero usare i simboli: l'uomo deve parlare a sé stesso e deve farlo simbolicamente. Gli uomini del passato con un passaggio di testimone propongono alle generazioni successive un linguaggio simbolico, metafisico, da custodire per permettere a ogni essere umano la possibilità pedagogica.
Nella letteratura biblica (come in altra maniera per tutte le religioni antiche, sapienti) è Dio che corre in soccorso dell'uomo... la pedagogia divina, la Provvidenza.
Oggi dobbiamo chiamarlo "inconscio" (o destino) perché chiamarlo Dio puzza troppo di sacrestia, fa brutto. È poco intelligente.
Inconscio al posto di Dio. È un esempio di come una cattiva psicologia si sostituisce alla teologia?
Non credo... Credo piuttosto che l'uomo tende a dare nomi diversi al "Dio ignoto". È un po' come l'elefante nella stanza: ci sono alcuni che lo vedono, altri no. Se tu non vuoi ammettere che sia lì, tranquillo, continuerai a fare un giro assurdo per andare al bagno senza capire perché.
Non c'è psicologia cattiva tout court, piuttosto l'uomo fa del suo meglio con gli strumenti del suo tempo (diciamo).
L'essere umano tende a dividere la realtà per settori (teologia, psicologia, ecc.). Queste distinzioni funzionano dal punto di vista gnoseologico, epistemologico, ma la realtà è tutta insieme, tutta "mischiata"! Lascerei all'uomo moderno, o post-moderno che dir si voglia, di lasciarsi guidare dalle sue guide, la storia ci dirà la verità: sono buoni profeti o ciechi che guidano ciechi?
È il tema, insomma, del senso religioso. Ma torniamo al libro: perché la psicologia, a suo avviso, non può fare a meno del mito (quel dire nel non dire)?
In breve, il mito è sempre stato uno strumento della pedagogia umana. Esso apre il ventaglio delle potenzialità umane, tutta l'ampiezza del suo arcobaleno dai toni tenui a quelli forti e poi ancora a quelli oscuri e chi partecipa alla recita del mito è reso consapevole di poter accedere ad esse, facendone vera e propria esperienza nel rito.
Che può fare l'uomo che non ha più una dimensione comunitaria di confronto? Si ritaglierà una "confessione privata" laica, dove si attua mito e assoluzione insieme.
A mio avviso, è tutta questione di trasformismo, il mito come merce di contrabbando. Chi vuole sopravvivere deve mimetizzarsi: non è solo così tra gli umani, lo è anche per i fenomeni umani. Il mito cambia forma, è trasformista, si nasconde e lo fa anche molto bene. Lo stilista che progetta i suoi vestiti è sostanzialmente un genio.
Infatti stiamo assistendo alla scomparsa non solo del mito, ma anche delle storie. I ragazzini non guardano più dei telefilm, belli o brutti che siano, ma degli youtuber, dove non c'è storia, ma solo "sketch" estemporanei e soffocanti. Come è possibile riprendere il sentiero del mito, dell'eroismo, della storia di formazione nel mondo di oggi?
Non penso di conoscere la risposta, ma posso abbozzare un'idea.
È vero, la maggior parte dei ragazzi vedono brevi video su Youtube, le storie di Instagram...
ma questo non esclude che si appassionino anche a grandi storie di film. Non credo che i primi prendano il posto dei secondi, o meglio non in modo diretto.
Credo piuttosto che questi brevi passatempi siano un vero e proprio "divertimento" che si insinua come abitudine anche nel vedere la realtà: un "volgere altrove" che censura frettolosamente i preziosi momenti di noia quotidiana, diminuendo la capacità di concentrazione e di 'immersione' in una storia (che sia un film, un libro, uno racconto teatrale).
Forse questi "tappabuchi della noia" aiutano a impedire che le storie ci parlino e ci rendano più consapevoli, ecco tutto.
Mi sembrano delle interessanti riflessioni, che meriterebbero un approfondimento che qui non riusciamo a fare per limiti di tempo e di contenuto. Nel suo libretto lei parla di un nesso del mito con la liturgia. Ci può spiegare?
Il nesso tra mito e liturgia è qualcosa di simbiotico direi, la liturgia è il rito. Il rito incarna il mito, lo rende attuale: mentre il mito parla dalla "notte dei tempi", rito agisce ora e crea una fenditura tra la fugacità del tempo e la solidità dell'eterno. La liturgia dunque crea un ritmo, un'abitudine: è ciò che per certi versi l'uomo ha bisogno per differenziarsi dal caos e per altri non può non realizzare perché afferra un ordine a "dimensione uomo" nell'ordine della natura.
In somma, la liturgia è ordine... pensiamo alla storia del "Signore delle mosche" e non avremo più dubbi al riguardo. Un gruppo di bambini si trovano in un'isola sperduta, senza la presenza di adulti, senza guide: la salvezza è lontana e sentono la necessità di creare un ordine per dare un senso alle giornate: accade un evento terribile (il mito) di cui alcuni bambini sentono la necessità di riproporre per creare un ordine (il rito). Per chi ha letto il libro, sarà chiaro come i riti, anche quelli violenti si vanno a calcificare nella memoria di un popolo.
Nello specifico, la liturgia cristiana avrebbe un sentore violento, mi verrebbe da dire, il "sacrificio" è uno dei poli della liturgia certamente. Ma come al solito, si manifesta il suo carattere di "religione ossimorica": il sacrificio di Cristo offre una liturgia sacrificale non violenta, un cannibalismo innocente. Mi piace dare ragione a Girard secondo cui Cristo, il Figlio di Dio ha offerto se stesso (capovolgendo la logica umana) e così facendo ha spezzato la catena perversa della violenza sacrificale, della quale l'uomo non può fare a meno.
Le rivolgo un'ultima domanda: a suo avviso perché consiglierebbe la lettura del suo libro a dei professionisti cattolici?
Ciò che i professionisti cristiani possono trarre dal libro è l'incoraggiamento di riaprire una finestra sul retro dimenticata: la via del mito biblico e cristiano.
Si pensi ad esempio alla storia di Giuseppe e i suoi fratelli, la storia di Adamo ed Eva, la storia di Osea...
Sono dei topos religiosi che esprimono molto dell'essere umano, delle problematiche in cui chiunque può trovarsi e altrettante vie d'uscita.
Miti "vecchi" e "nuovi": volgendo lo sguardo oltre il testo biblico, la storia cristiana presenta una quantità sterminata di "miti", di storie di uomini e donne, molto ricche intellettualmente. In questo momento mi vengono in mente gli esercizi di Sant'Ignazio di Loyola, roba da far invidia a molta psicologia contemporanea!
Un professionista potrebbe dunque acquisire una consapevolezza maggiore degli strumenti che può utilizzare e può rendersi conto che non a tutti i costi deve essere soggiogato dalla mentalità dell'aut aut: scelgo la mia fede o il mio lavoro? credo nella Parola di Dio o nella teoria psicologica? credo nell'antropologia aristotelico-tomista o nell'impostazione antropologica che propone la psicologia da Freud in poi?
Il libro può mostrare che l'impostazione dicotomica tra privato e pubblico non è l'unica opzione, c'è una terza via e c'è non solo per la questione teorica sull'impostazione dell'antropologia, c'è anche per il versante mitico della psicologia, che è necessario in terapia.
Interessante, ma non condivido l'osservazione per cui i ragazzini guardano solo gli youtuber. C'è un grande successo delle serie (su Amazon, Netflix...), che spesso sono costruite con schemi narrativi debitori del pensiero di Jung, e soprattutto di Campbell.
RispondiEliminaMa...Agnese Pisoni...sei tu...
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